# 24 – febbraio 2024

 

Il N. 24 è on-line!

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Pasquale Amato, C’È CASA E CASA, Ed. Moretti & Vitali

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In qualsiasi libreria (on-line o negozio), sul sito dell’editore Moretti & Vitali, o sui vari siti di e-commerce (Amazon, eBay, ecc.):

Pasquale Amato, C’è casa e casa, Ed. Moretti & Vitali

Prefazione di Robert M. Mercurio (Analista junghiano, Presidente dell’ARPA)
Pagine: 128, Brossura / EAN: 9788871868554

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Lettera di Hegel

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Jahrbuch für Hegelforschung (15-17/2009-2011). Hrsg. von Helmut Schneider. 978-3-89665-628-5. (Jahrbuch für Hegelforschung Bd. 15) Burkhard Mojsisch, Klaus J. Schmidt: Ein neu entdeckter Hegel-Brief vom 18. März 1826 di CONSECUTIO TEMPORUM.  

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Colophon

Consecutio Temporum è una rivista a periodicità semestrale.

www.consecutiotemporum.it
(ex www.consecutio.org)

Direttore editoriale: Giuseppe D’Acunto
Direttore responsabile : Massimiliano Polselli
Redazione e Comitato scientifico : Double-blind peer review
Segreteria redazione : Giovanni Lorenzoni

ISSN : 2239-1061
Autorizzazione Tribunale Roma n. 68/2011
Editore Associazione Culturale THESIS

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Sigmund Freud

Mariella Cosenza

 

Sigmund Freud nacque a Moravia, attuale Repubblica Ceca, nel 1856. Inizialmente Freud fu un neurologo e un fisiologo che si occupava dello studio dell’apparato sessuale delle anguille. Successivamente cominciò a interessarsi al fenomeno dell’isteria, in particolar modo grazie ai contributi di Charcot e di Breuer, fino a dar vita alla psicoanalisi e a seguirne lo sviluppo.

RICORDARE, RIPETERE, RIELABORARE – 1914

All’interno della seduta terapeutica, il metodo iniziale utilizzato da Freud fu quello ipnotico-catartico, il cui interesse nacque grazie ai contributi di Charcot e di Breuer, il quale utilizzava l’ipnosi per fare regredire i pazienti affetti da isteria e al fine di rintracciare l’origine dei loro sintomi. Ricordiamo in questo senso il famoso caso di Anna O. dove Breuer scoprì che quando la paziente sotto ipnosi dava sfogo verbale ai pensieri che riguardavano il periodo di sviluppo della malattia, certi sintomi scomparivano. Tra i vari sintomi isterici, Anna O. presentava un rifiuto nel bere l’acqua malgrado il bisogno di bere (idrofobia): durante l’ipnosi Anna riferì di avere visto una volta il cagnolino della sua dama di compagnia bere da un bicchiere, e ciò le provocò disagio, ma non aveva parlato con nessuno dell’accaduto per evitare di essere scortese. Dopo che la causa del disturbo fu così espressa (abreazione) il fenomeno non ricomparve più; si poté così dedurre per la prima volta che i disturbi isterici hanno causa nelle passate esperienze del paziente.

Freud, tuttavia, abbandonerà il metodo dell’ipnosi poiché i pazienti, apparentemente guariti, tornavano poco dopo a star male, questo perché l’inconscio del paziente e i suoi traumi rimanevano al di fuori della sfera cosciente, rimanendo esclusiva conoscenza dello psicanalista. Comincerà, quindi, a utilizzare il metodo delle associazioni libere, ossia di una tecnica per cui invece di spingere il paziente a ricordare, viene chiesto al paziente di riferire tutte le idee e le parole che gli si presentano alla mente, senza compiere nessun tentativo di controllo cosciente su questo materiale, allo scopo di allentare ove possibile i processi difensivi dell’Io, ma senza addormentare i pazienti.

Pertanto, all’interno di questo saggio del 1914, Freud mette a punto una vera e propria tecnica psicoanalitica, e utilizza la formula “ricordare, ripetere rielaborare” per indicare tre situazioni differenti all’interno della seduta psicoanalitica, volta a mettere in luce la dinamica dell’inconscio e le modalità con cui i pazienti rievocano, ripetono e rielaborano eventi passati.

  1. Ricordare” fa riferimento, nel contesto della terapia psicoanalitica, all’attivazione dei ricordi inconsci, spesso associati a traumi o esperienze dolorose che sono state rimosse dalla consapevolezza. Il paziente viene incoraggiato a recuperare tali ricordi attraverso il libero flusso di pensieri e associazioni, con l’obiettivo di portare alla luce i contenuti repressi e re-integrarli nella coscienza. Questo può avvenire attraverso:
  1. l’abbassamento della persecutorietà del contenuto rimosso, per cui verranno messe in luce gli aspetti positivi dello stesso;
  2. la ricollocazione del contenuto traumatico rimosso nel passato, poiché la nevrosi e i suoi sintomi sono caratterizzati dall’inesistenza del fattore tempo.
  1. Ripetere” si riferisce al fenomeno in cui i pazienti ripropongono, all’interno della relazione terapeutica, dinamiche e schemi relazionali che hanno caratterizzato le loro esperienze passate. Questo processo può manifestarsi come transfert (elemento tipico della ripetizione), in cui il paziente proietta sul terapeuta sentimenti ed emozioni non risolti provenienti da relazioni passate significative. Freud, inoltre, ritiene che il transfert favorisca la resistenza del paziente. Esiste inoltre il processo inverso, denominato contro-transfert che fa riferimento alle proiezioni inconsce, alle emozioni e ai sentimenti che il terapeuta può sperimentare nei confronti del paziente in base a quelle che sono le sue esperienze personali. Freud considera il meccanismo del contro-transfert come naturale e inevitabile e che può fornire al terapeuta importanti informazioni sul paziente.
  2. Rielaborare” indica il processo di revisione e reinterpretazione degli eventi passati alla luce delle nuove comprensioni e prospettive ottenute durante la terapia. Attraverso la rielaborazione, i pazienti possono sviluppare una maggiore consapevolezza dei modelli di pensiero e comportamento che li hanno influenzati, cercando di trasformarli in modi più sani e funzionali.

All’interno del trattamento terapeutico, la buona riuscita dello stesso può essere ostacolata dal meccanismo della resistenza, una forma di opposizione che il paziente mette in atto, in modo inconscio o conscio, al fine di impedire l’accesso ai propri contenuti inconsci. La resistenza aumenta man mano che si raggiunge il nucleo patologico del paziente. Se non viene superata la resistenza e non si giunge alla rielaborazione, al fine di impedire l’accesso ai ricordi inconsci, il paziente metterà in atto forme di coazione a ripetere (fuori e dentro le sedute terapeutiche e anch’esse consce o inconsce) cioè la ripetizione di modelli di pensiero, comportamenti ed emozioni derivanti da eventi traumatici passati che causano angoscia o disagio (maggiore è la resistenza, maggiore è la coazione a ripetere). Occorre precisare, tuttavia, come la coazione a ripeterenon sia la medesima cosa della ripetizione, poiché la coazione a ripetere è un comportamento che fa parte della resistenza, mentre la ripetizione non è altro che il ripercorrere eventi o emozioni del passato durante la terapia attraverso le associazioni libere.

Infine, come si vedrà nel saggio sull’inconscio, la censura psichica è strettamente collegata alla nozione di resistenza nella terapia psicoanalitica: Freud riteneva che la resistenza fosse il risultato di una censura interna che si oppone alla rivelazione dei contenuti repressi, per cui durante il processo terapeutico, i pazienti possono sperimentare una serie di difese che cercano di mantenere nascosti i contenuti inconsci e di evitare la consapevolezza di certi pensieri o desideri.

L’INCONSCIO – 1915

Il saggio “L’inconscio” è tratto da una serie di scritti intitolata “Metapsicologia” del 1915 volta a descrivere le modalità di costruzione e di funzionamento dei processi psichici. All’interno di questo saggio, per la prima volta nella letteratura internazionale, si introduce, si spiega e si giustifica in termini scientifici il concetto di inconscio e il suo funzionamento, descrivendolo anzitutto come un luogo della mente che non è sotto il nostro controllo. Questo saggio completa quello del 1914 poiché mette in evidenza il funzionamento dell’inconscio, la cui conoscenza appare fondamentale all’interno della seduta terapeutica e segna la terza ferita narcisistica dell’umanità, ossia l’impossibilità dell’umano di conoscersi del tutto.

Freud comincia la sua riflessione introducendo la prima topica, cioè la divisione della mente in tre luoghi (topoi):

  1. L’inconscio. È la parte più profonda della mente, inaccessibile alla coscienza. Contiene desideri, impulsi, ricordi e pensieri repressi che influenzano il comportamento senza che una persona ne sia consapevole. L’inconscio è governato dal principio di piacere, che cerca soddisfazione immediata senza considerare le norme sociali o le conseguenze.
  2. Il preconscio. Questa parte della mente contiene informazioni che non sono attualmente consce, ma possono essere rese consce con un po’ di sforzo o attenzione. Gli elementi preconsci includono ricordi, pensieri e conoscenze che possono essere richiamati nella coscienza.
  3. La coscienza. È la parte della mente che rappresenta la nostra esperienza conscia del mondo, sede dei contenuti immediatamente accessibili. È il livello più superficiale della mente in cui percepiamo, pensiamo e prendiamo decisioni consapevoli. La coscienza è governata dal principio di realtà, che tiene conto delle norme sociali, delle considerazioni pragmatiche e delle conseguenze delle azioni.

Una volta presentata questa tripartizione della mente, Freud ne spiegherà i due processi fondamentali che governano il suo funzionamento: il processo primario e il processo secondario.

  1. Il processo primario è il modo in cui l’inconscio opera e rappresenta il funzionamento primordiale della mente. È guidato dal principio di piacere e mira a soddisfare immediatamente i desideri e le pulsioni senza considerare la realtà esterna o le conseguenze. Nel processo primario, il pensiero è caratterizzato dall’associazione libera, dall’assenza di logica lineare e dalla predominanza di immagini, desideri e simbolismo, per questo motivo il processo primario è caratteristico dell’infanzia e delle prime fasi di sviluppo, anche se continua ad avere un ruolo significativo anche nell’età adulta.

Freud, all’interno della quinta sezione del saggio, ne spiega il funzionamento mediante precise caratteristiche che sono proprie dei sogni:

  1. Assenza di reciproca contraddizione = l’inconscio è caratterizzato da moti pulsionali (così definiti per la necessità di giustificare un aspetto emotivo con un aspetto biologico sottostante al fine di attirare l’attenzione dei medici) che esistono gli uni accanto agli altri senza entrare in contraddizione. Difatti, se nell’inconscio vi sono due moti di desiderio incompatibili fra loro, questi due impulsi non si elidono fra loro ma procedono insieme alla formazione di una meta intermedia, di un compromesso, e questo dimostra che nell’inconscio non esiste la negazione o la contraddizione.
  2. Mobilità degli investimenti = nel sistema Inc l’intensità degli investimenti è maggiore rispetto al sistema Prec e C, e sono a loro volta caratterizzati da:

b.1.Processo di spostamento = si riferisce al modo in cui l’energia psichica o la carica emotiva associata a un desiderio o a un’idea viene spostata da un oggetto o da un contenuto mentale a un altro. In altre parole, un desiderio o un impulso può essere trasferito da un oggetto o da una persona inizialmente associata ad esso, a un oggetto o a una persona sostitutiva.

b.2. Processo di condensazione = si riferisce alla tendenza dell’inconscio di unire o condensare diversi elementi o contenuti mentali in una singola rappresentazione o immagine. La condensazione è spesso presente nei sogni, in cui un singolo simbolo o immagine può rappresentare numerosi significati o contenuti inconsci.

  1. Atemporalità = i processi del sistema Inc non sono ordinati e non sono alterati nel tempo. Gli eventi possono essere rappresentati simultaneamente o senza un ordine temporale lineare, non c’è una distinzione rigida tra passato, presente e futuro nel pensiero primario.
  2. Sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica = il sistema Inc agisce secondo il principio di piacere e non tiene conto del principio di realtà al fine di raggiungere il piacere ed evitare il dispiacere. Questo avviene anche come meccanismo di difesa per cui gli aspetti della realtà interna intollerabili e che provocano angoscia sono proiettati su quella esterna (a differenza dello spostamento, la proiezione svolge un ruolo determinante nei primi anni di vita del neonato poiché ha un’importanza conoscitiva e di costruzione dell’esperienza).
  3. Il processo secondario è associato alla coscienza e alle funzioni razionali. È guidato dal principio di realtà e tiene conto delle norme sociali, delle considerazioni pratiche e delle conseguenze delle azioni.

Nella vita quotidiana, i due processi interagiscono costantemente. Il processo primario fornisce l’energia e l’impulso dei desideri e delle pulsioni, mentre il processo secondario agisce come un filtro razionale che modera e controlla l’espressione dei desideri in accordo con la realtà esterna.

  • Ma come funziona la prima topica? Fondamentalmente l’inconscio viene considerato come il luogo del rimosso, prevalentemente costituito da esperienze infantili ma non solo. Appare qui il concetto di rimozione, una strategia di difesa e un processo psichico in cui le rappresentazioni mentali di desideri, impulsi o ricordi che sono considerati minacciosi o troppo dolorosi vengono spinti nell’inconscio. Questo processo avviene in modo involontario e impedisce all’individuo di accedere consapevolmente a tali contenuti, ma non li elimina completamente dalla psiche, essi continuano a influenzare il comportamento e le esperienze, spesso in modo distorto o simbolico. Ogni atto psichico attraversa due fasi in cui vi è una sorta di controllo operato dalla censura, ossia quel meccanismo psichico che funge da filtro e che previene che i contenuti dolorosi che sono stati rimossi nell’inconscio possano raggiungere la coscienza.
  1. Nella prima fase l’atto è inconscio e appartiene al sistema Inc e, se dopo averlo controllato, la censura lo respinge, allora permane nell’inconscio e diviene rimosso.
  2. Se l’atto supera il controllo della censura, si presenta alla coscienza come regno del preconscio, caratterizzato da una serie di contenuti che non sono totalmente coscienti ma che potrebbero diventarlo. Occorre precisare che mentre una parte di preconscio è soggetta al controllo della censura, un’altra parte non lo è.

A proposito della rimozione Freud introduce i concetti di investimento e di contro-investimento, i quali operano intrecciandosi fra loro: nel momento in cui si verifica la rimozione, l’investimento emotivo è indirizzato sempre verso la situazione traumatica originaria, mentre all’esterno il paziente opera sempre inconsapevolmente un controinvestimento, cioè l’individui reinveste il legame emotivo e le sensazioni originarie vissute in un particolare evento traumatico, verso un evento sostitutivo. Il controinvestimento non è altro che un meccanismo di difesa, un meccanismo che il paziente mette in atto per nascondere il trauma, seppur esso permanga.

Definizioni:

  • Investimento = avviene quando l’individuo canalizza la propria energia emotiva, i desideri e l’attenzione verso determinati settori della propria vita. Ad esempio, una persona può investire emotivamente in una relazione amorosa, in un hobby o in una carriera professionale. Questi investimenti emotivi sono legati al desiderio di gratificazione e soddisfazione personale.
  • Contro-investimento = può essere inteso come un meccanismo di difesa psicologica mediante il quale l’individuo indirizza la propria energia emotiva per evitare o reprimere determinati desideri o impulsi indesiderati.

Un sinonimo di controinvestimento è quello di spostamento, per cui un trauma o delle emozioni, sentimenti, vengono indirizzati verso un altro oggetto o soggetto; anche il transfert negativo è una sorta di controinvestimento ma nel contesto specifico della seduta psicoanalitica.

  • Ma l’inconscio è svuotabile? Freud afferma che l’inconscio non è svuotabile o eliminabile poiché esso non è altro che una parte intrinseca e necessaria della mente umana che contiene informazioni che sono state respinte dalla coscienza a causa di conflitti, ansie o sensi di colpa, e la repressione di tali contenuti può essere considerata come una forma di difesa psicologica che aiuta l’individuo a gestire le tensioni interne (senza sfociare nel patologico). Da Freud giungerà alla formulazione della seconda topica al fine di ampliare la comprensione della mente umana, dove parlerà non più di tre luoghi ma di tre sistemi o istanze:
    1. L’Es: rappresenta la parte più primitiva e inconscia della mente. È guidato dal principio di piacere e contiene gli istinti primari e i desideri istintuali. L’Es opera secondo un processo primario, che è un tipo di pensiero inconscio basato sul principio di piacere, il quale cerca di soddisfare i suoi desideri istantaneamente, senza tenere conto delle conseguenze o della realtà esterna.
    2. L’Io: è la parte cosciente e razionale della mente che si sviluppa nel corso della vita di una persona. L’Io agisce come un mediatore tra l’Es, la realtà esterna e le norme sociali. È guidato dal principio di realtà e cerca di soddisfare i desideri dell’Es in un modo socialmente accettabile e realistico, gestendo le tensioni e le sfide tra le richieste dell’Es e le limitazioni imposte dalla realtà e dalla società.
    3. Il Super-Io: rappresenta la coscienza morale internalizzata e le norme sociali. Si forma attraverso l’internalizzazione delle regole, dei valori e delle aspettative della società, principalmente attraverso l’interazione con i genitori e l’educazione. Il Super-Io agisce come una sorta di “giudice interno” che valuta e giudica le azioni dell’Io in base ai valori morali e alle norme sociali. Può generare sentimenti di colpa, vergogna o auto-giudizio quando le azioni dell’Io sono in contrasto con le norme interne.
  • Schizofrenia (disturbo schizoide della personalità) = Nel settimo paragrafo Freud mette in evidenza il tema della schizofrenia (scissione della mente), oggi chiamata con l’espressione di disturbo schizoide della personalità. Si tratta di una psicosi, differente dalle nevrosi, caratterizzata da allucinazioni, deliri, ed episodi psicotici, per cui il sistema Inc viene riconosciuto come reale (la differenza tra psicotico e nevrotico risiede nel fatto che nell’ultimo manca l’elemento distorsivo del reale, mentre ancora nell’individui sano prevale il sistema C). La personalità schizoide è inoltre caratterizzata da apatia e rifiuto verso il mondo esterno, mancanza di interessi e rifiuto nell’intraprendere rapporto interpersonali. Questi comportamenti dello schizofrenico possono essere ricondotti a una chiusura detta autistica nella quale non vi è né spostamento né traslazione ma un abbandono degli investimenti oggettuali per cui ci si ritira completamente nell’Io.
  • Infine, Freud descrive tre tipi di nevrosi di traslazione, laddove con questa espressione si intende la frustrazione verso un oggetto reale per cui la libido viene spostata dall’oggetto o dalla situazione originaria verso un oggetto differente:
  1. Isteria d’angoscia (nevrosi fobica) = viene oggi definita come fobia ed è caratterizzata da un controinvestimento verso un oggetto esterno, scelto in modo inconsapevole dalla mente ma che presenta delle somiglianze con l’oggetto originario. Freud spiega come la manifestazione eccessiva di paura e angoscia verso questo oggetto, spesso immotivata, è dovuta alla non corrispondenza tra inconscio e realtà. Nella seconda fase dell’isteria, la fobia si estende dall’oggetto fino ad arrivare a tutto ciò che riguarda quell’oggetto (es. dal cavallo al maneggio).
  2. Isteria di conversione (disturbo somatoforme) = oggi definita come disturbo somatoforme, è caratterizzata da un controinvestimento non verso un oggetto ma verso una parte del proprio corpo. Consiste in un conflitto psichico o emozionale convertito inconsciamente in sintomi con caratteristiche simili a quelli di una malattia neurologica, poiché la psiche porta a dei processi di somatizzazione, ma che non hanno un riscontro dal punto di vista biologico-neurologico (lesioni organiche o danni cerebrali).
  3. Nevrosi ossessiva (disturbo ossessivo-compulsivo) = oggi chiamata disturbo ossessivo-compulsivo poiché il controinvestimento si manifesta come una formazione reattiva, ossia in modo compulsivo e reattivo verso un determinato oggetto. La nevrosi si manifesta sottoforma di ossessioni come idee, impulsi intrusivi ai quali seguono come risposta delle compulsioni, definite come dei comportamenti ripetitivi.

  

MELANIE KLEIN

Melanie Klein è una psicoanalista di seconda generazione, ossia viene dopo le teorizzazioni dello psicoanalista Freud. Melanie Klein appare decisiva e particolarmente importante nell’orizzonte della psicoanalisi perché riprende il problema dell’istinto di morte che Freud aveva introdotto nel saggio “L’io e l’Es” del 1922 e nel saggio “Al di là del principio di piacere” del 1920, dove dentro l’Es (seconda topica) non vi era solo l’istinto di vita (come si pensava nella prima topica, cioè nel principio di piacere) ma introduce l’istinto di morte attraverso varie evidenze cliniche (gioco del rocchetto, vedi appunti Freud). Tuttavia, Freud non coglie l’importanza trasformativa dei giochi come quello del rocchetto e di questi meccanismi psichici in atto, ma si sofferma esclusivamente sull’aspetto della ripetizione di comportamenti dolorosi (istinto di morte che porta alla ripetizione di questi atti dolorosi), Freud incorpora questo istinto in un corpus di conoscenze psicoanalitiche fallace e scarso, non chiarisce il senso psichico funzionale dell’istinto di morte, il motivo per cui un bambino debba possedere l’istinto di morte, seppur la spiegazione clinica sia abbastanza moderna.

Saranno Melanie Klein e Donald Winnicott a portare questo meccanismo di ripetizione al centro di una trasformazione di qualcosa che precedentemente ci aveva lasciato passivi e impotenti in qualcosa che possiamo controllare in termini maggiori. 

Melanie Klein nasce nel 1882 a Vienna. Ultima di quattro figli, sua sorella Sidonie muore a 9 anni e suo fratello Emanuel muore a 20 anni. Trasferitasi a Budapest viene in contatto con lo psicoanalista Ferenczi (prima generazione), presidente della società ungherese di psicoanalisi, il quale fu il primo a consigliarle di mettere in atto le sue analisi sui bambini. Nel 1924 fa una seconda analisi con lo psicoanalista Abraham che durò solo 9 mesi a causa della morte dello psicoanalista. Le morti ricorrenti nella vita della Klein, assieme quella del secondo figlio di Hans, saranno decisive nelle sue teorizzazioni. Ebrea anch’essa e per questo motivo si rifugia a Londra, la quale diventa il centro della psicoanalisi mondiale, dove convergono i maggiori psicoanalisti di seconda generazione (Klein, Anna Freud, Winnicott). La Klein, assieme ad Anna Freud, si interessa all’applicazione della psicoanalisi ai bambini, cioè della psicoanalisi infantile.

Anna Freud non credeva che i principi della psicoanalisi fossero applicabili ai bambini a causa della presenza di investimenti affettivi precari poiché le figure affettive infantili non erano ancora introiettate, e ciò poteva ostacolare l’applicazione della cura psicoanalitica sui bambini; per questo motivo, Anna Freud si interessa principalmente dei meccanismi di difesa sui bambini (proiezione, spostamento, identificazione proiettiva, negazione, etc).

A differenza di Anna Freud, Melanie Klein ha una concezione differente. Anzitutto perché non ha una formazione eccessivamente accademica (non riuscì a entrare a medicina), e in secondo luogo, perché è staccata dalle influenze di Freud.

Melanie Klein porta così al centro dello studio della psicoanalisi infantile il gioco: vi sono delle procedure tecniche nella psicoanalisi che possono essere adottate con i bambini e che fanno sì che possa nascere la psicoanalisi infantile. In questo senso non si fa riferimento alle associazioni libere freudiane poiché il bambino non possiede una grande proprietà di linguaggio, ma a una serie di giochi con cui si può mettere in evidenza alcuni aspetti della personalità del bambino che vengono interpretati dallo psicoanalista: attraverso il gioco libero Melanie Klein mette in atto un rapporto meno neutrale rispetto a quello con gli adulti messo in atto da Freud durante le sedute terapeutiche.

Le teorizzazioni della Klein porteranno un cambio di direzione verso quella che era l’interpretazione della figura infantile dell’epoca cioè del bambino puro, mettendo in evidenza gli aspetti di odio e di ostilità.

Riprendere le fasi dello sviluppo psicosessuale di Freud appare necessario per la comprensione del saggio di Melanie Klein “I primi stadi del conflitto edipico” del 1928, poiché saranno riprese e corrette dalla psicoanalista.

  1. Fase orale= 0-1 anno, ha come compito quello dello svezzamento. L’aspetto che vero che permane di questa fase freudiana è che il bambino conosce il mondo attraverso la bocca in quanto in questa fase esso interpreta il mondo in base ai sensi (stadio senso-motorio secondo Piaget), (tendenza a portare gli oggetti alla bocca per scoprire il mondo). A questo proposito Melanie Klein approfondirà questa fase, affermando che l’oralità non si presenta esclusivamente come pulsione epistemofilica, cioè di impulso a conoscere, ma sarà anche fonte di tutte le aggressività del neonato (tendenza a mordere, ad esempio) poiché tutto lo spettro emotivo, in questa fase, passa attraverso la bocca. In questo senso la bocca diviene il centro della pulsione epistemofilica e della pulsione aggressiva.
  2. Fase anale = 2-3 anni, controllo sfinterico. L’aspetto del controllo sfinterico appare poco importante nelle teorizzazioni più moderne, seppur può portare con sé delle vicissitudini cliniche come una maggiore attitudine al controllo, allo sporcare, etc, ma esse non dipendono esclusivamente dalla fase di per sé quanto anche da un clima teso nell’ambiente familiare.
  3. Fase fallica= 4-5 anni, lo step da superare è quello del complesso edipico. Si chiama complesso edipico perché viene dal mito di Edipo, dove uccide il padre e sposa la madre. Questo mito viene citato da Freud per spiegare lo sviluppo infantile del bambino.

Melanie Klein affermerà all’interno del suo saggio che è falso il fatto che il complesso edipico si sviluppi intorno ai 4-5 anni, ma è vera la dinamica emotiva: l’entrata di un terzo elemento all’interno di una relazione simbiotica che, nella maggioranza dei casi, è il padre, cioè il caregiver secondario.

Prima di arrivare al complesso edipico, la Klein afferma che quando il bambino nasce il mondo esterno del bambino è la madre, il caregiver principale, poiché essa possiede il latte, e questa differenza biologica fa sì che, nella maggioranza dei casi, il caregiver principale sia la mamma. Questa esperienza dell’allattamento diventa il suo mondo esterno, cioè il neonato si relaziona con un aspetto parziale della mamma o oggetto parziale (oggetto pregenitale), il seno (o l’utero se si fa riferimento al mondo interno del bambino). Dopo i primi mesi (0-3 mesi), se queste interazioni cicliche tra seno, cioè cibo, e alleviarsi dell’angoscia, permangono, l’oggetto parziale diviene oggetto totale, cioè il caregiver principale nella sua integrità (fase genitale, l’oggetto totale si ha dall’integrazione degli oggetti parziali). È in questa fase che si sviluppano le prime categorie mentali di buono e cattivo, amore e odio, cioè di vicinanza simbiotica e lontananza di odio, le quali polarità ci insegnano a stare col mondo (amore) e a costruire l’identità (odio). La categoria di amore, di buono, nasce dall’esperienza simbiotica col seno, il quale allieva gli aspetti corporei spiacevoli derivati, ad esempio, dalla fame; mentre la categoria di odio e quindi di identità si fonda dall’esperienza di frustrazione per la mancanza del cibo, ad esempio.

L’oggetto totale rappresenta una complessificazione del mondo esterno, perché complessifica gli aspetti emotivi dai quali il bambino è stimolato poiché subentrano aspetti emotivi, di inclusione, esclusione, gelosie, sensi di colpa, ed è presente una simbiosi, cioè vi è un oggetto totale fuori da cui il bambino dipende e con il quale entra in relazione.

  1. Fase di latenza = 6-12 anni, dove secondo Freud non si osservano pulsioni sessuali, sembra che il bambino sia disinteressato.
  2. Fase genitale = 13 anni in su, la sessualità entra in gioco.

Questa scaletta possiede i suoi pilastri clinici attuali nelle fasi dell’oralità, anche se non si ha a un anno ma si ha nei primi 6 mesi; della genitalità, cioè dall’adolescenza in poi; nella fase di latenza vi è sicuramente, prima della pubertà, una diminuzione dell’interesse sessuale ma le date non coincidono molto; la fase fallica appare totalmente fuori focus: lo dirà Melanie Klein. Rimane l’idea del complesso edipico, la quale è pertinente ma si gioca da 0-1 anno e mezzo. La fase anale non ha particolari rilevanze cliniche, non è una categoria clinica che dà particolari informazioni.

Per Melanie Klein, inoltre, la formazione del Super-io, che avviene da 0-1 anno, trova le sue fondamenta nel complesso edipico; si ha quindi la retrodatazione del complesso edipico (saggio “I primi stadi del complessoedipico” – 1928) e la retrodatazione del Super-io (saggio “Lo sviluppo della coscienza morale” – 1933), sono questi i due contributi scientifici fondamentali di Melanie Klein nella cornice della psicoanalisi infantile.

Mentre per Freud il Super-io nasceva col superamento del complesso edipico, per la Klein la situazione è ribaltata, cioè il Super-io si presenta prima del complesso edipico.

Il complesso Edipico coincide, secondo Melanie Klein, con la fase depressiva (5-12 mesi) del bambino. Questa fase è caratterizzata da una complessificazionedella realtà psichica del bambino ed è il risultato della posizione depressiva per cui gli individui (la madre) non sono più concepiti come degli oggetti parziali e separati ma come oggetti totali in relazione fra loro.

La situazione di simbiosi tra la madre e il figlio viene spezzata dall’introduzione di una terza figura (generalmente il padre) che trasforma questa diade in una triangolazione, in una situazione ambivalente. In questa situazione triadica il bambino riconosce il rapporto libidico tra i genitori e proietta in essi i suoi impulsi libidici e aggressivi, sperimentando emozioni molto più complesse come la gelosia, l’invidia e la deprivazione che verranno alleviati dalla comparsa della madre qualora il bambino sperimenti questi sentimenti di controllo e di distruzione.

Melanie Klein arriva ad affermare che, poiché il legame di simbiosi e quindi la dipendenza è molto maggiore con il caregiver primario, cioè la madre, le frustrazioni e le angosce di evirazione saranno maggiori. Inoltre, poiché il bambino, da una prima identificazione col caregiver primario è costretto a mettere in atto uno spostamento di identificazione verso il papà, questo, chiaramente, genera una famigliarità verso un passaggio, verso un de-investimento e un re-investimento emotivo; nella bambina, invece, questo passaggio non avviene, essa cambia la posizione libidica ma non la meta, nel senso che l’identificazione rimane sul caregiver primario. Questa è la giustificazione razionale di Melanie Klein dell’osservare e inquadrare le angosce della bambina come maggiori.

Questo saggio di Melanie Klein mette in discussione la teoria del complesso edipico già elaborata da Freud. Melanie Klein parte dall’assunto che vi è una differenziazione della formazione delle istanze psichiche del bambino: l’Io del bambino esiste sin dalla nascita anche se in modo poco integrato, l’Es viene ripreso dalla teoria freudiana come caratterizzata da questa dualità dell’istinto di vita e dell’istinto di morte, mentre la formazione del Super-io ha inizio dai 6-12 mesi come conseguenza della posizione depressiva in cui il bambino si trova.

Per Melanie Klein sin dalla nascita il bambino è in preda a forti emozioni, positive e negative, che permettono di sviluppare nel suo orizzonte psichico le due più grandi categorie di amore e di odio, sentimenti di costruzione e sentimenti di distruzione. Per questo motivo lo sviluppo emotivo del bambino appare come attraversato da due posizioni (laddove il termine posizione sottolinea lo stato di organizzazione dell’Io rispetto a quelle che sono le relazioni con l’oggetto, dunque è un chiaro riferimento a quella che è la teoria delle relazioni oggettuali):

  1. La posizione schizo-paranoide (così chiamata perché schizo fa riferimento all’Io del bambino che è caratterizzato dalla scissione, e perché paranoide fa riferimento a un’angoscia che è, appunto paranoide) si ha dai 0 ai 4 mesi, dove si hanno le prime interazioni con gli oggetti parziali (il seno della madre, del caregiver principale). Questa fase è caratterizzata da un conflitto di base psichico del bambino tra la pulsione di vita e la pulsione di morte e si fonda sulla triade scissione – introiezione – proiezione.

Nel primo incontro con la madre il bambino instaura una relazione con il suo seno (oggetto parziale) il qual sin da subito diviene seno buono, se esso è capace di soddisfare i bisogni fisiologici del bambino e lo gratifica, e seno cattivo e ostile se non ne è in grado, poiché danno vita nel bambino a sentimenti di persecuzione e a un’angoscia persecutoria. In questo senso il bambino pone una scissione tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, e, al fine di affrontare l’angoscia di annichilimento l’Io sviluppa una serie di meccanismi di difesa, tra cui l’introiezione e la proiezione. L’Io infatti cerca di introiettare ciò che è buono e proiettare all’esterno ciò che è cattivo, per cui la pulsione di morte viene proiettata e trasformata in aggressività e ostilità (al fine di proteggere le parti buone del proprio Sé) verso un oggetto esterno (il seno della madre), la cui ostilità viene espressa in base a quello che è lo sviluppo dell’apparato psichico del momento e attraverso il lessico corporeo. Vi è però un altro meccanismo di difesa che caratterizza questa fase ed è quello dell’identificazione proiettiva, per cui il bambino proietta nell’altro parti negative del proprio Sé al fine di possedere e controllare.  Tuttavia, le stesse modalità con cui il bambino attacca sono le stesse che lui teme per una sorta di vendetta da parte dell’altro, e per questo motivo Melanie Klein osserva che il Super-io nel bambino è molto più severo che negli adulti, poiché la paura di morire è molto più severa: il bambino non ha le capacità per capire i sentimenti come la fame, ad esempio.

  1. Il passaggio dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva, che dura dai 5 ai 12 mesi, si ha quando l’Io è sufficientemente integrato e riesce a tollerare l’ambivalenza degli oggetti buoni e degli oggetti cattivi. Il bambino non riconosce più il corpo della madre e il suo seno come degli oggetti separati, ma li concepisce come un altro da sé, come un oggetto totale, in modo integrato; per questo motivo, le esperienze di angoscia o di piacere non provengono più dalla mammella ma dalla madre nella sua interezza.

La posizione depressiva coincide con il periodo dello svezzamento (frustrazioni sadico-orali e sadico-anali): il bambino si scopre dipendente dalla madre per la soddisfazione dei propri bisogni e per questo motivo si ha una complessificazione dello sviluppo emotivo, cioè il bambino sperimenta l’amore, la malinconia, l’impotenza, caratteristica propria della fase depressiva. Questi sentimenti di angoscia sono alla base di quello che è l’elaborazione del lutto: il bambino tende a interpretare lo svezzamento come la perdita del seno buono dal quale deve separare la propria identità se intende sopravvivere, e, per questo motivo nasce il pensiero simbolico come creazione di oggetti verso i quali il bambino può scaricare la propria aggressività e indirizzare le proprie pulsioni libidiche, anche se permane la presenza di un Super-io molto severo dovuto alle paure persecutorie ancora attive e all’inserirsi di un terzo soggetto che spezza il legame simbiotico tra la madre e il bambino (complesso di edipo). Occorre precisare come un’ostilità maggiore e un Super-io molto severo e persecutorio fanno sì che le pulsioni epistemofiliche siano minori, cioè in un ambiente ostile il sistema esplorativo del bambino è inibito. Tuttavia, l’introduzione del terzo soggetto nel legame simbiotico madre-figlio diviene fonte di sensi di colpa nel bambino che lo spingono a riparare (riparazione) ciò che prima ha cercato di danneggiare e di controllare, ma il ricomparire della figura della madre dopo ogni attacco sadico da parte del bambino, fa sì che il bambino recuperi fiducia nelle sue capacità riparative. Attraverso la ripetizione delle esperienze di perdita e di riparazione, l’oggetto viene meglio assimilato dall’Io e si avrà la nascita di un Super-io meno ostile.

Nell’articolo “Violence and Capacity to Hate” analizza due configurazioni relazionali opposte: la violenza e la capacità di odiare: mentre la prima porta a un impoverimento psichico, la seconda a uno sviluppo psichico.

L’assunto da cui parte l’articolo è che la società occidentale non contempla uno spazio per l’odio: a differenza dell’amore e delle emozioni positive (speranza, gioia, etc.), le emozioni opposte come l’odio e la paura vengono fortemente represse e interpretate come dei meccanismi di difesa. La società occidentale, infatti, si configura come una società che esalta la libertà e l’eguaglianza, caratteristiche positive.

Tutti questi sforzi del mondo occidentale volti a reprimere l’odio hanno delle svolte negative: impoverimento culturale della società a causa di un possibile e fruttuoso contatto con altre società, spreco di risorse economiche, etc, eppure le società occidentali si pongono nella posizione di reprimere e combattere la politica dell’odio, questo attraverso specifiche forme di reazione reattiva, come, ad esempio:

  • La “decolonizzazione dei curricula”, tipico del mondo anglosassone e della sua storia colonialista, dove il governo prescrive alle università di rimuovere dai programmi didattici, di formazione, ogni traccia di supremazia del “mondo occidentale maschile e bianco” sul resto del mondo al fine di garantire un eguale valore alle teorie e ai risultati scientifici delle minoranze etniche e, quindi, una maggiore integrità accademica. Nonostante la decolonizzazione dei curricula sembri entrare in contrasto con il metodo scientifico, essa viene comunque mantenuta a causa del terrore di essere identificati come “uomini bianchi occidentali colonialisti” e al fine di mantenere la rimozione dell’odio latente e dei sensi di colpa derivanti dall’essere stati dei colonialisti (repressione della coppia odio-senso di colpa).

Dunque, maggiore è l’assurdità dell’accusa, più grave è lo stato psicopatologico della società occidentale.

Odio nei bambini

Se facciamo riferimento ai bambini, il discorso cambia.

Nei bambini il sentimento di odio è un’emozione naturale che si manifesta sin dalla nascita: basti pensare al fatto che essi desiderano la vicinanza dell’oggetto buono che permette la nascita della macrocategoria dell’amore, come il seno della madre che soddisfa i loro bisogni fisiologici, e desiderano la lontananza dell’oggetto cattivo che provoca in loro frustrazione e che permette in loro la nascita della macro-categoria dell’odio, come la sensazione di fame.

La nascita di queste due grandi categorie affettive, che è indice di uno sviluppo psichico sano, è una conseguenza inevitabile sia, ad esempio, dell’esperienza di assenza del bambino del latte materno, sia dell’allargamento del mondo esterno dei bambini.

Tuttavia, questa diade amore-odio e vicinanza-distanza è una dimensione affettiva primitiva che a livello neurofisiologico è associata alla funzione lotta-fuga (fight-flight) del tronco cerebrale, la parte più antica del cervello. È possibile, inoltre, immaginare lo sviluppo psichico e affettivo come un albero che possiede due grandi rami che rappresentano le due macro-categorie di amore-odio e ulteriori ramificazioni che sorgono man mano che lo sviluppo avanza, e la cui resistenza è proporzionale alla frequenza del loro utilizzo. Tuttavia, maggiore è la psicopatologia, maggiore sarà l’impoverimento psichico; l’individuo perde cioè la capacità di utilizzare la vasta gamma di risonanze affettive perché troppo dolorose.

Ma, se nello sviluppo psichico le categorie di odio e amore trovano il loro spazio e sono funzionali alla corretta crescita dell’apparato psichico, da dove derivano i comportamenti violenti?

Contributi pioneristici: Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha contribuito in modo particolare nella definizione di questo tema, in particolar modo grazie ai saggi: “Le tendenze criminali nei bambini normali” del 1934, “Lo sviluppo precoce della coscienza nelbambino” del 1933, “Sulla criminalità” del 1934, “Appunti su alcuni meccanismi schizoidi” del 1946 e “Invidia e gratitudine; uno studio delle fonti inconsce” del 1957.

Le osservazioni cliniche kleiniane in questo senso sono fondamentali: secondo la Klein, il comportamento antisociale si fonda sull’istinto di morte, una spinta innata che risiede nell’Es. L’istinto di vita (amore) e l’istinto di morte (odio) risiedono nell’Es sin dalla nascita e organizzano le prime relazioni del neonato col mondo esterno. Tuttavia, mentre nel pensiero della Klein l’origine dell’odio è abbastanza semplice, non sono altrettanto gli effetti: l’istinto di morte distorce le rappresentazioni genitoriali interne del bambino, e più è forte l’istinto di morte, più le imago (immagini, cioè la percezione dei caregiver) verranno percepite come persecutorie; più è forte la spinta della pulsione di morte, maggiore è la quantità di odio e dei suoi derivati che vengono proiettati sul caregiver, e maggiore è la necessità dei neonati di difendersi. Questa organizzazione del mondo interno del bambino viene definita schizo-paranoide: “schizo” perché la realtà del neonato viene divisa in due polarità opposte: amico-nemico, odio-amore, io buono-tu cattivo, e “paranoide” per sottolineare il meccanismo proiettivo che sottostà a questa dinamica (vedi appunti Melanie Klein).

Questo circolo vizioso descritto da Melanie Klein è al centro della geopolitica e delle relazioni internazionali e prende il nome di “dilemma della sicurezza”. Il dilemma della sicurezza si fonda sulla paura che uno stato A possa essere attaccato da uno stato B. Per questo motivo, A, come precauzione, potrebbe espandere la propria sicurezza interna ed esterna. Questo comportamento però, viene interpretato da B come un segnale dell’intenzione di A di attaccare. Come conseguenza, anche lo stato B decide di espandere la propria sicurezza interna ed esterna. A eB, dunque, continuano ad espandere la propria sicurezza fino all’avvento di un confronto diretto.

Questo circolo vizioso, secondo la Klein, viene interrotto nel momento in cui il bambino entra in quella che viene definita “posizione depressiva”: il bambino ha cioè la consapevolezza che il mondo esterno non è solo cattivo e persecutorio ma può generare anche soddisfazione e contentezza; per questo motivo, questa fase viene definita “depressiva”, cioè perché il bambino, dopo essersi reso conto di aver attaccato e tentato di distruggere l’oggetto esterno, mette in atto tendenze riparatrici.

Anche Donald Winnicott ha fornito dei contributi decisivi in questo senso, i quali sono stati raccolti nella seconda parte del libro intitolato “Deprivazione e Delinquenza” del 2015. In particolare, i principali sono: “L’aggressività e le sue radici” del 1964, “Lo sviluppo della capacità di interessarsi” del 1963, “La tendenza antisociale” 1956, “Youth willnotsleep” del 1964. Winnicott afferma in questo senso che l’insorgenza di tendenze antisociali deve collegarsi a esperienze di “vera privazione” (truedeprivation), laddove questa espressione indica un’esperienza di perdita vissuta dal bambino. Il fenomeno della “vera deprivazione” implica due aspetti diversi:

  1. la perdita, legata all’esperienza traumatica;
  2. la condizione consecutiva di privazione che sostiene il trauma nel tempo.

In questo senso, la violenza antisociale viene interpretata da Winnicott come un comportamento che trasmette la speranza di trovare un buon oggetto nell’ambiente in grado di provvedere al sostegno emotivo del soggetto. Per questo motivo, gli individui con tendenze antisociali cercano un ambiente che si opponga alla loro aggressività e si prenda cura dei loro bisogni emotivi.

Melanie Klein e Winnicott elaborano due posizioni terapeutiche in questo senso:

  1. la Klein esprime l’importanza di affrontare gli aspetti aggressivi presenti nel mondo interno del paziente al fine di alleviarli e permettere la loro espressione e il loro riconoscimento all’interno della seduta terapeutica. Eliminare i comportamenti antisociali significa, quindi, alleviare la natura persecutoria del mondo interno del paziente;
  2. Winnicott sottolinea l’importanza di affrontare l’esperienza di perdita e di privazione del paziente, identificando il ruolo del terapeuta come un oggetto ausiliario che soddisfa i bisogni del paziente, che abbia la funzione di sostegno emotivo.

Contributi moderni sulle tendenze antisociali

Nell’articolo “Un contributo psicoanalitico alla comprensione delle tendenze criminali” del 2020 vengono portati alla luce ulteriori elementi per la comprensione del comportamento violento.

In primo luogo, viene introdotta la nozione di “vitalità psichica” la quale, se deriva dalla macro-categoria dell’amore, viene definita “vitalità psichica positiva” (+ psychicvitality), mentre se deriva dall’odio viene definita “vitalità psichica negativa” (- psychicvitality). Esempi di vitalità psichica positiva sono i comportamenti altruistici, della gratitudine e prosociali all’amore, mentre esempi di vitalità psichica negativa sono le possibili trasformazioni positive dell’odio, come l’assertività o la malinconia introspettiva che possono aiutare a raggiungere un obiettivo. La vitalità psichica negativa non è, quindi, l’opposto della vitalità psichica positiva, la quale viene invece rappresentata dalla “seccatura psichica” (psychicdryness), ossia la condizione di impoverimento psichico in cui l’individuo non trova piacere nel rapportarsi col mondo esterno.

Questo caso fa riferimento a condizioni psicopatologiche molto gravi in cui il rapporto individuo-mondo viene interrotto e l’individuo perde la capacità di elaborare la realtà esterna in termini psichici.

All’interno di questa organizzazione psichica, la mente si comporta in modo analogo al sistema nervoso autonomo, per cui da un lato, nel percorso parasimpatico, vi è la possibilità di riposare, cioè questa via porta l’individuo a non avere relazioni con gli oggetti esterni; dall’altro lato, il percorso simpatico offre la possibilità di combattere e fuggire, cioè spinge l’organismo ad avere relazioni oggettuali. Se il percorso simpatico è attivato, non ci sono differenziazioni affettive nella relazione individuo-mondoesterno: combattere-dominare-distruggere (- vitalità psichica) e amare-condividere-prendersi cura (+ vitalità psichica) significano la stessa cosa. Infine, la configurazione più matura della relazione individuo-mondo esterno è quella in cui la vitalità psichica positiva e negativa sono differenziate (differenziazione della vitalità psichica odifferentiation of psychicvitality). In questo ultimo caso, la mente riesce a comprendere che combattere-dominare-distruggere e amare-condividere-prendersi cura sono due modi distinti di relazionarsi agli oggetti, che producono risultati affettivi diversi sia nell’oggetto che nel soggetto stesso.

La violenza antisociale, in questo senso, è un comportamento che sta alla base della configurazione della relazione individuo-mondo esterno per cui non vi è una differenza tra vitalità psichica positiva e negativa, poiché il violento antisociale esibisce entrambi i comportamenti.

La creazione di nuovi significati identitari nel processo di radicalizzazione violenta di individui che commettono atti criminali viene affrontata nell’articolo di Alessandro Orsini “Ciò che tutti dovrebbero sapere sulla radicalizzazione e il modello DRIA” del 2020 (DRIA = Disintegrazione, Ricostruzione, Integrazione; Alienazione).

Orsini riprende il contributo dell’autore Fatali M. Moghaddam, il quale teorizza una scala con, ad ogni gradino, condizioni psicologiche e sociali specifiche dell’individuo:

  1. al primo gradino l’autore colloca individui che vorrebbero migliorare il loro status sociale e che sentono di aver subito una deprivazione relativa;
  2. al secondo gradino vi sono coloro che sentono di voler porre rimedio alle ingiustizie che sentono di aver subito; se essi concepiscono la società come disonesta e organizzata in modo che venga impedito loro di migliorare il proprio status, la possibilità di salire al terzo gradino aumentano;
  3. nel terzo gradino, a causa dell’impossibilità di cambiare l’intera società, gli individui spostano la loro aggressività all’esterno, creando una situazione amico-nemico polarizzata;
  4. nel quarto gradino gli individui concepiscono i gruppi terroristici in quanto come l’unico modo per riscattarsi socialmente;
  5. nel quinto gradino gli individui fanno ormai parte dei gruppi terroristici. In questa fase, il mondo visione amico-nemico si consolida, la loro identità viene trasformata e la violenza viene concepita come necessaria;
  6. nel sesto gradino, gli individui compiono atti terroristici e non provano alcun senso di colpa nei confronti delle loro vittime in quanto percepite come il nemico da eliminare.

Dunque, secondo Moghaddam, il percorso verso il terrorismo è la conseguenza di una discrepanza tra ciò che un gruppo o un individuo pensano di meritare e ciò che pensano di poter raggiungere.

Su questa base, Orsini denomina il suo modello teorica sulla radicalizzazione DRIA che sta per: Disintegrazione dell’identità sociale (dettata da una crisi esistenziale, eventi traumatici, dal fatto che l’individuo crede che nella società non ci sia spazio per i propri valori, etc), Ricostruzione dell’identità sociale attraverso un’ideologia radicale (il mondo appare come diviso in due poli: amici da un lato, nemici dall’altro) Integrazione in una setta rivoluzionaria (dopo aver abbracciato un’ideologia radicale, gli individui abbracciano nuovi gruppi che condividano le stesse convinzioni), Alienazione dal mondo circostante (separazione concreta e ideologica del gruppo radicalizzato dal mondo circostante).

Questi contributi sui processi di radicalizzazione possono essere evidenziati in tre pilastri comuni, cioè le tre N: Needs(necessità), Narrative (narrazioni) e Networks (Reti).

In questo senso, i bisogni narcisistici di base, se costantemente frustrati, generano sentimenti di auto-svalutazione; in questa situazione, le narrazioni dei gruppi terroristici si legano bene al bisogno narcisistico del soggetto, e si configurano come potenziale via d’uscita; questa rete del gruppo terroristico, dunque, ristruttura l’identità del soggetto e dà origine a dinamiche relazionali di lotta-fuga (fight-flight), amico-nemico, bene-male.

Conclusioni

Alla base dei comportamenti violenti, dunque, vi sono diversi fattori, ma alla base della relazione violenta tra mondo-esterno e individuo vi è sempre la configurazione psichica lotta-fuga, la quale comporta un effetto collaterale: la negazione dell’”alterità” (otherness). In questo senso, gli altri individui, con i loro bisogni e il loro diritto di partecipare alla vita quotidiana, non esistono. Essi sfociano nella macrocategoria psichica del nemico che deve essere attaccato o da cui bisogna fuggire, e la cui figura nemica non è altro che la proiezione delle proprie paure e insicurezze sull’altro. Inoltre, c’è un effetto collaterale peggiore della relazione individuo-mondo esterno qui discussa: la struttura psichica viene trasmessa di generazione in generazione. Pertanto, una famiglia totalmente permeata da questo impoverimento psichico infetta i propri figli, che avranno numerose difficoltà nell’emanciparsi da questa struttura interna.

Per odiare in modo competente, è necessario conoscere gli “altri“, capire i loro valori e sentimenti personali, comprendere le loro differenze; evitare di assumere che i nostri standard siano raccomandabili per gli altri; evitare di esportare i modelli con cui vediamo il mondo.

 

Donald Winnicott

Donald Winnicott fu un pediatra e uno psicoanalista britannico che dapprima si accostò a quelle che furono le concezioni kleiniane del rapporto tra madre e bambino ma dalle quali successivamente si staccò per entrare a far parte dei cosiddetti indipendentisti (middle group). L’infanzia malinconica di Winnicott (la madre soffriva di depressione) lo porta ad interessarsi al ruolo che svolge l’ambiente nello sviluppo psichico del bambino e, in particolar modo, alle carenze derivate da esso. Qui si trova il punto di divergenza tra Winnicott e Melanie Klein: mentre per la psicoanalista le tendenze antisociali erano il risultato di un fattore innato, cioè dell’impasto pulsionale tra l’istinto di morte e l’istinto di vita, per Winnicott non sono altro che la conseguenza delle deprivazioni ambientali.

Tre sono i concetti chiave del pensiero di Winnicott:

  1. il concetto di vero e falso sé;
  2. il concetto di oggetto transizionale;
  3. l’importanza della relazione madre-figlio.

All’interno del saggio “Lo sviluppo emotivo primario” fondamentali sono i concetti di madre e di ambiente di cura: affinché lo sviluppo dell’infante proceda nel modo più corretto e sano possibile, la madre deve fornirgli le cure adeguate, ma questo può avvenire solo se essa è sostenuta dalla figura paterna, poiché le fasi dello sviluppo dell’infante corrispondono, dal punto di vista dello sviluppo della figura materna, alle fasi dello sviluppo del vivere con, ossia:

  1. relazione diadica madre-bambino;
  2. relazione triadica madre-padre-bambino.

La teoria dello sviluppo emotivo del bambino passa quindi attraverso tre fasi:

  1. Stadio del pre-concern o di dipendenza assoluta (simile alla posizione schizo-paranoide della Klein). Nella prima fase (0-6 mesi) l’infante si trova in una situazione di dipendenza assoluta dalla madre, il bambino e la madre si trovano in una relazione di totale simbiosi (seppur Winnicott rifiuti il concetto di simbiosi perché troppo biologico). Dalla nascita fino ai sei mesi di età il bambino vive in una realtà costruita soggettivamente, non distingue gli stimoli interni da quelli esterni, per questo motivo le caratteristiche principali della mente infantile sono la dispersione e la frammentazione. Il bambino è in una condizione di non-integrazione, non si percepisce come individuo separato, né avverte il mondo come indipendente da sé ossia non distingue fra il sé e l’altro da sé, crede che tutto ciò che vede sia una sua proiezione e una sua creazione, tant’è che Winnicott afferma che il bambino vive una breve esperienza di onnipotenza. Le sue angosce sono terrori senza nome che lo sommergono e gli danno l’impressione di andare in pezzi. L’infante è completamente dipendente dalle cure materne e, allo stesso tempo, ne è inconsapevole. Winnicott in questo senso fa riferimento a quella madre sufficientemente buona la quale grazie al fatto che possiede la cosiddetta preoccupazione materna primaria, è in grado di fornire al bambino le cure che gli sono necessarie e di assecondare lo stato di onnipotenza in cui il bambino si trova (ad esempio, essendo tempestiva e presente quando il bambino ha fame). Al concetto di madre sufficientemente buonaWinnicott collega il concetto di “holding” per fare riferimento sia alle cure fisiche (tenere in braccio il bambino) sia alle cure psicologiche (tenere insieme i pezzi del suo Io che appare non ancora integrato).
  2. Stadio transizionale o di dipendenza relativa (simile alla posizione depressiva della Klein).In questa fase, che va dai 7 mesi ai 2 anni, il bambino comincia a distinguere il sé dall’altro da sé: la non coincidenza tra i bisogni del bambino e l’intervento della madre che porta alla comparsa di una mutua attesa sgretola la fiducia del bambino nella comparsa dell’oggetto (se questa non è associata ad attese prolungate che sfociano nel patologico). In questo senso, la madre diventa un’esperienza non più esclusivamente gratificante ma anche fonte di frustrazione (non eccessiva). Per gestire l’esperienza di angoscia e di frustrazione il bambino sviluppa uno spazio transizionale, cioè uno spazio concepito sia soggettivamente ma anche oggettivamente e che funge da cuscinetto tra il mondo interno e la realtà esterno, un luogo dove il bambino può dare sfogo alla creatività, e comincia a fare uso dei cosiddetti oggetti transizionali, cioè di oggetti che per primi vengono concepiti come altro da sé (pollice, lembi di lenzuola, peluche, etc) e che permettono il sano distacco dalla madre e il passaggio dall’onnipotenza soggettiva alla realtà oggettiva condivisa. Questo processo di re-integrazione, inoltre, può essere accompagnato dalla ripetizione di pattern ricorrenti come odori, suoni, presenza di oggetti quando il bambino ha determinate necessità (come la sequenza fame -> cibo)
  3. Stadio del concern o di indipendenza. Questa fase si manifesta a partire dai 3 anni. Qui il bambino comincia gradualmente a fare a meno delle cure della madre e a rendersi gradualmente più indipendente accorciando lo scarto tra il suo mondo interno e la realtà esterna. Questo processo dà vita al Vero sé.

Nel paragrafo “Reality Adaptation” (adattamento alla realtà) Winnicott pone una distinzione tra pensiero magico e pensiero reale:

  1. Pensiero magico= è tipico dello stadio di dipendenza assoluta o pre-concern dove il bambino sperimenta la condizione di onnipotenza. La mente del bambino è attraversata da una frammentazione interna, per cui egli crede di poter far apparire e scomparire gli oggetti quando e come lo desidera, come il seno della madre quando ha fame. Qui non c’è una ricorrenza di pattern col mondo esterno, né uno scarto tra il mondo interno del bambino e la realtà; il pensiero magico permette, inoltre, di alleviare le angosce del bambino e la sua frustrazione.
  2. Pensiero reale = è tipico dello stadio del concern, dove si manifesta l’esperire dello scarto temporale, ad esempio, tra il desiderio del bambino e l’assenza della madre che conduce a delle attese. Il bambino comincia a integrare le esperienze reali, tant’è che la realtà può essere non solo fonte di frustrazione ma anche di appagamento, tanto che il latte “allucinato” che il bambino immagina non è più soddisfacente di quello reale.
  1. Vero sé = Durante lo stadio di dipendenza assoluta, il bambino dipende totalmente dalle cure della madre, la quale ha il compito di fornirgli le giuste cure fisiche e psicologiche (holding). In questa fase, quindi, la madre deve configurarsi come una madre sufficientemente buona che allevia le angosce del bambino assecondando quelli che sono i suoi gesti spontanei e creativi, lo comprende e lo accetta. Questo permette al bambino di sviluppare un’identità coesa e di esprimere liberamente i propri sentimenti e le proprie emozioni, e sarà compito dei caregiver accogliere l’aggressività del bambino e ridimensionarla.

Il pensiero magico, tipico di questa fase, è caratteristico dei bambini che sviluppano un sé vero e sano, i quali sono in grado di mediare tra la dimensione reale e quella immaginaria utilizzando i simboli.

  1. Falso sé = Durante la fase della dipendenza assoluta la madre si configura come una madre non sufficientemente buona, le sue cure sono fallimentari ed è spesso assente. Alla continuità dell’essere subentra, dunque, il reagire: il bambino costruisce una maschera adattativa per soddisfare le aspettative altrui ed evitare il rifiuto o l’abbandono, costruisce cioè un falso sé per difendersi, proteggersi dalle mancanze dell’ambiente primario esterno, e per questo è indotto a essere compiacente e a dare senso in modo autonomo ai propri gesti. Spesso i bambini che sviluppano un falso sé credono di potersi rifugiare nella fantasia e nel mondo simbolico irreale.

Il saggio “The antisocialtendency” del 1956 di Donald Winnicott comincia con l’analisi di due casi clinici:

  1. Primo caso. Il primo caso è quello di un bambino delinquente; il trattamento durò un anno ma fu poi interrotto a causa del disturbo che il bambino provocava nella clinica. Nello studio di questo caso Winnicott arrivò alla conclusione che il trattamento più corretto per questo ragazzo doveva essere il collocamento, cioè l’assistenza sociale (placement) piuttosto che la psicoanalisi, la quale invece doveva supportare la cura ambientale.
  2. Secondo caso. Il secondo caso fa riferimento al figlio di un’amica di Winnicott, il maggiore di quattro fratelli, per la precisione. Il bambino manifestava un forte impulso a rubare sia all’interno di negozi sia all’interno delle abitazioni. In questo caso Winnicott arrivò alla conclusione che quando il bambino rubava non desiderava effettivamente l’oggetto che rubava bensì cercava qualcosa di cui ha diritto, cercava l’affetto della madre e del padre di cui si sentiva privato. Evidenza fondamentale in questo caso è che dopo otto mesi dalla conversazione tra la madre e il figlio suggerita da Winnicott, non si presentarono più episodi di furto e il rapporto con i genitori migliorò. Questo caso, inoltre, metteva alla luce il tema della trasmissione transgenerazionale, poiché la madre, che durante la sua infanzia ricevette un’educazione molto severe dal padre, sperimentò a sua volta la tendenza antisociale, e per questo motivo la terapia di Winnicott si configurò come una doppia terapia poiché la madre affrontava le proprie difficoltà mediante l’aiuto che donava al figlio.

La riflessione di Winnicott parte dall’assunto che la tendenza antisociale non è una diagnosi come possono esserlo la psicosi o la nevrosi, poiché essa può manifestarsi a tutte le età sia in un individuo sano ma anche in un soggetto nevrotico o psicotico (anche se Winnicott ne parlerà esclusivamente per i bambini).

La tendenza antisociale trova sicuramente le sue radici nella mancanza o nel fallimento delle cure materne, in un supporto precario dell’Io del bambino e in un ambiente sociale poco ospitale, seppur qui occorre porre una distinzione necessaria tra privazione e de-privazione:

  1. La privazione è tipica del soggetto psicotico, il quale non ha ricevuto cure fondamentali sin dall’inizio della relazione diadica con la madre, cioè durante lo stadio del pre-concern (dipendenza assoluta). Qui l’ambiente primario si presenta come un ambiente fortemente precario, mentre la madre potrebbe non essere in grado di sperimentare la preoccupazione primaria materna, per cui non fornisce le giuste cure e le giuste attenzioni al figlio, ella fallisce nelle funzioni di handling e di holding.
  2. La deprivazione (truedeprivation) è tipica, invece, del manifestarsi della tendenza antisociale. Il bambino con tendenza antisociale è quel bambino che seppur ha avuto una madre sufficientemente buona durante il periodo di dipendenza assoluta, a causa di rotture violente e protratte nel tempo durante la fase di dipendenza relativa, sperimenta l’esperienza di una deprivazione ambientale quando il Sé del bambino ha già cominciato a formarsi.

Esistono, inoltre, due sviluppi tipici della tendenza antisociale:

  1. Il furto associato al mentire. Il bambino che è stato deprivato, spinto da una “forza inconscia” è in continua ricerca di qualcosa in un ambiente o in un altro, se non lo trova. Poiché la caratteristica peculiare di questo fenomeno è la speranza, il bambino spera di trovare quel qualcosa di buono di cui è stato deprivato durante l’infanzia.
  2. La distruttività (o aggressività). Anche essa è un atto di speranza: il soggetto aggressivo desidera ritrovare la stabilità ambientale che gli è stata sottratta durante l’infanzia; se questi atti non venissero interpretati in questo modo, e l’ambiente sociale non si configurasse come un ambiente contenitivo e stabile, si creerebbe, secondo Winnicott, un terreno sempre più arido per l’amore e l’azione antisociale distruttiva si estenderebbe ancor di più (casa > scuola > società > leggi), gettando le basi per il costruirsi della figura del delinquente.

Le soluzioni terapeutiche proposte da Winnicott non rientrano nella psicoterapia, bensì nella riscoperta, da parte del bambino, delle cure ambientali e materne funzionali, attraverso l’espressione sana dell’ostilità del soggetto.

Edward John Mostyn Bowlby

Edward John Mostyn Bowlby nacque a Londra in una famiglia vittoriana altoborghese, nel 1907. Durante l’infanzia venne cresciuto insieme ai fratelli dalla bambinaia, che per lui era come una madre; a dieci anni lui e il fratello Tony furono inviati in collegio e questa separazione segnò tutta la sua infanzia. Fece della analisi con Joan Riviere e una supervisione con Melanie Klein. Dopo aver lavorato per un periodo nella Child Guidance Clinic di Londra, decise di entrare nell’esercito in veste di psichiatra militare, e ricoprì questo ruolo durante la Seconda guerra mondiale. Terminata la guerra, venne nominato delegato-membro del comitato governativo di salute mentale, ed entrò a far parte della Tavistock Clinic dove, oltre ad essere scelto come vicedirettore, ebbe il compito di sviluppare il dipartimento infantile.

Bowlby nel 1950 (The Nature of the Child’sTie to His Mother) aggiunge concetti dall’etologia: ci sono degli stimoli sociali che generano l’attivarsi o il disattivarsi di un sistema psichico. Esempio: l’assenza diviene intollerabile e fa attivare il sistema di attaccamento per poi riprendere l’esplorazione; il sistema di attaccamento è diverso dal sistema di regolazione delle esigenze fisiologiche.

Il rapporto WHO, redatto nel 1951 con il titolo “Maternal Care and MentalHealth”, era imperniato su due concetti:

  1. quello dell’insufficienza di cure materne;
  2. di mancanza di cure materne.

Bowlby propose un lavoro suddiviso in due parti:

  1. nella prima parte ripercorreva le precedenti riflessioni e ricerche in materia, fatte da altri studiosi;
  2. mentre nella seconda ipotizzava e proponeva delle metodologie di prevenzione per contrastare carenza e privazione delle cure materne

La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza d’attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver (madre) e quindi la formazione di modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Con la crescita, l’attaccamento iniziale che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un “caregiver di riferimento”, si modifica e si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a ridursi notevolmente: nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà infatti maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario, e di legarsi a nuove figure di attaccamento.

Attaccamento ben sviluppato: in questo periodo, che vadai 6 ai 24 mesi, si crea l’effettivo legame preferenziale ed orientato verso una persona. Secondo Bowlby in questa età è evidente che l’attaccamento è ben sviluppato se si manifesta l’ansia alla separazione: sono l’ansia da separazione e la paura dell’estraneo sono, secondo Bowlby, due comportamenti che ci fanno capire che l’attaccamento nei confronti del caregiver è ben sviluppato. L’attaccamento con il caregiver diventa perciò stabile e decisamente visibile: il bambino richiama l’attenzione della figura di riferimento, la saluta, la usa come base per esplorare l’ambiente, ricerca in lei protezione in particolare se si trova al cospetto di un estraneo.

Il legame di attaccamento tra genitori e figli venne studiato e sperimentato su piccoli primati dai coniugi Harlow (Harry Frederick e Clara MearsHarlow) tra il 1958 e il 1965. Gli Harlow allevarono cuccioli di macaco privandoli della madre; le scimmie disponevano solo di due sostituti materni:

  1. uno era un peluche di morbida stoffa;
  2. l’altro di metallo.

Quest’ultimo era fornito di biberon al quale le scimmiette affamate si attaccavano per succhiare il latte. I coniugi, dopo ripetute osservazioni, notarono che le scimmiette trascorrevano la maggior parte del tempo avvinte al pupazzo di stoffa, anche se era privo di biberon, e si attaccavano alla sagoma metallica solo per poppare. Dopo qualche settimana, le scimmie divennero tristi e spaurite a causa della mancanza del contatto fisico e di sguardi. Quando le scimmie divennero adulte si comportarono come “cattive madri”: mostravano indifferenza verso i loro piccoli, non li allattavano, non si ribellavano se succedeva qualche cosa ai piccoli e arrivavano ad aggredirli e rifiutarli.

La teoria di Bowlby sull’attaccamento fu successivamente validata empiricamente da Mary Ainsworth, sua stretta collaboratrice, attraverso la cosiddetta strange situation, una procedura semi-sperimentale condotta in laboratorio per la raccolta di dati che consente di osservare e valutare il comportamento di attaccamento, quello esplorativo e quello affiliativo, per le madri e i figli. 15 coppie madri-infanti longitudinali furono prese in esame, con visite ogni tre settimane per un anno e alla fine del primo anno di età furono sottoposte alla strange situation. I risultati furono:

  1. Attaccamento sicuro. L’attaccamento sicuro è caratterizzato da aspetti di amore e costruzione. Le madri che rispondono prontamente hanno bambini che piangono poco e un attaccamento sicuro. La differenza non la fa il tempo totale trascorso insieme al caregiver ma il buon timing tra pianto-segnale e supporto del caregiver (e la maniera affettuosa o meno di tenere il bambino). I bambini con attaccamento sicuro si consolano facilmente e subito ripartono a giocare. I bambini con attaccamento sicuro introiettano un caregiver disponibile anche in sua assenza fisica. Al ritorno del caregiver lo salutano affettuosamente e non in modo ostile. 
  2. Attaccamento insicuro-evitante (o contro-dipendente poiché nascondono una dipendenza che non si può palesare, cioè quando il sistema di attaccamento si attiva e non è “terminato” da un comportamento di supporto del caregiver l’infante si difende dalla frustrazione in modo contro-dipendente). Alcuni bambini che protestano molto a casa e che sono sottoposti a frequenti separazioni dal caregiver erano apparentemente indifferenti all’assenza del caregivernella strange situation ed evitavano il caregiver al suo ritorno, avevano cioè un attaccamento evitante, caratterizzato da forti emozioni che il bambino ha fatica ad esprimere e caratterizzato da una difesa autistica. I caregiver degli evitanti erano generalmente distaccati dal bambino specialmente quando lui era in cerca di contatto, erano insensibili ai segnali dell’infante.
  3. Attaccamento insicuro-ambivalente. Quando il sistema di attaccamento si attiva e non è “terminato” da un comportamento di supporto del caregiver l’infante si difende dalla frustrazione in modo dipendente. I genitori non sono disponibili in modo costante e sono estremamente iperprotettivi, questo genera nei bambini preoccupazione e la sensazione di non essere amati abbastanza, tanto da dover richiedere continuamente conferme manifestando unasovra-attivazione del sistema di attaccamento per cui la ricerca della vicinanza del genitore continua nonostante il contatto con il genitore; tendenzialmente, i bambini manifestano fin da subito una minore capacità di esplorare l’ambiente in modo autonomo e di interagire con la figura estranea, un notevole disagio durante la separazione, accompagnato anche da una minore capacità di recupero nei momenti di ricongiungimento; si alternano così offerte di contatto e sentimenti di rifiuto.

Sia nell’attaccamento evitante che in quello ambivalente, maggiori sono la persecutorietà e le esperienze di frustrazione, minore sarà la funzionalità del sistema esplorativo del bambino, ossia tenderà a non esplorare e conoscere l’ambiente.

Bretherton’s Article

  • Risultati di Ainsworth in Uganda (studio longitudinale su 26 famiglie con bambini non svezzati seguiti per nove mesi), l’insicuro piange spesso esplora poco, il sicuro piange poco esplora spesso, l’evitante (non attaccato) non mostra differenze di comportamento in presenza o assenza del caregiver. Il sicuro era correlato positivamente alla sensibilità materna. 
  • Risultati di Ainsworth in Baltimora (studio longitudinale su 26 famiglie fino un anno di età). L’insicuro alla riunione della strange situation vuole contatto ma scalcia (ambivalente), l’altro tipo di insicuro cerca la mamma quando lei è assente ma la ignora quando torna (evitante).

All’interno del primo volume di “Attaccamento e perdita” del 1969 Bowlby non parla più di pulsioni biologicamente fondate ma concepisce la mente come insiemi di sistemi che si attivano e si disattivano in base all’interazione con il contesto (es. sistema di attaccamento vs sistema esplorativo).

  1. In “Attaccamento e perdita” primo volume,Bowlby sottolinea che una coppia caregiver-infante con una buona sintonia relazionale prova piacere nello stare insieme, mentre una coppia caregiver-infante con una cattiva sintonia prova ansia e infelicità nello stare insieme.
  2. In “Attaccamento e perdita” secondo volume (Separation), Bowlby sottolinea che ci sono due eventi che attivano il sistema di attaccamento: l’assenza del caregiver e la presenza di una esperienza ignota. La coppia infante-caregiver è quindi chiamata ad un corretto bilanciamento tra sistema esplorativo (Libertà) e sistema di attaccamento (Sicurezza). La buona sintonia tra caregiver ed infante crea un MOI (automatico, inconscio) in grado di prevedere correttamente i comportamenti reazionali degli altri e quindi comportarsi di conseguenza. Infine, in questo volume Bowlby sottolinea la caratteristica transgenerazionale dei MOI. 
  3. In “Attaccamento e perdita” terzo volume (Loss), Bowlby sottolinea il processo di creazione e mantenimento di un MOI. Il MOI si mantiene grazie ad un processo di attenzione selettiva verso alcune informazioni provenienti dall’esterno e la sistematica esclusione di altre informazioni. Le informazioni escluse fanno parte di tre categorie: cose che i caregiver non vogliono far ricordare al bambino nonostante lui le abbia vissute, situazioni nelle quali il bambino percepisce il comportamento dei genitori come intollerabile, situazioni nelle quali il bambino ha fatto o pensato di fare qualcosa di cui si vergogna molto. Quindi questi aspetti non vengono integrati nella personalità.
  • Linee guida cliniche di Bowlby: il terapista inizia con il capire le difficoltà relazionali del paziente. Il terapista agisce come base sicura per il paziente. Il terapista cerca di guidare il paziente verso il ricordo della vita infantile e degli eventi dolorosi (sono più importanti gli eventi effettivamente accaduti che le fantasie). Il terapista cerca di promuovere un insight sui MOI del paziente derivati da tali esperienze infantili. Il terapista promuove una revisione di tali modelli. 

SVILUPPI MODERNI DELL’ATTACCAMENTO

Un importante strumento clinico per valutare lo stile di attaccamento negli adulti è la Adult Attachment Interview (AAI), messa a punto da Mary Main (1985) e alcuni collaboratori. Si tratta di un’intervista semi-strutturata, della durata di circa un’ora, nella quale vengono poste 20 domande all’intervistato. L’intervista indaga la rappresentazione dell’adulto sull’attaccamento (cioè i modelli operativi interni) valutando i ricordi generali e specifici della sua infanzia. Le risposte sono codificate in base alla qualità del discorso (in particolare la coerenza) e il contenuto. L’AAI permette di classificare l’attaccamento degli adulti in base a quattro categorie:

  1. Sicuro (F, free): valorizzano le relazioni di attaccamento, le descrivono in modo equilibrato e influente. Il loro discorso è coerente e di natura non difensiva.
  2. Distanziante (Ds, dismissing): mostrano lacune di memoria. Riducono al minimo gli aspetti negativi e negano l’impatto personale sulle relazioni. Le loro descrizioni positive sono spesso contraddittorie o non supportate. Il discorso è difensivo.
  3. Preoccupato (E, entangled): mostrano continue preoccupazioni rispetto alla relazione con i propri genitori. Discorso incoerente. Hanno rappresentazioni conflittuali o ambivalenti del passato.
  4. Non risolto (U, unresolved): evidenziano traumi derivanti da perdite o abusi non risolti.

Sulla base dell’ipotesi della stabilità nel tempo dei modelli operativi interni, la ricerca sull’attaccamento è stata estesa alle relazioni di coppia. Bartolomew e Horowitz (1991) hanno definito quattro stili di attaccamento nell’adulto, basati sull’immagine che l’individuo ha di sé e dell’altro:

  1. Stile sicuro: modello di sé positivo e dell’altro positivo. Gli adulti con un attaccamento sicuro tendono ad avere opinioni positive su sé stessi, sui loro partner e sulle loro relazioni. Si sentono a proprio agio con l’intimità e l’indipendenza, bilanciando le due.
  2. Stile ansioso-preoccupato: modello di sé negativo e dell’altro positivo. Gli adulti ansiosi-preoccupati cercano alti livelli di intimità, approvazione e risposte dai partner, diventando eccessivamente dipendenti. Tendono a essere meno fiduciosi, hanno opinioni meno positive su sé stessi e sui loro partner e possono mostrare alti livelli di espressività emotiva, preoccupazione e impulsività nelle loro relazioni.
  3. Stile distanziante-evitante: modello di sé positivo, dell’altro negativo. Gli adulti che ricadono in questa categoria desiderano un alto livello di indipendenza, e spesso sembrano evitare del tutto l’attaccamento. Si considerano autosufficienti, invulnerabili ai sentimenti di attaccamento e non necessitano di relazioni strette. Tendono a sopprimere i loro sentimenti, affrontando il conflitto prendendo le distanze dai partner di cui spesso hanno una scarsa opinione.
  4. Stile timoroso-evitante: modello di sé negativo, dell’altro negativo. Gli adulti timoroso-evitanti hanno sentimenti contrastanti sulle relazioni intime, desiderando e al tempo stesso sentendosi a disagio nella vicinanza emotiva. Tendono a diffidare dei loro partner e si considerano non degni di attenzione. Come nello stile distanziante, gli adulti timorosi tendono a cercare meno intimità, sopprimendo i loro sentimenti.
  • Daniel Stern, Joseph Lichtenberg (Infant Research)
  • Fonagy e Target (Mentalizzazione)

TRONICK

Edward Tronick, psicologo dello sviluppo statunitense, ha condotto una ricerca volta a spiegare come il processo di creazione di significato sia un meccanismo centrale nello sviluppo psichico normale che in quello patologico. In questo senso i bambini vengono concepiti come sistemi dinamici aperti che devono costantemente acquisire informazioni per aumentare la loro complessità e coerenza psichica. Tronick e il suo collega, all’interno dell’articolo, discutono di come i problemi mentali nell’infanzia emergono quando il momento che dovrebbe creare i significati del bambino limita selettivamente le relazioni successive con il mondo e a sua volta limita anche la crescita degli stati di coscienza nel lungo periodo. Quando questo meccanismo diventa continuo e cronico può alterare i significati e interferire con uno sviluppo sano e accrescere nel bambino la vulnerabilità ad esiti patologici.

In questa prospettiva i bambini appaiono come costituiti da sistemi dinamici aperti caratterizzati a loro volta da sottosistemi (cervello, processi psichici, comportamento) che interagiscono costantemente fra loro e i processi di creazione di significato sono formati da questi scambi. Inoltre, i processi di auto-organizzazione, mediante feedback positivi e negativi, conducono allo sviluppo di nuovi sistemi e capacità, come il linguaggio. Ad esempio, durante la relazione con i caregivers i bambini creano numerosi significati di questa esperienza; se i genitori sono affidabili e responsivi, questa base sicura permette al bambino di acquisire più risorse dai suoi scambi con i caregiver e di sviluppare modelli operativi interni sicuri (Bowlby) e la cosiddetta resilienza, mentre se i genitori saranno duri e non responsivi, il bambino manterrà comunque una vicinanza con essi ma a lungo termine potrebbe sviluppare delle forme relazionali di attaccamento insicuro con gli altri nella vita. Quando i bambini riescono a creare nuovi significati (criticità auto-organizzata) emerge un nuovo stato di coscienza biopsicosociale che contiene più informazioni ed è più complesso e coerente più che in precedenza; per questo motivo, i bambini divengono più flessibili e riescono a organizzarsi maggiormente anche dinanzi a ostacoli. Questi ostacoli, tuttavia, presenti nell’ambiente o nel rapporto con i caregivers, se prolungati nel tempo (diventano cronici) possono influire sul sistema del bambino, diventando meno stabile e flessibile (dissipazione): ad esempio, se il bambino piange e i genitori riescono a mitigare il suo pianto, e quindi a riparare velocemente l’esperienza di disregolazione, essi promuovono uno stato di conoscenza più complesso e coerente, mentre lo stato prolungato del pianto, cioè di stress, può provocare la dissipazione della coerenza del bambino. Un esempio estremo, invece, può venire dai bambini istituzionalizzati, che hanno avuto l’esperienza di una deprivazione sociale. Nonostante cure adeguate, l’assenza cronica di un genitore che promuove interazioni adeguate e una mancanza di opportunità di creare significati diadici, può portare a un prolungato stato di disregolazione associato a una rappresentazione di sé stessi negativa del tipo “le mie azioni non funzionano per chiedere aiuto” o “sono inutile”. In questo senso, le esperienze di deprivazione possono condurre a un’alterazione dello sviluppo mentale compromettendo lo sviluppo socio-emotivo.

Ma come fanno i bambini a dare un significato? A differenza degli adulti o dei bambini più grandi, i neonati interpretano un oggetto in base a ciò che possono fargli: non ci sono cucchiai o giocattoli, ma cose che possono essere lanciabili, toccati con la bocca, etc; il significato, cioè, è senso-motorio, per cui i bambini producono significati senso-affettivi. Per questo motivo, un giocattolo grande e rumoroso non sarà un giocattolo, bensì qualcosa da evitare poiché il suo significato è paura. Questi significati costituiscono quello che chiamiamo uno “stato di coscienza biopsicosociale fondamentale” per il bambino, un’organizzazione unica di processi fisiologici, cerebrali e comportamentali multipli e interagenti che creano un senso polisemico (significato multiplo) di ciò che sta accadendo ora e alterano la natura dei possibili significati futuri.

Il successo dei bambini nella creazione di nuovi significati e nell’espansione degli stati di coscienza porta con sé sentimenti di benessere, piacere e gioia e porta a un coinvolgimento positivo con il mondo. Si sviluppa un senso di integrità e continuità. Inoltre, una conseguenza esperienziale particolarmente potente della co-creazione di stati di significati condivisi con un’altra persona (stato diadico di coscienza) è sentirsi connessi e in relazione con quella persona.

Come funziona questo sistema di creazione di significato? Il sistema di creazione di significati bambino-adulto è un sistema comunicativo diadico, mutuamente regolato, in cui vi è uno scambio di significati, intenzioni e obiettivi relazionali di ogni individuo, ossia ciò che viene definito come “modello di mutua regolazione”.  Tuttavia, l’interazione tipica è disordinata: passa da stati di corrispondenza (coordinati, sincroni) di significati e intenzionalità condivisi a stati di non corrispondenza (miscoordinati, dissincroni) e torna a stati di corrispondenza intenzionali attraverso un processo riparativo attivo e condotto congiuntamente. Questa generale mancanza di coordinamento (disordine) suggerisce che i bambini e i caregivers non condividono intenzioni simili per la maggior parte del tempo durante leinterazioni faccia a faccia (en face) (ad esempio, il caregiver guarda il bambino mentre il bambino distoglie lo sguardo) e che non possono coordinare continuamente i loro stati di coinvolgimento. La microanalisi video ha però dimostrato che le diadi bambino-caregiver in genere riparano rapidamente le discrepanze interattive attraverso processi co-creativi.

I fallimenti nelle riparazioni comportano però conseguenze problematiche: il paradigma dello still-face li evidenzia. Bambini in età preverbale reagivano allo still-face con sollecitazioni, con rabbia e disagio, con tristezza e rifiuto, mentre i bambini in età verbale chiedevano alle madri “Cosa stai facendo?” e chiedevano loro “Parlami!”. Durante i momenti successivi di riunione, i bambini riportavano un’affettività negativa e una bozza di affettività positiva, e nei tentativi di riparazione della diade, si comportavano in modo evitante e ambivalente. Chiaramente, bambini con un migliore adattamento possono essere più inclini a esplorare e, in conseguenza, a scoprire nuovi significati relativi a sé rispetto al mondo, che andranno poi a rafforzare la loro sicurezza e ad amplificare la loro spinta conoscitiva.

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Etica e scienze del vivente

Amelia Forte

“Biologizzare l’etica”, è una locuzione che è stata coniata da uno scienziato che si chiamava Wilson, fondatore della sociobiologia, come disciplina scientifica, in quanto ramo della biologia evoluzionistica, che studia le interazioni sociali tra gli esseri viventi alla luce dei principi della biologia evoluzionistica e che colloca la socialità umana ma anche non umana, all’interno del contesto evoluzionistico.

Wilson quando comincia ad occuparsi di socialità umana dice che forse è arrivato il momento di biologizzare l’etica, ovvero di far passare lo studio dell’etica e della morale dalle mani degli umanisti a quelle degli scienziati.

L’affermazione di Wilson generò un grande clamore, poiché l’idea che l’umanità non possa occuparsi di un fenomeno umano senza conoscere prima le ragioni biologiche dimostrerebbe che senza di esse i principi morali, etici, e culturali non potrebbero essere spiegati.

Quindi quello che fa Wilson è avanzare l’idea della necessità di quella che lui chiama una forma di naturalizzazione, ossia l’idea che i problemi classici della filosofia non possano essere affrontati se non all’interno di un orizzonte di spiegazione di tipo empirico, cioè che le spiegazioni filosofiche dell’etica debbano fare ricorso unicamente ad un orizzonte che è quello dei fatti empirici, tagliando fuori tutta quella dimensione fisica, del trascendente, del sovrannaturale che caratterizza buona parte della filosofia, come il ricorso a entità, oggetti nozioni, che non hanno nessuna possibilità di riscontro empirico. Più in particolare Wilson era uno di quelli che intendeva la naturalizzazione come qualcosa di più stringete, ossia il fatto che le nostre spiegazioni di fenomeni non debbano solo far riferimento ad un orizzonte empirico, perché questi fatti sono quelli di cui si occupa anche la scienza, sono il risultato di informazioni scientifiche e non come fatti della nostra esperienza ordinaria. Quindi egli pensava che la biologia, fosse l’unico orizzonte legittimo per la spiegazione dei fenomeni della moralità.

In realtà la locuzione di Wilson è uno spunto per fare un lavoro che va più ad ampio raggio. Ossia l’idea è quella di mostrare intrecci non solo all’interno dell’approccio sociobiologico di Wilson, tra biologia ed etica. La premessa è quella di adottare un approccio naturalizzato all’etica e esplorare i modi in cui in un contesto naturalizzato, come all’interno di questo orizzonte empirico la biologia contribuisca alla spiegazione della morale, e a partire non da Wilson ma da Darwin

Infatti la biologia di Darwin è una delle più importanti rivoluzioni scientifiche della civiltà umana. Tutto ciò che è venuto sulla sua scia è la migliore spiegazione dell’evoluzione. Darwin infatti fornisce un orizzonte di spiegazione della vita, del vivente, e specificamente della natura umana che da un lato fa piazza pulita di tutta una serie di idee che la filosofia aveva coltivato nel corso della sua storia, anche nello spiegare il fenomeno della moralità, proponendo una idea di una natura umana che ha una serie di caratteristiche discontinue rispetto a quelle della tradizione filosofica, come l’idea di specialità di essere umano, ossia l’idea secondo cui ciò che appartiene all’essere umano deve essere spiegato all’interno di una natura, che è quella umana, e che per le quali l’essere umano ha caratteristiche che gli sono uniche. Un altro degli elementi è la idea che la natura umana ha una dimensione storica e contingente, ovvero che la natura umana, e non anche l’esperienza degli esseri umani, sia stabile. Infatti mentre le caratteristiche stabili degli esseri umani in Darwin sono storiche, quindi variano, la natura umana non è data una volta per sempre, ma cambia in termini biologici; in quanto l’umanità muta, e si trasforma, non essendo più ritenuta “specie eccezionale”, ma solo come parte di una rete di viventi, che condivide un antenato comune, il quale non è separabile dagli altri animali viventi in quanto prodotto di un’evoluzione contingente. Il termine “antropocene” fu coniato anni fa ma usato molto in tempi recenti, ed indica l’età geologica in cui attualmente si posiziona l’uomo. Esso designa un’era geologica caratterizzata dal fatto che gli esseri umani hanno la capacità di modificare la geografia, o ambiente circostante ed il clima. Tuttavia l’homo sapiens non è un’eccezione, ma è un animale storico, contingente, imprevisto, come tutta la vita, e questo cambia radicalmente lo scenario, perché se pensiamo al fatto che l’homo sapiens sia un dato contingente, si evince che l’uomo non è determinato a scopi. Se ci concentriamo solo sulla funzione delle nostre capacità ci perdiamo la storia evolutiva. Il fatto che abbiamo un cervello che ci permette di pensare, di inventare artefatti, non è che il punto di arrivo di un percorso di stratificazione, perché i primi ominidi non avevano la mano come la nostra, avevano degli arti che sono mutati per una serie di mutazioni casuali.

William dice che il mondo in cui sono gli esseri viventi è l’opera di uno Dio creatore che ha fatto un disegno intelligente. Il modo in cui sono fatti gli esseri umani sembrano fatti apposta per fare qualcosa, tutto questo ci porta per induzione all’esistenza di un Dio creatore. Prima di Darwin non c’erano certe spiegazioni, perché lui spiega come con lo stratificarsi dell’evoluzione biologica in modo del tutto casuale si giunga ad un certo risultato. Per prove ed errori causali arrivammo all’essere umano. Quindi da una spiegazione alternativa alla teoria del disegno: l’essere umano non è il prodotto di un disegno ma di eventi contingenti. Il fatto di essere noi degli orologi senza orologiaio ha una serie di conseguenze perché pensiamo ai contenuti dell’etica. La moralità avanza una pretesa di oggettività, se io dico rubare è sbagliato sto pronunciando un enunciato che non è la stessa cosa della torta al cioccolato è il migliore dolce del mondo, perché laddove dico rubare è sbagliato sto sostenendo che quella affermazione è oggettiva.

Quelli che sono i giudizi fondamentali della morale avanzano questa pretesa, però poi c’è sempre il rischio del relativismo

questa oggettività in molte spiegazioni filosofiche è legata a dei fatti, dei dati, che si ritengono oggettivi e permanenti.

Quello che fa Darwin è dare una spiegazione così potente della natura umana che taglia fuori le alternative perché rende conto di come ci siano orologi senza orologiai.

L’osservazione empirica che fa Hume non ha quel supporto, quella base scientifica che ha la biologia darwiniana e che dice: come puoi sostenere la creazione speciale di un essere umano da parte di un dio quando hai una spiegazione empirica?

Perché devi spiegare la moralità una a con questa stravagante funzione quando hai un meccanismo di spiegazione evolutiva che si accorda con i fatti disponibili?

L’idea è che la novità dell’etica con Darwin non è solo che propone una spiegazione su una scia storica, evolutiva, ma che lo fa a partire da una cornice scientificamente storica. Ti da una base scientifica che rende le altre strade implausibili.

Quindi biologizzare l’etica significa vedere come la biologa, la biologia darwiniana contribuisce alla nostra spiegazione dell’etica intesa come una pratica, una forma di vita umana che usa una serie di idee, di concetti, di problemi, che nella cornice evoluzionistica trovano un certo tipo di orizzonte di spiegazione e di come non solo dare una spiegazione della natura umana, e del fenomeno della moralità umana, ma contribuisce anche, in un senso che non è solo strettamente descrittivo, alla ridefinizione di determinate idee morali.

Sono due i lavori che egli descrive: Parte descrittiva: ossia offrire un modello di spiegazione di come noi homo sapiens siamo animali cooperativi, sociali, altruistici, empatici e abbiamo una serie di comportamenti che noi classifichiamo come morali. Parte normativa: ossia se si ragiona all’interno della biologia evoluzionista, ebbene una serie di idee tradizionali verranno ridefinite o demolite.

Alla base c’è l’idea di una natura umana speciale, l’essere umano è qualcosa di speciale che gli altri esseri viventi non condividono, e questo qualcosa di speciale può essere l’anima per Tommaso e la ragione per Kant. Ma se si entra nell’orizzonte darwiniano questa idea di una natura umana separata salta perché salta la sua base empirica.

Tu non puoi fare una discriminazione morale sulla base dell’idea che gli esseri umani sono speciali. Ma se salta questa barriera poi lo spazio per un’altra riflessione etica che considera che alcune cose che hanno valore morale. Si è visto lo sfondo generale su cui ci muoviamo, l’idea di una relazione tra l’analisi filosofica dell’etica e biologia evoluzionistica, come sfondo che ci consente di esaminare questa relazione lungo due linee:

  • Descrittiva
  • Normativa

Inizialmente cercheremo di dare un quadro di comprensione della definizione del campo dell’etica, perché l’etica filosofica cerca anche di definire i confini della forma di vita che definiamo come morale. Quindi questo primo lavoro consiste in una definizione dell’ambito dell’etica filosofica e dei suoi compiti.

Successivamente per avvicinarci alla biologia evoluzionistica approfondiremo quell’approccio metodologico che è quello del naturalismo, della naturalizzazione, e ci sono diversi modi di intendere cosa è la naturalizzazione.

Dopo questa prima parte dedicata all’etica, i suoi, scopi, i suoi metodi, approfondiremo la biologia darwiniana tanto dal punto di vista storico tanto sul punto di vista teorico.

Questo approccio ci consentirà di affrontare la questione dell’etica in un quadro evoluzionistico andando ad approfondire gli studi sull’evoluzione della società, ad esempio vedendo quello che è il contributo dell’etologia in ciò.

Dopo questa parte faremo un approfondimento che sposta il fuoco dall’evoluzione e il fenomeno della moralità sulla questione della biologia del soggetto morale, ovvero sul modo in cui le scienze del vivente oggi spiegano il soggetto morale, occupandoci del contributo delle neuroscienze su condizioni classiche dell’etica come quelle di libero arbitrio, di carattere, etc. Vedremo come lo studio dei cervelli cerca di chiarire alcune questioni classiche della filosofia tramite metodologie che mettono insieme una questione filosofica con una ricerca di tipo empirico.

Fatti questi due approfondimenti la questione della relazione tra etica e neuroscienze, genetica e etica, questa relazione dà vita ad un’ulteriore disciplina dell’etica filosofica che è la neuroetica, che è un campo di ricerca dell’etica filosofica che si occupa di due questioni:

  • La biologizzazione del soggetto morale e la sua comprensione del soggetto biologico
  • Discutere le ricadute applicative di questo studio scientifico del cervello morale perché laddove non siamo in grado di capire come funziona il nostro cervello quando siamo impegnati in valutazioni di tipo morale.

 Questo potrebbe essere lo stesso discorso che fa Parfit nel saggio “le generazioni future”, quando fa gli esempi del tecnico nucleare e della scelta politica rischiosa:

Tecnico nucleare: un tecnico sceglie per pigrizia di non controllare un contenitore di scorie nucleari. Conseguenza di tale negligenza è una catastrofe che ha luogo due secoli più tardi. La fuga radioattiva uccide e danneggia migliaia di persone.

La scelta del tecnico è peggio per le persone colpite dalla catastrofe perché se avesse controllato il contenitore queste stesse persone in futuro avrebbero continuato a vivere, e sarebbero sfuggite alla catastrofe; mentre nei prossimi due secoli sarebbero nate le stesse persone particolari, quindi alle persone del futuro la situazione non cambia, a rimetterci sono quelle del presente. La scelta politica rischiosa: come comunità, dobbiamo scegliere tra due politiche energetiche. Entrambe sono completamente sicure per almeno due secoli, ma una di esse comporta certi rischi nel futuro più lontano. Se scegliamo questa politica rischiosa, nei prossimi due secoli avremo uno standard di vita un po’ più elevato. La scegliamo. In conseguenza della nostra scelta due secoli dopo avviene una catastrofe simile a quella dell’esempio del tecnico nucleare; con la morte e il ferimento di migliaia di persone.

In questo caso, invece, la nostra scelta influirà su chi verrà al mondo nel futuro: se optiamo per la scelta rischiosa migliaia di persone vengono uccise o danneggiate; Parfit fa un lavoro concettuale, si muove su un livello analitico. No problematicità. Oggi dobbiamo valutare le nostre azioni su due livelli come azioni individuali: singole, nulle. Per aver contributo devono essere cumulate con le azioni di una massa critica di persone. Incapacità di connettere effetti alle nostre azioni. Secondo tipo di difficoltà: dimensione temporale, anche laddove siamo in grado di collocarci in una dimensione temporale. Limiti della simpatia: difficile instaurare una relazione simpatetica con qualcuno così distante temporalmente e che non esiste. La questione ambientale si interroga sulle capacità cognitive degli agenti morali enancement. Invece Parfit si muove più su un livello concettuale. Questa ricomprensione del vivente porta un allargamento della considerazione morale anche a animali non umani e l’allargamento della questione morale all’intero ambiente naturale, agli ecosistemi arrivando all’etica ambientale, ossia una riflessione che si occupa dei nostri doveri verso il mondo non umano intendendo non solo gli animali non umani ma gli ambienti naturali. Infine analizzeremo la questione relativa al posto che ha la scienza non solo nella questione filosofica ma anche il posto della scienza in genere e della scienza del vivente in una società democratica. Iniziamo ad analizzare quella che è la definizione dell’etica e scienze del vivente. Intanto vediamo che cos’è l’etica. L’etica è qualcosa che caratterizza la nostra esperienza, tutti noi abbiamo un’esperienza morale, perché tutti abbiamo una condotta morale (es, se qualcuno si astiene dal rubare possiamo identificare la sua condotta come aderente a dei principi morali, anche se identifichiamo la condotta morale con l’astenersi, se dovessimo invece identificare una condotta morale in senso positivo quella che si conforma ad un comportamento altruistico, sosia quello di chi sacrifica la propria fitness, ossia capacità di essere adatti alla sopravvivenza in determinati ambienti, quindi l’altruismo si definisce come il sacrificio della propria fitness a favore della fitness di qualcun altro). Noi riteniamo che la condotta morale ha due caratteristiche: un comportamento di un certo tipo che ci porta ad agire non solo in nostro interesse ma per quello di qualcun altro, e che le motivazioni per le quali facciamo questo non sono solo di tipo auto interessato, cioè nella comprensione ordinaria della condotta morale noi mettiamo insieme queste due cose: ciò che le persone fanno e le motivazioni per cui lo fanno. Quindi questioni morali sono quelle, ad esempio, del:

  • Altruismo
  • Valore

Se analizziamo queste caratteristiche della condotta abbiamo un’idea di quello che è il mondo dell’etica, cioè una forma di esperienza umana, e rispetto a ciò non abbiamo molti dubbi perché sappiamo bene o male ciò che appartiene all’ambito dell’esperienza morale. Ma aldilà di questo abbiamo la capacità di trovarci d’accordo su queste cose, e questo è segno del fatto che l’esperienza morale è un’esperienza ordinaria, che facciamo tutti, che ci caratterizza come esseri umani. L’esperienza morale è qualcosa di comune, noi non incontriamo mai quella figura che è quella che Williams chiama la moralista: Williams i interroga sulla possibilità che esista la moralista, ossia qualcuno che in tutta la sua condotta non manifesta mai nessun tipo di quei comportamenti che definiremmo morali; la figura di colui che è estrano all’esperienza della moralità è una figura di fantasia, e noi non la incontriamo; questo per dire che l’esperienza morale è qualcosa che ci caratterizza come esseri umani. Il fatto di avere un’esperienza di qualcosa che riconosciamo come parte della moralità ci caratterizza come esseri umani. Sarebbe assurdo incontrare la moralista.

Una volta riconosciuto ciò ci possiamo chiedere quale è il contenuto filosofico di questa esperienza umana. Una prima grande distinzione che possiamo fare tra i compiti dell’etica filosofica è quello tra:

  • Compito fondativo
  • Compito esplicativo

Se l’etica è qualcosa che riconosciamo come parte fondate dell’essere umano, difficilmente possiamo pensare all’etica filosofica come qualcosa di fondazionale, perché l’etica non convince le persone ad essere morali, perché la filosofia arriva dopo un’esperienza che già c’è. Se il compito fondazionale è un compito insensato, che cosa fa l’etica filosofica? Ha un compito di spiegazione, di chiarificazione di quella che è l’esperienza morale, di quelle che sono le strutture fondamentali dell’esperienza morale

Quindi abbiamo innanzi tutto un compito di spiegazione, ma poi c’è anche un compito normativo, perché un altro elemento dell’esperienza umana, una delle caratteristiche dell’esperienza morale umana è il fatto che noi intendiamo l’ambito della moralità come un ambito in cui se diamo dei giudizi dovremmo essere pronti a giustificarli. L’etica è un ambito in cui non accettiamo giustificazioni idiosincratiche, ritendiamo che le motivazioni di una condotta abbiano una giustificazione, che l’etica, esperienza amorale sia un campo in cui si presentano ragioni e si argomentano.

Ma se è cosi allora possiamo riconoscere un altro compito all’etica filosofica che è quello di lavorare sulle ragioni e sulle argomentazioni in modi che sono più sofisticati di come fa un linguaggio ordinario, ma non in discontinuità.

Se allora pensiamo che i compiti dell’etica filosofica sono questi possiamo costruire un’articolazione dell’etica filosofica, dei modi in cui l’etica filosofica lavora.

All’interno di questa cultura filosofica, cioè quello dell’etica filosofica di natura analitica, possiamo riconoscere tre campi di lavoro:

  • Metaetica

campo dell’etica filosofica che si occupa di dare spiegazioni sulla natura dell’etica, su che cos’è il fenomeno della moralità, su cosa caratterista l’esperienza morale. Esamina il fenomeno della morale: il linguaggio, i contenuti, le forme del ragionamento

  • Etica normativa

campo dell’etica che riguarda la procedura decisionale del pensiero morale che usiamo per scegliere come agire, e che ci fornisce i criteri in base a cui giudichiamo come giusta un’azione; oppure ci aiuta a formulare la giustificazione per un’azione (es: modello utilitarista)

  • Etica applicata

impiega le teorie normative e le chiarificazioni concettuali della metaetica in relazione a questioni concrete (es: bioetica, etica ambientale)

Questi tre campi si compenetrano tra loro, ma da un punto di vista di contestualizzazione ci consente di fare un lavoro di canottaggio (andare più nello specifico) dei sotto problemi dell’etica. Quindi fare questa distinzione ci consente di fare una sgranatura dei problemi per capire di cosa ci occupiamo quando la filosofia morale si occupa di dare spiegazioni del fenomeno morale

L’etica analitica nella sua fase di sviluppo fa un lavoro di analisi del linguaggio morale, cioè su quelle che sono le caratteristiche del linguaggio quando esprimiamo enunciati morali, giudizi morali: quando diciamo uccidere è sbagliato, che significato ha sbagliato? che caratteristiche ha quel termine che abbiamo usato?

In qualche modo l’etica analitica che si occupava del linguaggio è stata molto utile nella definizione di alcune caratteristiche dell’esperienza morale, ma nel momento in cui noi andiamo avanti sulla strada della naturalizzazione dell’etica, cioè l’incontro del lavoro dell’etica filosofica con le scienze del viene, pensare che il lavoro dell’etica filosofica possa orientarsi al linguaggio risulta inadeguato perché non riesce a cogliere la dimensione evolutiva del fenomeno.

Quello che fa l’etica nella prima fase, che si occupa del linguaggio morale, è aiutarci a definire in modo più preciso il campo e una serie di problemi che tornano in una prospettiva naturalizzata dell’etica.

La definizione del campo la troviamo in Hare, che si chiede quali sono le caratteristiche degli enunciati morali e ne identifica tre (pag. 23 Donatelli):

  • L’universalità o universalizzabilità

ossia il fatto che un enunciato morale non è qualcosa che consideriamo idiosincratico, ma riteniamo che pronunciando una frase con valore morale stiamo pensando che questo enunciato vale per tutti, gli enunciati morali sono universali e non idiosincratici.

  • La prescrittività

cioè un enunciato morale, un giudizio morale ci dice di fare qualcosa, prescrive qualcosa; e qui si apre una grossa questione che è quella della distinzione fra il linguaggio ed enunciati prescrittivi e descrittivi, perché se io dico il pc è sul tavolo sto descrivendo qualcosa, ma se dico il pc deve essere sul tavolo sto formando un enunciato diverso, che vuol dire che se il pc non è sul tavolo è da un’altra parte e qualcuno lo deve mettere sul tavolo.

Ci sono molti modi per intendere la prescrittività ma un modo è dire che il linguaggio prescrittivo non si limita a dire come sono i fatti ma come devono essere, e la grossa questione è: che ce ne facciamo da un punto di vista normativo della descrizione del mondo? Possiamo dedurre, fondare, derivare un qualche enunciato, giudizio prescrittivo da questo, dal fatto che descriviamo la natura umana in un certo modo?

  • La soverchianza

cioè quella caratteristica che fa sì che i giudizi morali, di valutazione morale, abbiano la meglio su altri giudizi di valore, che siano soverchianti rispetto ad altre considerazioni. (es: in Apocalips Now ci sono delle scene fatte bene, belle da un punto di vista cinematografico, che raffigurano massacri, ma la bellezza di questa riproduzione supera il suo contenuto?) Quindi la questione della soverchianza ci dice che i giudizi morali hanno la meglio sui giudizi di valore, hanno un primato. I giudizi morali predominano sempre su quelli non morali.

Queste tre caratteristiche del linguaggio morale identificano un campo, possiamo riconoscere che ci sono una serie di questioni morali che riconosciamo perché hanno queste caratteristiche, e in realtà parte degli studi normativi si giocano sull’identificazione di alcune questioni come quelle morali, pensiamo ad alcune questioni sulla condotta sessuale, questa questione può essere universalizzabile o no? Es: la condotta eterosessuale è l’unica accettabile?

L’argomentazione normativa morale mostra in alcuni casi come alcune questioni non appartengono al dominio della morale, come quello della condotta sessuale. Ma possiamo anche includere questioni che invece prima sembravano irrilevanti nella questione morale.

Ci si è soffermati sul tentativo di dare una definizione generale dell’etica, individuando 3 caratteristiche per descrivere il fenomeno dell’esperienza morale, che ci consentono di avere una definizione dell’esperienza morale degli esseri umani (universalizzabilità, prescrittività, soverchianza).

Ci sono un’altra serie di questioni che emergono nel campo della metaetica, da cui acquisiamo un lessico, delle griglie concettuali, con cui descrivere una possibilità di posizioni, di articolazioni di tesi sulla natura dell’etica, una delle quali è la natura dei fatti morali, e sulla stesa esistenza dei fatti morali, ad esempio abbiamo un’articolazione di tesi sulla natura dell’etica che sostengono l’idea che esistono proprietà morali nel mondo che sono reali, che sono o sui generis, o riducibili ad altre proprietà del mondo fisico o metafisico, ritengono che ci sia una realtà morale oltre l’esperienza sensibile, aldilà di queste distinzioni possiamo distinguere due gradi approcci:

  1. L’idea che la nostra condotta morale sia guidata dall’esistenza di una vera e propria realtà morale, ci sono fatti che hanno una caratterizzazione morale che questi fatti esistono nel mondo così come lo conosciamo. Generalmente posizioni di realismo morale si associano a posizioni di positivismo, ossia l’idea che principi morali, la guida della condotta sia qualcosa a cui giungiamo tramite la conoscenza. In genere forme di realismo morale tendono ad avere concezioni permanenti, stabili, assolutiste, ovvero l’idea che se esistono dei fatti morali questi sono stabili, non cambiano: gli esseri umani sono il prodotto di fatti contingenti, cosa che è ben poco compatibile con l’idea che esista una realtà morale che le nostre capacità morali sono in grado di cogliere, perché come è possibile che una realtà contingente sia andata nella direzione di essere in grado di comprendere questi fatti morali? O non esistono realtà morali oppure l’evoluzione è qualcosa di governato da qualche tipo di finalismo.
  2. Un altro tipo di articolazione all’interno del quadro presentato dalla matetica è quello che ha a che fare con la motivazione: la dimensione della motivazione è essenziale per una comprensione della natura dell’etica: quando noi agiamo sulla base di motivazioni di tipo morale, i motivi sono motivi che possono avere a che fare con:
    1. fattori interni, come ad esempio dei sentimenti e qui abbiamo una posizione internalista
    2. ragioni esterne, posizione esternalista

La questione della motivazione chiama in causa l’idea di psicologia morale, perché la metaetica nasce come un’analisi del linguaggio morale, ma nel momento in cui questa analisi arriva a questioni come quelle della motivazione, della fonte del giudizio morale, della motivazione. Nel momento in cui entrano in campo questioni come quelle della motivazione e delle capacità che presiedono alla produzione di giudizi morali noi siamo sempre nel campo della metaetica, ma intesa in senso più ampio rispetto all’analisi del linguaggio morale perché si interroga si sulla natura dell’etica ma lo fa nei termini della psicologia morale, ossia quello che è il funzionamento della mente umana nel momento in cui è impegnata in valutazioni morali, nell’attribuzione o riconoscimento dei valori e principi morali. La metaetica si è evoluta nel corso del tempo fino a diventare una indagine sulla psicologia morale. In questa metaetica in senso più ampio abbiamo quel luogo di incontro fra etica filosofica e scienze del vivente perché laddove l’armamentario del filosofo morale analitico tradizionale che fa metaetica con l’analisi del linguaggio morale, l’analisi non riesce perché se ci poniamo questioni sul funzionamento della mente umana non possiamo fare a meno di entrare in dialogo con quelle discipline che della mente umana si occupa da prospettive diverse che sono quelle scientifiche; quando Wilson dice che è tempo di biologizzare l’etica aveva in mente anche l’idea che le scienze umane, la filosofia, fossero lavori intellettuali che non avevano alcun interesse verso le scienze empiriche, del vivente, che potessero produrre teorie che non erano informate dalle scienze. Quindi così è avvenuto l’intreccio tra etica e scienze del vivente tanto che oggi qualcuno parla di articolare la filosofia come una disciplina sperimentale tanto da parlare di filosofia sperimentare, intendendo un portare la filosofia morale all’interno dei contesti scientifici attraverso esperimenti, a che cosa servono gli esperimenti per la filosofia? Servono per testare intuizioni e teorie, noi possiamo aver delle idee, delle teorie, sulla natura dell’etica, sulle capacità morali e sulla psicologia morale, ma è necessario confrontarci con studi che analizzano cosa è la mente; quindi il requisito che dobbiamo avere in psicologia morale è che questa corrisponde, è sovrapponibile con il funzionamento del nostro cervello. Allora se noi siamo interessati alla psicologia morale in un orizzonte evoluzionistico possiamo pensare che le evoluzioni classiche della metaetica possono essere testati in modi propri delle scienze vedendo se le ipotesi siano convalidate, confermate, o falsificate da uno studio dell’evoluzione delle capacità cognitive umane e dal modo in cui queste capacità cognitive funzionano. Un ottimo esempio per vedere come c’è stata un’evoluzione del lavoro della filosofia e dell’analisi filosofica sull’etica andando in contro al lavoro delle scienze, delle scienze del vivente, delle neuroscienze, è quello del caso del trolley problem, che nasce come un esperimento mentale, ossia quelli che fanno i filosofi che non vogliono confrontarsi con le scienze, strumento che è quello di immaginare, creare situazioni, contesti in cui si possano testare con ragionamento le nostre intuizioni, le nostre teorie, uno sperimento mentale è una situazione che ha molte gradazioni, può essere una situazione imprevista, rara nel mondo reale ma che è rispedente ai modi di funzionamento della realtà, e l’esperimento del carrello è di questo tipo perché è realistica ma è improbabile. Altre situazioni sono veri e propri modi di fare la scienza, perché se prendiamo la letteratura della identità personale ce ne sono, ad esempio il teletrasporto di Parfit. Il caso del carrello è un esperimento mentale che si inventò una filosofia morale, Foot, che si presenta in questo modo, e la sua prima versione è un modo di testare le nostre intuizioni su alcune distinzioni che troviamo in etica, fra metaetica e etica normativa, la questione relativa ad azioni ed omissioni. Tutto questo dipende anche dalla cornice che abbiamo intorno, se pensiamo alle conseguenze. Questo tipo di esperimento mentale diventa una risorsa sia per la psicologia sociale che per le neuroscienze, e da questi esprimenti emerge è che c’è sempre una differenza tra il numero di quelli che spingerebbero la leva e quelli che spingerebbero l’uomo con lo zaino pesante, c’è sempre una differenza tra le due opzioni. La questione è perché noi rispondiamo in due modi diversi, perché i due casi sono diversi.

Alla fine questi esperimenti di filosofia morale sono diventati esprimenti di neuroscienze. Quello che fa la filosofia sperimentale è indagare tramite metodi empirici il funzionamento del cervello di fronte a casi del genere, e quello che è emerso in questa situazione è che i nostri cervelli reagiscono diversamente nei due contesi:

  • Nel caso della leva sono attive aree frontali più collegate al ragionamento astratto
  • Nel caso della spinta della persona si attivano aree più antiche dal punto di vista dell’evoluzione del cervello che hanno a che fare con l’affetto. Un’ipotesi che è stata fatta per spiegare questi due meccanismi è che l’azione di spingere la persona è un’azione che richiede un contato fisico con un altro essere umano, cioè un’azione per la quale la nostra evoluzione biologica ha prodotto una serie di meccanismi inibitori: il contatto fisico viene affettivamente connotato nel nostro cervello come qualcosa che ha un valore negativo, qualcosa da evitare, e la ragione evolutiva di questo fenomeno sembrerebbe questa, la possibilità di cooperazione sociale viene massimizzata da individui che hanno un’inibizione dal conflitto fisico e violento, cioè se noi immaginiamo una storia evolutiva in cui i nostri antenati cominciavano a vivere in gruppi c’erano quelli più pacifici che avevano questo meccanismo di inibizione, probabilmente i primi hanno avuto un vantaggio, quelli che sapevano modulare le loro azioni riuscivano a rimanere in gruppo, quindi il tratto della moderazione è un tratto che si è stabilizzato come uno di quei tratti che ha consentito l’evoluzione dell’homo sapiens come una specie sociale. Quindi quello che è in gioco nei due casi sono risorse biologiche differenti con percorsi evolutivi differenti. Questo ci dice che laddove l’analisi concettuale di una mente concettuale poteva tendere a far collassare i due tipi di espiamento mentale uno sull’altro e mostrare come identici dal punto di vista delle conseguenze, quei due contesti diversi sono per i nostri cervelli molto più diversi di come ci appaiono in un’analisi concettuale, mettono in moto risorse cognitive differenti, e questo significa che noi facciamo incontrare la fisiologia morale con l’attività scientifica di ricerca empirica abbiamo quantomeno un arricchimento delle nostre capacità di conoscenza e di progredire nella nostra definizione di che cos’è la psicologia morale. Poi c’è la questione di che cosa ce ne facciamo una vota che abbiamo questa conoscenza, ad esempio un filosofo morale, ossia Singer, conseguenzialista, dice che cosa ci importa da un punto di vista normativo del fatto che nel nostro cervello in casi come questi succedono cose diverse’ l’etica normativa ha a che fare con il ragionamento, con la produzione di argomenti per la condotta che sono da un alto non strettamente vincolati a quelli che sono i nostri limiti biologici, dall’altro possiamo noi far condizionare il nostro avanzamento morale, cioè il fatto di fare cose moralmente giuste, a meccanismi cognitivi che si sono prodotti migliaia di anni fa in condizioni in cui noi non eravamo sottoposti a certe questioni, a certi contesti? Possiamo utilizzare risorse cognitive così obsolete per rispondere a problemi contemporanei? È lo stesso punto che sollevano i fautori del potenziamento morale, che dicono che oggi abbiamo problemi riguardo alla questione climatica che sono moto più grandi rispetto alle nostre capacità cognitive, se possiamo potenziare quindi facciamolo, l’etica normativa che non sottostà alle nostre capacità biologiche ci deve aiutare a superarle.

Al contrario non ce ne facciamo molto di un’argomentazione normativa che ignora completamente quella che è la conoscenza empirica della natura umana, perché se ci sono dei vincoli biologici, cognitivi, che noi abbiamo che rappresentano la natura dell’essere umano, la questione è che cosa ce ne facciamo di un’etica normativa che pretende dall’agente morale qualcosa che va aldilà delle sue capacità? la questione non è di pensare l’etica normativa come qualcosa che modella a suo piacimento la natura umana, ma pensare quali sono gli spazi d’azione in questi confini. Hume ad esempio sostiene l’idea di una natura umana che ha una sua struttura, una sua plasticità che si rileva sia da un punto di vista ontogenetico che filogenetico, ad esempio le risorse della simpatia sono risorse che possiamo trasformare nella nostra ontogenesi, possiamo trasformare i limiti della simpatia, per andare quindi su un piano filogenetico, e quindi su un processo di civilizzazione che trasforma la simpatia.

Quindi da un lato abbiamo:

  • Psicologia morale che può essere considerata come contigua, strettamente intrecciata con le scienze del vivente e le neuroscienze. La questione che si pone è chiedersi: in questo intreccio di filosofia e di scienza, di ricerca empirica scientifica che ruolo ha la filosofia? Il lavoro dell’analisi filosofica è un qualche tipo di sapere residuale, destinato ad essere mano mano eroso dall’avanzamento della scienza o ha una sua peculiarità che rimane sempre valida e non è puramente residuale?

L’alternativa razionalismo/sentimentalismo in metatetica, è qualcosa che possiamo aspettarci che risolverà in modo definitivo un giorno dandoci un modello della mente morale scientifico in cui la filosofia non ha da dire, ci diranno come funziona la mente morale senza che la filosofia si debba occupare di queste idee;

o forse supererà la concettualizzazione filosofica e l’opposizione razionalismo sentimentalismo è un’opposizione non valida perché non c’è possibilità di distinguere tra capacità razionali e sentimentali, e queste distinzioni concettuali diventeranno un concetto che è superato. Quindi la questione è questa: Se possiamo riservare una qualche peculiarità al lavoro filosofico in un orizzonte di naturalizzazione oppure se la filosofia è destinata ad essere un sapere residuale, eroso dalle scienze.

Se forse possiamo pensare a una erosione del dominio del lavoro filosofico sul campo della metaetica probabilmente la scienza tenderà ad erodere molto, ma la questione è che almeno in questa fase le ricerche scientifiche sul che cos’è il fenomeno della moralità non possono fare a meno delle analisi dell’etica. Così facendo approdiamo alla dimensione normativa dell’etica filosofica che resiste ad una naturalizzazione radicale che rende il lavoro dell’analisi filosofica obsoleta, resiste nella misura in cui assegniamo ancora un qualche tipo di autodeterminazione, in modo non completamente deterministico.

Le neuroscienze forse possono mettere in discussione l’esistenza, l’utilizzabilità, di nozioni tradizionali dell’etica come quella di carattere, infatti alcune posizioni affermano che la nozione di carattere sia precaria in quanto ognuno di noi in quanto soggetto morale ha predisposizioni, tratti sulla base dei quali agire, che vanno a costituire appunto il carattere.

Questa idea che in noi ci siano delle predisposizioni stabili ad agire è messa in discussione da quelle posizioni che hanno fatto alcuni esperimenti, e che hanno dimostrato che non ci sono dei tratti stabili nel nostro carattere che ci portano ad agire in una certa maniera (es. esperimento: le persone sentono profumo di cornetti e sono più predisposte ad aiutare il prossimo)

Quindi abbiamo due grossi capitoli da esaminare: quello della spiegazione del percorso evolutivo che ha portato l’homo sapiens a sviluppare una forma di socialità e quelle forme di comportamento sociale.

Quello di una spiegazione di quelle che sono le capacità morali che si sono evolute intese come capacità della psicologia morale, questi tipi di lavoro potrebbero non solo aggiornare, dare una nuova forma a concetti, idee dell’etica tradizionale come quella di carattere, ma in alcuni casi potrebbero spingere nella direzione di una loro eliminazione.

È una posizione eliminativista, posizione che ritiene che le nostre conoscenze scientifiche possano arrivare ad un punto tale di dettaglio di comprensione di un fenomeno in modo che questo fenomeno non possa essere più spiegato con i concetti usuali. Si può parlare di eliminativismo delle emozioni.

Quando parliamo di dimensione normativa ci stiamo riferendo a quell’ambito, a quella sotto branca dell’etica filosofica che va sotto il nome di etica normativa, ossia un’impresa filosofica che produce argomentazioni e giustificazioni per dare un contenuto a quelle nozioni come quelle di bene, buono, giusto.

Quindi laddove la metatetica si occupa di questioni formali, l’etica normativa gli vuole dare un contenuto: quindi da contenuto alle nozioni morali fondamentali, dando ragioni, argomenti a questi contenuti. Nel fare questo l’etica normativa che si pone nella forma di argomentazioni a sostegno di conclusioni che ci dicono cosa è buono giusto; questa impresa dell’etica filosofica. L’etica normativa è in continuità con l’esperienza morale ordinaria: quando pronunciamo un enunciato morale dobbiamo essere pronti a fornire delle giustificazioni, delle ragioni, e il fatto di dare giustificazioni, argomentare è un qualcosa proprio della vita ordinaria, ecco perché c’è questa continuità. L’etica filosofica produce idee di buono e giusto sostenendole con argomenti L’idea che l’esperienza morale, l’etica sia formalizzabile in forma teorica è stato oggetto di discussione. Williams, ad esempio, è stato un grande critico della pretesa teorica in etica: ossia l’idea che c’è qualcuno che elabora teoria normative e poi le trascrive in libri, e quindi le questioni fondamentali della nostra esperienza morale, e possano essere affrontate con questo approccio teorico. Questa critica può andare da una posizione anti-teorica (ossia la critica all’idea che si possa sistematizzare l’esperienza morale in pochi principi, ridurre l’esperienza morale a elementi fondamentali.

Un’altra critica è ad una pretesa ingegneristica, ossia l’idea che possiamo formalizzare la concezione del bene, del giusto, astraendo i pochi principi, modo astratto che dovrebbe essere applicato alla vita quotidiana in modo deduttivo: dai principi deduci norme per la condotta.

Quindi una critica anti-teorica dice che non si può ridurre l’esperienza morale a questo tipo di procedura.

Alcune idee dell’etica normativa sono ancora utili per descrivere l’esperienza morale degli esseri umani e i modi con cui possiamo giustificare le nostre idee morali e i modi in cui lavora la riflessività morale. Quindi per esempio la tripartizione classica dell’etica normativa (etica deontologica, delle virtù, conseguenzialista) mostra che c’è una mappatura, la quale ci dice che laddove parliamo di approcci dell’etica parliamo di concezioni che ritengono che le valutazioni della condotta morale riguardino l’adesione a principi.

L’approccio deontologico sostiene che la vita morale riguardi l’adesione a principi.

Questo tipo di etiche hanno un aggancio metafisico, hanno una natura assolutista in quanto ritengono che u principi della condotta morale sono dati una volta per tutte e sono stabiliti in modo inderogabile, perché una condotta o aderisce a un principio o non descrive (se il principio è non uccidere o lo fai o non lo fai)

Le etiche conseguenzialiste, tra cui c’è l’utilitarismo, è l’idea che la condotta morale abbia a che fare col valutare le conseguenze della propria condotta, ovvero che la condotta morale debba rivolgersi alle conseguenze che la condotta produce.

Laddove parliamo di conseguenze manca la definizione di che cos’è una conseguenza; il conseguenzialismo, aldilà di questa sua definizione generale, deve avere una teoria del valore, cioè un’idea di che cosa conta conseguenza, come conseguenza moralmente apprezzabile o non apprezzabile. Di fatto l’utilitarismo è una declinazione del conseguenzialismo con una migliore articolazione di come valutare le conseguenze e una teoria del valore, perché stabilisce l’idea che la condotta sociale moralmente apprezzabile è quella produce la maggiore utilità per il maggior numero di persone. Questa è una formulazione del guardare alle conseguenze, ma ancora manca la teoria del valore: che cos’è l’utilità? Bentham sosteneva che l’utilità coincideva col piacere e l’inutilità con la sofferenza. Quindi bisognava produrre il maggiore piacere per il maggior numero di persone.

Mill, allievo di Bentham, cambia un po’ la sua teoria facendo la distinzione tra piaceri qualitativi e quantitativi, che per Bentham erano intercambiali.

Quindi nel caso dell’utilitarismo abbiamo la definizione di che cos’è la conseguenza del valutare. Queste prospettive hanno delle grandi conseguenze sulla nostra condotta morale: se approcciamo al trolley problem con una prospettiva deontologica faremmo una distinzione tra azione e omissione, se invece lo approcciamo con una prospettiva consequenzialista non consideriamo azioni o omissioni in quanto dobbiamo valutare le conseguenze della nostra condotta, quindi non fa differenza se queste conseguenze siano frutto di un’azione o di un’omissione. Un filosofo utilitarista contemporaneo, Singer, sostiene il fatto che il fatto che in alcuni paesi non ci sono soldi, risorse, e noi li sperperiamo contribuiamo a quella povertà. Quindi vedendo alle conseguenze delle nostre azioni dovremmo comportarci in una certa maniera Williams e Rawls invece, critici dell’utilitarismo, Williams gli rimprovera di essere troppo esigente (lo fa con un esperimento, quello in cui c’è un turista che arriva in un villaggio in cui sono tenuti in ostaggio da una banda locale di 20 nativi, sembra che stia per fucilare gli ostaggi, ma arriva il turista e il capo della banda affascinato dal turista decide di fargli un omaggio ossia o spari a una di queste 20 persone le altre 19 siano libere, allora il turista si chiede se deve salvare le 19 persone e essere il responsabile dell’uccisione di un uomo oppure non fare niente e lasciare gli tutti e 20 vengano uccisi). Williams dice che una prospettiva utilitarista direbbe sicuramente di sparare perché non c’è paragone tra i due esiti, invece Williams dice che questa cosa non tiene conto di come siamo fatti noi essere umani, della realtà, e che la nostra vita morale non è solo dare seguito alle domande della moralità ma è fatta anche da una tensione a noi stessi, al fatto che non potremmo convivere con l’idea di aver ucciso qualcuno, per il fatto che è un’azione che non si integra con il nostro piano di vista, con il carattere che vogliamo sviluppare. Questo è il tipo di critica che muove Williams alle concezioni normative dell’etica e in particolare all’utilitarismo. La prospettiva di Williams potrebbe essere ricondotta al terzo modo di concettualizzare l’etica nel campo dell’etica normativa. Etica delle virtù: è il modello più antico di pensare la moralità, ossia pensare che l’etica non ha a che fare con regole criteri della condotta, ma ha a che fare con chi noi siamo, ha a che fare con il carattere che abbiamo. Ha a che fare con lo sviluppo e l’articolazione di una serie di tratti del carattere che sono disposizioni ad agire in un certo modo laddove si presentino determinate circostanze. Il punto è che il fuoco non è sulla condotta e sulle azioni ma su ciò che precede queste due cose, e quindi l’idea è non come faccio ad agire in modo giusto, ma come faccio ad essere una persona giusta, e in questo caso la differenza ha a che fare col fatto che un’etica della virtù non può prendere una forma teorica, ma la differenza ha che a che fare col fatto che il modo in cui si mette in atto una condotta virtuosa in virtù della formazione del carattere che si fonda nell’esperienza e non nell’apprendimento. Quindi io creo il mio carattere virtuoso, giusto attraverso l’esperienza, l’esercizio, vedendo la condotta di persone virtuose. È una concezione dell’agire non formalizzabile come le altre prospettive. Una questione fondamentale è quella del naturalismo, inteso come approccio metodologico alla filosofia che sarà la cornice metodologica a partire dalla quale verranno discusse le implicazioni del dialogo tra scienze del vivente e etica filosofica. De Caro mette in luce il naturalismo filosofico e etico analizzato con un approccio caratteristico della filosofia contemporanea perché è vero sì che ci sono forme di naturalismo nella filosofia classica, ma quello che intendiamo noi oggi per naturalismo è qualcosa di molto specifico che a che fare con l’evoluzione della filosofia e come esito di un modo di concepire la scienza. Per quanto riguarda il modo di intendere la scienza, noi la intendiamo in modo tale da creare una discontinuità tra naturalismo classico e contemporaneo; infatti, il naturalismo di Aristotele non è in diretta continuità con il naturalismo contemporaneo perché c’è una diversa idea di cosa è la natura, la scienza. Se c’è una continuità che possiamo rintracciare tra naturalismo contemporaneo e passato possiamo riscontrarla nelle forme di empirismo proprie della filosofia moderna, ad esempio nell’empirismo di Locke o Hume; quindi l’empirismo della filosofia moderna può essere concepito come un antecedente del naturalismo contemporaneo. In Hume possiamo ritrovare un antecedente importante anche in una concezione non limitata di un naturalismo strettamente scientifico ma liberalizzato, ossia che ritiene che la scienza non sia l’unico referente legittimo; questa cosa è evidente nel trattato sulla natura umana in cui descrive il suo lavoro sulla natura umana una cauta osservazione sulla natura umana, a dire che noi non possiamo importare i metodi delle scienze newtoniane nella natura umana perché non possiamo fare esperimenti sugli esseri umani ma solo osservarli, quindi lui da una importanza nel lavoro filosofico all’osservazione, aprendo alla possibilità che ci sia una rilevanza di termini, esperienze, comuni degli esseri umani nella loro vita. Una concezione di naturalismo liberalizzato non riduce le sue fonti alle scienze esatte ma ritiene che ci siano una serie di concetti che caratterizzano la nostra vita ordinaria e che non possono essere espunto solo in virtù del fatto che non sono trattabili dalle scienze, quindi c’è una rilevanza della vita ordinaria. Prima di tutto bisogna riconoscere il naturalismo nella sua natura di tesi meta-filosofica, ma cosa vuol dire? Che il naturalismo è una tesi meta-filosofica nella misura in cui ci dice come deve lavorare la filosofia e quali sono i suoi scopi. Questo ci aiuta a definire la questione del naturalismo differenziandola da un altro modo in cui si parla di naturalismo intendendolo come una posizione sostantiva sull’etica; forma di naturalismo etico sono posizioni che hanno un carattere di tipo descrittivistico, che ritengono che il bene, le proprietà morali sono qualcosa di naturale, che appartiene alla natura delle cose. In questo senso ci sono tentativi di elaborare il naturalismo etico in questo senso, pensare che ciò che ci dice l’evoluzione della natura umana ci porti ad elaborale una forma di naturalismo etico, ad esempio, di stampo aristotelico; queste forme di naturalismo etico cercano di radicarsi nella cornice darwiniana ma non appartengono al naturalismo metafilosofico .La tesi metafilosofica può essere caratterizzata come una tesi che esclude dall’orizzonte dell’indagine filosofica qualsiasi appello a forme di relata che non sono realtà. Il naturalismo contemporaneo ha una relazione privilegiata con una determinato tipo di esperienza che è quella scientifica. Seguendo l’articolazione di De Caro possiamo articolare il naturalismo scientifico come caratterizzato da tesi fondamentali, e questo e quello liberalizzato coincidono sulle prime due tesi ma sono in disaccordo sull’ultima: la tesi costitutiva è una tesi sul dominio della filosofica che non riterrà legittimo. Cosa fa questa tesi rispetto a queste entità? Può o eliminarle del tutto o tradurle. (es: anima). una questione riguarda il dominio del naturale, perché ci sono delle positoni di naturalismo scientifico che accettano come oggetto proprio della filosofia solo entità che sono sotto la lente della scienza, cioè se la scienza non è in rado di occuparsene non sono oggetto dell’impresa filosofica, e qui si apre una questione, quella di distinguere il naturalismo scientifico da quello liberalizzato perché se definiamo natura solo come ciò che viene studiato dalla scienza dovremmo escludere una serie di entità, ad esempio la nozione di mente: se siamo dei naturalisti scientifici radicali potrebbe essere qualcosa che può essere ridotto a qualcos’altro, come al cervello, un’entità materiale, osservabile, laddove la nozione di mente designa un’entità più ambigua perché la possiamo concepire in maniera naturalizzata, ossia ritenere che si potrebbe anche usare un altro termine invece di quello mente perché hai un elemento analizzabile che è il cervello e quindi si può escludere questo termine di mente. Nella tesi costitutiva del naturalismo c’è la questione aperta di cosa si intenda per natura, se è qualcosa solo osservabile dalle scienze, li possiamo aprire il campo a ulteriore ridefinizione di come denominare le entità che sono oggetto della ricerca scientifica, e quindi potremmo pensare che le scienze della mente vadano ridotte a quelle del cervello. La tesi anti-fondazionale: questa tesi richiama l’idea che noi non dobbiamo più pensare al ruolo della filosofica come quello di una filosofia prima, cioè l’idea che la filosofia ha un punto di vista esterno, specifico, e prioritario rispetto alla sincera naturale, cioè che la filosofa ha un campo dui osservazione degli scopi che sono non solo differenti da quelli delle scienze ma sono anche prioritari. (es: una filosofia che si interroghi sull’essere è una filosofia che ambisce ad essere una filosofia prima). Una posizione di naturalismo meta filosofico rifiuta questa idea di una filosofia che si occupa di cose che sono al di fuori della scienza. La tesi della continuità è la tesi su cui divergono naturalismo scientifico e attualismo liberalizzato. Questa tesi dice che la filosofia sarebbe una parte della scienza. Secondo i sostenitori del naturalismo scientifico in realtà la filosofia non ha nessuno spazio di autonomia rispetto alla scienza ma tutto ciò di cui parla la filosofia è qualcosa che è trattato o trattabile dalla scienza, quindi non c’è nessuno spazio libero per il lavoro dell’analisi della scienza filosofica perché per il naturalista scientifico tutto ciò di cui si occupa la filosofia è tutto ciò di cui si occupa la scienza e viceversa; al limite la filosofia può sistematizzare, dare un resoconto organico di ciò che le diverse pratiche scientifiche ci dicono, ma non ha un suo spazio di autonomia, il che non significa che laddove noi siamo dalla parte di un naturalismo liberalizzato allora la filosofia può crearsi spazi autonomi del tutto indipendenti dalla scienza. Anche nel naturalismo liberalizzato le scienze danno una serie di vincoli al lavoro filosofico, anche se viene concepito con una sua autonomia. Quindi la tesi del naturalismo liberalizzato è quella che non è accettabile una continuità radicale tra filosofia e scienza, si può mantenere una autonomia dell’analisi filosofica laddove noi imbocchiamo la strada del filosofo che parla per esperienze umane di seconda natura; nozioni come quelle di autonomia, normatività, non sono nozioni necessariamente soprannaturali, ma appartengono alla natura dell’essere umano che è un essere culturale. Abbiamo la possibilità di avere oggetti che sono analisi della ricerca filosofica rimanendo indipendenti dalle scienze ma soddisfacendo comunque qualche criterio di empiricità. Torniamo all’osservazione humiana, che è un’idea del modo di trattare l’esperienza umana vedendo gli esseri umani dal vivo, nel loro modo di vivere, ed è qualcosa che non è direttamente riducibile alla scienza, ma gli si affianca. Quindi se noi vogliamo avere una lettura di tipo evoluzionistico del fenomenico della moralità non significa, se adottiamo un approccio di naturalismo naturalizzato, che possiamo pensare che la cornice dell’evoluzionismo spieghi interamente il fenomeno della moralità, quello che può ambire a fare il dialogo fra analisi filosofica e evoluzionismo è fornire la spiegazione di alcuni fenomeni fondamentali, ad esempio la spiegazione del percorso evolutivo che ha portato a determinate condizioni di vita degli esseri umani, come si sono formati parte costitutive della mente morale, ma questo non esclude che a questa spiegazione si affianchi un lavoro dell’analisi filosofica che in modo autonomo, non direttamente riducibile alle scienze del vivente lavora sulle forme dell’esperienza morale umana. Quello che fa la collocazione dell’etica all’interno della cornice evoluzionista è stabile una serie di vincoli alle nostre spiegazioni filosofiche sull’etica, vincoli che ad esempio avranno delle ricadute sulle nozioni sulle quali la filosofia ha iniziato a lavorare in modo autonomo ma che non possono contraddire le informazioni sugli esseri umani. Quindi dovremmo tagliare fuori qualsiasi idea forte, assolutistica di oggettività in etica nella cornice dell’evoluzionismo darwiniano perché se ricostruiamo il fenomeno della moralità all’interno della cornice evoluzionista dalla cornice evoluzionista non possiamo scappare in virtù di caratteristiche fondamentali dell’evoluzione biologica, in primis la dimensione di storicità e contingenza che impone dei vincoli alle nozioni dell’etica. Non riusciamo a rendere compatibile l’idea che la moralità sia fatta di verità assolute con l’idea che chi quelle verità dovrebbe conoscerle e agire conseguentemente, cioè l’uomo, sia il prodotto di un’evoluzione storica contingente che non abbia una meta pre-determinata, o pensiamo che l’evoluzione sia stata una fortuna, perché è andata come doveva andare. Collocare l’etica in una Cornice evoluzionistica non significa ridurre l’etica all’evoluzionismo Quando si è letto Darwin in chiave etico-politica si è fatto l’errore di pensare che la spiegazione evoluzionistica potesse essere una bussola per costruire nozioni normative. Anche se la frase biologizzare l’etica è forte, in realtà nella cornice del naturalismo liberalizzato non esaurisce lo spazio proprio della riflessione filosofica. Qui dobbiamo problematizzare la questione perché il legame tra etica e scienze del vivente non è solo di tipo teorico, ma è anche di tipo teorico, ovvero l’intreccio tra etica e scienze del vivente è qualcosa che nasce con Darwin stesso e un minimo di approfondimento delle vicende di questo intreccio è di aiuto per un lavoro di tipo teorico che faremo perché alcuni modi in cui si è determinata, già da Darwin stesso, discutere questi modi ci dicono qualcosa sul modo in cui oggi possiamo mettere in relazione etica e scienza del vivente. Prima di fare questo bisogna richiamare alcune idee darwiniane, anche perché la rivoluzione scientifica darwiniana è una rivoluzione che Darwin produce non solo come esito di una devozione incondizionata alla scienza, ma è qualcosa che si produce anche da fattori extra scientifici, cioè quello che fa Darwin, lo sguardo di Darwin sul vivente non è solo il prodotto di un’applicazione rigorosissima e brillante di un metodo scientifico puro e incontaminato, ama è l’esito anche di chi Darwin era, e di quale fossero i suoi interessi, al sua idea del mondo anche in termini extra scientifici. L’idea che nella scienza non ci siano elementi extra scientifici, che non ci sia altro che un incondizionato lavorare e desiderare una concezione oggettiva del mondo, questa idea convive con l’idea che la scienza ha una dimensione sociale, valoriale. Una delle acquisizioni della filosofia e delle scienze sociale è una ricostruzione della dimensione sociale della scienza, che significa riconoscere la dimensione sociale e valoriale di quello che la scienza fa concretamente. In realtà in Darwin questo intreccio c’è, e rende anche conto del perché in qualche modo la rivoluzione scientifica darwiniana è immediatamente esondata al di fuori dell’ambito scientifico. Per capire questo intreccio può essere utile richiamare alcuni elementi della biografia di Darwin. Egli inizia la sua carriera di scienziato viaggiando. Nasce come destinato agli studi di medicina, quindi va a studiarla ad Edimburgo e non riesce a farsi piacere questi studi, primo perché sin da bambino coltivava una passione naturalistica, amava stare nella natura, guardare piante, animali, classificarli, collezionava coleotteri. Alla fine convince il padre a abbandonare medicina, quindi lo manda a Cambridge per diventare un religioso, fa studi teologici, ma anche qui affianca a questi studi quelli naturalistici, geologici; quando si laurea gli si presenta l’occasione della vita perché una amico viene a sapere che il brigantino, una tipologia di nave, stava per salpare per ka sua seconda crociera intorno al mondo, era una nave in cui fare rilevamenti cartografici, quindi il suo programma era vare il viaggio, circumnavigare l’America, toccare le indie, le Mauritius, sud africa e tornare in sud America per risalire fino nel regno unito. Il capitano della nave cerva qualcuno che lo accompagnasse, quindi Darwin fa un colloquio con lui, e il capitano era molto indeciso, era un seguace delle teorie fisiognomiche e quindi secondo cui la conformazione del cranio, del viso fossero caratteristiche del carattere delle persone, e vede in Darwin qualcosa che non gli piace, il suo naso che era indicativo di una debolezza del carattere, poco adatto alla durezza della vita in mare, alla fine però lo accetta. Darwin però deve convincere il padre, che alla fine cede e lo lascia partire per il suo viaggio intorno al mondo con la speranza che poi rinsavisca. Darwin in questo viaggio non era ufficialmente il naturalista, ma lo diventa perché comincia a raccogliere informazioni e a mandarle in patria, comincia ad essere accreditato come scienziato. Nel suo viaggio osserva molte cose, ad esempio specie e conformazioni geologiche che non erano visibili in Inghilterra. Darwin è l’erede di una famiglia di anti-schiavisti. Erasmus Darwin, nonno di Charles Darwin, era uno che aveva ottenuto l’abolizione della schiavitù. Quindi cresce una cultura anti schiavista e quindi porta con sé in questo viaggio uno sguardo diverso da quello di molti naturalisti, scienziati, cioè uno sguardo che più che guardare alle differenze guarda alle somiglianze. L’intuizione di Darwin nasce da un’attenzione delle somigliane anatomiche tra i viventi che introducono in cui l’idea dell’origine comune, l’idea che tutti i diventi si differenzino a partire dall’origine. Quindi in Darwin c’è uno sguardo particolare alle differenze che non è solo il frutto di un interesse scientifico, ma di principi extra scientifici che hanno a che fare con un modo di vedere il mondo; queste questioni si intrecciano perché Darwin stesso si impegna nella configurazione di quello che era uno degli argomenti a sostengo della pratica della schiavitù, ossia il razzismo scientifico che sosteneva differenze fondamentali tra umano bianco europeo e umano nero africano, differenze che arrivavano a sostenere l’appartenenza a due specie differenti che legittimavano le priorità., la legittimità della schiavitù. Darwin usa parte della sua vita scientifica anche per la confutazione del razzismo scientifico. Quindi il viaggio di Darwin è un viaggio scientifico ma anche di formazione, di esperienza morale che fa Darwin. Ad esempio lui non conosceva la schiavitù in prima persona, ma la vede in sud America e ne rimane inorridito. Darwin fa conosce con esseri umani che vivevano in condizioni che erano agli antipodi della condizione di vita dell’Inghilterra che aveva sperimentato fino a qual momento. Fa esperienza della varietà delle forme della vita umana. Quindi il viaggio di Darwin non è un viaggio in cui fa solo osservazioni scientifiche, ma in cui si intrecciano questioni morali e scientifiche, e un modo esemplare testimonia che è difficile pensare alla scienza come una pratica stratta, neutrale, che quindi l’immagine che costruisce della scienza è un’immagine eccessivamente astratta, non compatibile con la realtà di che cos’è la scienza nelle sue pratiche. Rientra dal viaggio, sbarca in Inghilterra, e qui ha già una fama come scienziato, quindi la carriera di religiosa tramonta e si può dedicare alla scienza, e si dedica alla scienza interrogandosi su quello che è il problema centrale delle scienze del vivente della sua epoca, che poi da il titolo alla sua opera fondamentale: “l’origine delle specie”. Le specie viventi nella loro varietà, da dove derivano? sono sempre state cosi o cambiano? La questione della trasformazione delle specie si pone prima di Darwin, si pone nel momento in cui si osserva grazie alla scoperta dei fossili che si trovano negli stati geologici della terra forme di vita simili a quelle oggi esistenti ma non identiche, e che non si trovano più in vita, da dove venivano? Perché non ci sono più? Se Dio ha creato il modo una volta per tutte, che è la tesi creazionista, come rendiamo conto di quei fossili? Scoperta dei fossili che affianca un’altra scienza che fiorisce ai tempi di Darwin, la geologia, che mostra strati della superficie terrestre, c’è una dimensione storica che emerge empiricamente nella vita della terra e nella storia. Qualcuno ci prova e dice che i fossili sono la prova del diluvio, ma qualcuno nota che ci sono più strati di fossili, quindi ci sarebbero dovuti essere più diluvi. Qualcuno ha avuto poi un’intuizione, ossia il fatto che quelle cose li ce le ha messi Dio per metterci alla prova. Aldilà di queste spiegazioni si inizia a discutere sulle origini delle specie e inizia ad affacciarsi la nozione di evoluzione, ossia l’idea che le specie cambino nel corso del tempo e che quindi non ci sia stata una creazione una volta per tutte, ma quale che ne sia l’origine i viventi cambiano, mutano. L’evoluzionismo comincia a raccogliere dei sostenitori che devono affrontare un problema: se le specie mutano, che cos’è che ne causa la trasformazione? Lamarck sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti (es: la giraffa per cercare di arrivare alle foglie alte trasmette questa caratteristica alla prole) quindi per Lamarck le specie cambiano per un’esperienza di vita e queste trasformazioni vengono tramandate alle specie successive. Darwin interrogandosi sulla questione delle origini delle specie legge Malthus che dice che c’è un problema di compatibilità fra la crescita della popolazione che cresce in modo esponenziale, con la crescita delle risorse disponili; quindi le risorse disponili per sfamare la popolazione non possono crescere in modo omogeneo come ci si aspetta che cresca la popolazione. Darwin legge Malthus e ha un’intuizione: la popolazione non accede alle risorse in modo uguale, ma ci sono delle differenze nelle capacità di sopravvivenza degli individui determinate dalle caratteristiche fisiche, comportamentali. Che cosa significa la differenza nella capacità di sopravvivenza? Significa la capacità di riprodursi di più, il carattere vantaggioso viene trasmesso alla generazione successiva e stabilizzato e così via le specie si differenziano perché individui che discendono da un antenato comune diventano così diversi da non poter più riprodursi (es. isolamento territoriale). Darwin non conosceva la genetica, però arrivò a dire che le variazioni erano frutto del caso: la variazione è il prodotto di due meccanismi, la variazione casuale che produce caratteristiche che portano a risultati diversi per la sopravvivenza; quindi, danno luogo a differenti risultati riproduttivi. La teoria di Darwin secondo Mail è un insieme di 5 teorie: L’affermazione dell’evoluzione di per sé cioè l’essere umano si trasforma. La selezione naturale come quel meccanismo che chi è più adatto nelle circostanze ambientali ha una capacità di sopravvivenza maggiore e quindi una possibilità maggiore di tramettere i caratteri. Anche la differenziazione è un meccanismo contingente perché le circostanze ambientali sono casuali. Moltiplicazione delle specie ossia le specie tendono a moltiplicarsi. Origine comune: tutte queste specie provengono da un unico antenato che differenziandosi ha prodotto tutte le specie. Il gradualismo : questi mutamenti avvengono in modo graduale, non per cambianti improvvisi, per un lento accumulo. Queste idee che sviluppa nel corso di molti anni. Un giorno riceve una lettera di un giovane scienziato, Wallace, che durante un soggiorno di esplorazione ha un’intuizione che mette in un manoscritto, e questa intuizione è identica a quella di Darwin, ossia quella della selezione naturale, ma Darwin ha esitato molti anni a pubblicare l’origine della specie, quindi ci mette tanto a convincersi per divulgare le sue idee. Quindi quando arriva la lettera di Wallace gli amici gli dicono che bisognava trovare una soluzione, alla fine trovano un accordo e Wallace fa una dichiarazione pubblica, ossia riconosce il primato di queste idee a Darwin. Quando esce “l’origine delle specie” è una cosa ben fatta perché l’immagine del vivente che esce dalla teoria di Darwin non è solo incompatibile con le idee presenti nel senso comune, nella scienza, nella filosofia, ma è una spiegazione incompatibile con il creazionismo, è una spiegazione, cioè spiega in modo alternativo e supportato da prove qualcosa che solo il creazionismo sembrava poter spiegare, perché il creazionismo si sostiene in base all’argomento del disegno, che dice: immaginiamo di camminare in un deserto, se incontriamo un sasso non ci chiediamo chi l’ha messo lì, ma se dovessimo incontrare un orologio penseremmo che qualcuno l’abbia lasciato li, che qualcuno l’abbia costruito, cioè per induzione partiremo da un orologio per concludere che c’è un orologiaio, e come per l’orologio possiamo fare lo stesso per il vivente: guardate quanto siamo ben funzionanti, siamo come ingranaggi di un orologio, ci deve essere qualcuno che li ha fatti; quindi dal vivente, dalle sue funzioni, concludiamo l’esistenza di un autore della natura, di qualcuno che ha fatto la natura e l’ha fatta con un progetto.

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Dai PROLEGOMENI DI OGNI METAFISICA FUTURA al confronto con Hume

Breve analisi argomentativa
Beatrice Fratini

Kant nell’ opera del 1783 “Prolegomeni di ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienzasostiene di aver risposto a Hume. Il rapporto tra i due è sempre oggetto di studio della filosofia, lo stesso Hegel nelle lezioni di storia della filosofia afferma che Kant ha lasciato troppo spazio all’empirico. Engels sostenne che Kant e Hume fossero entrambi scettici (agnostici) un giudizio ripreso anche da Lenin e dalla tradizione marxista. La tradizione più scientificamente elevata è quella che ha avuto inizio con gli anni 70 del 1800 attraverso quel fenomeno noto come neo-kantismo in Germania. In molti si occuperanno di questa risposta di Kant a Hume e possiamo individuare tre posizioni:

  • intorno agli anni ‘90 del 1700 Schulz sostenne che la risposta di Kant a Hume sul principio di causalità fosse una petizione di principio. Kant aveva sostenuto di aver dedotto la realtà oggettiva degli oggetti puri dell’intelletto, ma questa era stata portata a termine a partire dal presupposto che l’esperienza sia reale. La posizione di questi primi interpreti è quindi che Kant abbia voluto dimostrare contro Hume che la relazione di causa ha realtà oggettiva ma l’ha fatto affermando a priori la realtà esperienziale rendendo la sua una soluzione solo analitica, data già dalle premesse;
  • Kant non ha risposto a Hume perché i presupposti dei due sistemi filosofici sono troppo diversi;
  • Per Guyer Kant non avrebbe risposto a Hume perché quest’ultimo ha posto due questioni diverse nel Trattato e nella Ricerca Sull’intelletto Umano. Nel primo Hume dubita del principio generale di causalità per cui ogni mutamento ha bisogno di una causa; nella ricerca Hume si limita a dubitare della necessità delle leggi determinate e concrete. Nella Critica della Ragion Pura Kant dimostra soltanto il principio generale di causalità ma non risolve il problema della necessità o contingenza delle leggi empiriche. Kant ammetterebbe nella terza critica la contingenza delle leggi determinate ed empiriche. Il concetto del rapporto di causa ed effetto appare nell’opera di Kant come categoria dell’intelletto, concetti puri, questi sono 12. Ci sono una serie di questioni da porre in merito al rapporto tra questi due filosofi: la prima questione da porre è scoprire cosa il primo ha letto del secondo, in seguito bisogna chiedersi cosa lo abbia colpito di queste (Hume è citato una decina di volte nella seconda edizione della critica della Ragion Pura), quale sia la domanda a cui Kant risponde e come lo faccia, in ultimo dovremmo comprendere quale sia la risposta a tale domanda. Kant nasce nel 1724 a Königsberg, in base a ciò che possibilità aveva Kant di leggere le opere di Hume? Quando sono state pubblicate? nel 39 Hume pubblica il Trattato sulla Natura Umana e nel 49 pubblica la Ricerca sull’Intelletto umano; sempre in quel periodo Kant pubblica il suo primo libro, una disquisizione sui concetti fisici. Tra il 52 e il 54 la Ricerca Sull’intelletto Umano viene tradotta nel contesto di una pubblicazione di diversi scritti di Hume e pubblicata anche in tedesco diffondendosi molto in Germania. La posizione oggi ritenuta più verosimile è che Kant deve aver letto la ricerca in questa traduzione tra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60. Il primo documento che attesti una correlazione tra Kant e Hume lo troviamo in una lettera indirizzata ad Hermann per convincerlo, per mano di terzi, a riabbracciare l’illuminismo. Kant si dimostrò deciso a leggere Hume grazie all’incontro con George Hermann, il padre dello Sturm und Drang: quest’ultimo utilizzerà gli argomenti di Hume per difendere una posizione ribaltata, per salvare uno spazio alla fede.

Nel 1762 e 63 vengono pubblicate da Kant due opere che contengono dei temi di ispirazione humiana: “L’unica Dimostrazione Dell’esistenza Di Dio” e “L’unico Tentativo Per Inserire Nella Filosofia Le Quantità Negative”. Nel primo nega l’esistenza di dimostrazioni di Dio che funzionino e sposta quindi il tema sull’unico argomento che risulta efficace. Quest’ultimo ha origine dalla Monadologia di Leibniz, dove viene sostenuto che il possibile, i concetti di cose, non contengono tra i loro predicati quello di esistenza perché l’esistenza non è un predicato. L’esistere è la posizione assoluta della rappresentazione, dunque il possibile esige che il materiale che si mette in rapporto siano predicati derivanti da altro da sé il principio di non contradizione distingue i possibili dai non possibili, ma non li fornisce. Se non esistesse nulla, nulla sarebbe possibile perché sennò non avremmo nessun materiale da giudicare secondo il principio di non contraddizione. Il non esistere nulla per Kant è contradditorio in senso materiale, non formale: non può non esistere nulla, per quanto non contradditorio, perché non esistendo nulla non ci sarebbero predicato e nulla sarebbe possibile. In “L’unico Tentativo Per Inserire Nella Filosofia Le Quantità Negative” Kant vuole distinguere il concetto di contraddizione reale da quello formale. Kant pensa a due forze in direzione opposta che sommando i vettori diano risultato zero, tenta di introdurre e rappresentare questo tipo di rapporto come contraddizione reale. Nella Annotazione Generale dell’opera fa diretto riferimento a Hume. Nel 1770 Kant pubblica l’opera per la cattedra universitaria, Beattie nello stesso anno scrive un opera di critica al Trattato sulla Natura umana di Hume, questa è un’altra fonte che Kant avrebbe potuto usare per conoscere l’opera di Hume. Karl Groos pubblica un articolo intitolato “Kant ha letto il Trattato?” concludendo negativamente a causa di due ostacoli: Kant non parlava inglese e l’opera non è mai stata tradotta in tedesco; secondo Kant il modello di verità della matematica di Hume è il principio di contraddizione e dunque rientri nei giudizi analitici tutto ciò, una tesi non evidente nel Trattato, quanto nelle Ricerche, opera tradotta in tedesco.

Quali delle due letture ha risvegliato “Kant dal sonno dogmatico”? Ci sono due buoni argomenti in favore del Trattato, che Kant avrebbe conosciuto grazie alle citazioni presenti nella critica di Beattie:

  • tra le citazioni di Beattie troviamo argomenti contro l’unità e la semplicità dell’identità personale dell’io che ritroviamo nella Critica Della Ragion Pura e che sono assenti nelle Ricerche;
  • il principio generale di causalità non viene messo in discussione nelle ricerche mentre nel Trattato è evidente, affermando che il principio generale di causalità non sussiste.

Non risulta tuttavia chiara la necessità di scegliere tra i due testi, nulla esclude che la lettura di Hume sia stata tanto rilevante a fine anni 50 quanto a inizio 70. Kant nell’Annotazione Generale affermava di capire il rapporto tra fondamento e conseguenza quando vi è una parte identica tra i due, ma in caso contrario, se il concetto di conseguenza non è contenuta in quello di fondamento, si esige un principio altro. Nella lettera ad Hermann propone una prima bozza della Critica Della Ragion Pura. Kant afferma di aver colto come il vero problema sia quello del rapporto tra rappresentazione e oggetto, se la prima è prodotta dalla seconda il problema è risolto, ma sorgono dei dubbi nel momento in cui riesco a cogliere questo rapporto anche se è la rappresentazione a produrre l’oggetto. Non è affatto chiaro come agiscano i concetti puri dell’intelletto che devono appartenere alla nostra interiorità e non sono scoperti nell’esperienza. Il principio di causalità non è qualcosa di puramente empirico. Nessuna delle due opzioni sopracitate sembrano funzionare. Kant ha quindi sicuramente letto la Ricerca e una serie di passaggi nel Trattato; chiedersi cosa sia più importante per lui equivale a chiedersi quale sia la domanda a cui Kant risponde. La domanda a cui Kant risponde non può essere cercata nel testo di Hume, ma deve essere Kant a dircela, solo dopo possiamo analizzare se questa sia una effettiva tesi humiana o meno. Quale sia la domanda Kant lo afferma chiaramente nella prefazione dei Prolegomeni pubblicati nel 83 (l’opera serviva a chiarire e correggere alcuni passaggi della prima critica il modo di esprimersi della critica della ragion pura era oscura e usa l’opera come scusa per correggere alcune parti dell’opera). Kant cita nell’opera Hume affermando che questo partì da un unico e importante concetto metafisico, quello della connessione di causa ed effetto,che per Kant non può derivare dal principio di identità. Secondo Kant il punto di Hume è che il rapporto causa-effetto non può essere pensato a priori ed è frutto di un errore empirico. Qui Kant continua sviluppando un altro punto, afferma di aver risolto il problema: Hume pensa che il concetto di causa sia tratto dall’esperienza e Kant ha scoperto che lo stesso problema si pone per le 12 categorie dell’intelletto e nega che questi non possano essere pensati a priori.

La domanda a cui Kant risponde quindi è: qual è l’origine del concetto di causa? Secondo Hume si può pensare e comprendere gli oggetti solo attraverso l’esperienza, per questo un’idea come la relazione di causa ed effetto non può essere tra questi, ma solo teorizzata dall’intelletto; Kant è d’accordo con quanto dice Hume sull’esperienza ma allo stesso tempo sembra trovare un “nuovo” modo d’intendere la realtà e gli oggetti che la costituiscono, ovvero i concetti puri dell’intelletto, le quali sono idee a priori, come ad esempio la relazione causa-effetto.

Kant una volta dedotta la realtà oggettiva delle 12 categorie della tavola dei giudizi, ovvero la loro realtà in quanto concetti dotati di un significato teoretico-conoscitivo, ritiene che si possa formulare una dottrina del pensiero puro, ovvero una che ha come oggetto la connessioni delle categorie al concetto di esperienza possibile. Per Kant la logica generale è una scienza che astrae dal contenuto delle rappresentazioni e riguarda soltanto la loro forma. Kant ritiene che sia possibile parlare di una logica formale pura che riguardi la sola forma del pensiero. Questa viene associata da al principio di contraddizione. Di contro all’eredità che dipendono dal principio di contraddizione, nelle pagine iniziali della Logica generale Kant si chiede se ci sia un principio formale della verità, uno che determini la validità della sintesi questo deve essere generale, applicabile in ogni caso, tenendo comunque in considerazione l’oggetto (particolare) di tali rappresentazioni; per Kant tale principio però è impossibile, questo dovrebbe essere valido in ogni caso tenendo in considerazione la particolarità del singolo oggetto; come può esserci una regola generale ad essere valida per oggetti diversi tra loro e il loro modo di relazionarsi? Il principio di contraddizione è una conditio sine qua non della pensabilità e della verità, tuttavia è una condizione necessaria e non sufficiente; essa inoltre è estremamente generale, il che permette di pensare anche concetti vuoti, privi di ciascun oggetto. Servirebbe un principio che quanto meno garantisca il rapporto della rappresentazione con un oggetto in particolare. L’idea di Kant è che l’insieme dei principi dell’intelletto puro indichino i confini dell’esperienza possibile e che questa sia la condizione necessaria, ma non sufficiente, della verità nei limiti in cui la rappresentazione ha un oggetto anche solo possibile. La rappresentazione deve avere qualche realtà, ergo rivolgersi al possibile. Nella deduzione trascendentale Kant operava un analogia con i giuristi parlando della dimostrazione della legittimità di un diritto su una certa proprietà. Kant chiama i concetti privi di questo diritto, che non dimostrano la legittimità delle loro pretese, concetti usurpati, fa gli es. di fortuna e destino. Se un concetto si riferisce ad un oggetto di cui non possiamo fare esperienza allora è vuoto. L’idea di Kant è che le rappresentazioni che esprimiamo a parole, i concetti: o si riferiscono a oggetti di cui si può fare esperienza o sono illusioni (secondo questo principio la stragrande maggioranza dei concetti sono a rischio). I concetti acquisiscono giustificazione per il fatto che essi rappresentano cose che poi conosciamo meglio con la scienza. Le categorie sono coinvolte in tutti quanti i principi, ciò che caratterizza questi ultimi è il loro essere giudizi, non semplici concetti, e attraverso questi noi possediamo un criterio di verità dell’esperienza ciò che ci occorre è un criterio necessario ma non sufficiente per la verità. In questo modo ci si arma di un criterio negativo ma molto più ristretto di quello di contradizione, perché tanti concetti che esso ammette cadono. Le categorie ci forniscono un criterio di verità dell’esperienza, un criterio necessario e non sufficiente per la verità, così tanti concetti che il principio di contraddizione non ammette cadono e perdono riferimento ad ogni oggetto (Dio, libertà, anima, etc.).Le categorie sono divise in quattro gruppi, ognuno dei quali è formato da tre giudizi: quantità, qualità, relazione e modalità. I principi seguono lo stesso ordine e sono gli assiomi dell’intuizione per la quantità a riguardare la possibilità di concepire tutti gli oggetti di cui facciamo esperienza come matematizzabili. Il principio degli assiomi dell’intuizione è che tutti i fenomeni sono quantità estensive. Gli assiomi ci permettono di produrre la conoscenza che i fenomeni sono matematizzabili per quanto riguarda la loro estensione. Ci sono due tipi di categorie: matematiche e dinamiche, i primi costitutivi e i secondi regolativi. Gli assiomi sono un principio matematico e costitutivo, questi presiedono alla matematizzazione di un altro aspetto della realtà, quale la possibilità di rappresentare l’intensità o grado della sensazione. Es. per misurare il grado di realtà del calore lo immaginiamo attraverso l’estensione. L’idea di Kant nella Critica della ragion Pura è che non ci siano problemi nella matematizzazione della realtà perché lo spazio geometrico e quello fisico sono la stessa cosa, non si pone il problema della divisibilità all’infinito, sono sempre forme pure dello spazio. Seguono le analogie dell’esperienza, queste sono tre: relazione ovvero sostanza o accidente, causa ed effetto e comunanza. Nella prima analogia Kant dice che tutti i fenomeni nella successione temporale sono solo mutamenti della sostanza, che di per sé è permanente per rappresentare il mutamento serve un sostrato permanente (stesso problema di Aristotele). Le successioni temporali sono modificazioni di accidenti, ergo determinazioni della sostanza, quindi i modi in cui questa (la sostanza) esiste.La seconda parte della Logica Trascendentale è la Dialettica dove discute il terzo dei fatti premessi nella Critica della Ragion pura, ovvero che abbiamo un predisposizione a voler conoscere oggetti metafisici, oggetti che esulano dall’esperienza.L’idea di Kant è che la nostra facoltà razionale, la ragione, nella misura in cui si riferisce agli oggetti dell’esperienza produce concetti e la chiamiamo intelletto; laddove non riesce essa è ragione e si riferisce alle idee (intelletto–> concetti =/= ragione–> idee). Le categorie altro non sono che concetti puri, queste non sono limitate dalle forme della sensibilità, quindi potremmo usarle per conoscere oggetti fuori dallo spazio-tempo (spazio-tempo sono intuizioni aprioripassive; le 12 categorie sono concetti puri dell’intelletto attive). L’idea di Kant è che essendo questi concetti puri ed essendo la facoltà razionale una che cerca i massimi principi per stabilire una spiegazione sistematica del tutto, allora nostra facoltà razionale è una che tenta di stabilire i primi principi delle nostre rappresentazioni, quindi di procedere verso l’incondizionato. Avendo noi questi concetti puri e apriori la tentazione è quella di sfociare in una dialettica trascendentale e, di conseguenza, l’illuderci che questa possa “discutere” (quando la ragione esula dall’esperienza entriamo in una dialettica tra tesi ed antitesi senza che si possa raggiungere una sintesi, questa è trascendentale perché apriori); perché? L’idea di Kant è che questi concetti che rappresentavano i fondamenti della metafisica siano senza alcun oggetto, ergo nell’uso teoretico della ragione non conosciamo nulla da ciò si conclude che non c’è un uso teoretico della ragione.Le idee di Dio, mondo ed Anima per Kant svolgono un ruolo sul piano pratico e morale: la ragione pura è di per sé pratica, non c’è un suo uso teoretico il concetto di incondizionato non ha alcun valore teoretico; tuttavia lo ha sul piano pratico. Kant nell’introduzione della Critica della Ragion Pura afferma che il prodotto della sua disanima della ragione è un organon dello strumento conoscitivo (quanto da lui effettuato è quindi una terapeutica per il processo teoretico-pratico) e tale analisi può portare solo a due conclusioni: affermare la possibilità di uso della ragione a livello teoretico o, in caso contrario, concludere con l’esposizione dei limiti della ragione, tutto ciò che non può fare. In questo secondo caso ci fornirà una disciplina di utilizzo a livello pratico della ragione ed esporrà questa disciplina nel suo uso polemico. Secondo Kant non è vero che non sappiamo se Dio esista o meno: la posizione del soggetto kantiano rispetto a una proposizione di questo tipo non è di incertezza, ma di assoluta certezza dell’inconsistenza dell’oggetto della contesa. La contesa viene meno perché non possiamo rappresentarci l’oggetto di questa ( gli oggetti della metafisica, es. Dio, verranno recuperati sul piano pratico, una volta negati su quello conoscitivo, attraverso la seconda critica).

Kant nella discussione sull’uso polemico della ragione torna a Hume e dice che quest’ultimo è stato uno scettico, un promotore delle antitesi nello scontro tra proposizioni dogmatiche, ergo a negare le richieste e pretese della ragione (di raggiungere il soprasensibile). Hume ha confuso:

  • dalla contingenza della nostra determinazione secondo la legge alla contingenza della legge stessa;
  • e ha confuso il passaggio dalla conoscenza della cosa all’esperienza possibile, un passaggio che accade a priori, con la sintesi della conoscenza delle cose reali.

Non è affatto ovvio che ci sia qualcosa di disponibile simile all’esperienza possibile, questa è più del mero possibile in quanto oggettivo, ma meno dell’esperienza reale, quella attuale. L’idea di Kant è che i concetti dell’intelletto siano deducibili sulla base della possibilità dell’esperienza, ma quest’ultima è inferiore alla realtà dell’esperienza in mezzo a queste due c’è una pluralità di sintesi empiriche. A parte questi principi puri dell’intelletto e le sintesi regolate da questi, tutto il resto è semplicemente contingente? Kant nel suo argomentare mostra che queste idee della ragione, queste rappresentazioni di una totalità, a qualcosa servono: hanno un uso regolativo, perché dirigono l’intelletto ad un certo scopo in vista di cui le linee direttive delle sue regole coincidono verso un unico fine, il quale pur essendo solo un idea focus imaginarius. Fungono da punto, da cui i concetti puri dell’intelletto non provengono realmente, ma forniscono ai concetti dell’intelletto massima unità ed estensione, ovvero permettono di usare le regole che l’intelletto fornisce a priori nella quantità maggiore possibile di casi. Questa fa nascere in noi l’illusione che le linee partano da un oggetto che si trova al di fuori del campo di una possibile conoscenza empirica, tuttavia è a sua volta necessaria se oltre gli oggetti che abbiamo di fronte vogliamo spingere l’intelletto oltre ogni oggetto dato. L’idea di Kant è che il concetto della totalità e unità sistematica di tutte le nostre rappresentazioni non è un concetto ma un idea utile a raggiungere il massimo grado di estensione ai concetti puri dell’intelletto. Kant in queste pagine oscilla tra l’ammissione della natura meramente ipotetica e soggettiva di questa rappresentazione e l’ammissione della necessità che questa idea postuli l’unità completa della conoscenza dell’intelletto, ergo che postuli la realtà del suo oggetto. Siamo di fronte all’idea dell’unità sistematica della natura della quale: non si può dare deduzione; e d’altra parte la possibilità di conoscere la natura vera non c’è. La ragione ha l’abilità di dedurre il particolare dall’universale, dal concetto gli oggetti, ovvero una rappresentazione di un intuizione (es. dal concetto di cane in genere i singoli cani particolari che troviamo nella realtà). Qui ad essere in gioco è il rapporto tra intelletto e intuizione che nel caso dei principi dell’intelletto puro è necessario e in tutti gli altri casi no. Se l’universale è già dato si ritiene che il giudizio sussuma il particolare al primo, ovvero porre il particolare come uno degli oggetto sotto l’universale. L’universale potrebbe anche non essere già dato, ma solo ipotizzato ed è dunque una semplice idea in questo caso il particolare è certo e l’universalità della regola resta in dubbio e si pone il problema dell’induzione, ovvero quello di inventarsi un universale che spieghi un insieme di cose; Es. La nostra classificazione del vivente, una collezione di singoli oggetti sotto a generi sempre più grandi, questo è un caso di applicazione di questo uso problematico della ragione. Ho dei particolari ma non dei concetti a priori, sono nel mondo reale ed ho bisogno di sintetizzare le note sensibili per rappresentare questo mondo. La nostra esperienza è oggettiva, è di oggetti, ciò significa che l’esperienza che noi facciamo è tutta frutto dell’accordo di una facoltà spontanea e una recettiva, intelletto e intuizione, un incontro contingente il più delle volte; vi sono due usi possibili della ragione:

  • un uso apodittico della ragione dove l’universale è dato e non serve altro che un giudizio che sussuma;
  • e un uso ipotetico quando l’universale non è dato va inventato.

L’idea dell’unità sistematica della natura non è destinata come problema solo all’uso ipotetico ma pretende una realtà oggettiva, “non si capisce come possa esserci un principio logico dell’unità razionale delle regole se non si presuppone un principio trascendentale tramite cui venga ammessa a priori una si fatta unità sistematica come inerente agli oggetti stessi”. Il problema è quello del pane che mi dà nutrimento e ho bisogno di un criterio per dire che lo farà anche domani, il problema quindi dell’uniformità non formale ma materiale della natura. Io posso avere infinite funzioni per fare sintesi ma nulla mi spiegherà perché le cose sono fatte così e non in un altro modo Il darsi di un esperienza non è affatto garantito, se non si presuppone una unità delle leggi e una sistematicità delle leggi della natura. Senza una sua uniformità reale non si riesce a fare un passaggio come quello di affermare che mi aspetto quanto accaduto fin’ ora. Se non si presuppone una unità delle leggi, della sistematicità delle leggi della natura, reale allora non si riesce a svolgere un passaggio quale “ciò che ho visto fin’ ora può ripetersi”: viene meno il medio per fare induzione e analogie. Se non avessimo un principio oggettivo, e quindi non solo logico, verrebbe meno il suo essere il principio della ragione. Questo principio è quello operativo della ragione, ma non se ne possono dare ragioni e rimane solo affermare che sia un ipotesi.

La critica della facoltà di Giudizio. Introduzione.

L’introduzione della terza critica venne scritta dopo aver completato l’opera. L’idea originale di Kant era che la critica fosse un’unica opera comprensiva dei primi due libri, Kant decise però di scrivere in contemporanea una seconda versione della prima e la seconda in cui l’oggetto in esame è l’uso pratico della ragione. Una volta conclusa la seconda opera scrive un opera sui Principi Metafisici Della Scienza Della Natura dove i principi puri dell’intelletto vengono determinati ulteriormente attraverso alcune determinazioni empiriche molto generali. In seguito pubblica nel 1797 “La metafisica dei costumi” che consta di due parti: i primi principi metafisici della dottrina del diritto e della dottrina della virtù entrambe hanno una parte critica e una metafisica. Nel 1790 viene però pubblicata una terza critica che affronta una serie di problemi tra cui quello della terza facoltà, quella del giudizio, di cui è necessario darne una critica. La facoltà di giudizio è la possibilità di pensare il particolare come compreso nell’universale, in tal caso il giudizio è determinante(anche nel caso delle categorie apriori); ma se è dato solo il particolare allora la forza di giudizio è riflettente. Ci sono così tante forme della natura è modificazioni del concetto di legge, ovvero di connessione necessaria tra precedente e successivo, che vengono lasciate indeterminate da quelle leggi che l’intelletto puro dà apriori, tanto che permettono una natura solo come concetto possibile in generale. La successiva determinazione dell’indeterminato dopo la sintesi pura lascia ciò che è indeterminato come contingente; tuttavia, se le si debbono chiamare leggi, come richiede il concetto di natura, devono venire considerate necessarie a partire da un principio dell’unità del molteplice della natura. La forza riflettente del giudizio, che risale dal particolare all’universale, ha bisogno di un principio non ricavabile dall’esperienza,dovendo raccogliere principi empirici sotto altri ma superiori e quindi inaugurare la subordinazione sistematica tra di loro questo universale non deve essere già dato e non deve essere prescritto. La facoltà di giudizio per Kant dispone di un principio trascendentale attraverso il quale diventa lecito assumere la sistematicità della natura senza che questo (che è trascendentale ergo condizione di possibilità dell’esperienza) sia oggettivo e quindi determini la natura. Secondo Kant è il soggetto che dà la legge alla natura” è una formula fuorviante, va inteso come: spazio e tempo condizione di possibilità del darsi degli oggetti e le categorie del darsi coscienza degli oggetti allora la natura a quelle leggi lì deve starci perché il concetto stesso di natura le implica, non si può pensare una natura senza riconoscergli queste determinazioni (spazio e tempo). L’oggetto natura è determinato da queste rappresentazioni, ma nonostante l’unità della natura serva per determinare quest’ultima, questa rappresentazione non la determina in sé: secondo Kant dato che la totalità della natura non la intuiamo mai questa non è parte dell’esperienza sensibile ma deve essere “focus immaginario”, ergo come un fine che si deve aggiungere permettendo di dare sintesi fornendoci un criterio di coerenza sulla nostra analisi della natura questa è la conseguenza della natura riflettente e quindi soggettiva del giudizio.Questo principio viene trattato nei giudizi di gusto ma non interessa a Kant per questo ambito specifico, quanto nella misura in cui copre un vuoto enorme, lo stesso che porterà Hegel a dire che Kant ha lasciato un regno enorme all’a-posteriori, perché al di là delle categorie tutto il resto va provato empiricamente, il che non stabilisce nulla sulla validità dell’oggetto nei confronti dei nostri scopi. Tutto ciò ci permette di dire che tra Kant e Spinoza, il quale afferma che questo principio di unità è del tutto ideale, c’è concordanza con un’unica differenza: per Kant il principio di finalità della natura consiste in una differenza modale e logica tra il soggettivo contingente e il trascendentale, che è comunque contingente. La questione riguarda la nostra possibilità di pensare un altro intelletto possibile a cui non serve il principio di causalità; nonostante ciò per noi esseri razionali finiti non è possibile non usare questo principio in merito all’esperienza un intelletto infinito lo possiamo soltanto pensare, è un concetto senza oggetto. Il punto di Kant è che l’intelletto finito ha bisogno del principio di causalità, un principio che abbiamo per puro caso. Il principio della finalità si chiama così perché il nostro intelletto è finito e quindi ha quindi bisogno di intuire il particolare e poi individuare una legge universale, per sussumere sotto di esso il particolare tutto ciò è contingente, tutte le nostre connessioni empiriche lo sono, quindi ci immaginiamo un intelletto diverso dal nostro in cui la differenza tra intuizione e individuazione non c’è, questo è il famoso intervento divino. Noi pensiamo questo intelletto come uno che proceda dal tutto alle parti. Questo può essere pensato solo negativamente ed è completamente esaurito dal concetto di intelletto non discorsivo che implica un procedimento libero dalle costrizioni che gli uomini hanno come finiti. L’idea di Kant è che noi ci facciamo questa rappresentazioni per pensare la totalità della natura come a fondamento del rapporto tra le nostre parti. Noi però la natura non lo vediamo mai, il tutto è solo rapporto delle parti, questo è il modo di procedere dell’intelletto; invece possiamo pensare un intelletto dove il rapporto delle parti si poggia sul tutto, questo tutto non è dato quindi ciò che abbiamo fatto è porre una rappresentazione a fondamento della realtà di un oggetto, questo tipo di causalità è la causa finale; Kant fa così due cose:

  • dà così la sua interpretazione di causa formale, la finale qua non è quella pratica della tecnica che nulla ha a che fare con l’arte della natura;
  • denuncia la natura finalistica di questo principio che non spiega la natura ma regola la nostra riflessione su di essa nel nostro tentativo di determinarla. Ma quando la conosciamo non la spieghiamo finalisticamente la natura ma meccanicamente.

L’unica conoscenza adeguata della natura è secondo cause efficienti, ma noi siamo obbligati a fare uso di un principio finalistico (che non ha rapporti con la produzione umana) simile alla causa formale e per questo presuppone il riferimento ad un intelletto diverso dal nostro, il quale, però, non c’entra nulla con Dio; perché? L’intelletto della quale ho bisogno non è nulla di più che un intelletto che ordini la materia, non serva che la crei, quindi il riferimento ad un intelletto demiurgico. Kant correggerà la sua teologia affermando che deriva l’esistenza da Dio dalla finalità della natura non è efficace perché permette al massimo di pensare un intelletto demiurgico.

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Estetica e dintorni

Giovanni Furzi

Bisogna partire dalla lettura del titolo dell’insegnamento (estetica), il titolo è importante per Genette (estetico del 900). I titoli hanno un carattere sintetico, la sintesi esprime il condensato di qualcosa che appartiene al piano del profondo. I titoli nell’essere sintetici evocano qualcosa che appartiene al piano del profondo. La ripetizione è fondamentale per la filosofia: ripetere significa tornare sui propri passi, ma anche tornare a chiedere, e non è mai cosa banale dunque. La profondità non è qualcosa che sussiste indipendentemente dal termine opposto superficie (punto centrale del corso e dell’estetica e in generale rapporto superficie-profondità). La profondità non va oltre o aldilà della superficie, dove quell’oltre è qualcosa di metafisico. La metafisica ha concepito la profondità esistente autonomamente in sé e per sé, oltre il piano della superficie. Noi ci collochiamo in una prospettiva diversa. La superficie è il modo in cui le cose o i diversi aspetti di ciò che noi chiamiamo cose si offrono alla nostra percezione sensibile, a ciò che la cultura occidentale ha descritto in termini di aestesis. La superficie è l’apparenza fenomenica delle cose, il loro farsi in conto nella forma di un dato, che innanzitutto fa appello alla nostra sensibilità (aestesis). Aestesis-> percezione, in modo più rigoroso di tradurlo è però sensibilità, perché l’aestesis in quanto sensibilità è una percezione che il vivente vive sempre e innanzitutto lo vive nell’immaginazione, la sensibilità non è, come secondo lo schema metafisico, una dicotomia che vede uno stimolo esterno e poi una risposta del soggetto, piuttosto la sensibilità è una percezione sempre connessa al lavoro dell’immaginazione (per adorno è fondamentale), percepire le cose vuol dire cogliere in esse un di più, e questo di più è stato detto “un’eccedenza immaginativa”, qualcosa che fa appello al lavoro della nostra immaginazione.

Rapporto superficie-profondità, dove la superficie è l’apparenza fenomenica. Il punto è che quella superficie è qualcosa che costitutivamente rinvia e rimanda dal suo stesso interno alla profondità, a un fondo che non è apparente, mai totalmente rappresentabile, e dunque quella profondità non è mai totalmente dicibile e visibile. Nell’apparenza c’è sempre un non apparente, che è interno all’apparenza. Nietzsche l’ha chiamato dioniso, la nostra percezione ha sempre a che fare con la coppia apollineo-dionisiaco, logos- pathos. Da questo punto di vista il dionisiaco è quel residuo che si sottrae a ogni sublimazione logico concettuale, sfugge a ogni traduzione nel concetto, il sensibile è sempre carico di questa profondità inapparente, opaca.

L’inapparente così concepito non è mai materialmente separabile dall’apparente. Questi due piano possono essere distinti sul piano logico, ma non sono materialmente divisibili perché l’inapparente è l’altro dell’apparenza. Altro dell’apparenza, non dall’apparenza. Wittgenstein dice in una goccia di grammatica c’è una nube di filosofia, la differenza grammaticale apparentemente banale svela tanti significati profondi. Lo stesso Wittgenstein nelle “ricerche filosofiche” a dire che l’essenza si esprime nella grammatica, l’essenza indica proprio quel fondo inapparente e indescrivibile che le cose custodiscono implicitamente al loro interno. La profondità del senso per lui rimanda al linguaggio, l’unità del senso fa tutt’uno con la determinatezza delle parole che compongono il linguaggio. Per lui (il Wittgenstein delle ricerche filosofiche) il significato di una parola non è l’oggetto designato da quella parola, ma l’uso, la sua modalità di impiego che varia al variare delle circostanze linguistico espressive, che sono sempre storicamente determinate, ma allora il linguaggio. Questo sembra far risolvere il linguaggio a una molteplicità di usi, che annulla l’unità, ma per Wittgenstein non è così: tutto rimanda a un’unità che viene fuori dalle differenze e somiglianze determinabili dai molteplici usi linguistici. Wittgenstein è consapevole che usando il termine essenza usa un linguaggio metafisico, sa che l’essenza è un pregiudizio.

L’essenza per lui è un pregiudizio, perché appartiene al metafisico, ma non è un pregiudizio stupido, dice, non possiamo rimuoverlo. Essenza e apparenza, superficie e profondità, non sono separabili, e questo vale anche al di là del linguaggio.

Vale anche per il nostro rapporto con l’empirico. Il nostro rapporto col sensibile assume sempre una forma duplice è sempre espressione di stare dentro, siamo immersi nell’esperienza, nell’ambiente sensorial percettivo, ma proprio per questa inclusione noi non possiamo non prendere le distanze, cioè tentare di capire il nostro stare dentro, e da qui deriva lo stare fuori del rapporto duplice. Il nostro tentativo di comprensione deve sempre fare conto con il nostro essere totalmente immersi in quel sensibile che tentiamo di comprendere.

Rapporto essenza-apparenza, dunque profondità-superficie sempre in riferimento a Wittgenstein, in “osservazioni sulla filosofia della psicologia” cita Goethe, la morfologia di Goethe: scrive “non cercare nulla dietro i fenomeni già loro sono la teoria”, questo vale per adorno, Nietzsche, Benjamin. I fenomeni sono già teoria vuol dire che il piano dell’ideale, dello spirito, dell’intellegibile è paradossalmente interno alla stessa apparenza delle cose, ed è un paradosso fondante, originario e dunque ineliminabile. Il pensiero si incontra e si scontra con tale paradosso e non può negarlo, deve continuamente farci i conti. Per descrivere l’immanenza del piano teorico, fenomenico, questa presenza dello spirito nei fenomeni, Goethe parla di una “delicata empiria”, delicata perché carica di spirito, di idealità, di concettualità.

I fenomeni già di per sé sono carichi di teoria, e compito della pratica filosofica è portare, nei limiti del possibile, a esplicitezza questa delicata empiria, questa teoria immanente al piano dei fenomeni.

Tornando al titolo, ciò che esso esprime è l’unita del senso immanente all’oggetto che stiamo considerando, o alla pratica di sapere o di vita rispetto alla quale si riferisce quel titolo. Il titolo chiama in causa l’unita di senso implicita, il piano del profondo della cosa di cui è titolo. Nel parlare di senso ci riferiamo a qualcosa che chiama in causa 3 ambiti diversi, che coesistono nella nozione di senso: il piano del sensibile; dunque, il senso è sempre un senso da sentire cioè qualcosa che ci rende affetti e ci coinvolge in prima persona, ci chiama in causa, poi il piano dell’intellegibile cioè dell’ideale, è qualcosa che si pensa, cioè che si lascia intendere o si lascia comprendere, e il senso lo cogliamo nella forma di un atto unitario, lo cogliamo nella sua compiutezza, e ancora chiama in causa l’idea di direzione, il verso che si sta perseguendo con il pensiero in vista di dare un senso al non senso, un ordine al caos. Le cose quando si presentano a noi sono caos, non senso, e noi continuamente dobbiamo dare ordine al caos, non l’ordine, ma un ordine, un possibile ordine tra i molteplici possibili. Quando diciamo che nel titolo c’è l’unità di senso, facciamo riferimento a questi 3 ambiti descritti.

C’è un altro aspetto, cioè che ogni attività didattica implica una connessione tra due ambiti che siamo abituati a scindere, specie nella modernità. La tendenza a separarli è una tendenza acritica, e avviene quando assecondiamo abitudine, movenze, da noi non sufficientemente elaborate in sede riflessiva. Si fa riferimento a quel condizionamento culturale che ci induce a scindere o a contrapporre in modo dicotomico l’idea di teoria e prassi, e questo è sbagliato. Ogni corso, ogni attività didattica, viene sempre a configurarsi come un intreccio di teoria e prassi, che non sono mai scindibili. Questo vuol dire che la teoria non è mai meramente astratta puramente ideale. E. Garroni è il fondatore della scuola romana di estetica, e fa notare che l’astratto è più concreto del concreto, e lo è perché dell’astratto noi parliamo continuamente, le nostre vite sono intrise di astrazione, mentre del concreto non siamo né saremmo mai in grado di dire nulla, né di concreto né di astratto. Basti pensare al dato percettivo: se anche è concreto, già solo dandogli un nome noi stiamo esercitando una pratica teorica. Non c’è mai pura astrazione o pura concretezza, ciascuno rimanda sempre all’altro ed è intriso dell’altro. La teoria è sempre espressione di una prassi, di un particolare modo di abitare il mondo, di un certo modo di articolare la nostra condotta, la teoria è sempre incarnata da una prassi sensibile. La teoria è sempre incarnata da una prassi da noi effettivamente vissuta. Nell’esercitare una qualunque pratica di sapere, noi Siamo soggetti a quella determinata pratica anche prima ancora di teorizzare su di essa. Se esercitiamo quella pratica innanzitutto ne condividiamo la grammatica, che agisce implicitamente in noi, condizionandoci. La filosofia deve risalire proprio a quei presupposti del nostro agire, quelle condizioni di possibilità di ogni nostra pratica di sapere o di vita.

La prassi non è mai neutra, o innocente, essa non è mai priva di presupposti o di implicazioni di ordine propriamente teoretico, e questo al di là della consapevolezza di chi esercita quella prassi. Il nostro fare presuppone sempre un sapere, o un insieme di saperi, che noi non sappiamo di possedere, ma che traduciamo sempre in prassi, e questo che noi ne siamo consapevoli o no. Questo è fondamentale per Gombrik, per il quale non esiste un occhio vergine: la nostra percezione, visione, è sempre carica di una teoria, di un modo di articolazione della prassi.

Questo era chiaro anche a Nietzsche. Per Nietzsche anche non è vero che io so perché vedo, ma io vedo perché so, il mio vedere presuppone già un sapere implicito, che precede il vedere e permette, condizionandolo, il mio vedere cioè il mio percepire il mondo.

Il titolo è espressione dell’unità di senso di ciò cui si riferisce, e dunque quel titolo indica una via da percorrere, un insieme di segni che allusivamente evoca l’idea di un cammino da intraprendere, cammino intorno alla necessità di capire i contenuti del corso, è un cammino nella comprensione, o sotto il segno di un’esigenza di comprensione. Il titolo fa cenno verso un’esigenza di comprensione, il titolo ci colloca nella prospettiva del comprendere.

Ogni corso di studi è un paesaggio grammaticale mondo di senso, un mondo che ha una sensatezza immanente, il senso del paesaggio è immanente al paesaggio, quel senso possiamo coglierlo nello stesso dispiegamento sensibile del mondo che lo incarna, cioè nella concretezza dei segni che vanno a costituire quel mondo. Il nostro comprendere è sempre insieme un non comprendere, e quel non comprendere che abita il comprendere è qualcosa che di volta in volta ci rimanda a qualcosa di nuovo da comprendere. Quando comprendiamo qualcosa comprendiamo anche di non comprendere qualcos’altro. Questo avviene lungo un percorso, un continuo cammino, si comprende a mano a mano. È un cercare di raggiungere qualcosa con la consapevolezza di poterlo raggiungere solo mantenendosi in cammino. C’è l’essere in cammino, non l’arche o il telos. Noi siamo indotti a rintracciare un senso che si costruisce via via, a mano a mano (la pensava così Wittgenstein). Il comprendere è cercare di raggiungere qualcosa con la consapevolezza di poterlo fare solo mantenendosi in cammino, sotto il segno di una necessità di comprensione.

Capire quel mondo di senso tipico di ogni corso di studi vuol dire imparare ad abitarlo, cioè imparare a familiarizzarsi nelle diverse figure di pensiero che quel mondo dal suo stesso interno elabora e struttura.

Cosa dice il titolo del corso? Cioè qual è la via da percorrere cui allude il corso?

“Moda, mimesis, e immaginazione: lo statuto paradossale dell’arte nella riflessione estetica di adorno.”

Ci occupiamo della teoria estetica di adorno, ma anche altro: rapporto arte-realtà, cioè arte e vita, per esprimere questa coppia concettuale adorno dice anche arte e società, e nel mettere in questione questo rapporto adorno interroga il rapporto tra arte e vita, arte e ciò che è altro dall’arte. Sotto questo profilo il tema diventa lo statuto dell’opera d’arte, cioè lo statuto della rappresentazione, dell’immagine. Lo statuto è il modo d’essere e insieme il modo di operare dell’opera d’arte, dell’immagine, il suo modo di relazionarsi con l’altro da sé. Dall’altro lato la questione del rapporto arte-modernità, il problema diventa la modernità, questo con la consapevolezza che per noi e per adorno il problema è la stessa nozione di modernità. Per la filosofia le nozioni sono domande, intreccio di problemi, che se anche sembrano risposte rimandano continuamente alla domanda. Non c’è domanda che si estingua nella risposta. Stando alla lettura adorniana l’idea di modernità non va da intendersi in modo storiografico, cioè qualcosa di esattamente collocabile nell’ordine lineare del tempo, perché non appartiene all’ordine dei fatti, della cronologia. Nel parlare di modernità ci riferiamo, adornianamente, a una categoria di ordine teoretico, speculativo, cioè a una figura di pensiero, dunque un intreccio di problemi. Se per adorno la modernità è questo, essa è un nodo da indagare nella sua non ovvietà, dove la sua non ovvietà è anche la sua ricchezza di senso.

Lettura del programma del corso

Moda, mimesis, rimandano tutte alla questione dell’apparenza. Per Adorno bisogna salvare l’apparenza, infatti nell’opera Teoria estetica ci si pone sotto il segno dell’incompiutezza, che è un tratto che inerisce non solo al piano del come, cioè il modo in cui il testo si articola, ma attiene anche al piano del che cosa, ciò di cui adorno parla nell’opera. È il piano del che cosa che fa venire in primo piano la necessaria incompiutezza del progetto speculativo di adorno, il piano del che cosa cioè il piano della cosa stessa, cioè dell’unità di senso profonda della cosa. È l’oggetto stesso che esclude la possibilità di un compimento.

Un altro elemento è il fatto che in adorno la riflessione estetica è qualcosa che non solo cronologicamente ma anche concettualmente viene dopo rispetto a “dialettica negativa” (metà anni ’60), perché è un’opera che rappresenta “il deserto di ghiaccio dell’astrazione”, espressione ripresa da adorno nelle prime battute di dialettica negativa, e ripresa da Benjamin, suo amico, che aveva usato questa espressione, nella seconda metà degli anni 30, per alludere proprio a un lavoro di adorno, lavoro dedicato a Husserl, lavoro chiamato “metacritica della gnoseologia”, Benjamin ritiene questo lavoro il “deserto di ghiaccio dell’astrazione, che però per Benjamin dobbiamo attraversare in vista del concreto, per immetterci in esso. Ancora una volta, nessuna scissione tra astrazione e concreto, essi sono due polarità che stanno sempre insieme, e certo in alcuni momenti è in primo piano l’una, in altri l’altra, ad esempio dialettica negativa vede una fortissima astrazione.

Concreto e astratto stanno sempre insieme. In dialettica negativa il deserto di ghiaccio dell’astrazione è molto presente, e appunto va attraversato, avendo di vita una ricomprensione del concreto. Del resto, stesso Benjamin ne era consapevole e scrive il saggio “sul dramma barocco tedesco”, saggio complessissimo che si apre con una premessa gnoseologica, a proposito della quale benjamin disse: la premessa è come “l’angelo con la spada fiammeggiante del concetto davanti al paradiso della scrittura”, nell’opera troveremo una serie di temi concreti, dei quali la premessa ha rappresentato il deserto di ghiaccio da attraversare, necessario per ricomprendere il concreto e la nostra relazione con esso.

Teoria estetica viene dopo Dialettica negativa, sia cronologicamente che concettualmente, il che vuol dire anche che il progetto filosofico espresso da teoria estetica presuppone quello espresso da Dialettica negativa. Lo presuppone e insieme ne costituisce la revisione, il ripensamento, teoria estetica è anche una riforma del ruolo e dello statuto che occorre ascrivere all’idea stessa della filosofia.

In teoria estetica vengono in primo piano aspetti nuovi, ulteriori, che danno un aspetto nuovo della filosofia rispetto a quello presente in dialettica negativa. Questo ripensamento consiste in un passaggio dal piano di ciò che era puramente teoretico (il deserto di ghiaccio dell’astrazione), al piano estetico. Questo passaggio non esclude il teoretico, e non implica che nel teoretico di prima non vi fosse l’estetico: stiamo parlando di due gradi diversi di un unico processo di elaborazione concettuale, dove ora a venire in primo piano è il piano estetico. Il piano estetico viene in primo piano, questo vuol dire che assume importanza il nostro incontro e confronto con la materialità delle cose, aestesis – percezione, l’interazione col sensibile. Ad assumere importanza è il nostro confronto con la materialità delle cose e con la fisicità di quell’oggetto che è l’opera d’arte, fondamentale per adorno, che innanzitutto è una res: l’opera d’arte attiene al sensibile. Mettere a tema l’opera d’arte vuol dire mettere a tema la nostra interazione col sensibile. Kantianamente, per adorno, l’opera d’arte è l’esibizione esemplare delle condizioni di senso della nostra esperienza, ciò che vediamo nel nostro rapporto con l’opera d’arte vale sempre, più in generale, nel nostro rapporto col sensibile. L’opera d’arte è ripetizione, raddoppiamento del nostro rapporto col sensibile, ciò che vale lì (nel rapporto con l’opera d’arte) vale anche altrove. L’opera d’arte ci apre gli occhi sul mondo, permette alla nostra esperienza di vedere la propria immagine riflessa in uno specchio. L’opera d’arte è importante, per adorno, per il suo valore riflessivo e auto riflessivo. Passando da teoretico a estetico il pensiero adorniano, dopo aver attraversato il deserto dell’astrazione di dialettica negativa, riscopre e ripensa il concreto, ricomprendendolo come luogo eminente, cruciale del pensare, cioè come quello spazio decisivo nel cui orizzonte si gioca la possibilità del senso, è nel sensibile che si gioca quella partita, in corrispondenza di quella soglia che è il nostro rapporto col sensibile, col concreto. Il pensiero deve porsi a quest’altezza.

In un passaggio contenuto nella “Terminologia filosofica” di adorno si parla della filosofia e del compito che assegna a se stessa. Lì egli mette a tema il modo d’essere e d’operare della filosofia, cosa deve fare per realizzare il suo compito. Adorno ne parla nei termini di “voler dire”, la filosofia vuole dire qualcosa. Questo voler dire deve essere inteso come un tentativo di obbiettivare l’esperienza, cosa che pone molte questioni. Questo, comunque, con la consapevolezza che la filosofia non è e non può essere specchio delle cose, dell’oggettività delle cose. Com’è possibile? Vuole obbiettivare la filosofia con la consapevolezza di non poter rispecchiare le cose, un paradosso. Come si può allora parlare della realtà dal punto di vista della filosofia? Come può avvenire questa obbiettivazione senza concepirla nei termini classici, metafisici di un rispecchiamento?

Che la filosofia non rispecchia la realtà vuol dire che non è una pratica modellata sullo schema classico per il quale la verità deve essere intesa come corrispondenza, cosa che ci è stata trasmessa dalla metafisica. Verità come corrispondenza -> conformità tra proposizione e fatto, tra piano del soggetto e oggetto. Sotto questo profilo la verità è l’esattezza della rappresentazione che ci facciamo della realtà, secondo questa prospettiva, cioè quella della verità classicamente intesa, un giudizio è vero quando afferma la realtà di ciò che nella realtà è congiunto e quando nega ciò che nella realtà è disgiunto, perfetta corrispondenza.

Per adorno la verità non è corrispondenza, non è esattezza o scorrettezza della proposizione. L’idea classica predispone un dualismo: da una parte il soggetto conoscente e dall’altra l’oggetto conosciuto. Adorno sa che la verità non è questo, tuttavia dice che la filosofia è un voler dire, un tentativo di obiettivare l’esperienza. Qui c’è il tipico meccanismo del dire disdicendo, dire e insieme negare ciò che si è detto nel momento stesso in cui lo diciamo, metodo tipicamente adorniano, che per adorno è anche il modo in cui l’opera d’arte funziona: solo a queste condizioni l’opera d’arte svolge una funzione veritativa, solo se si offre a noi come un dire disdicendo.

Stando a adorno la filosofia deve esplorare e insieme costruire nuovi modi di essere e di dire, cioè nuovi modi di articolazione linguistica del “vero”, che per adorno non è uno stato di cose, non appartiene all’ordine dell’empiricamente documentabile, il vero per adorno è ciò che è valido per la sua capacità di aprire uno spazio di comprensione, ciò che rimette in moto il pensiero nella prospettiva di quella soglia apparente-inapparente, rappresentabile-irrappresentabile. Il vero non è un dato per adorno, ma è la distanza che ci separa dal nascosto, non appartiene all’ordine della presenza, ma dell’assenza. Anche quando parla dell’essenza, di un in sé dell’opera d’arte, quell’essenza appartiene in realtà all’ordine dell’assenza, dell’implicitezza. Il vero è ciò che apre sempre nuovi spazi di comprensione, e l’opera d’arte fa questo.

L’opera d’arte è tale perché è infinitamente produttiva di senso, genera sempre significati nuovi e sempre diversi, l’opera d’arte non può essere inchiodata a un unico senso, altrimenti sarebbe un messaggio, e per adorno l’opera d’arte non produce messaggi, quello è il linguaggio dei dominatori, sono gli oppressori a portare messaggi, esprimendo la logica di dominio che vige nel mondo.

Il compito della filosofia consiste nella costruzione di un paesaggio grammaticale, cioè un certo uso del linguaggio che abbia la virtù di far accadere il senso, cioè ciò in cui consiste il voler dire. Far accadere il senso, cioè essere in grado di farlo essere, in quanto espressione di ciò che è e resta non identico, si tratta di far essere non una presenza ma un’assenza -> paradosso. Il voler dire è tentativo di far accadere il senso in quanto espressione di ciò che non si può ridurre a identità.

Tutto questo porta in rilievo un aspetto cruciale, cioè la stessa forma di scrittura filosofica o della parola filosofica, la forma fa problema, tutto si gioca a livello di forma, il come e il che cosa sono congiunti. Non c’è una cosa da dire che può essere riformulata in modi diversi, il modo in cui lo dico è proprio quella cosa lì, posso certo dirlo in modi diversi, ma ogni modo rimanda a una certa cosa.

Per Adorno arte e filosofia convergono, paradossalmente. l’arte ha bisogno della filosofia che la interpreta per dire quello che la filosofia non è in grado di dire e che può dire solo l’arte, la quale però lo dice tacendo.

Arte e filosofia si presuppongono reciprocamente. La forma della scrittura filosofica è la sua stessa configurazione sensibile e questo vale per la filosofia e vale per l’arte.

In adorno la nozione di forma è fondamentale. La forma nell’opera d’arte è contenuto sedimentato, dice adorno.

L’accento viene a battere sulla centralità dell’idea di forma, cioè sul momento retorico della filosofia, su quel voler dire. Il voler dire è un far essere, un far accadere il senso, cosa che significa consegnarlo alla lettera, alla determinatezza di una certa configurazione stilistica, di un certo paesaggio grammaticale. Consegnarlo alla lettera significa consegnarlo alla lettura, si costruisce una forma che abbia la capacità di attivare e rendere virtualmente infinito il lavoro del comprendere. Il far accadere il senso può avvenire solo nel linguaggio, solo grazie alla forza del discorso, alla costruzione di un determinato paesaggio grammaticale.

Per cogliere la cosa stessa bisogna affidare la sua espressione al corpo della scrittura, del tessuto verbale, cioè alla forma della scrittura filosofica.

Ciò che risuona è l’esigenza di dire l’indicibile attraverso il dicibile, e ce lo dice Garroni, e insieme è il tentativo di dire il dicibile attraverso l’indicibile, dicibile e indicibile sono polarità che si appartengono reciprocamente. A profilarsi è un quadro simile a quello kantiano, della critica della facoltà del giudizio, perché proprio nella terza critica è in gioco un ripensamento della filosofia, del trascendentale, e questo con la consapevolezza che a essere in gioco è il risalimento verso quel principio ulteriore, quella condizione di senso più fondamentale dell’esperienza, che Kant chiama principio di finalità, il quale è un senso da sentire, che si caratterizza per la sua non dicibilità. Il principio di finalità è quel senso comune, che precede trascendentalmente la nostra esperienza, e insieme la rende possibile. A delinearsi è una prospettiva secondo la quale le 12 categorie che troviamo nella prima critica, assieme alle 2 di spazio e tempo, sono necessarie ma non sufficienti per una conoscenza dell’esperienza. Serve un qualcosa di ulteriore, quel principio di finalità serve un senso da sentire.

 Nell’orizzonte adorniano la teoria estetica diventa il banco di prova sul quale il pensiero misura non solo la sua tenuta, legittimità ma anche il suo buon funzionamento, produttività, produttività di quella dialettica negativa che è uno dei dispositivi più importanti del pensiero adorniano. Il passaggio fra le due opere, dunque, non vede l’abbandono della dialettica negativa.

 La filosofia è comprensione, non spiegazione, comprendere cioè tentativo di risalire verso le condizioni di senso dell’esperienza, condizioni di possibilità, non è una spiegazione che porta a un dominio sulle cose empiriche da parte di chi conosce. Dialettica negativa è definita così da adorno perché esclude qualunque possibilità di sintesi,; dunque, nel parlare della dialettica negativa parliamo di un modo di articolare il pensiero che esclude ogni sintesi, cioè esclude qualunque possibilità di conciliazione tra gli opposti, insomma si supera la prospettiva hegeliana, non c’è alcun aufhebung. A essere esclusa è ogni conciliazione che aspiri a essere definitiva, per adorno è importante perché la filosofia esclude ogni possibilità di pacificazione nei confronti della realtà, la filosofia è domanda continua, non può acquietarsi con una definizione di qualche tipo. Nessuna pacificazione nei confronti della realtà vuol dire nessuna pacificazione nei confronti dell’empiricamente esistente, l’essente, il mondo così com’è, che è ciò che la filosofia interroga continuamente.

In “minima moralia” dice che la filosofia deve trapassare oltre le cose, deve liberarsi dal peso del puro fatto, cioè mettere in questione l’esistente perseguendo le sue implicite condizioni di senso (senso da intendersi nei 3 significati precedenti), mai interamente oggettivabili. La Dialettica negativa si blocca nella soglia del “tra due”, quella soglia critica, cioè quel luogo di continua interrogazione, che è l’interazione fra gli opposti. La soglia del tra due è un luogo non luogo, non è definibile, è quel paradossale luogo non luogo che nasce proprio per il favore del confronto fra gli opposti, e a istituire di volta in volta quella soglia è la compresenza di quegli opposti, la loro giustapposizione l’uno accanto all’altro.

Questa compresenza fa tutt’uno con la loro interazione, che non smette mai di esserci e questa interazione c’è sempre nella forma dell’opposizione. A questo proposito già Benjamin, nei Passage di Parigi, parla di una dialettica in stato di arresto, una dialettica nell’immobilità. Immobilità non indica una dialettica statica, anzi è una dialettica sempre produttiva di senso, a renderla immobile è la sua produzione di immagine, immagine cioè uno spazio circoscritto del pensiero. Quella dialettica è ciò che il pensiero deve tradurre in un’immagine, uno spazio di pensiero in cui si dispongono gli elementi. È immobilità anche perché si esclude ogni sintesi, ogni definizione definitiva e acquietante.

Ciò che il pensiero deve fare, adornianamente, è promuovere sempre di nuovo la continua attivazione di quella tensione polare che affiora dal confronto degli opposti, e il pensiero deve, in quanto pensiero critico: indugiare, esitare, trattenersi sulla soglia del tra due, senza alcuna pretesa di ridurre la dualità a unità. La tensione tra opposti è dunque non risolvibile.

In teoria estetica la stessa scrittura filosofica diventa l’esibizione in atto (in KANT. è dare significato a concetti mediante intuizioni sensibili) delle potenzialità, delle risorse di senso immanenti al dispositivo della dialettica negativa, e in teoria estetica avviene nel confronto con quel referente che è l’opera d’arte. Qual è il ruolo che attribuisce all’estetica? L’estetica non deve essere intesa in alcun modo come una “filosofia applicata”, dice adorno. L’estetica è filosofica in sé, cioè non è una delle innumerevoli sezioni in cui si articola un presunto sistema teorico. Questa consapevolezza è alla base della stessa riflessione di Garroni, per il quale l’estetica non deve essere intesa né come una filosofia dell’arte, né come una dottrina o teoria della percezione. Garroni ne parla nei termini di una filosofia non speciale, questo indica che l’estetica non è un settore specifico disciplinare, ma estetica e filosofia fanno tutt’uno (anche per Adorno è così).

L’opera d’arte è un referente privilegiato cioè un referente esemplare, nel senso di exemplum, qualcosa che ha la capacità di metterci davanti agli occhi il piano del senso, il piano delle condizioni di possibilità, il piano delle precondizioni di senso della nostra esperienza. L’opera d’arte intesa come libero esercizio delle condizioni di senso della nostra esperienza, libero esercizio perché nell’opera d’arte quelle condizioni di senso non sono finalizzate al raggiungimento di un qualche fine determinato, ad esempio un fine cognitivo. Nell’opera d’arte c’è solo la messa in scena di quelle condizioni di senso, indipendentemente da un loro fine determinato.

Non è un referente esclusivo, cioè l’arte non costituisce non è l’unico referente dell’estetica.

Cos’è l’arte? Difficile a dirsi, specie a partire dal 900, si pensi alla cesura delle avanguardie storiche novecentesche, e proprio a questo proposito lo stesso Adorno parla di una perdita di ovvietà dell’arte.

Di certo l’arte non può essere soggetta a una definizione, non è classificata. Non esiste una classe di opere darti, secondo la quale le opere d’arte hanno tutte almeno una caratteristica comune che le rende parte di una classe.

Estetica -> riflessione che viene condotta dall’interno stesso dell’esperienza, e che proprio a partire dal nostro essere immersi nell’esperienza ha di mira la comprensione delle condizioni di senso, di possibilità dell’esperienza.

Condizioni di senso dell’esperienza presupposti impliciti dell’esperienza, quelli che costituiscono l’orizzonte implicito dell’esperienza, quell’orizzonte sul cui sfondo si iscrive ogni nostra possibile esperienza, tutto ciò che possiamo dire, pensare, provare emozioni, fare, prendere decisioni.

Dialettica negativa / teoria estetica in teoria estetica adorno si avvede del fatto che una dialettica negativa pensata fino in fondo e spinta ai suoi limiti estremi, non può non trasformarsi in una teoria estetica. Dunque, la teoria estetica sgorga dalla dialettica negativa, come una sua radicalizzazione.

Adorno, sempre nei Minima Moralia, dice che alla filosofia perviene un elemento di radicalizzazione, esagerazione, che è proprio la capacità di trapassare oltre le cose, liberarsi dal peso del puro fatto.

Il progetto filosofico espresso da teoria estetica presuppone, o ripensa anche dialettica negativa, lo stesso ruolo che viene dato all’opera d’arte e alla sua funzione conoscitiva e veritativa in teoria estetica vede questo ripensamento di dialettica negativa, di quel deserto di ghiaccio.

Riflettere sull’opera d’arte significa portare in primo piano un’istanza di crisi, crisi che fa tutt’uno con critica, in adorno. L’opera d’arte, indefinibile e non classificabile, è opera d’arte proprio perché induce nella nostra esperienza ordinaria e lineare un’istanza di crisi, che affiora dall’interno stesso delle cose.

L’opera d’arte ci fa vedere il mondo come non lo abbiamo mai visto, e ce lo fa vedere come se lo vedessimo per la prima volta, questo nuovo modo di vedere è proprio il manifestarsi di quella crisi di cui prima, cosa che sconvolge le nostre abitudini di pensiero, ci destabilizza. L’opera d’arte è espressione di una discontinuità, una cesura e interruzione che di colpo affiora nella nostra rappresentazione ovvia, abituale, del mondo. L’opera d’arte quando è davvero tale espropria le cose della loro presunta identità a se stesse, cioè rende le cose estranee a se stesse: il mondo non è più come prima. L’opera d’arte fa irrompere il non identico, cioè questo momento dell’estraneità, nell’identico, mette l’identico in attrito con se stesso, già qui si intravede la dialettica negativa.

La connessione crisi – critica – crisi rimanda al greco crisis, che rimanda al verbo crino, che tra le altre cose vuol dire decidere, giudicare. Crisi allora è qualcosa che fa tutt’uno col riconoscimento del nostro non poterci non ritrovare nella condizione di dover dare il nostro giudizio. La crisi è dunque proprio quella che riguarda Il soggetto che continuamente viene posto al cospetto di se stesso, al cospetto di esercitare ogni volta la sua facoltà di giudizio.

Con la facoltà di giudizio ci riferiamo a un uso particolare, a quello che Kant chiama “un uso riflettente della facoltà di giudizio”, uso della facoltà di giudizio che per lui assume un valore prioritario, fondante. Per Kant ogni giudizio ha una caratteristica: sempre, infatti, il giudizio è la capacità di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Questo è sempre, in quanto tale, il giudizio. Nella terza critica fa una distinzione fra due tipi di giudizio: da una parte il determinante, in questo caso il particolare (materiale empirico, sensibile, dato fenomenico) è qualcosa di dato, di cui possiamo fare esperienza attraverso la nostra percezione della realtà. A essere dato però non è solo il particolare, ma anche l’universale. Nel giudizio determinante particolare e universale sono qualcosa di già dato, il giudizio determinante il modo in cui sia articola il discorso scientifico. In tal caso giudicare significa riportare il concreto all’intelletto, è un uso del giudizio dal carattere esecutivo, meccanico, si tratta di applicare le categorie (universale) alle intuizioni sensibili (particolare), e entrambi sono sempre dati, nel giudizio determinante. Nel giudizio determinante anche l’universale è dato, perché \le categorie sono valide a priori, dunque sempre valide. Nel giudizio riflettente non è così: Kant dice che a essere dato è solo il particolare, mentre l’universale non è dato, deve essere trovato, cioè deve essere inventato, costruito. Però a giocare un ruolo chiave è il fatto che quest’universale si caratterizza per la sua non disponibilità a essere trovato, è un universale inaccessibile: lo vogliamo trovare e non lo troviamo mai, l’universale si caratterizza per la sua indeterminatezza. Da una parte c’è il particolare, dato ma non determinato (non determinato perché dobbiamo trovare l’universale che lo spieghi dal punto di vista logico concettuale), ma indeterminato è anche l’universale, che non è né dato, né determinato, perché anch’esso va trovato: abbiamo il confronto fra due indeterminatezze (particolare e universale sono entrambi indeterminati)

Cosa vuol dire che l’universale deve essere trovato? Che va ricercato, e a caratterizzare questa ricerca è la sua interminabilità. Nel caso del giudizio riflettente l’universale è oggetto di una ricerca infinita, e a motivare quella ricerca è il particolare che continuamente ci spinge a ricercare un universale, che però sempre fugge nonostante i nostri tentativi. a caratterizzare l’universale è il suo farsi comprendere nella forma di un “più”, adornianamente, un oltre. Nell’esercizio di un giudizio riflettente il dato, dunque, non è un risultato, un qualcosa di spiegato, ma viene interpretato come un oltre, un più, un “mer” di cui noi siamo alla ricerca interminabile. Questa ricerca infinita dell’universale è qualcosa che esige l’attivazione del pensiero, certo, ma quella ricerca allo stesso tempo è anche qualcosa che pianta in asso il pensiero, perché mai quell’universale potrà essere identificato con un concetto definito dell’intelletto. In questo caso a essere in gioco non è più la relazione tra la rappresentazione che il soggetto si fa dell’oggetto e l’oggetto, ma quella fra la rappresentazione che il soggetto si fa dell’oggetto e il sentimento, lo stato d’animo nel quale il soggetto si trova nel momento in cui fa esperienza del giudizio riflettente, e il soggetto incontra se stesso, si riflette allo specchio.

In lui è proprio l’arte a farsi esponente di quella connessione crisi-critica (questa connessione rimanda ovviamente alla facoltà di giudizio di cui abbiamo parlato), perché nell’opera d’arte a occupare una posizione di rilievo è l’incontro col sensibile. Fare esperienza dell’opera d’arte implica fare esperienza col concreto, il sensibile, e proprio questo sensibile motiva la ricerca dell’universale, che sempre sfugge -> ricerca infinita che l’opera d’arte mette in primo piano e lo fa mostrandosi a noi come qualcosa di concreto, sensibile, fenomenico. il sensibile custodisce in sé un’istanza di crisi, la crisi appartiene al mostrarsi del sensibile, se si dà quel sensibile si dà crisi, e dalla crisi dunque si attiva la critica. Il sensibile di per sé dà una crisi, l’apparenza è crisi, è enigma che porta a una necessità di comprendere.

Il piano dell’estetico è quel piano in cui il senso si dà come un senso da sentire, per cui è un senso che si può cogliere solo in virtù del sentire, del mostrarsi del sensibile, che si offre a noi sempre innanzitutto in termini qualitativi: gustare, tastare, ascoltare, appartengono tutti all’ordine qualitativo, cioè non si possono spiegare in termini logico-esplicativo, né possono essere tradotti in termini quantitativi.

L’impresa di teoria estetica è strutturalmente arrischiata perché esclude ogni rassicurazione metafisica, non possiamo fare appello a nessun punto di ancoraggio: il sensibile è sempre interrogato, si vuole comprendere non spiegare quindi non c’è mai certezza, anche le categorie non sono un porto sicuro, vengono addirittura messe in discussione. È un’impresa però necessaria, è lì che si gioca la possibilità del senso. Il comprendere esige quell’impresa, ma a quell’impresa è tolto ogni possibile ancoraggio epistemico, nessuna garanzia. È proprio in questo quadro che assume un’importanza decisiva il tema della scrittura filosofica, importante per dare forma a quest’impresa. Lo stile, il momento espressivo dell’indagine filosofica, quello che Adorno, in “Terminologia filosofica” Adorno lo chiama “il momento retorico” della filosofia. Anche per l’uomo antico, d’altronde, la retorica chiama in causa la conoscenza del vero, pertiene al piano della conoscenza.

Lo stile non è traducibile in termini logico concettuali unici e validi per tutti, esso è caratteristico per la sua unicità.

Quello di adorno è uno stile paratattico, il che ha molto a che fare con la costitutiva incompiutezza di cui abbiamo parlato, dovuta non solo alla morte, ma quell’incompiutezza pertiene all’oggetto stesso di cui si parla. Se c’è paratassi c’è incompiutezza. La riflessione estetica deve necessariamente essere paratattica,contrario di ipotassi, il modello classico dell’ipotassi è la concinnitascicerioniana, l’ordine, la gerarchizzazione delle cose. La paratassi è invece giustapposizione: porre le cose l’una a fianco all’altra la dialettica negativa è proprio questo, compresenza di opposti e insieme la loro relazione nell’attrito, nell’urto. La paratassi traduce in termini espressivi la dialettica negativa.

Il testo adorniano in quanto paratattico non si presenta come una struttura sillogistica, non procede da premesse a conclusioni, non c’è una concatenazione necessaria tra premesse e conclusioni, non c’è necessariamente uno svolgimento logico deduttivo, non è un sistema (sistema o totalità organica, intero che riposa saldamente in se stesso, cioè nella sua coerenza, coesione, compattezza, continuità logico deduttiva). La paratassi è lo scardinamento del sistema. Un sistema è tale perché in esso ogni elemento trae il suo senso solo dall’intero, dall’inclusione nell’intero, la parte trae il suo senso dall’intero (sistema hegeliano, dove il vero è l’intero, l’inizio coincide con la conclusione). Per Adorno il tutto è il falso, come scrive in dialettica negativa (opposto a hegel che dice che il vero è l’intero).

Adorno dice che il tutto, la totalità, è il feticcio, è un idolo (in dialettica negativa scrive che “totus est totem”), a porsi sotto il segno dell’idolatria o del feticcio è l’innalzamento del concetto inteso come unica spiegazione possibile della realtà, la riduzione dell’essere al concetto. Per Adorno tra piano del pensiero e della realtà, tra concetto e essere c’è una frattura che non si può sanare, è quella soglia del “tra due” che il pensiero critico deve abitare, deve indagare e sempre interrogare, e da qui c’è l’esigenza di uno stile paratattico.

L’idea di sistema implica proprio l’idea di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra ordine delle idee e ordine delle cose. La forma saggistica, cioè quella dove c’è la scrittura paratattica, è il contrario del sistema, e alla forma saggistica adorno dedica un saggio: “il saggio come forma”. La fine del sistema è la fine della prospettiva secondo la quale c’è un rispecchiamento tra pensiero e realtà. Adorno indaga la nozione di concetto, la mette in questione, tenta di risalire alla genesi del concetto, ma adorno non vi rinuncia mai, di qui ancora una volta il tenore paradossale della sua riflessione, tenore paradossale che anima il pensiero di adorno e di ogni possibile filosofia. Non si può rinunciare al concetto perché si rinuncerebbe al pensiero, e in tal caso alla riflessione critica, se si rinuncia alla riflessione critica si cade nella barbarie, ma al contempo il concetto porta alla visione sistematica di corrispondenza tra pensiero e realtà (hegel) che per adorno è la barbarie. Se rinuncio al concetto cado nella barbarie, se lo uso cado nella possibilità di cadere nella barbarie, dunque bisogna cercare di abitare differentemente il concetto.

L’idea di paratassi è fondamentale per la riflessione adorniana -> fine del sistema, cioè adesso (nella modernità) la parola filosofica sa di non poter più essere un’asserzione univoca, chiara, ontologicamente fondata, non può più assumere questa forma e avanzare la pretesa di articolarsi secondo quello schema classico, si pensi ad Aristotele, che si esprime nella forma (ti kata tinos) “dire qualcosa intorno a qualcos’altro”, il soggetto che descrive la realtà e lo fa dando asserzioni univoche. Secondo lo schema classico il giudizio è attribuzione di un predicato al soggetto mediante la funzione di collegamento o di mediazione svolta dalla copula, dal verbo essere. Se ci muoviamo in quest’orizzonte come unica modalità legittima di funzionamento della ragione, il vero cos’è?

Un giudizio è ritenuto vero quando afferma la congiunzione di ciò che nella realtà è congiunto e la disgiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto: perfetta corrispondenza tra pensiero (e linguaggio) e realtà. Corrispondenza fra un modo di articolare il linguaggio e il piano delle cose. La verità si dà quindi come corrispondenza, come correttezza o scorrettezza della coordinazione tra pensiero e realtà, concepita come un insieme di fatti e di enti: tutti dati, determinati e suscettibili di una categorizzazione, di una classificazione, quello che adorno chiama il linguaggio protocollare, e che in Benjamin è il linguaggio dei vincitori, degli oppressori, dei dominatori, quello che in Adorno riguarda l’uso della ragione strumentale, cioè l’uso calcolante della ragione improntato al primato assegnato al principio di identità.

Adesso la parola filosofica non è più questa, non è ontologicamente fondata, cioè non si fonda sulla determinatezza di un significato unico e univoco, significato ultimo che metafisicamente corrisponderebbe all’essenza immutabile delle cose, alla forma logica delle cose. Il pensiero adorniano esclude proprio all’impossibilità di ridurre la realtà a un unico principio formale. La parola filosofica non vuole più funzionare come sintesi predicativa, cioè come quel “ti kata tinos”.

Sullo sfondo del discorso adorniano c’è certamente la grande cesura costituita dal gesto filosofico di nietzche, in primis la nozione della morte di Dio, della trasvalutazione di tutti i valori: la morte di dio è la morte del senso, Senso da intendersi come significato supremo, come senso ultimo e unico delle cose, quella forma logica che pretendeva spiegare l’essenza delle cose e che si credeva dato una volta per tutte. Quel senso diceva che le cose stanno in quel modo e non può essere altrimenti, è la logica della metafisica che fa corrispondere alla realtà solo quell’unico significato formale.

Il gesto di Nietzsche, con la morte di un senso così inteso, apre alla modernità, sia filosofica che artistica: l’intero 900 è marcato da quella critica radicale che Nietzsche rivolge alla grande tradizione metafisica, quella che Nietzsche, nella Nascita della tragedia, chiama “il geniale edificio della cultura apollinea” -> edificio geniale perché non riguarda solo l’arte apollinea, ma anche l’episteme, la scienza -> scienza da intendersi non solo come scienza sperimentale, ma come in generale quel tentativo di ridurre la realtà a delle strutture logico concettuali (questo tentativo è il gesto epistemico di cui prima).

Critica che rivolge alla grande tradizione metafisica critica l’intera storia della tradizione metafisica che procede da platone a hegel, passando per il cristianesimo, in particolare parliamo del cristianesimo paolino: per Nietzsche il nemico è San Paolo di Tarso, non tanto la figura del cristo.

Morte di dio morte del Senso, dissoluzione di ogni valore che pretenda di porsi come qualcosa di immutabile e necessario, un non poter essere altrimenti da ciò che si è. Dissoluzione di ogni fissazione del divenire. Quando l’edificio della metafisica viene messo in discussione accade che i valori fondamentali sui quali la metafisica fondava la sua lettura della realtà, in primis la triade platonica: idea del Vero, idea del Bello, idea del Bene. Questi valori, con la critica di Nietzsche mostrano la loro infondatezza, il loro poggiare sul nulla, nulla da intendersi come nulla di dicibile, nulla di rappresentabili. Tutti questi valori vengono allora riconsegnati alla loro dimensione più propria, cioè vengono riconosciuti da Nietzsche non come espressione dell’essenza della realtà, ma come un divenuto, cioè sono un costrutto finzionale, sono il prodotto di un’intera cultura, il prodotto di una vita, quei valori sono qualcosa di storicamente determinato e culturalmente condizionato, a quei valori non può essere ascritta nessuna purezza o necessità logica, essi sono un divenuto. Il debito di adorno per Nietzsche emerge sin dalle prime pagine di teoria estetica, dove chiamando in causa il tema della verità dice che non si può non proseguire lungo la linea tratteggiata da Nietzsche, e dunque verità intesa come divenuto e insieme diveniente.

I valori di cui prima sono il risultato di una prassi, di un certo modo di abitare il mondo.

La critica della metafisica è essenziale per il pensiero adorniano. In un’opera scritta insieme ad Horkheimer, “la dialettica dell’illuminismo”, nel fondamentale volume del ‘47, viene affermato: “unità rimane la parola d’ordine da Parmenide a Russell”, cioè la pretesa di ridurre la realtà a un’unità, unica e definitiva: dare un’unità logico deduttiva al molteplice reale, la pretesa di dare ragione dell’esistente in modo definitivo e in termini logico esplicativi. Da qui nasce l’esigenza di criticare un’intera tradizione di pensiero. Per Adorno però quel modo di articolare il pensiero che critica non è assolutamente l’unico modo possibile di articolazione del pensiero: molteplici sono gli usi che possiamo fare della concettualità. Certo è che anche adorno deve confrontarsi con la tradizione metafisica, vuole decostruire quella tradizione, e questo è il gesto del filosofo genealogista, infatti, come Nietzsche, adorno vuole risalire genealogicamente alle condizioni di senso, di un’intera civiltà, dell’idea stessa di cultura, vuole risalire alle origini dell’idea stessa di concetto.

Metafisica parlando di metafisica nel senso delineato, stiamo designando una logica della necessità, una logica dell’incontrovertibile, un non poter essere altrimenti delle cose, che perciò sono già da sempre vincolate a quell’unica forma logica che le descrive, quel significato che definisce e circoscrive l’ambito di pertinenza, il ruolo delle cose nella realtà. Adorno scardina questa visione del mondo, e dunque anche il rapporto pensiero-essere. Adorno vuole enfatizzare l’impossibilità di superare la scissione essere-pensiero. L’essere è irriducibile al piano del pensiero, del concetto, e sotto questo aspetto la paratassi è quella forma del discorso filosofico nel momento in cui si riconosce la caduta del Senso, cioè il tramonto dell’idea di verità intesa come corrispondenza essere-pensiero, come il tramonto di un’idea di verità che sveli il nascosto, una verità che tolga il velo (quella rivelazione del profondo di cui parla Hegel parlando della verità). La verità non può mai essere totalmente disvelata (Nietzsche, prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza), non c’è dunque nessuna pretesa di una verità che tenti di svelare il nascosto -> non per questo Adorno è un irrazionalista, la verità per lui è ciò che noi sentiamo di dover sempre nuovamente comprendere, con la piena consapevolezza della sua continua irriducibilità al piano del concetto, a qualcosa che la fissi in una definizione univoca, determinata e definitiva: non può mai essere qualcosa che ci spieghi del tutto il nascosto, anzi, la verità è proprio quella distanza che ci separa dal nascosto, e che dobbiamo abitare in una continua esigenza di comprensione. Questo emerge particolarmente nell’incipit dell’ultimo capitolo di dialettica negativa, cioè in quel capitolo chiamato “le mediazioni sulla metafisica”, dove si vede come la verità non possa più essere identificata come appartenente al piano dell’immutabile, dell’incontrovertibile, come qualcosa di sottratto al tempo e al divenire. La verità è strutturalmente storica, è un diveniente e un divenuto, cosa che non vuol dire che sia riducibile al piano dei fatti, essa è ciò che sempre nella storia si sottrae nuovamente a ogni descrizione, rappresentazione, è il “più” del fenomeno.

Questo significa anche che l’apparenza, a sua volta, non è più il luogo della non verità, non è una dimensione che attenda di ricevere il suo senso dall’alto, dall’esterno, da un non luogo esterna all’esperienza, una sorta di dimensione iperuranica -> l’apparenza non è qualcosa di subordinato all’essenza, a essere negato è ogni primato attribuibile all’intellegibile rispetto al sensibile. al contrario il pensiero adorniano vuole salvare l’apparenza, ma non nel senso di voler stabilizzare il divenire, cioè dare ai fenomeni un ordine sempre garantito, quanto piuttosto salvare l’apparenza vuol dire riconoscere che il senso dell’apparenza è interno all’apparenza stessa, e non è mai totalmente dicibile, rappresentabile, è ciò che nel dato sfugge e si sottrae a ogni piano della definizione e determinatezza. Non si può più affermare che l’apparenza valga meno rispetto al piano dell’essenza.

  • Nell’idea di astrattezza troviamo annodate due caratteristiche dell’arte moderna che sono irrinunciabili: la sua autonomia e la sua enigmaticità, l’astrattezza da conto a entrambe, è sì autonomia, ma un’autonomia enigmatica. L’enigma ci costringe a affrontare il rapporto determinato- indeterminato, e questo perché sappiamo che in adorno la forma è contenuto sedimentato. Se è vero che l’arte moderna tende a essere sempre più astratto, allora quest’astrattezza non può non chiamare in causa il piano del contenuto, cioè l’idea di forma come contenuto sedimentato. Nell’idea di astrattezza autonomia e enigmaticità sono motivi congiunti. Nell’astrattezza del nuovo si incapsula qualcosa di decisivo per il piano del contenuto, dunque nell’autonomia dell’arte moderna, cioè nel suo essere marcatamente non riproduttiva, si incapsula proprio lì, nella sua forma, si incapsula il contenuto dell’opera. ecco perché la difficoltà di comprensione. Il contenuto incapsulato nell’astrattezza, indica che l’astrattezza della forma è la sedimentazione del suo contenuto. Proprio nel suo essere astratta l’opera d’arte si fa testimonianza della realtà, rimanda al suo non identico, e a certificarlo è il fatto che nel suo essere autonoma, cioè non riproduttiva, è anche enigmatica, quell’enigma ci dà da pensare e ci fa interrogare sulla realtà e sul rapporto arte- realtà. In che modo coglie la realtà restando astratta?
  • Nel tema del brivido allude alla non autonomia dell’arte, alla sua capacità di rimandare al non identico, all’altro da sé, ma noi sappiamo che non autonomia e autonomia sono sempre congiunti, l’uno implica l’altro. La non autonomia dell’opera d’arte moderna, cioè il brivido, reagisce alla sua autonomia, cioè alla chiusura criptica dell’opera (la sua auto referenzialità, autonomia, ed è criptica nel senso di enigmatica), autonomia che è funzione della non autonomia. In che senso il brivido ha a che fare con l’indeterminatezza? In “teorie sull’origine dell’arte excursus”, dove parla del comportamento estetico, troviamo anche il brivido, di cui parla dicendo che l’esperienza del brivido, che riguarda la vita mentale dell’uomo in generale e non solo l’arte, consiste in un sentirsi toccati da ciò che è altro, e scrive infatti che la pelle d’oca è la prima esperienza estetica. Si dà brivido nel momento in cui il soggetto percipiente avverte l’indeterminatezza delle cose, cioè il mer, il più. Il brivido è quel trauma provocato dall’urto con l’in sé delle cose, con l’incommensurabilità delle cose, con la loro irriducibilità all’identico, alla possibilità di una categorizzazione. Il brivido è quel sentirsi toccato da ciò che nelle cose resta incategorizzabile. Il percipiente reagisce al brivido, a quella percezione del più, con una reazione mimetica. Quando il percepiente si sente colpito dal più del fenomeno, quel più in qualche modo viene dal soggetto fissato in immagine, ma viene fissato in immagine in primo luogo in quanto sfuggente, non rappresentabile. La vita mentale del soggetto diventa mimèsi di quella stessa irrappresentabilità. Si dà mimèsi nella vita mentale dell’uomo quando il soggetto lascia che la traccia di quel più si imprima nella propria vita mentale. Quando il soggetto si sente invaso dal più, lo fissa in immagine, fissando la stessa fuggevolezza del più, attraverso quella mimèsi che consiste nella mimèsi all’interno della vita mentale. Quando Adorno descrive il comportamento mimetico, fa cadere l’accento proprio su quest’aspetto (siamo sempre nella sezione indicata prima di teoria estetica) mette in connessione proprio brivido e mimèsi, e dice che il comportamento mimetico consiste proprio nell’impulso a farsi uguali a ciò che è altro da sé, cioè un impulso all’identificazione CON l’altro, cioè all’immedesimazione nell’eterogeneo, nel non identico, e non DELL’altro. L’opera d’arte ce ne fa accorgere, nell’arte moderna il rinvio al non identico è incapsulato nella stessa forma dell’opera, dunque il momento del brivido, l’esperienza del sentirsi toccati da ciò che è altro, è qualcosa che è immanente alla stessa forma, configurazione materiale, dell’opera. Che il brivido sia immanente alla forma vuol dire che esso è una delle componenti operanti all’interno di quello spazio di gioco interno alla forma stessa. Un gioco fra forze eterogenee e al tempo stesso cooperanti, il cui lavoro insieme va inteso come un essere reciprocamente in conflitto, conflitto che indica che quelle forze costitutive della forma reagiscono l’un l’altra continuamente, all’azione di una corrisponde la reazione dell’altra. Nell’opera moderna il brivido reagisce (la reazione indica proprio la presenza di forze, dove all’azione di una corrisponde la reazione di un’altra) alla chiusura criptica dell’opera, cioè alla sua astrattezza, alla sua autonomia che è insieme enigmaticità, e questa reazione del brivido indica proprio la presenza di questo spazio di gioco, di forze contrastanti, questo campo energetico. La non autonomia dell’opera, e quindi il momento del brivido, è quella forza che nell’opera si attiva per reazione al mostrarsi dell’autonomia, cioè al carattere astratto della forma. All’esperienza del brivido, però, abbiamo detto corrisponde una reazione di ordine mimetico, la reazione del brivido è una reazione di ordine mimetico. resta il fatto che sia per il brivido che per la mimesi c’è in primo piano il carattere non autonomo dell’opera, il suo carattere eteroreferenziale. La mimesi non è solo questo, è anche dare forma, costruire l’eterogeneo, quel momento compositivo della forma è sempre un’espressione ALTRA del carattere mimetico. La mimesi ha un doppio volto: è il momento recettivo della nostra vita mentale, ma insieme la capacità di dare forma all’eterogeneo, comporre immagini, ha un ruolo anche attivo in certi casi, oltre che recettivo. L’accento qui però è sulla mimesi come reazione al brivido, sul momento della non autonomia, Adorno sottolinea la connessione brivido-mimesi. la forma artistica astratta è animata dall’impulso a farsi uguale a ciò che è altro da sé, cioè con la vita alienata, reificata, mercificata. La mimesi, in connessione e al pari del brivido, appartiene alla non autonomia, ed è reazione all’astrattezza dell’opera, dunque anche la mimesi, connessa al brivido, è espressione di una forza che reagisce alla sua forza opposta: l’astrazione, il carattere autonomo dell’opera. Questa reazione è IMMANENTE, al gioco di forze dell’opera, questo contenuto è INCAPSULATO nell’opera.
  • Tema della mimèsi, dove questa nozione di mimèsi fa tutt’uno con quella di comportamento mimetico, tanto che adorno dice “modo mimetico di comportarsi”.
  • Rapporto fra razionalità e mimèsi, che vale non solo per l’arte, ma per il nostro rapporto con il mondo. Nell’arte va affrontato perché essa ha un momento razionale e uno mimetico, e i momenti sono connessi.

Nella modernità brivido e mimesi sono essenziali per l’opera d’arte, in particolare brivido e mimesi sono forze immanenti all’opera d’arte, forze che risultano incapsulate nella stessa chiusura criptica, astrattezza, dell’opera d’arte. Queste forze si attivano in risposta alla messa in esercizio della forza a loro opposta, cioè la chiusura criptica, l’astrattezza. Nell’opera il momento della non autonomia, piano cui appartengono brivido e mimesi, si attiva per reazione al momento dell’autonomia. Nell’idea di astrattezza sono annodate due istanze: il carattere autonomo dell’arte moderna, ma anche il carattere di enigma dell’opera d’arte. Altra nozione connessa all’idea di brivido: la mimesi.

Primo punto da evidenziare: adorno definisce la mimesi o il comportamento mimetico come l’impulso a farsi uguali a ciò che è altro da sé. Parlando di un comportamento mimetico ci riferiamo all’impulso di identificazione col non identico. Il “con” è essenziale, è con l’identico, non “del”, perché se fosse  ridurremmo il non identico a identico, lo categorizzeremmo. Se diciamo con questo non avviene.

La mimesi così concepita implica uno scuotimento del soggetto, il soggetto nella sua determinatezza si identifica col non identico, e in tal modo viene scosso, la mimesi implica questo scuotimento, implica una destrutturazione del soggetto. Il soggetto presuppone una determinatezza, che viene messa fuori gioco. La mimesi è una spinta all’immedesimazione nell’altro, nell’eterogeneo, la mimesi è messa in atto di un movimento in direzione dell’altro, del non identico, e allora parliamo di un modo di entrare in relazione con le cose dove l’accento viene posto sul dare precedenza, priorità all’altro, è un lasciare che sia proprio l’altro a indicarci il modo in cui deve essere considerato, è l’altro a dirci qual è il suo senso. la mimesi è il modo di abitare il mondo dove a funzionare è la logica auto significante del fenomeno, è lui che si dà senso, non siamo noi a categorizzarlo, è l’altro a indicarci il modo in cui essere considerato. Per adorno la mimesi esprime un primato dell’oggetto, del non identico, ciò che costitutivamente sfugge alla presa del concetto, alla categorizzazione. L’oggetto è il non identico, non è categorizzabile. La mimesi è inoltre connessa all’idea di somiglianza, l’atto dell’imitare è almeno sotto un certo profilo un atto che consiste nel rendersi simili all’altro da se, nell’imitare qualcosa o qualcuno, colui che imita in qualche modo diventa l’oggetto imitato, è infatti l’atto dell’imitare originariamente e anche etimologicamente connesso all’idea del mimare (mimesis, da mimo), cioè all’idea di un fare che consiste nel fare come qualcun altro, questo significa mimare. Il luogo originario della mimesis, tenendo conto di questa connessione con l’imitazione, è il corpo (mimare vuol dire imitare l’espressività del corpo i gesti ecc), in particolare la sua espressività. Secondo Coller la mimesi ha le sue radici nella pratica della danza, specie le antiche danze rituali, come quelle dionisiache: viene in primo piano l’espressività del corpo, viene in primo piano un senso incarnato dal corpo che viene poi messo in scena dall’espressività del corpo, è un senso che viene messo in atto. Tenendo conto alle danze dionisiache, si pensi alla maschera: la maschera è uno strumento mimeticamente intonato, e adorno dice che indossando la maschera, l’appartenente al clan si trasforma nell’animale totemico o nella divinità temuta, chi indossa la maschera diventa il soggetto rappresentato dalla maschera, qui c’è un carattere enormemente mimetico.

La mimesis è connessa all’idea di somiglianza, che può essere anche proprio l’imitazione, diventare qualcun altro. La somiglianza è implicita alla mimesis, ed è somiglianza fra due termini: un primo termine che deve essere mimato o imitato, e un secondo termine, che è il soggetto imitante. Il punto è che durante il processo mimetico ciò che conta è che il secondo termine diventi simile al primo, e non l’inverso, ciò che conta è che il soggetto imitante assomigli all’oggetto imitato, non il contrario, è un rapporto asimmetrico, c’è una distinzione di rango fra i due termini, che non stanno sullo stesso piano. L’altro viene prima, l’oggetto imitato ha la priorità. In questo senso la mimesi esprime un primato dell’oggetto, dell’eterogeneo, del fuori.

Altro motivo da considerare è che nel parlare di un comportamento mimetico stiamo alludendo a una forma di conoscenza, certo conoscenza sui generis, ha la peculiarità che quella espressa dalla mimesi è una conoscenza che è tale proprio perché è già l’altro di per sé a farsene incarnazione, e il nostro conoscere è proprio di seguire l’altro in quella direzione nella quale l’altro andrebbe comunque. Ciò che conosciamo dell’altro dunque è un conoscere qualcosa che già ci è stato in qualche modo svelato dall’altro, questa conoscenza mimetica è nella capacità che il soggetto ha di inquadrare il fenomeno in quella luce che riesce a svelare un senso che il fenomeno già ha, e che ci sta svelando. Se parliamo di un atteggiamento mimetico, a essere enfatizzato è il tenore passivo della aesthesis, della nostra sensibilità, la percezione è passiva, involontaria, è quello che adorno chiama il momento erotico della percezione. Il momento erotico della percezione è il momento mimetico, un momento involontario, a-intenzionale. Noi ci poniamo in ascolto di qualcosa che proviene dall’esterno, è l’altro a dirci come dev’essere considerato, ma il mostrarsi dell’altro sfugge alla nostra intenzionalità, è qualcosa che accade, noi possiamo renderci disponibili ma il mostrarsi dell’altro accade indipendentemente dalla nostra volontà. È questo uno dei possibili volti assunti dalla mimesi, un’idea di mimesi che è in gioco se consideriamo il lato passivo della percezione, la sua disposizione al fuori che trascende ogni intenzionalità, ogni forma di controllo sul fuori.

La mimesi però include anche l’idea di un poiein, di un fare, costruire, produrre un mondo di immagini, rappresentazioni, e in questo caso è accentuato invece il tenore attivamente configurante del processo mimetico, non il lato passivo della vita mentale, ma quello attivo, la componente produttiva, il momento costruente. Ma i due momenti sono inseparabili, possono essere distinti ma non separati: c’è una mimesi che significa dipendenza dall’altro e identificazione con esso, ma anche una mimesi che vuol dire creazione, produzione di forme.

 Che l’opera d’arte ha carattere mimetico vuol dire che riesce a aderire al non identico, riesce ad accogliere il non identico, l’eterogeneo, l’altro dall’arte. Sotto questo profilo il carattere mimetico dell’opera consiste nell’impulso a lasciarsi permeare dal non identico, ad assorbirlo. L’opera, quindi, è tanto più mimetica quanto più il non identico lascia le sue tracce nella forma dell’opera, nella configurazione sensibile dell’opera. La forma risponde al carattere costruttivo dell’opera, il contrario della mimesi sotto tale profilo. A tal proposito adorno scrive che gli antagonismi, le dissonanze della realtà lasciano le loro impronte nella forma dell’opera, proprio a motivo del tenore mimetico della forma, che è quindi insieme COSTRUZIONE e MIMESI. L’opera è carica e lo porta a manifestazione.

Rapporto razionalità-mimesi pag 29, 7 righe dalla fine

Razionalità fa tutt’uno con l’idea di forma qui: il momento razionale dell’opera coincide con la sua struttura formale, nell’opera dare forma è per eccellenza un atto razionale, è unificazione, dare forma al molteplice empirico.

Parlando di mimesi adorno sta alludendo a qualcosa di più generale, al di là dell’opera d’arte. Per adorno una ragione senza mimesi, cioè che non si coniuga con essa, è una ragione che nega se stessa, non è più ragione ma irrazionale. La ragione non può rimuovere la mimesi. L’irrazionalità della ragione, che è ovviamente la ragione strumentale, consiste nel negare la sua connessione col non identico, con l’empirico. la ragione strumentale assolutizza l’identico, e vede nell’altro solo l’oggetto di una categorizzazione del non identico. La ragione strumentale cerca di superare il brivido, cerca di assoggettarlo, è una ragione che ha di mira l’esercizio di un controllo totalizzante sulla realtà. “togliere agli uomini la paura e renderli padroni” (incipit di dialettica negativa), dove la paura è paura del brivido. La logica espressa dalla ragione strumentale è una logica del dominio, una logica appropriativa, il punto però è che a rendere possibile questo dominio, idealmente assoluto, è una scissione: quella fra sensibile e intellegibile, forma e materia, apparenza e essenza. La ragione strumentale nasce così. Ma allora è la ragione strumentale che tende a negare l’idea di mimesi, cioè quell’impulso a farsi uguali al non identico. La ragione strumentale la nega perché la ragione strumentale tende a un’identificazione del non identico, non con, la ragione vuole categorizzare il non identico. L’identificazione con il non identico è un tratto essenziale della nostra vita percettiva, la percezione del più, dell’essenza, implica in primis una reazione mimetica. Se il brivido è l’urto con l’in sé, a quel brivido il soggetto risponde con una messa in atto del processo mimetico, certo involontario, che si realizza con la messa in immagine della stessa fuggevolezza del fenomeno, è una finzione mimetica secondo la quale la nostra vita mentale diventa immagine di quella fuggevolezza, e questo è costitutivo della nostra vita percettiva. La ragione strumentale si presenta come una ragione che quindi non si prende cura della sua genesi, del suo sorgere dal brivido e in quanto risposta a esso, è una ragione immemore, che non vuole ricordare il suo rapporto col non identico, è una ragione che sorge da una scissione (sensibile/intellegibile), ma ripudia quella scissione che la origina. La ragione strumentale non è l’unica ragione, adorno parla anche di ragione critica, una ragione comprendente, non esplicativa. Se la ragione strumentale è immemore, quella critica è rammemorante, si prende cura della sua genesi, è una ragione continuamente animata dal desiderio di rendere giustizia al sensibile, è una ragione quindi che vive e si nutre di mimesi, sa di dover trovare sempre di nuovo nella mimesi il suo correttivo, il rimedio da opporre di continuo al trionfo dell’identico, cioè all’affermazione della ragione strumentale come unica valida.

Adorno afferma che solo nel nuovo si coniuga nella razionalità senza riacutizzarsi. Nella cultura tradizionale pre moderna la ragione si opponeva al mimetico, la ragione strumentale vedeva il mimetico come antitetico alla ragione, la mimesi è vista come trionfo della natura, che qui è intesa come altro della cultura, della ragione.

Agli occhi della ragione critica invece la mimesi non si oppone, perché la ragione critica sa che l’apertura al mimetico è qualcosa di irrinunciabile, e lo è proprio in difesa di una ragione che sia umanamente degna, non indifferente al desiderio di felicità dell’uomo. La ragione critica conosce la sua relazione irrinunciabile col mimetico, e proprio per questo essa sa che la valorizzazione del mimetico non si traduce in una sua assolutizzazione, cioè non si traduce in una “riacutizzazione” del mimetico. Un mimetico riacutizzato sarebbe un mimetico assolutizzato, espressione di un annullamento del soggetto nell’oggetto. La ragione per adorno deve coniugarsi col mimetico, ed è cioè chiamata ogni volta a mettersi in discussione e discutere la sua assolutezza, e nella modernità viene proprio in primo piano l’idea di una ragione così fatta. La ragione deve pensare contro se stessa per impedire l’avanzamento della barbarie. La sua comprensione nel mondo è tanto più autentica quanto più riconosce il primato dell’oggetto, del non identico, cioè riconoscere la sua forza auto significante.

In Dialettica negativa Adorno parla del mimetico, e ne parla descrivendolo come una capacità di differenziare: differenziare, cioè capacità che il vivente dovrebbe avere di distinguere nel fenomeno anche il dettaglio più insignificante, e tutto ciò che sfugge alla presa del concetto. Differenziare vuol dire saper esperire l’oggetto secondo la modalità che riesce a cogliere il senso espresso dal solo mostrarsi delle cose, dei fenomeni. A essere in gioco è una conoscenza che assume la forma di un’affinità elettiva tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, è una conoscenza al di là di ogni dualismo gnoseologico, perché in tal caso la conoscenza che il soggetto può avere dell’oggetto consiste nel suo entrare in comunione con esso, dove comunione indica una relazione COLLUSIVA, dove la collusività è espressione di un rapporto di gioco, di un’interazione nella quale soggetto e oggetto giocano insieme, interagiscono. Chiaramente la conoscenza esprime un adattamento del soggetto all’oggetto, e non quello di conformare a sé la cosa. Nella mimesi il criterio di conoscere è diverso da quello scientifico, logico esplicativo.

Vico parla non di un piegare a sé le cose, ma piegarsi alle cose -> valorizzare il dettaglio, l’unicità delle cose.

A essere irrazionale è una ragione che nega la differenza, non è capace di vedere l’unicità di ogni fenomeno.

La facoltà mimetica coincide con la facoltà qualitativa, dove la qualità è l’unicità delle cose, il loro mostrarsi come non ripetibili. L’arte moderna sa che la sua razionalità fa tutt’uno con la sua capacità mimetica, essa sa che costruisce un mondo di immagini in cui è l’altro e la sua fuggevolezza a farsi oggetto della forma. La forma artistica è quindi il condensato di un’infinità molteplicità di impulsi mimetici, che abitano la struttura formale dell’opera, in questo senso la forma è contenuto sedimentato, sedimentazione di quegli impulsi mimetici. La conoscenza espressa dall’arte moderna trae il suo impulso da ciò che è altro dall’arte, dalla vita, in particolare dal carattere alienato e reificato della vita moderna. L’opera è animata dall’impulso ad assecondare l’oggetto, in questo caso il carattere alienato e reificato della vita moderna, in questo senso asseconda l’oggetto: il carattere alienato e reificato della vita moderna. Il modo mimetico di comportarsi è la misura in cui il soggetto, l’opera d’arte, lascia che l’altro imprima la traccia del suo in sé all’interno stesso dell’identico, che in questo caso è la forma dell’opera. La forma è un identico che si fa permeare, intridere dal non identico.

Brivido -> abbiamo visto che adorno parla di Rimbaud, la cui opera per adorno è esemplare. Rimbaud dice, nelle due lettere del Veggente 1871: “io è un altro”, e poi scrive “è falso dire: io penso, si dovrebbe piuttosto dire “mi si pensa”. Nella costruzione poetica il vero soggetto non è il soggetto empirico psicologico, il soggetto che parla. Nel dire ciò che dice, il poeta è parlato, è agito, e in Rimbaud a parlare e agire è una voce anonima, impersonale. Adorno in teoria estetica parla di una “voce collettiva”. Anche quando il soggetto dice io, a parlare non è quell’io ma una voce anonima, impersonale, collettiva. A parlare è una stratificazione di voci, voci che provengono dal basso, e il luogo dove questa stratificazione ha le sue radici è l’immemoriale, qualcosa che non può essere né tutto ricordato né dimenticato. L’immemoriale è la profondità opaca dell’opera d’arte, mai del tutto spiegabile, un’antichità più antica dell’antichità, perché non appartiene alla linearità dell’opera. A parlare nell’opera è un’estraneità, Rimbaud la chiama Anima universale, che sì è espressione di una trascendenza che trascende ogni determinatezza, ma è una trascendenza vuota.

  • L’opera è espressione di una desoggettivazione dell’io, io è un altro, che insieme è una sua pluralizzazione, l’io si moltiplica in una molteplicità di voci he si stratifica e ha le radici nell’immemoriale.
  • Astrattezza: in Rimbaud la rappresentazione assume un carattere sempre più astratto, perché ha un modo di rappresentare la realtà in cui le cose vengono liberate dalla loro oggettualità, vengono de realizzate. In Rimbaud si traduce nella costruzione di un mondo di immagini che assume un carattere quasi geometrico, e avviene in uno scenario dove la freddezza del puramente geometrico, che si trova nella sua lirica, si coniuga sempre con la leggerezza dell’inafferrabile. Ugo Friedirich ha parlato di una “magica freddezza”, quella di Rimbaud è una de realizzazione del reale in cui la freddezza del puramente geometrico acquista la forza evocativa della magia. Friedirich scrive che “il mondo reale si scinde per imposizione di un soggetto che non vuole ricevere i suoi contenuti, ma li vuole creare da sé”, e a essere creatore è un soggetto DESOGGETTIVATO, un soggetto che si moltiplica in una pluralità di voci, quel soggetto che crea o reinventa il mondo è la stessa opera d’arte, la stessa forma artistica: è la lirica poetica di Rimbaud a essere quell’io, non l’io Rimbaud, che “è un altro”. in Rimbaud, sempre in Friedrich, il risultato è una rappresentazione che si qualifica per la sua irrealtà sensibile, e in questa de realizzazione del reale si riesce a tradurre in immagine proprio quella de realizzazione. In tale scenario accade che gli opposti si fondono. Rimbaud ha anche la tendenza a dissolvere il tutto in una parte, se a essere evocato è il mare si parla di schiuma, non di mare. Tutto viene disarticolato nelle sue parti, l’unità si scinde nella molteplicità. Tutto questo è reso possibile da una composizione di un regno di immagini che ha una sua legalità interna, un suo principio interno di strutturazione, tutto in Rimbaud è sottoposto alla legge della forma, una legge che la forma artistica si è data da sola non l’ha tratta dal mondo esterno. Anche quando parla della perdita dell’io, Rimbaud parla di un lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi. Rimbaud vuole essere poeta e lavora per esserlo, è uno sregolamento consapevole, il disordine è risultato di una costruzione consapevole, ricercata: la costruzione è sempre congiunta a quella della mimesi. La realtà viene frantumata, ma consapevolmente.

C’è un rapporto di reciprocità tra astrattezza e carattere di merce -> proprio in considerazione di questo accoppiamento tra le due cose nell’opera d’arte, l’arte moderna assume il tono della sventura, cioè la sventura diventa la tonalità dominante dell’arte moderna, tonalità affettivamente e emotivamente dominante, e proprio qui adorno parla ancora di Baudelaire: adorno sta esplicitando uno dei motivi sulla base dei quali possiamo dire che l’opera di Baudelaire apre la modernità. Questa motivazione alla base di tale affermazione, o almeno una di esse, è che nell’opera di Baudelaire, cioè nella sua stessa configurazione sensibile, forma, possiamo cogliere una riflessione in atto sull’idea di modernità.

  • Teoreticamente vuol dire riflessivamente. In Baudelaire la riflessione teoretica o riflessiva si articola, cioè quella riflessività conosce un dispiegamento, una strutturazione, ecco in che senso si articola Noi possiamo leggere quel dispiegamento nella stessa forma artistica costruita da Baudelaire. Parliamo di una riflessività che risulta immanente alla stessa forma dell’opera, la quale in Baudelaire si offre a noi come un condensato di riflessività, o riflessione. Quest’aspetto è importante anche perché in teoria estetica adorno parla di una particolare forma di riflessione: riflessione seconda (pag 38). La riflessione seconda è una riflessione non esplicita, che viene montata insieme alla forma. Si parla di una riflessione che non viene esplicitata in termini logico discorsivi, proposizionali, è una riflessione che noi cogliamo a livello di forma. Una forma carica di riflessione si presenta come un linguaggio che si oscura, che tende al silenzio, che mira alla cecità. È una riflessione che possiamo cogliere quando l’opera manifesta la sua tendenza ad ammutolire, e in Beckett emerge in modo esemplare. Anche in Kafka emerge questo tipo di forma. Nel saggio che dedica a Kafka, adorno scrive che nel “processo” di Kafka, il fatto che le dita di Leni siano riunite da una membrana, si presenti come una figura primordiale, così come il fatto che i carnefici abbiano l’aspetto di tenori, tutto questo è più importante degli excursus sulla legge, cioè quando troviamo riflessioni esplicite, ma adorno dice che è più importante la presentazione sensibile di quelle figure, piuttosto che gli excursus, dunque le riflessioni esplicite. La capacità di parlare del mondo di Kafka viene a manifestazione con la massima intensità proprio quando la riflessione non viene esplicitata.

Motivo essenziale in adorno: connessione fra questa riflessività implicita e quel tono di sventura che connota l’arte moderna. Adorno ci sta dicendo proprio che il carattere riflessivo dell’arte moderna è qualcosa che imprime il tono della sventura, che è il sentimento della catastrofe, cioè il dolore per la perdita del senso. c’è fratellanza tra modernità e morte, dove la morte è la morte del senso.

4 termini: morte (del senso), sventura, negatività, dolore (per la perdita del senso: l’uomo moderno ha perduto qualcosa).

Alla base del tono di sventura che l’arte moderna esprime c’è la consapevolezza di poter identificare forma e vita, ideale e reale, possibile e effettivamente esistente. Tutto ciò in Baudelaire è rappresentato in modo tematico, ma in Baudelaire il dolore evocato da adorno è in particolare il dolore per il declino dell’aura, ciò che Benjamin chiama “il sentimento della catastrofe permanente”. A declinare in Baudelaire è il declino sì dell’aura, ma di un’aura duplice: declinano contemporaneamente 2 accezioni di aura, da una parte un’aura concepita come fondamento eterno e immutabile della realtà, a declinare è dunque un’aura da intendersi come espressione di un senso già dato una volta per tutta, è qui che si esprime la caduta degli eterni con la nozione di aura così intesa. Se l’aura la intendiamo così, come fondamento, il senso dell’opera è la sua fissità, il suo darsi come oggetto, il suo avere un HIC ET NUNC, non solo, ma quella fissità della consistenza oggettuale dell’opera è associata a un’idea del valore dell’opera che permane in modo identico a se stesso nell’opera, e questo è dato dal fatto che l’opera è determinata in una certa tradizione, l’aura è espressione della fissità di un senso storicamente determinato, che pretende di essere eterna, metastorico, l’aura è fissazione di qualcosa di storico che pretende di essere atemporale. L’aura ha anche un’altra accezione: è il più del fenomeno. Proprio in teoria estetica (pag 61), adorno dice che non è solo l’ora e qui dell’opera la sua aura, ma tutto quello che in ciò, nella determinatezza dell’opera, rimanda al di là della propria datità, il suo contenuto. L’aura è quindi espressione di una lontananza che appare ma che è inaccessibile, l’aura è l’essenzialmente lontano, l’inaccessibile e irrappresentabile. Parlando di una doppia caduta dell’aura con riferimento a Baudelaire, parliamo di un declino duplice, ed è chiaro che al declino della prima nozione di aura, corrisponde un esito che non è regressivo: se caduta un’aura come autorità della tradizione e fissità del senso, questa caduta è per l’uomo possibilità di liberazione, emancipazione, è il senso che torna a fluire. Se a cadere è l’altra, la caduta assume invece significato regressivo, perché se cade si annulla quella profondità di senso che costituisce l’altro del dato, la dimensione del possibile, la capacità che l’arte ha di farsi espressione sensibile della trascendibilità dell’esistente.

Importanza di 4 termini: sventura, morte, negatività, dolore. Qui questi termini, in qualche modo dicono la stessa cosa: adorno scrive che il nuovo è fratello della morte, morte intesa come morte del senso, così come il dolore è dolore per la perdita del senso. in Baudelaire troviamo proprio questo, infatti, quel tono di sventura che caratterizza la sua arte indica il dolore per la perdita dell’aura, come dice Benjamin sentimento della catastrofe permanente. L’arte di Baudelaire esprime il dolore per la perdita dell’aura, dove a cadere è un’aura duplice: da una parte l’aura esprime un senso che si impone per la sua necessità, per il suo carattere eterno, immutabile (l’aura significa anche questo) ed è specie a quest’idea di senso cui Benjamin allude parlando dell’hic et nunc dell’opera, associando questa nazione di hic et nunc al valore cultuale, di culto, di ritualità nel senso più ampio, quando il rito si fa espressione di un fondamento immutabile. Se a declinare è questa idea di declino dell’aura al declino dell’aura non corrisponde una regressione, anzi se declina questa nozione di aura l’uomo si libera, nuove possibilità di senso, l’uomo si emancipa. D’altra parte con aura Benjamin indica l’appropriazione di una lontananza inappropriabile, per quanto appaia vicina. In questo caso l’aura esprime il più del fenomeno, la sterminata ricchezza del fenomeno, del sensibile che è carico di tale inesauribile profondità di senso. se a cadere è questa idea di aura c’è regressione, perché tale declino esprime almeno una tendenziale eliminazione della profondità di senso del sensibile, e cioè l’altro del dato, è la dimensione del possibile. L’opera di Baudelaire ci parla di una caduta del senso, da intendersi contemporaneamente come caduta degli immutabili e degli eterni da una parte, e tendenza a neutralizzare il più del fenomeno dall’altra. Se a declinare è l’aura nel suo secondo significato, se il dato quindi perde la sua profondità di senso, resta solo la sua superficie, datità, il risultato di questa perdita è una assolutizzazione del dato, della superficie. A profilarsi è uno scenario in cui l’apparenza fenomenica delle cose tende a escludere ogni eccedenza, ogni possibilità di trascendere l’esistente, è un’apparenza senza apparizione, cioè superficie senza profondità. Il luogo del senso diventa solo quella datità, nessun rimando a un oltre, a un trascendimento. Ma nella modernità accade questo, la modernità è segnata da quella particolare articolazione della logica strumentale, che è la logica della merce che trionfa nella modernità, e anche in questo caso è una logica identitaria, dove l’unico senso è il valore di scambio delle cose. Ma un mondo pensato solo in funzione della logica strumentale dello scambio, la logica mercantile, è un mondo di fatto insensato: l’unico senso possibile viene a essere non senso, negazione del senso. quel senso fa tutt’uno con l’idea di morte, anche in questo senso nuovo e morte sono fratelli, perché si impone un senso che è non senso, c’è alienazione, disumanizzazione dell’uomo. Abbiamo la morte non solo del senso, ma anche del propriamente umano.

In un mondo dominato dalla logica della merce troviamo la tendenza a rimuovere la qualità, il concreto, l’individualità delle cose che è anche la loro enigmaticità, la loro irrappresentabilità, e questo a esclusivo vantaggio di quell’astrazione che è il valore di scambio, che è valore quantitativo non qualitativo, è misurabile e calcolabile, ma nell’epoca del capitalismo avanzato in cui vive Baudelaire, è proprio il valore di scambio a subire un processo di feticizzazione, viene assolutizzato dunque diventa feticcio. Il valore di scambio delle cose, il continuo d-m-d diviene feticcio, un idolo che vuole solo essere adorato perché quello è l’unico senso. e la venerazione di quell’idolo lo perpetua, e perpetua quella logica di merce. Eterno ritorno dell’uguale: quella logica si ripete infinitamente, secondo una necessità che sembra incontrovertibile. Alla mercificazione della realtà corrisponde una feticizzazione dell’apparenza, assolutizzazione del dato, idolatria dell’apparenza. Viene eliminato ogni altro senso. il dato, il fenomeno, esclude ogni rinvio a un oltre, e qui parliamo di idolatria dell’apparenza. All’idea tradizionale degli eterni in termini metafisici (vero, bello, bene), la modernità sostituisce un altro immutabile, e questa differente dea è proprio l’idea di merce, cioè la merce si pone come un surrogato dell’aura ormai infranta, la merce è nuovo fondamento, nuova espressione dell’immutabile. Merce come qualcosa di “sensibilmente sovrasensibile”, un feticcio. A caratterizzare questa logica è il suo carattere estraniante, un carattere insieme alienante e reificante.

Nel parlare di una identificazione CON la negatività si sta riferendo al momento mimetico dell’opera di Baudelaire, cioè il suo carattere di fatto sociale, che implica la messa in esercizio di un comportamento mimetico. L’opera di Baudelaire è animata dall’impulso a farsi uguale all’altro da sé, alla vita alienata cioè. L’opera di Baudelaire si fa uguale alla merce, almeno in parte, è un’arte che in modo consapevole esibisce il suo carattere di merce, e non è un caso che Baudelire dica che “l’arte è prostituzione”, l’arte esige la compromissione con l’esistente, l’arte interiorizza l’idea di merce, l’arte deve essere disponibile a farsi contaminare da ciò che le è estraneo, è finita l’epoca di un’arte pura, chiusa in sé e che celebra la propria autoreferenzialità. L’arte moderna è impura, e sa di doversi contagiare con l’esistente. La contaminazione è una necessità, sia etica che estetica. È un dover essere, un compito, e insieme qualcosa cui l’arte deve dare forma sensibilmente. È la necessità di un’arte che sappia tradurre in immagine l’idea di una politica cultura responsabile del proprio tempo, del presente. Quella che si pone a fondamento della lirica, paradossalmente, è ancora una musa, proprio come in Omero e Esiodo. Il fatto che alla base della lirica moderna di Baudelaire ci sia una musa vuol dire che ci sia ancora necessità di trascendere l’esistente, perché la musa incarna proprio questa idea di una trascendenza dell’esistente. Non a caso tutte le muse sono figlie della Memoria, di Memosùne, perché l’arte è rammemorante. Nel parlare di una poesia musaicamente ispirata noi stiamo parlando con Baudelaire di una poesia che trova non in sé, ma FUORI DI SE il suo principio fondativo, un principio che trascende l’esistente. “cantami o diva del peleideachille l’ira funesta” -> a parlare non è l’aedo, ma a parlare è attraverso l’aedo, la musa, cioè è una voce altra, esterna, impersonale. Adorno parla di quella stratificazione di voci, rimbaud dice “io è un altro”, la musa esprime proprio questo, esprime che a parlare attraverso l’io del poeta non è il poeta, ma questa stratificazione di voci, qualcosa di inappropriabile, l’altro del dio, dunque l’altro di quel dato che è l’io. Non un io, ma un noi, un qualcosa che però non va scambiato per una somma di tanti io, è un noi, una voce strutturalmente impersonale.

L’arte di Baudelaire è musaicamente ispirata, la musa ricorre nei Fiori del male esplicitamente, e dà il titolo a due liriche: “la musa malata” e “la musa venale”

La musa è malata, sofferente, l’arte è rammemorazione delle sofferenze. La musa è malata, è espressione di quel dolore sociale di cui si fa rappresentazione

La musa venale rappresenta una musa che si è trasformata paradossalmente in prostituta, e quella prostituta ogni sera “deve guadagnarsi il pane”, l’arte è inscritta nel mercato. L’immagine classica della musa diventa una prostituta che lungo le strade della città agita la sua borsetta in cerca di clienti. Il gesto della musa è assimilato al gesto del chirichetto che agita l’incenso (immagine di una ritualità). Quello che troviamo è una rappresentazione dove sacro e profano cortocircuitano, ed è un cortocircuito enigmatico: dove finisce l’uno e dove inizia l’altro? L’uno è nell’altro e viceversa, c’è un enigma indecifrabile. La poesia è ancora trascendimento dell’esistente, è una trascendenza che però viene riconfigurata come un’istanza che può palpitare solo dal basso, solo a partire dalla degenerazione della vita moderna. Ciò che risuona, attraverso la voce della musa, ancora sacra, è lo squallore di una vita resa estranea a sé, una vita alienata, ed è a tale vita che la poesia di Baudelaire vuole restituire voce.

Nella raccolta Spleen di Parigi, c’è un testo programmatico della poetica baudelariana, nella dedica a Arsène Houssaye dice che il compito assegnato al poeta è quello di “tradurre in una canzone il grido stridente del vetraio” tradurre in una canzone -> dare forma all’informe, che in tal caso è il grido stridente del vetraio, che rappresenta la vita moderna, la vita urbana, metropolitana, cui la sua poesia deve restituire voce, rendere giustizia alle cose.

Ora l’arte sa di doversi concepire come una pratica che è in relazione con tratti salienti della vita moderna, non ne può prescindere, deve sempre e di nuovo aprirsi al confronto con il mercato. La Parigi è quella di napoleone III, se l’arte rinunciasse a questa relazione con l’altro da sé e si chiudesse nella sua autonomia, allora il risultato sarebbe una conferma dell’esistente, ciò che vuole la ragione strumentale, che vuole un’arte chiusa in sé, che funga solo da consolazione.

Adorno parla di un atteggiamento reazionario, l’arte deve vendersi all’avversario, farsi contaminare (pag 30) ma proprio nel suo vendersi l’arte RIMANE PADRONA di sé. Che l’arte debba vendersi vuol dire che l’arte deve essere in grado di combattere l’avversario CON LE SUE STESSE ARMI. È un’arte che deve introiettare la merce, incorporare la stessa FORZA dell’avversario, proprio avendo di mira la messa in questione dell’avversario. Se la forza dell’avversario deve essere incorporata dall’arte, è solo perché questa possa usarla contro il suo avversario. In una raccolta di frammenti, “parco centrale”, Benjamin afferma che Baudelaire è stato l’impresario di se stesso, ha saputo pensare e strutturare la sua opera in relazione all’esistente, cioè al mercato, cioè alle mutate condizioni di ricezione dell’arte, l’arte non può prescindere da una presa in carico di queste mutate condizioni di ricezione. A partire da tale consapevolezza l’arte moderna deve ricomprendere il proprio statuto, questo indica che in primis l’artista deve sentirsi incluso nei rapporti di forza dominanti nel mondo, cioè in quel sistema di rapporti di produzione che è ciò che governa il mondo. L’artista deve riconoscere la propria posizione rispetto al sistema, che vuol dire per esempio contestare il sistema, non aderire a esso, o al contrario appoggiarlo, l’aspetto fondamentale è però che l’artista deve riconoscersi anche all’interno stesso del sistema, non solo rispetto a esso. L’artista moderno deve saper misurare la sua azione artistica in relazione al grado di sviluppo raggiunto nel proprio tempo dalle diverse tecniche con le quali l’uomo del proprio tempo dà forma all’esperienza. Quelle tecniche hanno una caratteristica precisa: sono sempre intessute di storicità, son cariche di una profondità storica. Le tecniche che usa l’uomo sono sempre espressione dei rapporti di forza e quindi di produzione dominanti in una certa epoca. Quella dove Baudelaire vive è un’epoca di profonde trasformazioni, innanzitutto innovazioni tecniche, dove per tecniche si intendono i diversi modi con cui l’uomo dà forma all’esperienza. Quelle trasformazioni riguardano non solo i modi e le forme della produzione economica, ma anche i modi e le forme della PERCEZIONE. Per Benjamin la percezione dell’uomo è storicamente determinata, muta al mutare delle condizioni storiche e dunque anche delle condizioni tecniche. L’innovazione tecnica è sempre espressione di una PRASSI, una prassi AGITA DA RAPPORTI SOCIALI, che per di più sono contraddittori, la storia vive di questa conflittualità tra forme opposte. In ogni innovazione è sempre leggibile l’affermazione di una tendenza, di una linea piuttosto che un’altra. Qualcosa è considerato meglio appropriabile, preferibile, rispetto a qualcos’altro, c’è una scelta.

L’opera di Baudelaire è caratterizzata da una riflessività, relativa alla realtà, immanente alla sua stessa forma.

Essa riguarda 3 ordini di trasformazione della realtà:

la trasformazione delle forme di ricezione dell’arte (cos’è l’arte per l’abitatore della metropoli moderna), la trasformazione delle condizioni di percezione in generale dell’uomo moderno (cosa significa percepire per l’abitatore della metropoli moderna), la trasformazione delle condizioni di produzione (al cui mutare mutano le condizioni di percezione). Le condizioni di produzione mutano le condizioni di percezione, le quali mutano storicamente proprio in quanto influenzate dalle condizioni di produzione, dai mutamenti sociali.

nella parigi del 19 secolo le innovazioni tecniche riguardano o coinvolgono aspetti diversi della realtà, ad esempio il modo di produrre la merce (automatizzazione e meccanizzazione del lavoro), così come il modo di distribuire la merce, si pensi ai passage di cui parla Benjamin, innovazioni, sono corridoi che si aprono nello spazio urbano, caratterizzati dall’essere coperti di vetro, fatti di suffissi in ferro, e illuminati da luce a gas, tutti materiali appartenenti alla sfera industriale. A caratterizzare i passage è una volontà di estetizzazione del materiale industriale, in senso negativo, si occulta il loro essere fatti per lo scopo di vendere, e vengono invece fatti apparire come un qualcosa che ha valore estetico, si cerca di venderli come belli, piacevoli. Questi materiali indicano la possibilità di leggere la riarticolazione dello spazio urbano attorno a quelle due uniche polarità, uniche strutture fondanti che ora diventano industria e mercato, ci sono loro e non più agorà, templi. I passage sono luoghi deputati all’esposizione delle merci, sono un mondo in miniatura al servizio del commercio. Parlando di innovazioni tecniche bisogna pensare anche all’evoluzione dei passage nella storia. Essi li troviamo per la prima volta a Parigi intorno al 1820, ma a partire dagli anni 50 dell’800 cambiano, inizialmente erano dedicati a esposizione di beni di lussi per un elite, poi no: diventano esposizione di una merce sempre più standardizzata, e per un pubblico di massa, omologato in tutto: gusto, sensibilità. Sono il luogo in cui l’innovazione tecnica si rende visibile. Parlando di innovazione tecnica si pensa anche al modo di strutturare lo spazio urbano, basti pensare all’importanza del progetto di ristrutturazione di Parigi per Benjamin, progetto descritto da lui nei termini di una “abbellimento strategico della città”, aveva uno scopo preciso: impedire la formazione delle barricate, dunque moti insurrezionale, e favorire il commercio e la circolazione delle merci. Il progetto prevede infatti l’inclusione della città all’interno di un sistema di coordinate a carattere geometrico, parigi viene iscritta in una rete ortogonale, fatta di lunghissimi viali, torna dunque il modello prospettico della finestra albertiana. È un paesaggio di cui godere, per occultare tutte le dissonanze della realtà. Abbiamo la sublimazione del non senso in un senso meramente astratto, quello geometrico. Parlando di innovazioni tecniche si parla anche del modo di abitare lo spazio, si pensi al flaneur di cui parla Benjamin, che però è una figura resistenziale, che si oppone alla folla, alla massa compatta e omogenea caratterizzata dall’universalità del suo aspetto e dalla meccanicità del suo movimento, la massa è fatta di tutti uguali e dunque tutti sostituibili. In una massa del genere l’artista deve ricomprendere il suo ruolo e lo statuto della sua opera, e lo fa operando NEL MONDO, al suo interno, in quella logica, ma proprio in quanto operante lì deve porsi all’altezza del proprio tempo, cioè all’altezza delle sfide del proprio tempo. Baudelaire infatti sa di rivolgersi a un lettore che legge nell’arte un puro oggetto di consumo, un prodotto suscettibile di vendita, quel lettore ipocrita cui Baudelaire dice di essere fratello (identificazione col non identico), il lettore è ipocrita in primis perché mente a se stesso, in quanto non si interroga sui presupposti impliciti dell’esperienza, sulle condizioni del suo fare esperienza del mondo, ma è ipocrita anche in senso etimologico, è ipocrites, cioè attore, è attore inconsapevole, non cosciente del suo essere attore, del ruolo che è costretto a interpretare su quel teatro che è il mondo della metropoli moderna. Sempre per Benjamin, a caratterizzare Parigi è la trasformazione dell’idea di committenza. Prima essa era operata dall’élite aristocratico-borghese, e quell’élite ancora dava all’arte una funzione veritativa, conoscitiva, dava all’arte ancora una serie di valori universalmente validi (bello, vero) e il poeta era custode di tali valori, era considerato un Vate, aveva una funziona profetica, sacerdotale, oracolare.

nell’età del capitalismo avanzato invece l’élite sta dando la posizione di committente dell’arte al mercato in quanto tale, e cioè alla massa, quell’ipocrita lettore, un pubblico sempre più omologato, che non vede più nell’arte una funzione conoscitiva, quei valori di Bello, Vero, ma vede nell’arte solo un mondo fantastico, di sogno, suscettibile di acquisto e in cui il fruitore può rifugiarsi per sfuggire dalla vita moderna.

L’artista della vita moderna sa di dover costruire un’opera che si ponga come equivalente sensibile del carattere alienato della vita moderna, è di quel carattere che l’opera deve diventare l’immagine.

Nel passo che leggeremo a pag 430, parlando del momento mimetico: identificazione col non identico, adorno afferma che l’artista della vita moderna (Baudelaire) è quello che resta padrone di sé, ma perdendosi in ciò che è del tutto effimero: combattere il nemico con le sue stesse armi, l’arte si vende all’avversario restando padrone di sé, introietta la forza del nemico per usarla contro di lui. Nel passo, questo altro da sé dell’opera ha un nome preciso, LA MODA. La moda incarna l’effimero, la moda è l’oggetto merce nel suo apparire sulla scena della vita sociale come una potenza che seduce, che incanta e che costringe l’acquirente a desiderarla, a vedere in quell’oggetto il luogo del senso, senso che però si caratterizza per il suo carattere effimero, cioè radicalmente contingente, la moda è ciò che vale solo adesso, appare solo per dileguare, la parola moda ha inscritto in sé il suo rapporto con l’effimero.

Anche l’opera di Baudelaire deve esibire sensibilmente tratti o aspetti che sono qualitativamente simili alla moda, cioè all’oggetto merce, cioè al carattere mercificato della vita moderna. Nel sistema la merce sorprende in primis per la sua mobilità accelerata, e a caratterizzare la moda è proprio questa sua velocità, vale ora e poi no, pretende di valere come assoluta ma non può. La merce è mobile, ed essa viene prodotta per essere immessa in un mondo ove tutto è fluido, transitorio, la circolazione delle merci in quanto circolazione del denaro è proprio questa fluidità. Tutto circola incessantemente, e nel mondo moderno tutto è fluido, liquido e transitorio. “tutto ciò che è solido evapora”, tutto ciò che si riteneva tradizionalmente vincolante evapora. Questa circolazione procede sempre dal denaro al denaro, da quello investito a quello guadagnato dalla vendita, merce venduta per il consumo che a sua volta genera altro consumo e così via. Nel mondo governato dallo scambio, l’oggetto merce si presenta come qualcosa che chiede di essere solo desiderato, consumato, un consumo che si realizza in funzione della logica sottesa al sistema, cioè per perpetuare quella logica strumentale basata sulla circolazione, è questo l’eterno ritorno dell’identico. In un simile scenario che ne è del senso dell’ente, dell’empiricamente esistente? A determinare il senso dell’ente è la sua precomprensione come equivalente, è il suo valere solo come dotato di valore di scambio, e allora il suo senso è sempre il suo intendersi come equivalente a un altro ente. Ogni ente è la sua sfruttabilità in quanto oggetto inserito in una rete mobile di traffici, di scambi. Il fine assegnato alla mobilità della merce non è che l’incremento del denaro investito nella messa in esercizio della produzione. È il ritorno con un salto inattivo rispetto al punto di partenza, tutto ruota attorno al denaro. Se l’opera d’arte deve farsi mimesi di ciò, anch’essa deve presentare quei tratti di mobilità, fuggevolezza e transitorietà che sono propri della merce. Tutto ciò ha a che fare col movimento mimetico dell’opera d’arte, qui però  Adorno afferma che quell’identificazione è dotata di una virtù AUTO RIFLESSIVA: “che riflette se stessa”, l’opera riesce a dare forma a quell’identificazione, cioè non è una riproduzione passiva, LE DA FORMA. Nell’aderire al non senso della realtà, dunque nel suo identificarsi CON, l’opera di baudelaire se ne distanzia, rimane padrona di sé. Nella riproduzione dell’eterogeneo, della vita mercificata, l’opera le dà forma, lo trasfigura perché lo iscrive in uno scenario che ha una sua legalità autonoma, una sua interna normatività, un logos diverso rispetto a quello vigente nel mondo. Il dare forma è anche, sempre, un prendere distanza, un affermare differenza rispetto a ciò di cui la forma si dà forma.

Il satanismo che chiama in causa adorno, è proprio l’esibizione di quel doppio movimento dell’opera d’arte, cioè della capacità che l’opera di Baudelaire ha di tenere insieme prossimità e lontananza. Adorno sta sottolineando che l’arte di Baudelaire ha un principio che è diabolico, nel senso di dia ballein, cioè il separare. Una separazione, dualità, mai ricomponibile. Il satanismo di Baudelaire opera nella costruzione lirica di Baudelaire come un principio immanente di divisione, di lacerazione, e in tal senso ad avere l’aria del satanismo è proprio quel formento dialettico che anima l’opera di Baudelaire. E quel fermento a partire da Baudelaire animerà tutta l’arte moderna. Il motivo del satanismo è importante, in Baudelaire ha due significati: da una parte l’idea della divisione, della separazione, dall’altra l’idea della ribellione, satana è l’angelo ribelle.

Una lirica di fiori del male: “Abel e Caino”, che è contenuta nella sezione “Rivolta”, e in cui l’umanità è presentata come la discendenza di Caino, che ha ucciso Abel. La discendenza dell’uomo viene declinata da Baudelaire come l’eterna ripetizione che è la lotta fratricida, il conflitto fra fratelli, ciò che si ripete è però anche un altro schema, la divisione della società fra vittime e carnefici. La lirica si conclude con un invito alla ribellione, ribellione da parte di un’umanità oppressa nei confronti di un Dio che appare muto spettatore, e che deve venire scaraventato sulla terra. Quello rappresentato da Baudelaire è in particolare il mondo della metropoli moderna, dove l’unico senso sembra essere quello costruito dalla logica strumentale dello scambio, ma quel senso propriamente compreso si rivela negazione del senso, cioè non senso, perché a imporsi come unico senso è un ordine che implica la disumanizzazione dell’uomo, la sua estraniazione. Questa consapevolezza della perdita del senso è qualcosa a cui Baudelaire risponde con un’arte che anima una volontà di ribellione, è ciò che Sartre descrive come un “odio nei confronti del dato”, è un odio anche della natura, perché la natura è qualcosa di già dato, e in Baudelaire ciò che è dato viene condannato, in quanto non serve un’attività formativa, lui ha un impulso al trascendimento dell’esistente, c’è l’elogio dell’artificiale.

L’arte di Baudelaire, fa notare Benjamin, è nutrita di una COLLERA IMPOTENTE, e fa proprio della manifestazione di questa collera impotente, la propria potenza, la propria forza inesauribile. Baudelaire non è più il poeta vate che la comunità riconosce come depositario di valori considerati eterni e immutabili, e lo stesso Baudelaire che pure continua a rappresentarsi come appartenente a un’elite aristocratica, non può che riconoscere che ormai quest’elite la quale il poeta di diritto appartiene, è fatta di soggetti declassati.

Protesta e ribellione sono fondamentali in Baudelaire, ma tale ribellione nei confronti dell’esistente fa tutt’uno col momento mimetico dell’arte. È proprio questa dualità continua fra mimesi e distanziamento, fra vicinanza e lontananza, a costituire quell’aria del satanismo.

Il soggetto del benché è l’arte moderna.

L’identificazione da parte dell’opera con ciò contro cui l’opera stessa insorge.

La critica dell’esistente, nell’arte moderna, non può essere mai disgiunta da un comportamento mimetico. Se l’arte moderna può funzionare come negazione dell’esistente, è solo per la mimesi che esercita l’arte.

Nell’identificazione l’opera d’arte ci induce a leggere il non senso della realtà, ci dà da pensare. L’identificazione con il negativo fa tutt’uno con la testimonianza del negativo, dunque con l’esigenza di riflettere intorno al negativo.

“il dolore per il mondo passa al nemico…” il dolore per la perdita del senso si tramuta in una costruzione di un mondo di immagini, caratterizzato dal fatto che a essere rappresentato è lo stesso non senso del mondo. Che passi al nemico vuol dire che l’abiezione della vita moderna viene fatta immagine. È come se a parlare in Baudelaire fosse quello stesso nemico contro il quale insorge. La forma non è senso che si oppone al non senso del mondo, anzi, la forma è espressione sensibile di quel non senso del mondo.

“perciò l’imago della natura…” la natura è negativa perché dato, in baudelaire trionfa l’artificiale.

In questo passo la natura è concepita come l’altro della cultura, della società. La natura qui racchiude quegli aspetti che si oppongono a ciò che l’uomo nel mondo ha plasmato. La natura è l’altro della prassi sociale. In Baudelaire l’arte vieta a se stessa di essere rappresentazione della natura. Bisogna pensare a Dialettica dell’illuminismo. La natura non si fa più percepire come un’espressione di una forza creativa illimitata. Nella modernità la natura non può più essere pensata così, perché a dominare è la ragione strumentale. Alla base di quest’idea mutata di natura c’è la ragione illuministica, cioè strumentale, e dunque non è altro che l’oggetto di una possibile spiegazione in termini matematici, la natura è oggetto di dominio, non può più essere espressione di una illimitata forza creativa, è solo oggetto di spiegazioni matematiche. Nella modernità, fare dell’arte un luogo deputato alla rappresentazione di una natura concepita come illimitata forza creativa, come natura naturans, sarebbe una menzogna, perché ormai si è imposta un’idea di natura che esclude tutto ciò, e questo a causa del dominio della ragione strumentale. Se l’arte rappresentasse questa natura naturans cadrebbe in un sentimentalismo tardo romantico. Quella di Baudelaire è un’arte che sa di non dover più rappresentare la natura come natura naturans, ma sa che deve rappresentare la stessa vita moderna, e cioè in primis la vita urbana in quanto vita sociale, non la natura. Ecco perché in Baudelaire c’è il divieto di ridurre l’arte a rappresentazione di quest’idea di natura. Certo Baudelaire parla di natura, ma è una natura come allegoria, che attesta la caduta dell’idea di natura come physis, è qualcosa che attesta la sua caduta e che insieme ci fa sentire il bisogno per questa natura caduta.

Un’arte che riproduca la natura naturans, la physis, sarebbe falsa, anche per un altro motivo: con l’affermazione della ragione strumentale l’uomo è stato disumanizzato, denaturalizzato, ha perso la sua natura, l’idea di uomo ora imposta dalla ragione strumentale non ha più nulla di naturale, intesa come physis, intesa come la sua indeterminatezza, la sua singolarità e questo perché l’idea illuministica di uomo si costituisce come pura forma, l’io penso, qualcosa che appartiene all’ordine dell’universale, altro che la vitalità della natura: l’uomo non vale più come singolarità incarnata, ma solo come l’esempio della sua classe di appartenenza, come un particolare che fa parte di un universale più ampio.

L’uomo subisce un processo di denaturalizzazione, e la natura un processo di desocializzazione. In dialettica dell’illuminismo affermano che “se l’animismo vivifica le cose, l’illuminismo reifica le anime”

All’idea di una natura miticamente animata, vivificata dalla presenza di una spiritualità interna, l’illuminismo pone un’esigenza di matematizzazione, e questo coincide con una desocializzazione della natura, perché la natura non è più abitata da potenze, da spiriti, e al contempo tutto ciò che è natura dell’uomo deve essere trasfigurato nell’intellegibile, deve essere categorizzato, e in questa denaturalizzazione si perde proprio il propriamente umano.

Diversi temi, come la questione del rapporto autonomia- non autonomia nell’arte, poi la mimesi, poi la centralità della nozione di forma artistica, e in relazione alla forma il motivo della riflessione, specie la riflessione che adorno chiama “riflessione seconda”.

A essere evocato è anche il tema della funzione critica dell’arte, la “protesta”, che con riferimento a Baudelaire chiama in causa quel sentimento di ribellione, al quale l’opera di Baudelaire risulta improntata.

Rapporto opera di Baudelaire realtà a lui contemporanea, cioè quella del capitalismo avanzato, la società delle merci. Adorno ci dice che la poesia di Baudelaire ha avuto il merito di codificare per prima, di tradurre in immagine due aspetti chiave nell’orizzonte della modernità, entrambi riguardano la relazione arte moderna-società. Relazione che l’arte ha con la società delle merci, quindi con una realtà dominata dalla logica strumentale dello scambio, che è espressione di una logica identitaria, del dominio. L’opera di Baudelaire ha tradotto in immagine 2 aspetti: 1) la condizione di ignoranza che occorre ascrivere all’arte moderna 2) la sua condizione di impotenza. L’arte moderna è impotente, e per quanto riguarda ciò l’arte moderna sa di dover portare a rappresentazione la sua stessa impotenza a dire, a rappresentare. L’arte sa di trovare nell’idea stessa di fallimento un suo tratto costitutivo. Perché? Se il senso ha abbandonato il mondo e di esso non restano che frammenti, il compito dell’arte è esibire la sua stessa impotenza a ricomporre in unità l’infranto, la sua impotenza a dare forme alle cose, ai frammenti, al caos. Quella moderna è un’arte che sa di dover configurare al meglio la sua stessa impotenza a tradurre in immagine, il suo non potere, seppure tentando, di dire l’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile.

Meno chiaro è la condizione di ignoranza dell’arte moderna -> sembra paradossale, perché sappiamo che l’arte moderna è carica di riflessione, se infatti fosse irriflessa, ingenua, non sarebbe ciò che invece è. Se l’arte moderna è ciò che abbiamo detto, essa vive e si nutre di riflessione, che non può prescindere dall’elaborazione critica del suo stesso modo d’essere, d’operare, della realtà ecc. l’arte moderna custodisce un sapere, e sa di dover fallire e dare forma al suo stesso fallimento. Dicendo questo sappiamo che l’arte è dotata di un sapere, come fa a essere per Adorno ignorante? Adorno lo dice con un senso specifico relativo al verbo ignorare. L’arte ignora qualcosa o è priva di qualche sapere: a essere in gioco è un non sapere, un’ignoranza che ha per oggetto la situazione storica dell’arte moderna, il suo essere in relazione col mercato. Parliamo di un’ignoranza che ha per oggetto la stessa tendenza dell’arte alla mercificazione, è questa tendenza a essere oggetto dell’ignoranza. Quest’ignoranza significa che quella tendenza per l’arte moderna è oggetto di un non sapere, ma noi sappiamo anche che deve essere cosciente della sua relazione col mercato, cioè la sua mercificazione. Come fanno a stare insieme i due aspetti? Bisogna chiedersi DI QUALE SAPERE l’arte moderna è priva, e sa di esserne priva? Questo sapere che manca, e della cui mancanza l’arte è consapevole, è un sapere esplicitabile, cioè che può essere detto, tradotto in termini logico discorsivi: di questo sapere l’arte moderna è priva, e questo lo sa, e lo sa a partire da Baudelaire e dal suo modo di tradurre in immagine la relazione arte-società. L’arte moderna non ha un sapere che può essere esplicitato col linguaggio proposizionale.

A pag 167 adorno arriva a dire che solo astenendosi dal giudizio le opere d’arte giudicano, questo vuol dire che il dire dell’opera non sta nel fare definizioni sulla realtà, cioè non si basa sullo schema logico discorsivo, non dice: “le cose stanno così”. L’opera d’arte non trasmette messaggi, non veicola contenuti a carattere informativo e comunicativo. Nelle opere d’arte anche la copula “è”, è la copia mutata qualitativamente fino alla negazione del suo essere copula di un giudizio di esistenza (cioè x è, x esiste). Se e quando l’opera d’arte dice x è, cioè laddove sembra pronunciare un giudizio di esistenza, ciò che sta dicendo non è davvero quello, quel giudizio non va considerato davvero tale, non può essere letta come un’asserzione fatta dall’arte attorno a un presunto fatto, ente esistente, e lo stesso vale per qualsiasi giudizio apparentemente formulato, tipo x è y, cioè quelli che attribuiscono un predicato al soggetto. Il punto è che l’opera anche quando sembra ripetere le strutture del linguaggio proposizionale, in realtà esprime una logica altra, una logica differente rispetto a quella incarnata dalla logica classica, cioè dalla logica aristotelica dell’enunciato. Quella dell’arte è una logica pseudo predicativa o para propositiva, dove il para esprime una vicinanza ma anche un contrasto rispetto al linguaggio tradizionale.

il sapere non può mai essere davvero esplicitato. Capire l’opera è capire la loro incapibilità, non si possono comprendere. Ma questa non è una rinuncia al comprendere, anzi è espressione di una necessità di un continuo urto del fruitore con l’enigma dell’opera d’arte, cioè con quell’ambivalenza di determinato e indeterminato. Risolvere l’enigma è dare la ragione della sua non risolubilità.

Mercato eteronomo dominato da una logica altra rispetto a quella dell’arte. Ne giunge al di là perché supera il vigente, la logica dominante, alla sola condizione di:

“solo portando l’imagerie di esso alla propria autonomia” autonomia dell’opera d’arte fa tutt’uno con la forma, solo avendo forma si connota per la sua autonomia, cioè per il suo carattere autoreferenziale, l’opera d’arte ha in sé la ragione di sé. La forma rende possibile la distinzione fra l’opera d’arte e la realtà, cioè il mondo delle res che popolano il mondo empirico. l’opera è una res, ma dotata di forma. Parliamo di una res che almeno in parte, cioè perché ha una forma, nega o contraddice il suo essere res, perché è una res formata. La res è ciò che popola l’empiricamente esistente, l’opera è una res DIFFERENTE perché ha forma.

Imagerie del mercato. il modo in cui il mercato, cioè l’esistente, costruisce storicamente la propria immagine. È l’autorappresentazione che il mercato dà di sé, quell’insieme di pratiche, narrazioni, rappresentazioni attraverso i quali la logica strumentale edifica e promuove l’ordine vigente nel mondo, il modo in cui quel mondo si auto rappresenta, e nel farlo si legittima e si celebra. Qui adorno si interroga sulla funzione che l’arte moderna ha di interrogare l’esistente e metterlo in questione.

La funzione critica però ha anche la capacità di andare al di là dell’esistente, ha una forza di trascendimento che la fa giungere oltre, con quello che chiama “funzione utopica dell’arte”, la sua capacità di far emergere nel dato, l’altro del dato, cioè il possibile. Mette in questione l’esistente, e ha capacità di trascendere, aprire al possibile che nella storia la ragione strumentale ha soffocato, non ha fatto realizzare, sono le possibilità inespresse. L’arte è testimonianza del fatto che quello esistente non è né l’unico né il più giusto dei mondi possibili, apre al possibile, alla possibilità di altri mondi. Proprio nell’esibire la non incontrovertibilità dell’esistente, annuncia il suo poter essere trasformato. Adorno ora si sta chiedendo a che condizioni è possibile, a che condizioni l’arte di Baudelaire giunge al di là del mercato?

Prima condizione è che l’arte neghi l’esistente, negazione che per adorno è particolarissima: può esercitarsi solo per azione della stessa forma dell’opera, è una negazione alla quale l’opera dà corso solo a motivo del lavoro che viene svolto dalla forma. Con riferimento alla negazione, adorno parla di “negazione determinata”, l’arte è una negazione determinata dell’esistente, configurata, cioè quella negazione si realizza proprio attraverso e grazie alla forma, per il tramite della forma.

Imagerie della propria autonomia a permettere di negare l’esistente è la capacità dell’opera d’arte di introiettare nella sua stessa struttura formale, la grammatica dominante nel mondo a opera della logica dominante. Il modo in cui la logica dominante afferma se stessa nel mondo, viene introiettata dall’opera d’arte. Interiorizzare la forza dell’avversario per usarla contro di lui.

Imagerie  modo in cui si autorappresenta il mercato, si legittima.

Quest’introiezione ovviamente rimanda alla mimesi, al carattere mimetico dell’arte moderna, alla sua capacità di farsi mimesi del carattere alienato della vita moderna.

A renderla arte è proprio il suo essere mimesi dell’irrigidito e dell’estraniato, nella dimensione moderna l’arte può essere solo ciò.

Irrigidito e estraniato esprimano il cadere dell’aura, cioè dell’impoverimento dell’esperienza dovuto alla neutralizzazione del più del fenomeno, cioè dell’aura, è dovuto alla rimozione della profondità di senso immanente alle cose.

Solo incorporando l’esistente, l’arte può funzionare come negazione determinata dell’esistente. L’opera d’arte si qualifica come capacità di mimare, per esempio, la stessa mobilità della merce, la sua velocità, la fluidità del suo circolare. Nel dare corso a questo assorbimento dell’eterogeneo, l’arte gli dà una forma DIVERSA, e questo equivale a una trasformazione del senso di quelle cose, l’opera dà a quelle stesse cose un senso differente dandole forma. L’arte introiettando la logica del mercato la iscrive in un orizzonte di senso qualitativamente differente rispetto all’ordine vigente nel mondo. Nel suo farsi mimesi del mondo l’arte istituisce una nuova logica e strutturazione dell’esperienza. La logica del mercato viene sì introiettato, ma tramite ciò viene riarticolata, quella logica mercantile introiettata subisce una metamorfosi per opera dell’arte, che lo fa secondo una regola che si è data da sola, senza farsela dare dal mondo esterno, dal vigente, perché nel suo essere forma l’arte non tollera intromissioni esterne, ma l’arte già di per sé custodisce la risposta al perché la forma è in quel modo.

Baudelaire non combatte contro.

Alla mercificazione della cultura l’arte moderna non oppone una presa di posizione esplicita, anzi è un’arte che vuole valorizzare, non negare, ciò che è muto. La funzione critica dell’arte nei confronti della realtà è una funzione cui l’arte assolve tanto meglio quanto meno esplicita è la messa in esercizio di questa funzione. Ciò che conta per adorno non è il fatto che l’opera dichiari un assenso o rifiuto nei confronti della società, non è ciò che dichiara che conta, adorno contesta l’idea di un’arte politicamente impegnata, esplicitamente contro qualcosa, un’arte militante, perché un’arte di questo tipo sarebbe una conferma del vigente, una ripetizione di quella stessa logica affermativa e definitoria che è la logica dominante. La forza critica dell’opera e la sua funzione utopica è qualcosa che chiama in causa non l’intellegibile, ma il sensibile, l’apparenza: la forma, è lì che si articolano quelle funzioni, ed è lì che c’è la riflessione seconda, cioè la riflessione montata insieme alla forma, implicita e immanente alla forma, alla struttura sensibile dell’opera. La riflessione seconda è quella che cogliamo quando l’opera tende ad ammutolire, tende al silenzio.

Il rifiuto dell’opera alla logica strumentale non è quindi esplicita, non è tradotta in termini logico esplicativi. L’arte moderna certo prende posizione vero l’esistente e i suoi effetti, ma questo non è mai disgiunto dalla qualità formale, è solo lì che si legge questa presa di posizione, in ciò che l’opera mostra, dà a vedere. Il dire dell’opera è sempre connesso al mostrare dell’opera. È un dire mostrando, cioè presentando sensibilmente qualcosa. Il dire dell’opera fa quindi tutt’uno col mostrare, e quel mostrare è un tacere, è un dire tacendo. Quel tacere è un indicare, un fare segno verso qualcosa, un indurre o sollecitare il nostro sguardo a riposizionarsi. Il linguaggio dell’opera d’arte spicca per il suo carattere GESTUALE, OSTENSIVO (indicare, fare segno), e che fa tutt’uno con il carattere performativo del linguaggio. L’opera non dice, ma mostra dove guardare, mostra una prospettiva, non la dice. Ed è una prospettiva sempre indeterminata, altrimenti riconfermerebbe l’esistente, seppure in direzioni diverse. Il senso dell’opera? Il senso è qualcosa che l’opera ha la capacità di agire, di eseguire, è un senso che fa tutt’uno col modo in cui viene messo in azione dall’opera, o col modo in cui sensibilmente viene incarnato dall’opera. Il senso è la qualità che connota la forma dell’opera. Non è un senso da dire, ma un senso da SENTIRE, questo è il senso incarnato dall’opera. Il senso non appartiene al piano del significato, inteso come logicamente determinato. Il senso appartiene al piano del come, non del che cosa, è un senso da sentire non da dire, è un senso che può essere avvertito solo facendo appello a un sentire che sia totale. E proprio la materialità e la forma dell’opera rendono possibile questo sentire del senso

Proprio nel suo essere mimesi della vita alienata, l’arte moderna diventa eloquente. Il momento mimetico lo vediamo nella forma. Il momento mimetico è connesso al momento costruttivo dell’opera, cioè alla forma che è risultato di una sintesi dell’eterogeneo, unificazione del molteplice. Il mimetico è una delle forze operanti nella forma. La forma è la sedimentazione di una serie di impulsi mimetici. Il carattere mimetico dell’opera viene anche definito “carattere espressivo”, cioè il suo apparire come esteriorizzazione di un interno, venir fuori di un dentro, e quel dentro non è però mai esplicitato totalmente dall’opera, quindi non possiamo mai coglierli totalmente. La profondità immanente dell’opera risuona tanto più intensamente quanto più l’opera riesce a farla precipitare nella forma, nella sua concretezza sensibile. Come può essere “innocente” un’arte del genere? “che non tolleri più l’innocenza”. A farla innocente è la sua muta eloquenza, cioè quella tensione fra il momento mimetico e il suo tacere, a renderla muta è che il mimetico appartiene al sensibile, ma non è mai totalmente esplicitabile. Il sensibile si pone in primis per la sua opacità, mostra all’esterno qualcosa, ma anche un residuo che non può mai essere esplicitato, l’opacità del sensibile sfugge all’esplicitazione. A rendere non innocente l’arte è proprio il suo essere carica di implicitezza, l’opera è carica di realtà, storia, dolori, esperienze sedimentate al suo interno: questo rende l’opera non innocente, impura, tutto il dolore palpita nella struttura dell’opera. L’arte di baudelaire si astiene dal tradurre la sua protesta in termini proposizionali: quella baudelariana non  dice la reificazione, cioè il non senso del mondo, non fa di quella protesta un’asserzione chiara e distinta, non la ritrae. Baudelaire non ritrae la reificazione.

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Il Disegno: tra reale ed espressione in Winnicott

Gianluca Giannini

A partire dalla superficie del foglio, il disegno prende vita, si “anima”, così da intuire ad esempio

  • Il “movimento” – è il caso del disegno applicato alla vita psichica contenuto Minuta M -. Il disegno come un sismografo si fa strumento per registrare dalla superficie psichica movimenti sismici, terremoti, scosse che parlano di movimenti in profondità. Come una scrittura musicale che registra il tempo e i suoi mutamenti, ripetizioni e al tempo stesso variazioni, ricordi ricombinati in memorie, scritture e riscritture, distruzioni e ricostruzioni.
  • Il movimento come fuga si coglienel disegno mappa dell’Uomo dei Topi come a rappresentare la geografia che rispecchia la costituzione psichica con i suoi intrecci e le sue sopravvivenze, il rimosso e il suo rovescio.
  • L’impatto sonororisuona nello schema che illustra le tanto comuni momentanee dimenticanze di un nome proprio. L’oblio, la caduta della memoria vede affacciarsi alla propria coscienza altri nomi sbagliati: il nome o i nomi sostitutivi trovanonel frammento sonoro ma anche grafico (Signorelli – Botticelli e Boltraffio) cioè nel ripetersi di sillabe/unità fonetiche acusticamente uguali e successioni di lettere uguali la ragione del nesso con pensieri rimossi (nell’esemplificazione citata, morte e sessualità). Così nello schema, i nomi sono trattati in maniera analoga agli ideogrammi di una frase da trasformarsi in rebus, in un gioco enigmistico. [1]
  • All’inverso il silenzio, l’afonia regna nel disegno “dell’albero dei lupi”: assenza di parola che genera l’urlo e con esso il risveglio liberatorio dal sogno. Si era svegliato e aveva visto qualcosa, qualcosa di terribile; sogno d’angoscia risultato dell’esplorazione sessuale e le sue fantasie. Privo della parola come un bracciante della tenuta di famiglia muto e di cui si diceva che gli era stata tagliata la lingua. E ancora con riferimento all’Albero dei lupi si coglie…
  • Il disegno come sguardo che non distingue tra il vedente e il visto, colui che vede da ciò che è visto. Il disegno con attenzione fissa il sognatore: la finestra si apre, si aprono gli occhi sull’altra scena. Egli si era svegliato e aveva visto qualcosa: io dormo, a un tratto mi sveglio e vedo qualcosa: l’albero coi lupi … è viva l’impressioni visiva
  • Il gesto si staglia nel disegno del piccolo HANS, basta un tratto e il disegno si singola-rizza e con lui Hans. La giraffa equivalente il corpo di Hans con un tratto di quella mano, il suo gesto sulla superficie del foglio, afferra qualcosa fuori della portata delle parole dicibili, il sessuale, il rapporto tra mente e corpo

L’indifferenziato, il funzionamento psichico e il suo linguaggio asemantico va al di là dei contenuti, il fonico o la sua assenza, il gestuale si avvicinano alla sua essenza originaria.

Nel testo G. Solla continua a creare associando. Continua a “giocare” con il di-segno così come nella clinica Winnicott gioca con il bambino 2 – proponendo lo scarabocchio (Squiggle) da cui sviluppare un disegno. L’ A. gioca a partire dal segno tracciato nella superficie del foglio associando liberamente sino a “allucinare” la fantasia soggiacente.Una nuova co-costruzione che definisce la realtà psichica nella sua continua riproposizione della dialettica tra ciò che conosco e ciò che continuamente invento. Penso di nuovo al disegno/sogno dell’uomo dei lupi – che porta alla scena primaria e all’angoscia di castrazione – e che con i suoi tratti non smette di simboleggiare l’esplorazione sessuale infantile concentrata su due problematiche: da dove vengono i bambini e se sia possibile una perdita del genitale. Una investigazione nella quale non la paura del padre è cosciente, ma quella del lupo. Di associazione in associazione (con riferimento alla storia del sarto che ha amputato della coda un lupo e al richiamo del complesso di evirazione) dalla superficie del foglio – l’autore – rileva un segno/tratto grafico ripetitivo che ripropone la sua forma la V che si staglia per farsi figura della forbice: nel disegno, i lupi, rovescio del cane familiare, sono ritratti con il muso e le orecchie appuntite, i rami del noce si fanno biforcuti. L’orrore dell’evirazione, il suo respingimento e l’identificazione del padre con l’eviratore trova fissitàin questo tratto ripetitivo.

La V (che non viene rilevata da Freud) allucina la fantasia soggiacente e si fa tratto che disegna il tratto dellaclinica, la singolarità del paziente.

A proposito di fobici, nel caso dell’uomo dei lupi, peraltro, il tempo messo fuori gioco dal paziente, trova un taglio nella decisione assunta da Freud che opera un taglio del tempo stabilendo la data della conclusione del trattamento.
Lo slittamento sulla clinica richiama alla mia mente il lavoro di M. Milner – vicina al pensiero di Winnicott – che ci conduce all’idea che “Il pensiero è visivo […] le immagini si fanno pensiero a placare il tormento di quegli intralci che sembrano precluderlo …” modi di pensiero pre-logici e non-discorsivi di cui siamo di solito inconsapevoli. Nella clinica i disegni sono come il linguaggio privato della paziente linguaggi che si deve imparare a leggere (e a parlare) se si vuole avere cura (resoconto clinico di Susan)

Il di-segno ha una forma che contiene il suo rovescio, l’informe e le sue traversie. Come nel sogno l’arcaico e il fantasma (come organizzazione psichica inconscia) fa la sua comparsa, emergono come strutture sottostanti al contenuto manifesto. Raffigurazioni che attengono al primitivo, a forme di simbolizzazione “fuori dal tempo” lineare.

Il disegno come il sogno muove alla polisemia, deformazione – spostamento – condensazione laddove qualcosa si inventa e si scopre allo stesso tempo. Rimemora la “speculazione immaginativapropria della costruzione del pensiero psicoanalitico.
Ruotano i capitoli i quali articolano, ognuno a suo modo, la domanda che non cessa di farsi attorno al tratto grafico del disegno:
Da dove viene la linea del disegno? […] da dove viene la linea di Freud, la linea psicoanalitica del disegno?”. “Potremmo dire – risponde l’A. – la linea viene dal taglio. Viene dal fatto che la psicoanalisi si inventa a partire da un taglio che è ferita, défaillance, perdita, trauma. Proviene, cioè, da un posto lasciato vuoto, da una assenza, di cui la psicoanalisi vuole essere la scienza”.
Difatti, a partire dal taglio ombelicale si declina la singolarità di un corpo. Il taglio rimanda al lato enigmatico dell’enigmatico, all’origine dell’inizio misterioso e invisibile.

Il testo, frutto dell’incontro con il testo freudiano, non è mera ripetizione dello stesso ma trova una sua singolare misura, si muove in libertà, non si accontenta del sapere noto, approfondisce e si mette in gioco sino a trovare la sua propria parola, il suo proprio disegno.

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Digressioni sulla prassi dell’Attaccamento in Edward John Mostyn Bowlby

Luca Giannetti

Edward John MostynBowlby nacque a Londra in una famiglia vittoriana altoborghese, nel 1907. Durante l’infanzia venne cresciuto insieme ai fratelli dalla bambinaia, che per lui era come una madre; a dieci anni lui e il fratello Tony furono inviati in collegio e questa separazione segnò tutta la sua infanzia. Fu tirocinante come analista con Joan Riviere e con la supervisione di Melanie Klein.

Dopo aver lavorato per un periodo nella Child Guidance Clinic di Londra, decise di entrare nell’esercito in veste di psichiatra militare, e ricoprì questo ruolo durante la seconda guerra mondiale. Terminata la guerra, venne nominato delegato-membro del comitato governativo di salute mentale, ed entrò a far parte della Tavistock Clinic dove, oltre ad essere scelto come vicedirettore, ebbe il compito di sviluppare il dipartimento infantile. Nel suo ” rapporto WHO”, redatto nel 1951 con il titolo “Maternal Care and MentalHealth”, era imperniato su due concetti: quello dell’insufficienza di cure materne e quello di mancanza di cure materne. Bowlby propose un lavoro suddiviso in due parti: nella prima parte ripercorreva le precedenti riflessioni e ricerche in materia, fatte da altri studiosi, mentre nella seconda ipotizzava e proponeva delle metodologie di prevenzione per contrastare carenza e privazione delle cure materne. La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza d’attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver (madre) e quindi la formazione di modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Con la crescita, l’attaccamento iniziale che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un “caregiver di riferimento”, si modifica e si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a ridursi notevolmente: nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà infatti maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario, e di legarsi a nuove figure di attaccamento. Attaccamento ben sviluppato: in questo periodo, che va dal sesto mese al ventiquattresimo, si crea l’effettivo legame preferenziale ed orientato verso una persona. Secondo Bowlby in questa età è evidente che l’attaccamento è ben sviluppato perché si manifesta l’ansia alla separazione: solo l’ansia da separazione e la paura dell’estraneo sono, secondo Bowlby, due comportamenti che ci fanno capire che l’attaccamento nei confronti del caregiver è ben sviluppato. L’attaccamento con il caregiver diventa perciò stabile e decisamente visibile: il bambino richiama l’attenzione della figura di riferimento, la saluta, la usa come base per esplorare l’ambiente, ricerca in lei protezione in particolare se si trova al cospetto di un estraneo. Il legame di attaccamento tra genitori e figli venne studiato e sperimentato su piccoli primati dai coniugi Harlow (Harry Frederick e Clara MearsHarlow) tra il 1958 e il 1965. Gli Harlow allevarono cuccioli di macaco privandoli della madre; le scimmie disponevano solo di due sostituti materni: uno era un peluche di morbida stoffa e l’altro di metallo; quest’ultimo era fornito di biberon al quale le scimmiette affamate si attaccavano per succhiare il latte. I coniugi, dopo ripetute osservazioni, notarono che le scimmiette trascorrevano la maggior parte del tempo avvinte al pupazzo di stoffa, anche se era privo di biberon, e si attaccavano alla sagoma metallica solo per poppare. Dopo qualche settimana le scimmie divennero tristi e spaurite a causa della mancanza del contatto fisico e di sguardi. Quando le scimmie divennero adulte si comportarono come “cattive madri”: mostravano indifferenza verso i loro piccoli, non li allattavano, non si ribellavano se succedeva qualche cosa ai piccoli e arrivavano ad aggredirli e rifiutarli.

Dal 1963 al 1980, Ainsworth in Baltimora, 15 coppie madri-infanti longitudinali, con visite ogni tre settimane per un anno, e sottoposte alla fine del primo anno di età  a strange situation, con i seguenti risultati: le madri che rispondono prontamente hanno bambini che piangono poco e attaccamento sicuro. La differenza non la fa il tempo totale trascorso insieme al caregiver ma il buon timing tra pianto-segnale e supporto del caregiver (e la maniera affettuosa o meno di tenere il bambino). I bambini con attaccamento sicuro si consolano facilmente e subito ripartono a giocare. Ma questi con attaccamento sicuro introiettano un caregiver disponibile anche in sua assenza fisica. Al ritorno del caregiver lo salutano affettuosamente non arrabbiati. Alcuni bambini che protestano molto a casa e con frequenti separazioni dal caregiver erano apparentemente indifferenti all’assenza del caregiver nella strange situation e evitavano il caregiver al suo ritorno: attaccamento evitante difesa autistica. I caregiver degli evitanti erano generalmente distaccati dal bambino specialmente quanto lui era in cerca di contatto, insensibili ai segnali dell’infante. Infine si fece la distinzione tra insicuri evitanti ed insicuri ambivalenti.

– Primo volume di attaccamento e perdita di Bowlby 1969

Non più pulsioni biologicamente fondate ma la mente come insiemi di sistemi che si attivano e si disattivano in base all’interazione con il contesto (es. sistema di attaccamento vs sistema esplorativo). Terzo ed ultimo volume pubblicato nel 1980 sul tema della perdita. Quando il sistema di attaccamento si attiva e non è “terminato” da un comportamento di supporto del caregiver l’infante si difende dalla frustrazione in modo dipendente (ambivalente) o controdipendente (evitante). Dal 1980 al 1990. Linee guida cliniche di Bowlby. Il terapista inizia con il capire le difficoltà relazionali del paziente. Il terapista agisce come base sicura per il paziente. Il terapista cerca di guidare il paziente verso il ricordo della vita infantile e degli eventi dolorosi (sono più importanti gli eventi effettivamente accaduti che le fantasie). Il terapista cerca di promuovere un insight sui MOI del paziente derivati da tali esperienze infantili. Il terapista promuove una revisione di tali modelli.

 

Sviluppi Moderni

Un importante strumento clinico per valutare lo stile di attaccamento negli adulti è la Adult Attachment Interview (AAI), messa a punto da Mary Main (1985) e collaboratori. Si tratta di un’intervista semi-strutturata, della durata di circa un’ora, nella quale vengono poste 20 domande all’intervistato. L’intervista indaga la rappresentazione dell’adulto sull’attaccamento (cioè i modelli operativi interni) valutando i ricordi generali e specifici della sua infanzia. Le risposte sono codificate in base alla qualità del discorso (in particolare la coerenza) e il contenuto. L’AAI permette di classificare l’attaccamento degli adulti in base a quattro categorie:

Sicuro (F, free): valorizzano le relazioni di attaccamento, le descrivono in modo equilibrato e influente. Il loro discorso è coerente e di natura non difensiva.

Distanziante (Ds, dismissing): mostrano lacune di memoria. Riducono al minimo gli aspetti negativi e negano l’impatto personale sulle relazioni. Le loro descrizioni positive sono spesso contraddittorie o non supportate. Il discorso è difensivo.

Preoccupato (E, entangled) : mostrano continue preoccupazioni rispetto alla relazione con i propri genitori. Discorso incoerente. Hanno rappresentazioni conflittuali o ambivalenti del passato.

Non risolto (U, unresolved) : evidenziano traumi derivanti da perdite o abusi non risolti.

Sulla base dell’ipotesi della stabilità nel tempo dei modelli operativi interni, la ricerca sull’attaccamento è stata estesa alle relazioni di coppia. Bartolomew e Horowitz (1991) hanno definito quattro stili di attaccamento nell’adulto, basati sull’immagine che l’individuo ha di sé e dell’altro[]:

a)Stile sicuro: modello di sé positivo e dell’altro positivo. Gli adulti con un attaccamento sicuro tendono ad avere opinioni positive su sé stessi, sui loro partner e sulle loro relazioni. Si sentono a proprio agio con l’intimità e l’indipendenza, bilanciando le due.

b)Stile ansioso-preoccupato: modello di sé negativo e dell’altro positivo. Gli adulti ansiosi-preoccupati cercano alti livelli di intimità, approvazione e risposte dai partner, diventando eccessivamente dipendenti. Tendono a essere meno fiduciosi, hanno opinioni meno positive su sé stessi e sui loro partner e possono mostrare alti livelli di espressività emotiva, preoccupazione e impulsività nelle loro relazioni.

c)Stile distanziante-evitante: modello di sé positivo, dell’altro negativo. Gli adulti che ricadono in questa categoria desiderano un alto livello di indipendenza, e spesso sembrano evitare del tutto l’attaccamento. Si considerano autosufficienti, invulnerabili ai sentimenti di attaccamento e non necessitano di relazioni strette. Tendono a sopprimere i loro sentimenti, affrontando il conflitto prendendo le distanze dai partner di cui spesso hanno una scarsa opinione.

d)Stile timoroso-evitante: modello di sé negativo, dell’altro negativo. Gli adulti timoroso-evitanti hanno sentimenti contrastanti sulle relazioni intime, desiderando e al tempo stesso sentendosi a disagio nella vicinanza emotiva. Tendono a diffidare dei loro partner e si considerano non degni di attenzione. Come nello stile distanziante, gli adulti timorosi tendono a cercare meno intimità, sopprimendo i loro sentimenti.

Bretherton’s Article.

Bowlby nel 1950 (The Nature of the Child’sTie to His Mother) aggiunge concetti dall’etologia: ci sono degli stimoli sociali che generano l’attivarsi o il disattivarsi di un sistema psichico. Esempio: assenza diviene intollerabile fa attivare il sistema di attaccamento per poi riprendere l’esplorazione. Sistema di attaccamento è diverso dal sistema di regolazione delle esigenze fisiologiche. Risultati di Ainsworth in Uganda (studio longitudinale su 26 famiglie con bambini non svezzati seguiti per nove mesi), l’insicuro piange spesso esplora poco, il sicuro piange poco esplora spesso, l’evitante (non attaccato) non mostra differenze di comportamento in presenza o assenza del caregiver. Il sicuro era correlato positivamente alla sensibilità materna. Risultati di Ainsworth in Baltimora (studio longitudinale su 26 famiglie fino un anno di età). L’insicuro alla riunione della strange situation vuole contatto ma scalcia (ambivalente), l’altro tipo di insicuro cerca la mamma quando lei è assente ma la ignora quando torna (evitante).In attaccamento e perdita, primo volume,Bowlby sottolinea che una coppia caregiver-infante con una buona sintonia relazionale prova piacere nello stare insieme, una coppia caregiver-infante con una cattiva sintonia prova ansia e infelicità nello stare insieme. In attaccamento e perdita secondo volume (Separation), Bowlby sottolinea che ci sono due eventi che attivano il sistema di attaccamento: l’assenza del caregiver e la presenza di una esperienza ignota. La coppia infante-caregiver è quindi chiamata ad un corretto bilanciamento tra sistema esplorativo (Libertà) e sistema di attaccamento (Sicurezza). La buona sintonia tra caregiver ed infante crea un MOI (automatico, inconscio) in grado di prevedere correttamente i comportamenti reazionali degli altri e quindi comportarsi di conseguenza. Infine in questo volume Bowlby sottolinea la caratteristica transgenerazionale dei MOI. In attaccamento e perdita terzo volume (Loss), Bowlby sottolinea il processo di creazione e mantenimento di un MOI. Il MOI si mantiene grazie ad un processo di attenzione selettiva verso alcune informazioni provenienti dall’esterno e la sistematica esclusione di altre informazioni. Le informazioni escluse fanno parte di tre categorie: cose che i caregiver non vogliono far ricordare al bambino nonostante lui le abbia vissute, situazioni nelle quali il bambino percepisce il comportamento dei genitori come intollerabile, situazioni nelle quali il bambino ha fatto o pensato di fare qualcosa di cui si vergogna molto. Quindi questi aspetti non vengono integrati nella personalità.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 13

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (VII)

3.2. La simbolica del male (II)

3.2.3. I miti del “Principio” e della “Fine”

Soltanto l’uomo moderno è nella condizione, forse privilegiata ma certo imbarazzante, di poter riconoscere come tale il mito. Egli vive il tempo che segue la “crisi” attraverso la quale mito e storia sono distinguibili, con il conseguente rischio, nota Ricœur, di cedere alla tentazione di una «radicale demitizzazione di tutto il nostro pensiero»[1]. L’alternativa alla demitizzazione è la demitologizzazione, il fare a meno del «falso logos del mito»[2], di quello pseudo-sapere (che si riscontra, ad esempio, nella lettura del mito come eziologia) rinunciando al quale è possibile riconquistare il mito come mythos.

Un’integrazione della dimensione mitica nel discorso filosofico richiede un disporsi all’esercizio esegetico e alla comprensione del mito come seconda stratificazione simbolica che va ad aggiungersi ai simboli primari.

Il mito stesso, in realtà, aveva fornito la materia da cui i simboli elementari erano stati estrapolati, e questo ci consente di comprendere come i simboli, primari e secondari, siano i mediatori attraverso i quali l’esperienza dell’impurità, del peccato, della colpevolezza si esprime: senza il linguaggio dei simboli tale «esperienza rimarrebbe muta, oscura, chiusa sulle sue contraddizioni implicite»[3].

Lo studio dei simboli mitici del male si articola nella messa in atto e nella verifica dei presupposti che Ricœur assegna alla loro specificità. Il primo riguarda l’archetipicità cui si eleva l’esperienza raccontata dal mito in modo da «includere l’umanità nel suo insieme in una storia esemplare»[4] il cui protagonista non sia più solo l’eroe, o il titano, o Adamo, ma l’“uomo” inteso come totalità, come esistenza, come «universale concreto»[5]. In tal senso, ricorda Ricœur, San Paolo dice che il peccato di Adamo è il peccato dell’uomo.

Il racconto mitico rende concreta l’universalità dell’uomo attraverso il movimento conferito all’esperienza che si rivela, non più riduzione al presente, ma sezione intermedia ed esemplare di una «storia essenziale della perdizione e della salvezza dell’uomo»[6], di un percorso compreso tra principio e fine del male.

La tensione a risolvere l’enigma di un uomo fondamentalmente innocente e destinato alla felicità, eppure esistenzialmente colpevole ed alienato, assegna al mito, secondo Ricœur, «una portata ontologica»[7] insita nel render conto del passaggio tra i due poli dell’enigma che, non essendo una transizione logica, può essere solo raccontato.

In questa «triplice funzione di universalità concreta, di orientamento temporale e infine di esplorazione ontologica»[8] è implicita l’irriducibilità del mito ad una semplice traduzione allegorizzante e la sua caratteristica di autonomia in forza della quale il mito «significa ciò che dice»[9].

Il tenace richiamo ricœuriano alla funzione simbolica di secondo grado del mito elude l’atteggiamento gnostico cui il mito stesso invoglia nell’esprimere quel problema del male che sembra essere «ad un tempo la più grande provocazione a pensare e l’invito più subdolo a sragionare»[10]. In questa continua sfida in cui la ragione sembra disporre di mezzi inadeguati ai suoi obiettivi, Ricœur sottolinea l’opportunità di porsi di fronte ad un mito che non sia storia o spiegazione, «ma apertura e scoperta»[11].

Per sua natura, «il mito è una parola e in esso il simbolo prende la forma del racconto»[12]: la fenomenologia della religione considera il racconto mitico come la formulazione verbale di un’esperienza vissuta prima di essere espressa, dando maggior peso all’azione rituale come rappresentazione più completa dell’azione totale in cui questa forma di vissuto si esprime; la simbolica del male, invece, tentando di risalire alla narrazione mitica partendo dalla coscienza pre-narrativa, certa che «in questo passaggio […] si concentra tutto l’enigma della funzione simbolica del mito»[13], considera la forma di vita cui la religione allude come esperienza non vissuta ma solo “significata” nel mito o nel rito. Alla fenomenologia della religione, ammette Ricœur, bisogna riconoscere il merito di aver individuato «una struttura mitica che sarebbe la matrice, propria ad una mitologia o ad un’altra, di tutte le figure e di tutti i racconti determinati»[14]. La significazione di fondo di tale struttura è una globalità, una pienezza, una totalità d’essere solo intenzionale, prospettata, e non data come vorrebbe la fenomenologia della religione, l’«intuizione di un elemento cosmico globale, dal quale l’uomo non sarebbe separato, […] [in una] pienezza indivisa, anteriore alla scissione del sovrannaturale, del naturale e dell’umano»[15].

Dunque, secondo Ricœur, «l’unità, la conciliazione e la riconciliazione devono essere dette e agite»[16] perché l’uomo del mito, che è già «l’uomo della scissione»[17], possa sopportare l’angoscia della perdita di quella integrità che il mito indica come «stabilita, perduta e ristabilita pericolosamente, dolorosamente»[18].

Il sacro, afferma Ricœur, è “fluttuante”: l’eterogeneità dei miti, l’arbitrarietà che sembra occultare la radice strutturale comune, è l’effetto del riferimento ad un’esperienza che, pur riguardando l’uomo, non è da esso vissuta. Il mito, nella sua molteplicità espressiva, manifesta «il carattere unicamente simbolico del rapporto dell’uomo con la totalità perduta»[19], carattere che risiede nell’esigenza di un corredo di analogie la cui fonte non può essere altro che la contingenza. In questo squilibrio «tra la pienezza puramente simbolica e la finitezza dell’esperienza che offre all’uomo degli “analoghi” del significato»[20] si attesta l’espressione di un sacro dai contorni sfumati, custodito da racconti che attingono alla contingenza per i propri elementi costitutivi.

Ma perché il racconto? Il paradigma drammatico da cui sorge il mito trova necessariamente riscontro in un racconto mitico i cui personaggi vivono avvenimenti drammatici. Anche se, sottolinea Ricœur, il tempo in cui il mito si colloca è «fin dal principio diversificato dal dramma originale»[21], è proprio quel tempo originale, con il suo carattere drammatico, a motivare, insieme alla necessità di segni contingenti, la forma di dramma propria del mito, il quale dunque rimanda simbolicamente ad una pienezza significata, non solo, ma «significata attraverso una lotta»[22].

L’esame fin qui condotto consente a Ricœur di sostenere che «totalità di senso e dramma cosmico costituiscono le due chiavi che ci serviranno ad aprire i miti del Principio e della Fine»[23], miti dei quali egli propone una tipologia articolata in quattro modelli di riferimento. L’avvertimento ricœuriano è che tale classificazione sia considerata non staticamente, ma in una dinamica che permetta di cogliere i “tipi” nel «gioco delle loro segrete affinità»[24] e che sia esercizio preparatorio ad «una “riassunzione” filosofica del mito»[25].

Origine e fine del male vengono dunque considerate in «quattro “tipi” mitici di rappresentazione»[26]: il “dramma della creazione”, che racconta la creazione come lotta di Dio contro il caos; il “mito della caduta”, in cui, a creazione avvenuta, si verifica l’evento irrazionale della “caduta” dell’uomo nel male; il “tipo tragico”, intermedio tra creazione e caduta, che rievoca la storia, propria della tragedia greca, dell’eroe inevitabilmente colpevole; il “mito dell’anima esiliata”, che si distingue per la scissione che opera nell’uomo tra anima e corpo, e che sviluppa il tema dell’«anima venuta da altrove e smarrita quaggiù»[27] caro ai filosofi greci.

Le teogonie sumero-accadiche del ii secolo a.C. si prestano ad una adeguata interpretazione del “dramma della creazione”. L’esegesi ricœuriana si concentra sull’Enuma elish[28], poema che racconta la cosmogonia come atto conclusivo della genesi del divino, per smentire, successivamente, l’ipotesi che accomuna alcuni frammenti inseriti nell’Epopea di Gilgamesh al mito biblico della caduta.

L’importanza dell’Enuma elish risiede, proprio perché considera la teogonia precedente alla cosmogonia, nella significazione di un originario principio del male, rappresentato dal caos, anteriore alla genesi del divino che interviene a stabilire, infine, l’ordine del cosmo. Questo mito babilonese della creazione si distingue infatti, secondo Ricœur, perché nel mostrare l’originarietà del male, esclude la costituzione di un mito della caduta, di un racconto mitico, cioè, che prospetti «una degradazione dell’ordine distinta dalla sua istituzione, in termini mitici, “posteriore” alla creazione»[29].

Il tipo “tragico” trae il suo nome dalla tragedia greca che, secondo Ricœur, pone il filosofo di fronte alla «manifestazione improvvisa e completa dell’essenza del tragico»[30] costituendo l’analogia a cui qualunque altra forma di tragedia rimanda. Il prototipo greco insegna l’impossibilità di rendere il tragico del mondo se non nei termini dello spettacolo: la speculazione sembra impotente al confronto con l’intollerabilità dello scandalo di una predestinazione al male di origine divina, e dunque lo spettacolo si rivela il solo tramite in grado di «proteggere la potenza del simbolo che risiede in ogni mito tragico»[31].

La tragedia si delinea nella plasticità del dramma alla fine di un processo di incorporamento di quei temi pre-tragici – anteriori alla forma spettacolare e già annunciati nei miti del caos – che si vanno a comporre nella «mancanza di distinzione tra divino e diabolico»[32] per fare da sfondo alla visione tragica del mondo.

Il Φόβος, «emozione tragica per eccellenza»[33], scatta, dice Ricœur, nel momento dello scontro fra i due elementi della predestinazione al male e della grandezza dell’eroe. Il vero protagonista, il fato, dopo averne messo alla prova la libertà e vinto la resistenza, inevitabilmente schiaccia l’eroe suscitando, prima, l’angoscia – il Φόβος -, poi quella compassione impotente che Ricœur definisce «la “pietà” del tragico, cioè […] una maniera di piangere insieme e di purificare il pianto stesso con la bellezza del canto»[34].

Questi elementi tragici, osserva Ricœur, sono le componenti essenziali delle tragedie di Eschilo, il quale però tende, nelle sue rappresentazioni, a mostrare una consunzione del tragico stesso. Nelle Eumenidi e in quel che si sa del Prometeo liberato è preannunciato, secondo Ricœur, quel “pentimento” divino in virtù del quale «Zeus, il tiranno, diviene Zeus, il padre di Giustizia»[35].

Questo «impulso verso la fine del tragico»[36] – assente nel tragico “puro” di Sofocle – trova il suo orizzonte nel mito cosmogonico, in cui, secondo Ricœur, il divino «perverrà al suo polo olimpico a spese del suo polo titanico»[37].

Il tragico, dunque, esprime l’implacabile predestinazione al male di cui il divino, e non l’uomo, è portatore; la salvezza come contropartita non è comunque estranea al senso del tragico, e si esprime, nel tragico stesso, nel «“soffrire per comprendere” che il coro celebra nell’Agamennone di Eschilo»[38].

In definitiva, l’uomo riesce, solo attraverso lo spettacolo, facendosi “coro”, ad accedere al senso tragico che Ricœur riassume nelle emozioni del Terrore, il Φόβος, timore tragico stimolato dalla presa di coscienza della «congiunzione tra la libertà e la rovina empirica»[39], e della Pietà, l’ἔλεος, la misericordia tragica; ma questi sentimenti rivelano anche, sottolinea Ricœur, «una modalità del comprendere»[40].

È veramente duro l’ammonimento ricœuriano che imputa alla dottrina cristiana l’errore perpetrato a danno delle anime dei credenti chiedendo loro di accettare in termini storici l’avventura di Adamo, per poi indurle in confusione associando il mito alla concettualizzazione agostiniana del peccato originale. Quello che avrebbe dovuto «risvegliare i credenti a una sovrintelligenza simbolica della loro condizione attuale»[41] è diventato, dice Ricœur, strumento di un sacrificio dell’intelligenza.

Nel sottolineare come l’Antico Testamento attribuisca poca importanza ad Adamo, al punto che neanche la Genesi sembra rappresentarlo come totalmente responsabile del male nel mondo, Ricœur pone in evidenza come il tema adamitico debba la sua esaltazione a San Paolo, il quale fa emergere la figura di Adamo personificata in virtù del contrasto con il Cristo: «è la cristologia che ha consolidato l’adamologia»[42], sostiene Ricœur, ed è Adamo che, pur non costituendo un modello, individualizza «di riflesso»[43] la figura di Gesù.

Seppure non centralissimo nell’esperienza giudeo-cristiana, il mito adamitico riveste comunque per noi importanza nel significare l’originarietà dell’innocenza dell’uomo rispetto alla quale la colpa insorge come “scarto”, come “caduta”, come transizione istantanea determinata dalla disobbedienza al divieto divino, e anche, in Eva, come “vertigine”, come “cedimento” alla seduzione del male. Ma cedere alla tentazione è cedere alle lusinghe del serpente che «è già là, è già astuto»[44], è quindi il disorientarsi nell’incontrare il male che, radicale ma non originale, è «un aspetto del microcosmo e un aspetto del macrocosmo, il caos in me, dentro di noi e al di fuori di noi»[45].

Il senso del mito adamitico è dunque contenuto nella transizione, resa in uno scarto e, al tempo stesso, in una vertigine, dall’innocenza originaria alla colpa. Il male si mostra sia interno all’uomo, come passività di fronte alla tentazione, come responsabilità personale, che esterno ad esso, come «il “sempre già qui” […] [che] è l’altro aspetto di questo male di cui tuttavia io sono responsabile»[46]. Pur essendo qualcosa che sempre precede l’uomo, il male viene incontrato e l’uomo lo «continua cominciando, ma cominciando a sua volta»[47].

Attraverso questo mito la confessione del penitente giudeo riguarda non soltanto le sue azioni ma la radice malvagia da cui le sue azioni derivano, una radice che è «ad un tempo individuale e collettiva, come una scelta che ciascuno faccia per tutti e tutti per ciascuno»[48].

Per cogliere la prospettiva biblica che dal peccato fa scaturire la salvezza, è necessario arrivare a Gesù, al “secondo Adamo” che simbolicamente «è più grande del primo»[49], e che si contrappone alla “abbondanza” del pessimismo del peccato come “sovrabbondanza” ottimistica della promessa di una salvezza il cui evento, in quanto «contenuto proprio del kerygma cristiano»[50], elude, ammette Ricœur, le possibilità della nostra ermeneutica.

I miti fin qui considerati, quando pure esprimano una lesione nell’umano, non arrivano mai a scindere l’uomo in due entità distinte, come invece accade nel “mito dell’anima esiliata”. Lo stesso racconto adamitico della caduta, in quanto mito antropologico riferito all’uomo come co-origine del male, è, più ancora degli altri, «un mito della “carne”, dell’esistenza indivisa dell’uomo»[51] e non un mito “psichico”.

Il nascere della filosofia, caratterizzato dalla rottura con la dimensione mitica, in realtà recupera radici prefilosofiche attingendo alla tradizione orfica, all’irreperibile παλάτος λόγος che Platone rievoca e del quale Ricœur ipotizza una “cristallizzazione” da parte della filosofia «per darsi un’autorità fittizia, l’autorità delle rivelazioni arcaiche»[52].

Nel mito orfico che invece conosciamo grazie ai neoplatonici – che forse, sospetta Ricœur, ne sono anche i creatori -, Zeus folgora i Titani per punirli di aver ucciso e poi divorato Dioniso. È dalle ceneri dei Titani che sorge l’umanità, mescolanza della malvagità titanica e della divinità dionisiaca ereditate da un assassinio “sovrumano”, da un male pre-umano che determina la confusione delle due nature.

Attraverso «un mito pre-filosofico, ma introvabile, e un mito perfetto, ma post-filosofico»[53], dunque, viene preparata la rappresentazione mitica che indica l’uomo come anima imprigionata in un corpo, come unione e, nel contempo, scissione tra «la sua immortalità di dio e la corruzione del suo corpo»[54].

È proprio l’idea del corpo come punizione ripetuta nel ciclo delle reincarnazioni che assegna, di rimando, una connotazione divina all’anima, considerata quindi, nel «mito filosofante»[55] dell’anima esiliata, come la vera essenza dell’uomo.

La salvezza, in questo ambito, è riposta nella sapienza filosofica, una sapienza che «non è più “pensare da mortale”, ma riconoscersi divino»[56]. La conoscenza risulta pertanto l’atto purificatore attraverso cui l’uomo tende a farsi altro dal proprio corpo e ad identificarsi con la propria anima che «è l’origine e il principio del distacco, del distanziarsi del λόγος lungi dal corpo e dal suo πάθος»[57].

L’esito dello studio ermeneutico fin qui condotto ci impone, ora, una presa di posizione: non si tratta, precisa Ricœur, di scegliere uno tra i miti esaminati per accantonare gli altri, né di vestire i panni di «Don Giovanni del mito»[58] e corteggiarli per appropriarci, volta per volta, di ognuno di loro. Noi, occidentali del ventesimo secolo, abbiamo risposto ad un invito: interpellati dai miti, verificata una possibile comprensione del loro linguaggio, li abbiamo interrogati. È in questo interrogare che si rivela obbligatoria la nostra presa di posizione, o meglio, la consapevolezza della nostra posizione. È il momento, dice Ricœur, di abbandonare l’illusione «di poter essere spettatori, senza peso, senza memoria, senza prospettiva, e poter guardare tutto con uguale simpatia»[59]; è il momento di “situarsi”, di dichiarare che il luogo da cui ci si pone in osservazione è «il luogo in cui ancora oggi viene proclamata la preminenza di uno di questi miti, il mito adamitico»[60].

La cultura cristiana cui apparteniamo ci suggerisce come tener conto di tale presupposto: il primato del mito adamitico richiede un’analisi che assuma come riferimento il modo di credere del cristiano. Comprendiamo così che il male, e dunque il peccato, per il cristiano ha solo indirettamente a che fare con la sua fede, che riguarda invece la speranza nella liberazione dal male: la mitologia del peccato è solo l’altra faccia, quindi, della parola salvifica. Questa considerazione è alla base di una prima distinzione ricœuriana tra la teologia, che assume la simbologia della dottrina del peccato valutandola in funzione della cristologia, e la filosofia, che si fa carico dell’indagine sul mito per verificarne il carattere rivelativo. Entrambe partendo dalle comuni convinzioni sulla preminenza del mito adamitico e sulla dinamica circolare in cui l’ermeneutica di tutti i miti viene risucchiata, si differenziano poi nel perseguire ciascuna i propri obiettivi.

Il filosofo “situato”, in quanto cristiano (se non altro culturalmente) è comunque interpellato, al di là delle implicazioni soteriologiche, dal mito della caduta: il racconto adamitico si offre all’ermeneutica come contenitore di una rivelazione da ricercare, sollecitando il filosofo ad una maggior comprensione di se stesso che passi attraverso il suo modo di credere e, anche, alla verifica della sua fede che si configura come “scommessa”.

L’ermeneutica dei simboli della colpa sfocia a questo punto, per inclinazione spontanea, nella rilevazione di una dinamica sul cui campo d’espressione i miti si compongono concentricamente intorno al mito adamitico, in una struttura che vede più prossimo il mito tragico, intermedia la cosmogonia, più lontano il mito dell’anima esiliata. Questo ciclo dei miti, alimentato dalle connotazioni che la statica ha posto in luce, fa emergere i legami significativi e le comuni trame simboliche dei tipi mitici, ma soprattutto si mostra come movimento di riassunzione che incorpora nel racconto mitico della caduta le espressioni essenziali offerte dalle altre simbologie.

La proiezione che ci permette soltanto di riassumere in uno tutti i miti non soddisfa certo completamente la nostra ragione: «l’universo dei miti rimane un universo spezzato»[61], commenta Ricœur, proprio perché l’ermeneutica dei miti non può rimpiazzare la sistematicità filosofica. Il nostro punto di vista, in quanto tale, ci consente una comprensione «in immaginazione e in simpatia»[62] della dimensione dinamica e circolare dei miti, senza possibilità di unificarla eleggendone nettamente uno tra tutti.

Da qui la spinta più forte, incalza Ricœur, a sollevare la questione di fondo sulle possibilità metodologiche di una filosofia che si affidi, ad un tempo, alla piena razionalità e all’irrazionalità enigmatica e multivoca dei simboli.

[1] ivi, p. 420.

[2] ivi, p. 420.

[3] ivi, p. 419.

[4] ivi, p. 420.

[5] ivi, p. 420.

[6] ivi, p. 421.

[7] ivi, p. 421.

[8] ivi, p. 422.

[9] ivi, p. 422.

[10] ivi, p. 423.

[11] ivi, p. 423.

[12] ivi, p. 424.

[13] ivi, p. 424.

[14] ivi, p. 425.

[15] ivi, p. 425.

[16] ivi, p. 426.

[17] ivi, p. 426.

[18] ivi, p. 428.

[19] ivi, p. 426.

[20] ivi, p. 427.

[21] ivi, p. 428.

[22] ivi, p. 428.

[23] ivi, p. 430.

[24] ivi, p. 433.

[25] ivi, p. 433.

[26] ivi, p. 431.

[27] ivi, p. 433.

[28] “Quando in alto…”, prime parole del poema. Cfr. ivi, p. 435.

[29] ivi, p. 443.

[30] ivi, p. 473.

[31] ivi, p. 475.

[32] ivi, p. 476.

[33] ivi, p. 480.

[34] ivi, p. 490.

[35] ivi, p. 491.

[36] ivi, p. 491.

[37] ivi, p. 491.

[38] ivi, p. 492.

[39] ivi, p. 494.

[40] ivi, p. 495.

[41] ivi, p. 504.

[42] ivi, p. 504.

[43] ivi, p. 504.

[44] ivi, p. 522.

[45] ivi, p. 525.

[46] ivi, p. 527.

[47] ivi, p. 525.

[48] ivi, p. 506.

[49] ivi, p. 542.

[50] ivi, p. 537.

[51] ivi, p. 551.

[52] ivi, p. 552.

[53] ivi, p. 552.

[54] ivi, p. 559.

[55] ivi, p. 577.

[56] ivi, p. 559.

[57] ivi, p. 572.

[58] ivi, p. 579.

[59] ivi, p. 579.

[60] ivi, p. 580.

[61] ivi, p. 622.

[62] ivi, p. 622.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 14

a partire da una ateologia

Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (VIII)

3.3. Conclusione: «Le symbole donne à penser»

La riflessione pura ci ha condotto alla concettualizzazione della fallibilità attraverso un esercizio razionale diretto che non ha potuto però consentirci l’accesso alla quotidianità dell’uomo, alla sua realtà che è insieme libertà e servitù. A tale realtà enigmatica, che si inserisce in una esperienza qualitativamente diversa, abbiamo potuto accostarci soltanto grazie ad «una rottura metodologica della continuità della riflessione»[1], ponendoci all’ascolto della coscienza di colpa nella ripetizione della confessione dei peccati espressa in un linguaggio completamente simbolico.

La comprensione del male, dunque, ricorrendo al mito e al simbolo, risulta inadeguata ad un inserimento tout court nel discorso filosofico, né il simbolismo religioso del male si mostra suscettibile di una traduzione diretta che ne permetta la trascrizione in termini filosofici: questi i «due scogli»[2] tra i quali procedere verso il problematico traguardo di una possibilità di integrazione tra riflessione pura sulla fallibilità e confessione della colpa.

Ma Ricœur è sicuro: la filosofia aveva cominciato il suo cammino giurando «a se stessa di essere coerente; deve mantenere la sua promessa fino in fondo»[3], deve rivolgere i suoi sforzi di comprensione a tutto, e quindi anche alla religione. È in tale prospettiva che Paul Ricœur propone, per evitare i due ostacoli, «di esplorare una terza via: quella di un’interpretazione creatrice di senso, che sia al tempo stesso fedele all’impulso, al dono di senso del simbolo e fedele al giuramento del filosofo, che è quello di comprendere. Questa è la via proposta alla nostra pazienza e al nostro rigore dall’aforisma che precede la nostra riflessione: “Il simbolo dà a pensare”»[4]. Ricœur si dichiara affascinato da questo aforisma che propone il simbolo come senso che si offre al pensiero e, insieme, come impulso all’attività del pensiero stesso.

La filosofia intesa come riflessione solo razionale, consapevole delle trascorse delusioni, è inevitabilmente portata ad eludere la problematica del principio radicale: la comprensione dei simboli si inserisce in questo punto a rinnovare l’impulso alla conquista del “punto di partenza”. Non bisogna rinunciare alla ricerca del principio, ribadisce Ricœur, ma abbandonare l’illusione di una filosofia senza presupposti, di una ricerca che pretenda di iniziare il discorso, che prescinda, cioè, dai “doni” di «un linguaggio già esistente, nel quale tutto in qualche modo è già stato detto»[5]. Il filosofo deve porsi «nel pieno del linguaggio»[6] per adempiere all’impegno, non di cominciare, ma di ricordare nella parola: la filosofia deve «ricordarsi per poter cominciare»[7].

La modernità attribuisce un significato specifico a tale compito: la nostra epoca è segnata dall’oblio, dalla crisi del rapporto tra uomo e sacro, mentre il linguaggio tende a formalizzarsi in codici univoci per adeguarsi alla tecnicizzazione. Proprio ora, afferma Ricœur, ci si profila l’urgenza della restaurazione di un linguaggio che dobbiamo riempire «di nuovo, richiamando alla memoria i significati più pieni, più pesanti, più legati alla presenza del sacro nell’uomo»[8], attingendo ai prodromi del pensiero ermeneutico di cui tutti siamo eredi: «al di là del deserto della critica, vogliamo essere di nuovo interpellati»[9].

Ma il simbolo ci interpella impegnando il nostro pensiero in una difficile articolazione della sua capacità di comprensione e della sua creatività, in una paradossale tensione a promuovere responsabilmente un’interpretazione che sia autonoma ma, nel contempo, istruita dal simbolo stesso e rispettosa della sua enigmaticità originaria. Contemporaneamente pensiero legato e libero, insomma: si direbbe un vicolo cieco, ma «là dove un uomo sogna e delira un altro uomo si fa avanti per interpretare»[10], ci ricorda Ricœur. Il simbolo è già parola e, in quanto tale, in qualche modo affine al discorso filosofico; è discorso “incoerente”, ma è l’ermeneutica che lo riconduce nel discorso coerente della filosofia.

L’ermeneutica attuale, osserva Ricœur, è caratterizzata dal pensiero critico, ed è proprio la critica, attraverso la puntuale distinzione tra ciò che è storia e ciò che non lo è, a poterci offrire la consapevole considerazione del mito in quanto mito. Il pensiero critico consente un rinnovamento della filosofia nell’accostarsi al “mito-simbolo” – e dissolvendo il “mito-spiegazione” – per innescare un movimento di restaurazione critica del sacro che converga con il processo di demitologizzazione della dimensione storica.

Certo, sottolinea Ricœur, non recupereremo l’ingenuità primitiva, ma potremo pervenire, in virtù della critica, ad una “seconda ingenuità” che ci renda disponibili ad accogliere l’offerta dei significati simbolici: «È insomma interpretando che possiamo di nuovo intendere»[11]. Non solo: è interpretando che possiamo di nuovo credere.

Comprensione, interpretazione, credenza si articolano nel circolo ermeneutico che conduce alla comprensione partendo dalla precomprensione di ciò che si sta interpretando, partendo cioè dai presupposti esistenziali dell’interprete, dal suo intimo sentire: Ricœur può affermare in tal senso che «bisogna credere per comprendere. E tuttavia, solo comprendendo possiamo credere»[12], perché solo nell’ermeneutica possiamo accedere alla seconda ingenuità, all’«equivalente post-critico della ierofania pre-critica»[13], che ci permette di superare l’oblio del sacro e di rispondere all’appello dei simboli in un modo che sia adeguato alla nostra modernità.

Il simbolo dà a pensare, dunque, instaurando «un rapporto circolare tra credere e comprendere»[14].

L’audace scelta di partecipare alla dinamica dei miti si rivela indispensabile avvio ad un’ermeneutica filosofica che superi l’ermeneutica ingenua implicita nell’irrigidimento del simbolo in idolatria; il passo ulteriore è l’accesso «al circolo dell’ermeneutica, al credere per comprendere, che è anche comprendere per credere»[15], nel consapevole orientamento conseguente alla preminenza dei simboli della confessione giudaica dei peccati. Il filosofo deve mantenere il suo impegno alla riflessione e alla coerenza rinunciando alla neutralità di una posizione distaccata; nel prendere coscienza del circolo ermeneutico, egli è provocato «a pensare partendo dai simboli, e non più nei simboli»[16]. Accettare la provocazione significa trasformare il circolo in scommessa, e Ricœur ne sottolinea i termini affermando che potrà «comprendere meglio l’uomo e il legame tra il suo essere e l’essere di tutti gli essenti seguendo l’indicazione del pensiero simbolico»[17]. Questo implica una verifica della scommessa che, conseguentemente, estende la scommessa stessa alla possibilità di un guadagno in potenza riflessiva e in coerenza con la filosofia: è questa la chiave d’accesso alla dimensione propriamente filosofica dell’ermeneutica intesa come restaurazione e promozione del senso simbolico e non come traduzione di un’allegoria.

Secondo Ricœur, l’elaborazione di un’empirica del servo arbitrio attraverso lo studio della mitica del male può essere definita, rispetto al simbolo, come una deduzione trascendentale in senso kantiano, cioè la giustificazione di «un concetto mostrando che esso rende possibile la costituzione di un campo d’oggettività»[18]. Tale espressione però, continua Ricœur, riducendo la considerazione della potenza rivelatrice del simbolo ad un ampliamento della coscienza di sé e quindi del campo riflessivo, non rispecchia la crescita qualitativa della coscienza riflessiva disposta all’esercizio di una filosofia che accolga i simboli e se ne faccia istruire. Perché l’empirica del servo arbitrio sia compiutamente definita, osserva Ricœur, è necessario allora aver chiaro il valore ierofantico di ogni simbolo.

L’espressione del rapporto tra l’uomo e il suo sacro è in fondo l’espressione della «situazione dell’essere dell’uomo nell’essere nel mondo»[19]: in virtù di questo suo dire il simbolo rivela la sua funzione ontologica, imponendo al filosofo di negare il primato della riflessione per prendere atto di una coscienza di sé interna all’essere e non viceversa. In questo ribaltamento la seconda ingenuità diventa la “seconda rivoluzione copernicana” già annunciata da Ricœur, che comporta l’impegno ad elaborare, grazie alle strutture di riflessione ma anche a strutture esistenziali, i concetti che permettano di porre «il problema di come si articola sull’essere dell’uomo e sul nulla della sua finitezza il quasi-essere e il quasi-nulla del male umano»[20].

Tutti gli elementi a questo punto concorrono alla piena definizione della scommessa: l’empirica della volontà serva, delineatasi come deduzione trascendentale, «dovrà iscriversi all’interno di un’ontologia della finitezza e del male che innalza i simboli a livello dei concetti esistenziali»[21].

Solo chi propenda per una filosofia senza presupposti, sostiene Ricœur, potrà non riconoscere l’onestà di un impegno in cui riflessione e speculazione si muovono alla ricerca della razionalità del fondamento di una filosofia che parte «dalla contingenza e dalla ristrettezza di una cultura che ha incontrato quei tali simboli e non altri»[22].

Soltanto nel pieno del linguaggio, conclude Ricœur, la filosofia potrà consolidare la sua universalità ed aprirsi ai molteplici modi in cui tutte le culture dicono l’uomo.

Possiamo ora riprendere il cammino, interrotto per concederci questa breve ricognizione sulla prima fase dell’opera ricœuriana, e proseguire lo studio del Della interpretazione.

[1] ivi, p. 623.

[2] ivi, p. 623.

[3] ivi, p. 624.

[4] ivi, p. 624.

[5] ivi, p. 625.

[6] ivi, p. 624.

[7] ivi, p. 625.

[8] ivi, p. 625.

[9] ivi, p. 625.

[10] ivi, p. 626.

[11] ivi, p. 627.

[12] ivi, p. 628.

[13] ivi, p. 628.

[14] ivi, p. 629.

[15] ivi, p. 631.

[16] ivi, p. 631.

[17] ivi, p. 631.

[18] ivi, p. 632.

[19] ivi, p. 633.

[20] ivi, p. 633.

[21] ivi, p. 634.

[22] ivi, p. 634.

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Saggio su Martin Buber – Il Ritorno

Maria De Carlo

L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già
domani ciò che si è frapposto potrebbe ritrarsi
Martin Buber

Come porsi di fronte al male? L’uomo è invitato a una “ritirata strategica”, così come titola un racconto chassidico: Rabbi Abraham disse: «Dalle guerre di Federico, re di Prussia, ho imparato un nuovo modo di servire. Per attaccare il nemico, non è necessario aggredirlo frontalmente. Infatti, se uno si ritira, può circondarlo mentre avanza e attaccarlo alle spalle, costringendolo quindi alla resa. Quel che si deve fare non è attaccare direttamente le forze del male, ma ritirarsi vicino alla sorgente del potere divino, e di lì accerchiare il male, piegarlo e trasformarlo nel suo contrario»”[1].

Si tratta dello stesso monito che secondo gli studiosi viene da tutta la Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) e si può racchiudere nel comandamento: “Sta lontano dal male e fa il bene”. Religione ed etica vanno a braccetto per Buber, che vede il presupposto di questa unione nella “concezione secondo cui l’uomo, in quanto creato da Dio, è stato da lui posto in una indipendenza che permane inalterata da allora, e secondo cui l’uomo in questa indipendenza sta di fronte a Dio. Così l’uomo partecipa in assoluta libertà e spontaneità al dialogo fra i due, che forma l’essenza dell’esistenza”75 e così in questa piena indipendenza, l’uomo viene posto di fronte a due vie76: sta a lui scegliere.

Questa scelta tanto più sarà libera e autentica quanto non farà leva sulle sole forze dell’uomo. Per il pensiero ebraico la non-direzione, il male, può essere ricondotto a Dio solo attraverso la Torah: “Se Dio creò le inclinazioni malvage, creò anche la Torah come suo rimedio”. I saggi dicono che la Parola, la preghiera e l’azione sono le tre colonne che sorreggono il mondo[2]. Per l’ebreo la Torah è la via, il cammino per la liberazione da ogni forma di idolatria e di schiavitù poiché essa favorisce l’unificazione dell’individuo “verso il bene”. Un cammino che inizia dal cuore dell’uomo colpito (se si lascia colpire) dalla domanda di Dio, quella stessa che è rivolta ad Adamo: “Dove sei?”. Ma Adamo, tuttavia, si nasconde “per non dover rendere conto, e per sfuggire alla responsabilità della propria vita”[3], scrive Buber nel Cammino dell’uomo, evidenziando come il nascondersi dell’uomo a Dio porta inevitabilmente al nascondimento di se stessi.

Ma il cammino verso la scelta è possibile solo con la presa di coscienza del suo essere nascosto. Dunque è possibile solo attraverso il ritorno, che è al centro di tutta la concezione ebraica del cammino dell’uomo. Ciò significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare”[4]. Ed è un ritorno decisivo “solo se conduce al cammino”. Esiste infatti – spiega Buber – anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole”[5]. Ecco allora che per dirigersi verso il bene, verso Dio, secondo il proprio cammino, è necessario conoscere il proprio essere: “la conoscenza della propria qualità e della propria tendenza essenziale”. riecheggia in queste parole, nel  socratico “conosci te stesso”[6]. E l’uomo conosce “il proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione particolare, nella forma della “cattiva inclinazione” che vuole sviarlo” e, afferma l’autore, se la natura dell’uomo lo indirizza verso ciò che lo colma, “l’essenziale è che l’uomo diriga la forza di quello stesso sentimento, di quello stesso impulso, dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto: così troverà il proprio cammino”82. Libertà e responsabilità, dunque, sono le compagne dell’uomo che ha deciso di mettersi in cammino verso la direzione83.

la condizione dell’uomo, che è complessa, produce quella storia – dalla piccola alla grande – che necessita sempre di essere capita, reinterpretata e redenta. Non c’è storia senza l’uomo, non quello astratto, irreale, ma l’uomo concreto che cerca di affermarsi nella quotidianità del suo vissuto e lo fa non da solo, ma nella relazione con gli altri – nelle parole fondamentali delle coppie io-tu, io-esso. Infatti i grandi movimenti o le grandi strutture dipendono da questo uomo segnato dall’istinto del male e del bene in un ciclo continuo della storia dove l’uomo è chiamato a fare scelte. Il luogo della direzione non è astratto e non è intimistico, il compimento della propria esistenza avviene nel mondo e precisamente “là dove ci si trova”84. C’è un richiamo all’esistenza autentica, immediata, nei rapporti quotidiani con le persone e con le cose, da parte del filosofo, in un dialogo reciproco, altrimenti avremmo perduto l’occasione di un’esistenza compiuta: “Secondo il Baal-Shem, nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto. Gli uomini con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento”85.

Buber ci presenta una visione non frammentaria ma “intera” dell’esistenza dove gli avvenimenti non vanno attribuiti a fattori esterni all’uomo – Auschwitz e non Lisbona86, direbbe Jonas -, ma segnati invece dalle sue scelte compiute a seconda della direzione o non-direzione. Per questo l’uomo è chiamato alla responsabilità.

Il male, allora, è potenza che può essere messa a servizio del bene attraverso un processo di ascesa: il Rabbi disse: «Sta scritto: ‘Muoviamoci, partiamo, io camminerò al tuo fianco’. Così parla anche in gran segreto a ogni uomo l’inclinazione al male. essa cela infatti una tendenza al bene e vuole trasformarsi in esso con lo spingere l’uomo a vincerla e a farla diventare buona. Questa è la richiesta segreta che l’inclinazione al male fa all’uomo che tenta di sedurre, dicendogli: ‘Suvvia, abbandoniamo questa miserevole condizione e mettiamoci al servizio del Creatore, sicché anch’io possa elevarmi e salire assieme a te grado dopo grado, seppure in apparenza sembri che mi opponga a te, ti disturbi e ti ostacoli’». Perché ci possa essere un’anima unificata è necessario il ritorno che, come si è detto, è parola chiave di tutto il pensiero ebraico sul cammino dell’uomo. il ritorno “ha il potere – afferma Buber – di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio”[7].  Nulla a che vedere con un mero intimismo, al contrario l’uomo solo riappropriandosi di sé, solo e soltanto superando quel conflitto interiore fra i tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo – quello del pensiero, della parola e dell’azione[8] – quest’uomo concreto, immerso nel reale, riesce a instaurare relazioni autentiche e immediate anche con gli altri, ed è nel mondo che si gioca la sua e l’altrui santificazione: “chi va verso il mondo, va verso Dio”, afferma Buber. essere presenti nel mondo è un concetto altrettanto forte nel pensiero buberiano: “Chi si limita a ‘vivere interiormente’ il proprio atteggiamento, chi lo attua solo nell’anima, per quanto possa essere pieno di pensieri, è senza mondo; e tutti i suoi giochi, i suoi artifici, tutte le sue ebbrezze, gli entusiasmi e i misteri che accadono in lui, non sfiorano neanche la superficie del mondo. Fintanto che ci si libera esclusivamente all’interno del proprio io, non si può amare né ferire il mondo, il mondo non ci concerne. Soltanto chi crede al mondo stabilisce un contatto con il mondo stesso; e chi ci s’impegna, non può neppure rimanere senza Dio. Amiamo il mondo reale, che non si lascia mai sopprimere: “amiamolo realmente in ogni suo orrore, osiamo stendere su di lui le braccia del nostro spirito: allora le nostre mani incontreranno le mani che lo sorreggono”[9].

Come si è posto in rilievo, proprio nella relazione dialogica – nell’io-tu – l’uomo si realizza. una relazione, questa, segnata dall’amore: “Per chi sta nell’amore e in esso guarda, gli uomini si liberano dal groviglio dell’ingranaggio; i buoni e i cattivi, i savi e i folli, i belli e i brutti, l’uno dopo l’altro diventano per lui reali, diventano un tu, cioè un essere liberato, fuori dal comune, unico ed esistente di fronte a lui. in modo meraviglioso sorge, di volta in volta, l’esclusività – e così l’uomo può operare, aiutare, guarire, educare, sollevare, redimere. l’amore è responsabilità di un io verso un tu”[10].

Qui non si tratta di mero sentimentalismo, l’amore è per Buber una realtà ontologica, è qualcosa che realmente accade nello spazio tra l’io e il tu.

[1] id., Racconti chassidici, cit., p. 79.

[2] “rabbi Mendel diceva: «tre sono le colonne che reggono il mondo: legge, servizio e buone azioni. Con l’avvicinarsi della fine del mondo, le prime due si ridurranno, mentre solo le buone azioni aumenteranno. e allora si avvererà quanto sta scritto: ‘Sion sarà riscattata dalla rettitudine’»”, ibidem, p. 98.

[3] id., Il cammino dell’uomo, cit., p. 21.

[4] Ibidem, cit., p. 51.

[5] Ibidem, cit., p. 23.

[6] Buber fa una distinzione tra individualità, che si allontana dall’essere, e persona. il “conosci te stesso” per la persona significa: “conosciti

[7] M. Buber,  Il cammino dell’uomo, cit., p. 51.

[8] l’autore afferma che “ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. in questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù”. una riflessione che rinvia ancora una volta a “cominciare da se stessi”, e Buber lo fa attraverso una storia significativa: “alcune persone eminenti di israele erano un giorno ospiti di rabbi

[9] id., Il principio dialogico, cit., p. 127.

[10] Ibidem, pp. 69-70.

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