Aristotele, “De Anima”, II 5 – Due interpretazioni: Sorabji e Burnyeat

Pasquale Amato

Premessa

Il capitolo II 5 del De Anima è stato oggetto di un ampio dibattito ermeneutico culminato, negli anni 90, in numerose diverse proposte di lettura. Prenderemo in considerazione, qui, le argomentazioni di Richard Sorabji e Myles F. Burnyeat, due dei pensatori che più significativamente hanno dato impulso alla discussione.

È importante premettere che le diverse teorie prendono sostanzialmente spunto dal brano che, all’inizio del II 5, definisce la percezione come “una certa alterazione”, e in particolare dal duplice significato attribuibile, in greco ma anche nella traduzione italiana, al termine tis. L’incerta denotazione, in italiano, della proposizione “Mario ha una certa sicurezza” offre una chiara esemplificazione del problema di fronte al quale si sono trovati e vengono a trovarsi gli interpreti di Aristotele: posso usare tale proposizione come un modo per dire che riconosco nei comportamenti di Mario una sufficiente sicurezza, oppure posso con essa esprimere un mio dubbio su quelle che, nell’agire di Mario, sembrano dimostrazioni di sicurezza pur essendo altro.

Analogamente, la letteratura attribuisce alla traduzione di tis due interpretazioni in conflitto, conseguentemente prospettando due possibili impostazioni per la teoria aristotelica della percezione, una derivante dal tis letto in senso determinante (Mario ha una sua effettiva sicurezza), l’altra dal senso alienante (Mario dimostra qualcosa che sembra sicurezza ma, in realtà, non lo è). Più direttamente: con il tis in II 5, Aristotele vuole sostenere che, quando l’essere vivente percepisce, nel suo corpo si verifica un qualche cambiamento fisico? O, com’è forse intuitivamente più accettabile da parte di noi contemporanei, con quel “certo cambiamento” Aristotele tenta di descrivere solo qualcosa che è per esempio un incremento di consapevolezza, o comunque non un’alterazione fisiologica?

I due saggi esaminati sono tra i più rappresentativi delle diverse interpretazioni che danno ragione all’una o all’altra convinzione.

 

 

Richard Sorabji[1]

For the theory of the De Anima, […] is that every mental process, with the possible exception of intellectual thought, requires a physiological process. We have already encountered the illustrative example that anger requires the boiling of the blood around the heart. And perception is explicitly included in the theory. […] There is nothing bizarre about the coloration of the eye-jelly.[2]

Il saggio di Sorabji si articola in tre parti, delle quali approfondirò soprattutto la sezione conclusiva che riveste maggior interesse ai fini del presente studio.

Nella prima sezione, a partire dalla distinzione di causa materiale e causa formale (su questa ritenendo che la discussione sia stata meno attenta da parte degli interpreti), l’autore osserva come Aristotele, a differenza del “parsimonioso” Platone, abbia fornito notevole consistenza allo studio della percezione. Egli aveva riconosciuto il carattere proposizionale delle percezioni, il fatto “che qualcosa è così e così”, e cioè che “qualcosa è predicato di qualcosa”, ma Sorabji sottolinea che non si deve da ciò dedurre un’inferenza della ragione, in quanto la concezione aristotelica esclude, in linea con Platone, sia il nesso tra opinione e percezione, sia che la percezione sia una funzione della ragione (riporta l’esempio del figlio di Diares, oggetto “accidentale” secondo Aristotele, ma non indirettamente colto attraverso un meccanismo inferenziale). La lunga trattazione ripercorre alcuni punti del confronto tra le teorie platonica e aristotelica, toccando argomenti quali la considerazione platonica dei sensi come canali che l’anima usa per cogliere l’essere e l’aletheia, o anche come la differenza tra uomini e animali determinata dal possesso di ragione e doxa, o ancora il richiamo alla phantasia platonica, “apparenza percettiva” che Aristotele considera tappa intermedia verso l’opinione, per giungere a identificare nel pensiero aristotelico tre azioni che mirano al riassetto della teoria platonica: il ricondurre alla nozione di ragione l’intera doxa, un prodigo ampliamento del contenuto percettivo che la filosofia greca non aveva ancora mostrato e che non gli impedisce di negare, concorde con Platone come già ricordato, i rapporti di similitudine tra percezione, opinione e ragione. Mi sembra stimolante la constatazione finale di Sorabji, secondo la quale Aristotele era «preoccupato di classificare gli stati mentali collocandoli da un lato o dall’altro della frontiera tra percezione e opinione»[3].

La prima sezione procede con una comparazione tra Aristotele e gli Stoici, dalla quale emergono analogie (la considerazione dell’esperienza e della memoria in termini di apparenza percettiva, per esempio, o la convinzione che gli animali – ma anche i bambini – siano privi di concetti) e differenze (come il concedere agli animali una pur ridotta apprensione proposizionale), e poi tra Aristotele ed Epicuro (che riteneva vere le apparenze percettive, e queste connesse agli oggetti fisici che le trasmettono).

Sorabji conclude la prima parte richiamando l’intento aristotelico di connettere la percezione «a capacità dello stesso livello, quali opinione, ragione, apparenza, memoria, esperienza e formazione di concetti», e non «di livello differente, quali gli stati fisiologici o il comportamento o l’espletamento di funzioni»[4]. Eppure respinge le idee di quei commentatori che, in base a tali considerazioni, hanno ritenuto Aristotele un riduzionista o un materialista, oppure, anche con il preteso supporto di vecchie tesi di Sorabji che egli stesso definisce “alquanto imprecise”, un funzionalista[5].

Nella seconda parte, Sorabji esordisce: «Aristotele dice che nella percezione l’organo di senso diventa simile alla cosa percepita, è in potenza tale quale la cosa percepita già è e riceve la forma della cosa percepita senza la materia»[6]. A differenza di Filopono, che riferiva tali affermazioni alla causa formale, Sorabji si dichiara concorde con quanti le considerano invece richiami alla causa materiale e, dunque, al processo fisiologico. L’interpretazione letterale dell’acquisizione del colore da parte dell’occhio, osserva Sorabji, è un modo vantaggioso di spiegare come vengano assunte forma e dimensione: il korē dell’occhio (il bulbo interno, ammonisce, e non la pupilla come recenti interpreti inglesi traducono) assume, in dimensioni proporzionate, colori e forme dello scenario percepito. Per Aristotele, con le conoscenze dell’epoca, era ovvio pensare «che il bulbo oculare […] diventasse colorato o l’interno dell’orecchio rumoroso»[7]. Vedremo, in seguito, come questa posizione viene contestata da Burnyeat. Lo stesso Sorabji, comunque, riconosce il rischio di ovvie critiche a questa lettura, «giacché non si vedono gli occhi delle persone diventare colorati»[8], ma insiste sulla premessa che il colore viene assunto dall’occhio “profondo all’interno”.

Pur ammettendo il carattere fisiologico della ricezione della forma, alcuni critici, respingendo questa tesi che ritengono vada a supporto dell’interpretazione funzionalista, negano la colorazione dell’occhio e ammettono, invece, che l’organo riceva una sorta di vibrazione. Tra quelli, poi, che dissentono a favore di un’equivalenza tra assumere forma senza materia e acquisire solo consapevolezza del colore, Sorabji cita Brentano, per il quale, in aggiunta, quello di cui si diventa consapevoli è “un oggetto intenzionale”.

A conferma dell’ampio ventaglio di pareri discordi sul tema, Sorabji menziona anche chi ammette l’assunzione del colore insieme all’acquisita consapevolezza, giudicando errate infine tutte tali interpretazioni, ma attribuendo meriti a quella di Burnyeat, che la presenta come “interpretazione cristiana” perché costruita sulle teorie di Filopono, Tommaso d’Aquino e Franz Brentano. Essa assegna alla materia animale una capacità di consapevolezza, ma Burnyeat, dichiarando assenso alla distinzione netta che Cartesio concepisce tra materia e coscienza, definisce non più credibile la filosofia della mente aristotelica, visto che predica una materia organica con in sé la coscienza. Sorabji contesta tale lettura spiegando perché, a proprio avviso, era assolutamente necessario, in coerenza con la sua intera dottrina, che Aristotele fosse convinto di un processo fisiologico nella percezione, e mostrando poi come, per le sue tesi prosaiche e legate al senso comune, nella colorazione del fondo oculare non «c’è niente di bizzarro»[9], almeno non quanto di bizzarro c’è nella res extensa di Cartesio (più che nel suo distinguere materia e coscienza).

A questo punto, Sorabji intraprende un’articolata e complessa disamina esegetica mirata a dimostrare che, paradossalmente, è «necessario stabilire che l’autentica dottrina aristotelica comportava una vera e propria colorazione»[10] per poter comprendere attraverso quale percorso analitico Brentano giunse alla conclusione opposta, leggendo in essa la descrizione di un processo intenzionale.

Sorabji riflette sul significato della frase «In generale, a proposito di ogni senso, bisogna assumere che il senso è ciò che accoglie le forme sensibili senza la loro materia» ([424a17])[11], e in particolare sul termine ‘forma’ che, dice, solo nel caso del pensiero Aristotele usa per precisare che la materia pensata – una pietra, per esempio – resta fuori, mentre la sua forma è nell’anima di chi la pensa. È a questa accezione non fisiologica della forma, riferita però da Aristotele al caso del pensiero, che Sorabji attribuisce le contestazioni alla teoria fisiologica della percezione.

L’analisi successiva verte sulla spiegazione, in Sulla generazione e corruzione [423b27-29], delle proprietà degli elementi sublunari, e sull’esistenza di una “zona cieca” del tatto rispetto all’acquisizione di temperatura. In estrema sintesi, ci limiteremo a dire che si tratta, qui, della teoria aristotelica dalla quale consegue che il ‘sensitivo’ (l’organo di senso, to aistetikon) ha potenzialmente in sé la qualità che l’oggetto percepito (il ‘sensibile’, to aisteton) possiede già in atto, e che tra sensitivo e sensibile, perché ci sia percezione, è necessaria una parziale, non totale, similitudine[12]. È difficile interpretare bene, secondo Sorabji, tale tesi se non si ammette che Aristotele parli di «una vera e propria assunzione di temperature e di altre qualità»[13].

L’accurata disamina prosegue comprendendo: una discussione sulle modalità in cui le piante ricevono caldo, freddo, umido, secco, ecc.; il richiamo al funzionalismo inteso come «l’idea che i processi mentali possono essere definiti da funzioni realizzabili in tipi differenti di materia»[14]; il confronto tra interpretazioni contrastanti dell’affermazione aristotelica secondo la quale le piante «sono affette (paschein) insieme alla (meta) materia»[15]; il quesito connesso all’aporia cui Aristotele fa riferimento, in De Anima II 12 [424b2-5] (Sorabji si chiede: è anche sufficiente, oltre che necessario, non ricevere aria o altra materia, per percepire calore e odore?); la risposta di Aristotele alla domanda “che cos’è esercitare l’odorato?”; l’esame dei passi del II 5 in cui trova l’analogia tra processo conoscitivo e percezione, con l’esempio del costruttore nell’esercizio del costruire un edificio[16].

E ancora: all’inizio del II 12, per esemplificare la convinzione che l’organo di senso riceva la forma senza la materia, Aristotele si serve dell’immagine del sigillo impresso su cera, apparentemente confermando la netta separazione tra percezione e giudizio che Platone aveva affidato a un’immagine analoga. Ma Sorabji, ricordando che Aristotele usa la metafora del sigillo anche nel Sulla memoria, obietta: «è chiaro che egli ha in mente un’interpretazione fisiologica quando spiega i diversi tipi di mancanza di memoria»[17].

La seconda sezione si chiude con ulteriori smentite all’inammissibilità della propria interpretazione, di interesse minore ai fini di questo lavoro.

Nella terza e ultima sezione, Sorabji sviluppa definitivamente la sua critica a Burnyeat, già avviata nella prima parte, mettendo in discussione, a tale scopo, l’interpretazione di Brentano: «Franz Brentano ritenne che Aristotele stesso avesse di fatto elaborato il concetto di oggetto intenzionale»[18]. Brentano introdusse nella filosofia moderna “questa feconda nozione” nel 1874, dice Sorabji, attraverso la definizione dell’inesistenza intenzionale: gli stati mentali, in opposizione a quelli fisici, sono sempre diretti a particolari oggetti che esistono dentro la mente (inesistenza º esistenza in) e non all’esterno (inesistenza º non esistenza). L’esempio addotto era stato il paragone tra una fortuna ereditata, oggetto che l’erede riceve di fatto, e la speranza di ereditare una fortuna, dove la fortuna è oggetto della speranza, non necessariamente esistente fuori della mente di chi spera. Analogamente, nella percezione, possiamo rappresentarci oggetti di uno scenario (‘figure quadrate’, per esempio) non necessariamente esistenti in quello scenario esterno. Questa proposta di Brentano, osserva Sorabji, suscitò grande interesse, in quanto alternativa preferibile, nell’epoca freudiana, alla cartesiana separazione tra mentale e fisico.

Proprio in quella che Sorabji interpreta in Aristotele come dottrina fisiologica dell’assunzione di forma senza materia, Brentano (in Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874) coglie la concezione di un correlato oggettuale della percezione, dove però l’oggetto non è presente fisicamente (o non solo) ma intenzionalmente[19].

A proposito, infine, dell’origine “cristiana” rivendicata da Burnyeat per la sua tesi, Sorabji mostra come, in realtà, a partire dalla defisiologizzazione dell’aristotelica acquisizione della forma senza la materia, strumentalmente operata dai greci Alessandro, Temistio e Filopono a salvaguardia di alcuni problemi della fisica e della logica aristoteliche, il carattere fisiologico del processo di ricezione della forma diventa, per Filopono, “ricezione cognitiva” (gnostikōs). Fu Avicenna, poi, a chiamare “macna” l’intenzione o significato, cioè l’informazione acquisita. Brentano assume che intentio (l’arabo macna tradotto in latino nelle versioni medievali di Avicenna e Averroè) significhi «un tipo di messaggio che è ricevuto fisicamente»[20] nella percezione. Sorabji precisa che, per Avicenna e Tommaso, intentio era l’informazione ricevuta e non la sua acquisizione fisica, «ma Brentano mutò tutto ciò. Per lui un oggetto intenzionale è l’oggetto di un atteggiamento mentale»[21].

E dunque, per prima cosa l’interpretazione di Burnyeat non è cristiana, visto che all’origine troviamo ricostruzioni di Aristotele ad «opera di commentatori, sia cristiani, sia pagani, sia musulmani»[22] e, in conclusione, Sorabji avverte comunque che «non dovrebbe essere presa alla leggera, ma considerata per quello che è, il culmine di una serie di distorsioni. La morale è che nella storia della filosofia le distorsioni dei commentatori possono essere più fruttuose delle fedeltà»[23].

 

 

Myles Fredric Burnyeat[24]

Aristotle’s theory of perception […] refutes two claims defended by […] Richard Sorabji: (i) that when Aristotle speaks of the perceiver becoming like the object perceived, the assimilation he has in mind is ordinary alteration of the type exemplified when fire heats the surrounding air, (ii) that this alteration stands to perceptual awareness as matter to form. Claim (i) is wrong because the assimilation that perceiving is is not ordinary alteration. Claim (ii) is wrong because the special type of alteration that perceiving is is not its underlying material realisation. Indeed, there is no mention in the text of any underlying material realisation for perceiving.[25]

 

La corretta lettura del De Anima II 5, sostiene Burnyeat, smentisce l’interpretazione di Sorabji secondo cui, quando Aristotele dice che l’organo di senso (il “sensitivo”), diventa come l’oggetto percepito (il “sensibile”), egli intende parlare di una “alterazione ordinaria”, fisiologica, e che tra alterazione e percezione c’è lo stesso rapporto che esiste tra materia e forma. Niente sottintende, secondo Burnyeat, nel testo aristotelico, un cambiamento fisico nella percezione: la particolare alterazione menzionata da Aristotele è un’alterazione “speciale” (a special type of alteration)[26].

Quello che Aristotele fa è adattare la nozione di alterazione “non ordinaria”, già definita sia in Fisica III 1-3, sia in Su generazione e corruzione I, a supporto di una delle tesi (positiva) che il II 5 presenta, cioè la distinzione tra potenza prima e seconda (atto primo), dotate ognuna di una propria compiutezza (entelèkeia, attualità).

Il messaggio “negativo” del II 5 è che Aristotele nega che percepire implichi un cambiamento di qualità uguale a quello della cosa fredda che viene riscaldata, o della cosa verde che viene colorata di rosso. L’essere affetto da qualcosa è vero, nella percezione, solo in un senso molto sfumato, perché tale definizione tradizionale implica una perdita di qualità (il freddo o il verde degli esempi ordinari), mentre, in II [417b3-4], lo stato alterato non viene perso e risulta preservato.

Per ben cogliere il messaggio “positivo”, dice Burnyeat, è necessaria una lettura più ampia, con un approccio che tenga conto delle cross-reference tra il II 5 nel suo insieme e l’intera dottrina aristotelica, ma in particolare Fisica e Su generazione e corruzione. Nel fare questo, inoltre, è importante porre l’attenzione sulla cronologia delle opere, sulle diverse traduzioni disponibili, sull’incorporazione nel testo di note o postille aggiunte da allievi o interpreti.

Per poter partire da una buona comprensione dei termini ‘percezione’ e ‘alterazione’ in II 5, Burnyeat afferma che, già nel De Anima I, ma anche in II 4 [415b24], bisogna considerare gli accenni aristotelici come riferimenti a quelle che erano le opinioni accreditate, in particolare quelle di Empedocle e Platone, entrambi convinti che la percezione implicasse uno spostamento di particelle di materia, per condurre un percorso di correzione della teoria, già avviato in Fisica, che nel De Anima trova maggior consistenza.

Dall’espressione “una certa affezione” in I 5, Aristotele passa a “una certa alterazione” (alloiōsis tis), in cui mutua il suo significato di “cambiamento di qualità”, ma aprendo una spaziosa prospettiva per affrontare la questione relativa a quale tipo di alterazione qualitativa la percezione comporti. Burnyeat abbraccia, senza riserve, l’interpretazione “alienante” del tis, e le sue argomentazioni vogliono dunque dimostrare che Aristotele intende la percezione come un tipo di alterazione che non ci si aspetterebbe normalmente.

La prima argomentazione prende spunto dall’aporia derivante dall’affermazione “il simile è affetto dal simile” presente in Su generazione e corruzione, che contraddice “il simile non è affetto dal simile” in De Anima I 5. La soluzione, che Burnyeat definisce “preliminare”, viene proposta da Aristotele alla fine di De Anima II 5, quando dice che il dissimile viene affetto, ma quando è stato affetto diventa simile, richiamando la teoria della potenza e dell’atto: l’oggetto è necessario per dare impulso alla percezione (così come il combustibile necessita di una scintilla per cominciare a bruciare). In tal senso, l’alterazione essendo definita da uno stato finale verso il quale è diretta, e costituendo la ‘compiutezza’ di una potenzialità, l’agente del cambiamento (nella percezione, l’oggetto percepibile) ha già in atto la qualità che il paziente (l’organo di senso) acquisirà o, come in [417a17-18], ciò che percepisce è in potenza quello che l’oggetto percepito è in atto.

Burnyeat sottolinea come questa disambiguazione dell’aporia sia afferrabile solo ampliando il contesto di lettura a Fisica III 1-3 (che tratta della natura e del cambiamento). Conclude poi rimarcando lo schema causale con cui Aristotele spiega perché non si può percepire il caldo o il rosso se non c’è qualcosa di caldo o di rosso a stimolare la percezione, quindi «percepire è essere alterato dalla qualità del sensibile di cui si ha la percezione»[27], fermo restando che la percezione è un caso “molto speciale” di alterazione.

A questo punto, in riferimento alla seconda parte di De Anima II 5, Burnyeat evidenzia come Aristotele avverta il lettore che finora ha proposto una considerazione semplice di potenzialità e atto, che va approfondita distinguendo, per i verbi ‘percepire’, ‘vedere’, ‘sentire’, due significati: quello per cui essi rimandano ad una capacità in potenza, e quello per cui esprimono un atto, un esercizio. Sulla base di questa formulazione preliminare, possiamo dire, per esempio, che «la vista sarà l’essere rosso in potenza, invece che trasparente o verde com’è ora, dell’occhio»[28], il che darebbe ragione all’interpretazione di Sorabji. Ma dalla distinzione che Aristotele raccomanda, consegue che tale potenzialità, così come la “compiutezza incompleta” della vera alterazione, riguarda l’occhio e non il senso della vista. La lettura di Sorabji, dunque, si accorda con la soluzione preliminare dell’aporia, ma, osserva Burnyeat, Aristotele non si ferma a questo primo stadio.

È opportuno riassumere quanto finora Burnyeat ha affermato, in un modo che semplifichi la fruizione del materiale che seguirà. Si tenga conto che:

  • Burnyeat opta per l’interpretazione alienante del tis in II 5 e, conseguentemente, non ritiene corretta l’idea di Sorabji, secondo la quale Aristotele propone la percezione come un’alterazione qualitativa ordinaria, quindi fisiologica.
  • Da un contesto di lettura esteso alla Fisica e a Su Generazione e Corruzione, con in più l’attenzione a eventuali emendamenti di allievi e interpreti al testo, egli ricava la convinzione che Aristotele intendesse, nel De Anima, attribuire alla percezione un tipo “molto speciale” di alterazione.
  • In più, Aristotele, per introdurre la distinzione tra potenza prima e seconda, secondo Burnyeat scrive il II 5 in due parti, la prima preparatoria, preliminare, che culmina in un cambio di registro volto ad articolare, nella seconda sezione, una tesi di maggiore complessità su potenza e atto, dalla quale Burnyeat afferma si debba desumere la straordinarietà del cambiamento che la percezione comporta.

Userò la seguente rappresentazione di quello che Burnyeat chiama «triplice schema»[29] come guida per una lettura più agevole:

 

Dicevamo che Burnyeat ritiene il De Anima II 5 divisibile in due sezioni. Fino a [417a20], lo studio di Aristotele conferma la definizione della percezione nei termini di una alterazione ordinaria (vera alterazione), un cambiamento qualitativo (per Sorabji, fisico) in cui una nuova qualità viene acquisita dal percipiente a colmare una privazione (il fondo del bulbo oculare, p.es., da trasparente diventa rosso). A partire da [417a21], Aristotele introduce un’argomentazione che verte sulla conoscenza. Lo schema ci aiuta a dire che ognuno nasce con la capacità di conoscere, di imparare, p.es., l’aritmetica, dotato, quindi, di una “potenza prima” (P1). Attraverso lo studio, il conoscere in potenza diventa conoscenza in atto, con un passaggio (1^ transizione) dalla “potenza prima” all’“atto primo” (A1), cioè alla compiutezza del conoscere l’aritmetica, che implica un’alterazione qualitativa, un colmare l’ignoranza con la conoscenza di cui si era privi. L’atto primo ora descritto, però, costituisce anche, se considero che prescinde dalla pratica (conosco l’aritmetica, che è in atto in me, anche se dormo), la potenzialità (P2, “potenza seconda”) dell’atto di esercitarla (A2, “atto secondo”). Passare dalla P2 (o, che è lo stesso, dall’A1) all’A2 equivale ad una 2^ transizione, che non comporta una vera alterazione, in quanto non interviene un cambiamento qualitativo.

Come dice Aristotele in Fisica VIII 4 [255a30-31]: “Dato che l’essere in potenza si può dire in più di un modo”.

Burnyeat nota anche che il possesso della conoscenza aiuta, all’inizio del De Anima, a comprendere meglio la definizione di anima come «atto primo di un corpo naturale potenzialmente vivo»[30].

Ora, a differenza del conoscere, noi (e gli animali) nasciamo con la capacità di percepire già in potenza seconda, quindi, in riferimento al triplo schema, l’uso dei nostri sensi ha lo stesso rango dell’esercizio della conoscenza, anche se Aristotele precisa che la percezione e la conoscenza comportano esercizi differenti.

Conoscere è un esercizio autonomo, non determinato da qualcosa di esterno, in un certo qual modo “attivo”. Percepire è invece essere in-formati dagli oggetti che ci circondano, è subire gli stimoli che i sensibili impongono. È, essenzialmente, un cambiamento “passivo” determinato da cause esterne.

Aristotele, come di consueto, riferendosi agli antichi (Empedocle, Democrito, Parmenide, Anassagora), che consideravano la percezione un’alterazione al pari delle forme più alte di cognizione, vuole correggere la loro opinione, pur salvaguardando quel che di buono proponeva. E dunque, nel De Anima, incalza Burnyeat, la percezione è presentata come “una certa alterazione”: è diversa dall’esercizio della conoscenza (che non è affatto un’alterazione), ma anche dal cambiamento ordinario con cui Sorabji la confonde.

Una alterazione vera altera. Ed è reversibile: una cosa fredda viene riscaldata, poi torna ad essere fredda. Se un uomo conosce l’aritmetica, in normali condizioni non retrocederà all’ignoranza dell’aritmetica. Acquisire conoscenza non è una alterazione, non è un essere affetto, sostiene Aristotele in Fisica VII 3; piuttosto, è portare a compiutezza un cambiamento. Analogamente, la transizione dell’embrione allo stato di organismo capace di percepire (potenza seconda) non è una alterazione ordinaria, ma un cambiamento verso la propria natura, un progresso nell’essere se stesso.

In sintesi, dice Burnyeat, abbiamo tre possibili tipi di alterazione (ordinaria, non ordinaria e straordinaria) corrispondenti alla sostituzione di una qualità con un’altra, al perfezionamento verso la propria natura, al passaggio della capacità dal possesso all’esercizio. Ad ogni tipo di alterazione è possibile allora associare la relativa coppia potenza-atto, e le rispettive funzioni di rimpiazzo di una qualità, di perfezionamento del soggetto, di preservazione ed esercizio delle sue specifiche disposizioni.

Burnyeat osserva che il processo di rifinitura della teoria sulla percezione viene introdotto ma non portato a termine da Aristotele, né in De Anima II 5 né altrove, cosicché possiamo lavorare soltanto su ciò di cui disponiamo. In Fisica III 1-3 e in De Anima II 4, Aristotele ci dice che chi percepisce qualcosa non subisce un’alterazione, che semplicemente passa dall’inattività all’esercizio, dalla potenza all’atto, come l’architetto impegnato a costruire una casa.

Il II 5, sostiene Burnyeat, prepara un unico scenario per portare a sistema lo studio di tutte le capacità cognitive dell’anima, dal livello base della percezione fino ai livelli più alti. Contestualmente, l’ipotesi di Burnyeat è che Aristotele vuole, per ragioni epistemologiche, trattare sia le transizioni attinenti alla percezione, sia quelle del conoscere, come alterazioni “passive” e, di conseguenza, sia la potenza seconda della percezione, sia la potenza prima dell’intelletto, come poteri della recettività, e non come attività autonome. La percezione è, allora, un certo cambiamento qualitativo indotto da una qualità in atto percepita, o, più semplicemente, la transizione all’esercizio di percepire e la percezione sono sovrapponibili: non c’è un momento in cui lo scopo della percezione (percepire oggetti) non sia attuato. In definitiva, la percezione è alloiōsis tis in accezione alienante, qualcosa come un’alterazione, per cui non ci si può aspettare che chi percepisce venga realmente alterato, e che questo cambiamento, diciamo, dell’occhio che diventa rosso, richieda un tempo, come accade per un’alterazione ordinaria. Nondimeno, ci si aspetterà qualcosa come un’alterazione, qualcosa che in un certo qual modo assimili ciò che percepisce alla qualità sensibile del percepito, ma certo diversamente dal modo in cui una stanza fredda si riscalda grazie al fuoco.

Ricordando che Aristotele spiega la visione di un oggetto rosso come una “quasi-alterazione” verso il rosso del fondo trasparente dell’occhio, e richiamando che tale trasparenza, così come il potere di vedere, deve essere preservata dall’esercizio del vedere, in quanto condizione materiale per mantenere quel potere, ciò che veramente succede per Aristotele, secondo Burnyeat, è che il soggetto diventa consapevole del rosso. L’alterazione “straordinaria” è un’accurata consapevolezza delle qualità sensibili, oggettivamente reali, presenti nell’ambiente che ci circonda[31].

Burnyeat legge nell’interpretazione di Sorabji due affermazioni: che per la percezione Aristotele si riferisce a una alterazione ordinaria, che essa sta alla coscienza come la materia sta alla forma. Entrambe le tesi sono già state smentite: la percezione comporta un’alterazione straordinaria che è, essa stessa, la consapevolezza della qualità sensibile dell’ambiente, un certo cambiamento che non è come il ribollire del sangue intorno al cuore di chi si arrabbia. Bunyeat estende poi la sua refutazione, dalla lettura di Sorabji, anche a quegli interpreti (Nussbaum e Putnam) che teorizzano, nella psicologia aristotelica, una versione ante litteram del funzionalismo[32], e riduce il paragone tra Aristotele e il funzionalismo ad una conferma di quanto profondamente, oggi, lo studio della coscienza risenta dell’influenza cartesiana.

Le alterazioni straordinarie implicate nella percezione pertengono alla forma, piuttosto che alla materia, sono per Aristotele la ricezione delle forme sensibili senza la materia.

Per gli scienziati contemporanei è comodo usare la percezione come “segnaposto” di qualsiasi cosa, nella fisiologia animale, avvii il movimento. Ma questo è funzionalismo, ammonisce Burnyeat, non è Aristotele.

La percezione comporta che ciò che percepisce diventa come l’oggetto percepito, un processo relativo alla forma, non un processo materiale. La tesi aristotelica lascia, comunque, lo spazio logico per una realizzazione materiale della percezione, spazio che i commentatori possono riempire, a piacere, con messaggi codificati, vibrazioni, o qualsiasi altro processo vogliano immaginare. Aristotele, però, parla di percezione nei termini di una alterazione, non di altro. Cercare di assimilare le teorie di Aristotele a quelle moderne rimane, per Burnyeat, una violazione dello spirito dei suoi testi. Se Aristotele non lascia margini, nella sua ampia trattazione della percezione nel De Anima, per sottintendere ulteriori alterazioni materiali nella particolare alterazione che è la percezione, dobbiamo prenderlo in parola: egli voleva fermarsi all’alterazione straordinaria.

E per finire, tertium non datur. Nel De Anima, la percezione è “una certa alterazione”: o è il cambiamento ordinario di Sorabji, o «l’alterazione straordinaria che io ho portato alla luce in II 5»[33].

 

 

Una terza via: Victor Caston

[…] there is good reason to think that literalism and spiritualism do not exhaust the possibilities, and that both in fact are mistaken.[34]

 

È interessante, dopo aver recepito il pensiero di Sorabji e Burnyeat, acquisire, seppure in forma sintetica, un terzo parere, quello di Victor Caston.

Egli esamina la controversia tra “interpretazione letterale” (literalism, riferita a Sorabji e ad altri) e “interpretazione spiritualistica” (spiritualism, riferita a Burnyeat e ai suoi sostenitori), nel primo caso ricordando che alcuni ritengono che l’organo di senso assuma letteralmente la forma delle qualità sensibili percepite («when I look at a rose and then an azure sky, some part of my eyes literally turns crimson first and then azure»[35]), in tal modo leggendo nella percezione, aristotelicamente intesa, una alterazione interamente ordinaria.

Contro questa spiegazione letterale cita l’argomentazione di Burnyeat, il quale nega qualsiasi cambiamento fisiologico durante la percezione, solo ammettendo che Aristotele parla di alterazione fisica nel senso di un «cambiamento completamente naturale»[36], quello che Tommaso d’Aquino avrebbe definito un “cambiamento spirituale” («one that is physical and embodied, but not a material change»[37]).

Ma poi Caston si fa perentorio: sia Sorabji che Burnyeat sbagliano, perché è ragionevole pensare che letteralismo e spiritualismo non esauriscono le possibilità di lettura della percezione nel De Anima.

La tesi spiritualistica esagera le proprie conclusioni. È vero che la percezione per Aristotele non implica un’alterazione in senso comune, e che, piuttosto che annullare la nostra capacità percettiva, la realizza, come un architetto fa quando costruisce; è però innegabile che l’architetto esercita le sue capacità proprio mediante cambiamenti materiali («such as hammering and sawing»[38]), e così non si può escludere qualche cambiamento nella percezione. In più, la tesi di Burnyeat, nel precludere alterazioni materiali in virtù dell’efficacia causale delle qualità sensibili, non smentisce la possibile presenza di cambiamenti fisici basati sulla sopravvenienza[39], e lascia fuori la possibilità che Aristotele (come sostenuto dallo stesso Caston) sia un emergentista[40].

Non meno difettoso si presenta il letteralismo di Sorabji che, oltre che teorizzare cambiamenti materiali nella percezione, insiste su un cambiamento specifico, per cui l’organo di senso diventa F, quando percepisce una qualità sensibile F, proprio nello stesso modo in cui l’oggetto è F. È Aristotele stesso, dice Caston, a deridere una tale ipotesi: se pensiamo a una pietra, non abbiamo una pietra nella nostra anima[41]. Aristotele afferma che il senso diventa come l’oggetto, ma qualunque cosa voglia dire con “come l’oggetto”, di sicuro ne rigetta l’idea di una replica interna, e dunque elude la tesi letteralistica.

In conclusione, Aristotele non parla in termini espliciti di alterazioni fisiche, ma certo lascia ampi margini, «textual as well as logical»[42], per cambiamenti materiali alternativi nella percezione.

 

[1] Sorabji, Richard, (A), Intenzionalità e processi fisiologici: la teoria aristotelica della percezione sensibile, in G. Cambiano (a cura di), L. Repici (a c.), Aristotele e la conoscenza, LED Edizioni Universitarie, Milano 1992

[2] Sorabji, Richard, (B), “Intentionality and Physiological Processes: Aristotle’s Theory of Sense-Perception”, in Martha C. Nussbaum & Amelie Oksenberg Rorty (eds.), Essays on Aristotle’s de Anima, Clarendon Press (1992), p. 211.

[3] Sorabji (A), op.cit., p. 50. A dire il vero, riporto qui la mia traduzione dal testo originale in inglese [Sorabji (B), op.cit., p. 203], perché nella versione tradotta la frase è «preoccupato di classificare gli stati mentali collocandoli da un lato o dall’altro della percezione: la frontiera dell’opinione», che a me sembra errata.

[4] Ivi, p. 59

[5] Il funzionalismo nasce nel 1950 ad opera di Hilary Putnam (Chicago, 31 luglio 1926). È una teoria della mente che considera gli stati mentali come esclusivamente costituiti dalla loro funzione, dunque dalle relazioni causali tra loro e con le percezioni e i comportamenti. Putnam formula tale teoria in opposizione al riduzionismo materialista, ma soprattutto al comportamentismo, che accusa di spiegare gli stati mentali attraverso i loro effetti nel comportamento, da essi facendo derivare, come meri costrutti logici, le cause. Negli anni sessanta, Jerry Alan Fodor (New York City, 1935) approfondisce il funzionalismo teorizzando un’organizzazione funzionale degli stati mentali interni, aventi tra loro relazioni sintattiche basate su proprietà semantiche, e implementati in diversi modi dagli stati neuronali. Nel 1973, Putnam pubblica Filosofia e vita mentale, e riconsidera la propria teoria originaria giudicando troppo semplicistica l’analogia mente/computer, emblematica delle teorie funzionaliste (cervelloºhardware; menteºsoftware).

[6] Ivi, p. 61

[7] Ivi, p. 62

[8] Ibidem

[9] Ivi, p. 64

[10] Ivi, p. 65

[11] Aristotele, Sull’anima II (introduzione, traduzione e note di Giovanna R. Giardina), Aracne ed., Roma 2009, p. 172.

[12] Cfr. De Anima II [417a20]: affinché ci sia un’alterazione, tra agente e paziente è necessaria una certa omogeneità, che non sia totale similitudine. Il fuoco, per esempio, interagisce con l’acqua che, avendo con il fuoco in comune la temperatura, acquisisce il caldo, qualità di cui è priva ma che può acquisire (dalla privazione al possesso, dalla potenza all’atto). Non si arriva mai ad assumere proprietà non possedibili: l’uomo, per esempio, è privo di ali e non potrà mai acquisirle.

[13] Sorabji (A), op. cit., p. 70

[14] Ivi, p. 73. La cosiddetta realizzabilità multipla è un concetto connesso al funzionalismo, in accordo al quale le funzioni cognitive possono essere realizzate anche in sistemi tecnologici programmabili (computer, robot, reti neurali, ecc.).

[15] Ivi, p. 74

[16] Aristotele, op.cit., pp. 134-5, nota 202: «Chi possiede […] la scienza […] e passa dal non esercitarla all’esercitarla, come l’architetto che prima non costruisce e poi costruisce, non è coinvolto in un processo di alterazione. Questi esempi servono ad Aristotele per indicare il ruolo agente dell’anima nel processo della percezione, ruolo secondo cui l’anima muove il corpo alla percezione senza essere essa stessa mossa».

[17] Sorabji (A), op.cit., p. 82

[18] Ivi, p. 86

[19] «L’intenzionalità è il potere della mente di riferirsi a, di rappresentare, o di stare per, cose, proprietà e stati d’animo o emozioni. I misteri dell’intenzionalità si collocano in una zona intermedia tra la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio. La stessa parola, che ha origine nella Scolastica medievale, fu riproposta da Franz [Clemens Honoratus Hermann] Brentano [Boppard, 16 gennaio 1838 – Zurigo, 17 marzo 1917; filosofo e psicologo tedesco, maestro di Husserl e Meinong] verso la fine del XIX secolo. ‘Intenzionalità’ è un termine filosofico. Deriva dal latino intentio, che a sua volta deriva dal verbo intendere, che significa essere diretti verso uno scopo o verso qualcosa» (da Jacob, Pierre, “Intentionality”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Fall 2010 Edition, Edward N. Zalta, URL = http://plato.stanford.edu/archives/fall2010/entries/intentionality/, traduzione mia). Questa definizione generale rimane ancora valida, anche se il concetto di intenzionalità, nella storia della filosofia, è stato variamente utilizzato in accezioni che accentuavano l’uno o l’altro dei suoi caratteri. Avicenna (Ibn Sinā, alias Abū cAlī al-Ḥusayn ibn cAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina, noto come Avicenna; Balkh, 980 – Hamadan, 1037; medico, filosofo, matematico e fisico persiano) intese con tale termine il modo in cui la coscienza si rapporta con un oggetto per conoscerlo. Nel tardo medioevo, Tommaso d’Aquino (Roccasecca, 1225 – Fossanova, 7 marzo 1274; frate domenicano, definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei), discepolo di Alberto Magno di Bollstädt (Lauingen, 1206 – Colonia, 15 novembre 1280) e importante esponente della Scolastica, chiama ‘intenzionalità’ l’essere in costante tensione, proprio dell’atto cognitivo, verso l’in sé dell’oggetto conosciuto, svalutando a ‘intenzionalità indiretta’ il dirigersi dell’intelletto verso la cosa percepita, che è solo una rappresentazione. Brentano, in epoca moderna, considera l’intenzionalità come fenomeno psichico implicato nel rapporto della coscienza con gli oggetti dell’esperienza: «ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto […], nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato» (Brentano 1874; trad. it. 1997, 1° vol., pp. 164-6). Viene quindi elusa la problematicità del passaggio dalla coscienza all’essere, cara alla filosofia scolastica, a maggior ragione tenendo conto che, nella teoria di Brentano, il contenuto intenzionale non ha necessariamente una propria esistenza reale (si pensi, p.es., ai sogni e alle fantasie). Ripresa e condivisa da Husserl, allievo di Brentano, la concezione che il pensiero o il vissuto è sempre pensiero o vissuto di qualcosa viene contrapposta al cogito cartesiano, nei termini di un’analisi volta a comprendere come il mondo è per il soggetto, per l’io. Nella filosofia analitica l’intenzionalità verrà ridotta al substrato neuronale, concepita innanzitutto come la capacità di formare rappresentazioni e contenuti mentali, in tal modo oscurandone il significato di capacità della coscienza di orientarsi verso oggetti, e dunque operando quella che viene definita “naturalizzazione della coscienza”, una riduzione, cioè, al materiale e al fisico dell’intenzionalità. Il contenuto intenzionale dell’atto mentale è comunque rimasto centrale negli studi di alcuni filosofi analisti di fama internazionale quali Searle e Putnam (che parla emblematicamente di aboutness). Le problematicità con le quali la filosofia della mente continua tutt’oggi a confrontarsi (dualismo mente/corpo o, che è uguale, psiche/cervello) sono quelle diventate occasione frequente di speculazioni da parte di molti neuroscienziati, le cui ricerche, in controparte al classico binomio anima/corpo, si alternano tra la lettura dicotomica delle differenti strutture cellulari di mente e cervello, e la riduzione dell’una all’altro, in una riproposizione postuma della riduzione dell’anima al corpo.

[20] Ivi, p. 88

[21] Ibidem

[22] Ibidem

[23] Ivi, pp. 88-9

[24] Burnyeat, Myles F., “De Anima II 5”, in Phronesis, Vol. 47, No. 1 (2002), pp. 28-90, Brill Ed., URL: http://www.jstor.org/stable/4182688 (traduzioni mie).

[25] Ivi p. 28

[26] Ibidem

[27] Ivi, p. 45

[28] Ivi, p. 48

[29] Ringrazio il Prof. Riccardo Chiaradonna per il prezioso contributo. Lo schema è infatti una rielaborazione della efficace versione proposta durante il Suo corso sul De Anima, tenuto nell’Anno accademico 2013-14 presso la facoltà di Filosofia dell’Università Roma Tre (insegnamento “Storia della Filosofia Antica”, lezione del 17 dicembre 2013).

[30] De Anima I [412a22-28]

[31] Burnyeat, op.cit., p. 76

[32] Ivi, p. 78

[33] Ivi, p.83

[34] Caston, Victor, Aristotle’s Psychology, in M. L. Gill and P. Pellegrin (eds.), The Blackwell Companion to Ancient Philosophy, Blackwell, Oxford 2006, p. 329

[35] Ivi, p.328

[36] Ivi, p. 329

[37] Ibidem

[38] Ibidem

[39] Aristotele dice che l’anima sopravviene al corpo, ma ha proprietà causali proprie, non riconducibili al fisico, che emergono in virtù del suo essere anima (“dualismo di proprietà”).

[40] Tutti i fenomeni emergenti, compresa la mente, sono fenomeni spontanei, di natura processuale, naturalmente generati dall’insieme delle interazioni tra le parti della totalità da cui emergono. «Come sottolineato da Caston il vero potere causale per il funzionalismo risiede negli stati materiali soggiacenti gli stati psicologici; per Aristotele invece gli stati psicologici (dell’anima) sono emergenti e non riducibili agli stati materiali che da soli non consentirebbero un’adeguata comprensione delle sostanze […]. Aristotele […] non può essere detto riduzionista in quanto la causalità della forma anima non è riducibile alle proprietà corporali. Anche l’emergentismo va però considerato sempre nella prospettiva top down per cui è grazie alla causalità dell’anima che emergono particolari capacità performative e di coesione di un dato corpo e non viceversa».
(Andreas Massacra, “Un problema di biologia aristotelica”, in Intersezioni, n. 35, 4 settembre 2013, URL: http://www.intersezioni.eu/public/art_498/35%20Contaminazioni%20A.%20Massacra.pdf)

[41] Caston, op.cit., p. 330

[42] Ibidem

Questa voce è stata pubblicata in Numero 10 e contrassegnata con , , , , . Contrassegna il permalink.