CRITICA DELLA POLITICA ESTERA di Krippendorff: invito alla lettura

Pasquale Amato (Luglio 2021)

Un testo diffusamente apprezzato tra gli studiosi di politica internazionale è Critica della politica estera di Ekkehart Krippendorff[1]. La lettura di quest’opera mi sembra interessante anche per i profani come me, e quindi la consiglio a tutti, ma la mia attenzione per le questioni connesse alla umana facoltà di linguaggio mi spinge a proporre alcune brevi considerazioni sul capitolo 10, che si intitola, guarda caso, “Il linguaggio della politica estera”.

In buona sostanza, l’autore afferma che l’utilizzo di un particolare linguaggio scientifico, basato sui concetti che le pratiche politiche in ambito internazionale hanno consolidato nel tempo, ha contribuito a strutturare un modello teorico di mondo, un modello concettuale – diverso dal mondo reale – a cui l’esercizio della politica estera fa riferimento, in funzione di interessi quasi sempre lontani dalle vere esigenze dei popoli.

La scienza e la prassi della politica estera trattano il mondo reale sulla scorta di un mondo concettuale che si sono costruite sulla base della storia e della storiografia politico-estera – e così questa realtà è diventata sempre più simile a quei concetti e ha con ciò confermato per parte sua i concetti stessi.[2]

Un esempio tipico di tale “processo astrattivo” è l’attribuzione a tutti i cittadini di un determinato Paese – cioè all’intera nazione o allo Stato – di dichiarazioni, fatti, decisioni, eventi, espressioni di voto e così via, di cui unici responsabili sono in realtà i rappresentanti del governo di quello stesso Paese:

è per esempio del tutto ovvio che gli USA facciano questo o trascurino quest’altro, che la Francia prenda questa o quella posizione, che l’Italia dia il suo voto così o diversamente nell’ONU, che la Polonia voglia entrare a far parte dell’UE o della NATO, eccetera. Noi “sappiamo” ovviamente che con ciò si intende il rispettivo governo, oppure un presidente, un primo ministro o un ministro degli Esteri, […] ma nel momento in cui noi sussumiamo tutti i cittadini statunitensi, francesi, italiani, polacchi, eccetera al concetto collettivo, chiudiamo gli occhi davanti al fatto che per esempio la politica degli USA, considerata una partecipazione al voto che oscilla attorno al cinquanta per cento, è approvata da non più di un quarto degli americani (oltre i diciotto anni di età) […].[3]

Nell’esaminare la storia del linguaggio scientifico della politica estera – confrontando, per esempio, la letteratura degli anni Quaranta e Cinquanta del ‘900 con quella più recente –, si nota come questo “lavoro sulla lingua”[4] induca una perdita nella corrispondenza tra linguaggio e realtà, fino a poter paragonare l’evoluzione del linguaggio della politica estera a «una storia terminologica del potere»[5], o anche a «una storia dell’occultamento di scomode verità politiche tramite colti astrattismi»[6].

Il costante ricorso a metafore i cui termini di riferimento derivano da altre discipline (fisica, chimica, ecc.) ha portato alla costruzione di un vocabolario, oggi acriticamente riconosciuto, le cui “stranezze” sono ormai state interiorizzate anche da chi di politica estera si occupa solo nell’ambito dell’informazione e della comunicazione.

Ma proprio ciò, proprio questa concettualità metaforica, divenuta una “seconda natura” della politica estera, permette di gettare lo sguardo su una realtà linguisticamente deformata e camuffata.[7]

La metafora di cui più frequentemente si serve chi si occupa di politica estera, osserva Krippendorff, è il gioco.

«La politica estera è un grande gioco»[8] – in cui si sono cimentati personaggi quali Mussolini o Hitler, che guardavano il mondo dall’alto, con la felicità e la pretesa di esercitare un potere pari a quello degli dèi – che come tale viene descritto anche dagli osservatori dell’informazione.

Le immagini del calcio e della boxe sono certo usuali e ricorrenti (forse quanto quelle del poker) ma, se si vuole aggiungere un’allusione all’intelligenza, alla lucidità e all’acume necessari per affrontare questioni internazionali, il richiamo preferito è, ovviamente, agli scacchi.

Gli scacchi sono, come la politica estera, un gioco gerarchico (i pezzi lasciano ancora riconoscere la sua origine feudale) nel quale prima di tutto si mandano allo sbaraglio i pedoni, mentre gli ufficiali – a seconda del loro grado – vengono protetti con cura e impiegati con maggior prudenza.[9]

Non è dunque casuale, se si tiene presente il carattere gerarchico di questo gioco, il giudizio secondo cui, così come negli scacchi a rischiare di più sono i pedoni – posizionati in avanscoperta e destinati al sacrificio –, la politica estera mostra spesso quanto poco i capi di Stato abbiano a cuore il destino dei propri popoli, delle donne e degli uomini che a loro si affidano.

Un’ulteriore attinenza metaforica, di cui si approfitta con assiduità, è quella dell’equilibrio, nonostante il monito di Kant che, nel suo scritto Per la pace perpetua, declassa a “fantasticheria” l’idea di una pace fondata sull’equilibrio (sulla balance): una pace così raggiunta seguirebbe il destino della casa di Swift che, proprio perché costruita secondo le più esatte leggi dell’equilibrio, crollerebbe se un passerotto vi si posasse, perché il peso irrilevante dell’uccellino scombinerebbe quello stesso equilibrio.

L’ultimo parallelo che Krippendorff esamina è quello con il teatro.

Il mondo è il palcoscenico degli uomini di Stato, i quali recitano un testo che essi stessi redigono […]. Quelli si mettono in posa – e noi applaudiamo o protestiamo e paghiamo in ogni caso.[10]

Ma proprio perché il teatro è un’istituzione che, riproducendo criticamente l’agire dei capi di Stato, senza remore ne rivela la verità, l’allegoria del teatro risulta alquanto indigesta agli uomini di Stato, ed è difficile che la accolgano nei propri discorsi, «benché espressioni come “scena”, “rappresentazione”, “ruolo”, “dramma”, si presterebbero addirittura a una definizione formale dell’attività politico-estera»[11].

Ora, la riproposizione sintetica di queste riflessioni di Krippendorff implicano di sicuro un invito a leggere il libro, non solo perché ne vale la pena, ma anche per verificare se, come a me è capitato – soprattutto in relazione ai contenuti del capitolo 10 –, la questione che viene in mente in modo quasi automatico è: ma è proprio vero che queste osservazioni riguardano solo l’attività politico-estera? Non sarebbe possibile (e interessante, anche), modificando un po’ l’angolo visuale e le argomentazioni da mettere in gioco, fare una riflessione analoga per la politica tout court?


[1] Ekkehart Krippendorff, Kritik der Außenpolitik, Suhrkamp Verlag AG, 1° edizione 23 maggio 2000, tr.it. di Elisabetta Dal Bello, Critica della politica estera, Fazi, Roma 2004.

[2] Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, op.cit., p. 140.

[3] Ivi, pp. 140-141.

[4] Ivi, p. 142.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 142-143.

[7] Ivi, p. 143.

[8] Ivi, p. 144.

[9] Ivi, p. 146.

[10] Ivi, p. 151.

[11] Ivi, p. 153.

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