La filosofia del linguaggio nel ‘900

Pasquale Amato

NB: Questo articolo nasce da preziosi spunti colti nella prima parte del testo “Verso il reale. Lacan e Baudrillard”
        di Felice Cimatti, pubblicato in Lo Sguardo, N. 23, 2017 (I).


La tradizione linguistica occidentale ha le sue radici in quei filosofi che hanno cominciato a distinguere le classi di parole necessarie a una teoria dell’argomentazione

Già i Sofisti, Platone, Aristotele e gli Stoici, ma poi anche i pensatori medioevali e moderni, mostrano grande interesse per il linguaggio. La nascita della filosofia del linguaggio come disciplina autonoma è però riconducibile al linguistic turn teorizzato da Rorty nel 1967[1], cioè alla svolta linguistica che ha caratterizzato la filosofia occidentale del Novecento, intensamente proiettata a studiare tutte le tematiche connesse al linguaggio.

La filosofia del linguaggio nasce come disciplina autonoma nel Novecento con la svolta linguistica della filosofia occidentale

La filosofia del linguaggio è la riflessione sui rapporti tra linguaggio e realtà, e viene a volte annoverata tra le cosiddette filosofie seconde (filosofia del diritto, della storia, della scienza, ecc.), quelle cioè che, a differenza della filosofia tout court che studia i principi dell’essere in generale, indagano su specifici aspetti del reale.

L’interesse per il linguaggio deriva dall’idea che capire come e perché parliamo può dare un accesso privilegiato al nostro mondo concettuale, può aiutarci a comprendere come pensiamo.

Eppure, il linguaggio ha acquisito per molti pensatori un’importanza tale da poter considerare «la filosofia del linguaggio una sorta di filosofia zero, distinta sia dalla filosofia prima, che indaga i primi principi di tutto il reale, sia dalle filosofie seconde: la filosofia del linguaggio sarebbe cioè una via di accesso alla filosofia stessa in quanto ci permette di avere un punto di osservazione sul nostro apparato concettuale»[2].

I tanti modi in cui la filosofia occidentale ha pensato e pensa il linguaggio si affiancano ai diversi metodi che linguisti, neurologi, biologi e psicologi applicano per lo studio scientifico di quella che viene considerata la componente più complessa del vivere umano. Scienza e filosofia sono quindi entrambe necessarie per comprendere il fatto del linguaggio, ma è importante anche una riflessione sulla storia delle molte teorie che i pensatori occidentali hanno formulato sul linguaggio[3].

Definire con precisione la filosofia è di per sé un problema filosofico
Il campo d’azione della filosofia del linguaggio è difficilmente determinabile

È pertanto difficile delimitare il campo d’azione della filosofia del linguaggio – e non è strano, se è vero che definire con precisione «la filosofia è di per sé un problema filosofico»[4] –, perché con “filosofia del linguaggio” si intendono cose molto diverse fra loro, spesso connesse a temi propri di molte altre discipline che la fiancheggiano: linguistica, semiotica, logica, epistemologia[5], ma anche antropologia, biologia, neurologia, psicologia dell’età evolutiva, psicoanalisi.

Linguaggio come strumento per comunicare?
O linguaggio come componente biologica fondante l’uomo?

Entriamo nel merito.

Il paragone del linguaggio con uno strumento […] deve farci in realtà molto diffidare, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio. Parlare di strumento vuol dire contrapporre l’uomo alla natura. La zappa, la freccia, la ruota non si trovano in natura, sono degli artefatti. Il linguaggio è nella natura dell’uomo, che non l’ha fabbricato. […] Noi non possiamo mai cogliere l’uomo separato dal linguaggio e non lo vediamo mai nell’atto di inventarlo. Non possiamo mai coglierlo solo con se stesso e che si sforza di concepire l’esistenza dell’altro. Nel mondo troviamo un uomo che parla, un uomo che parla a un altro uomo, e il linguaggio detta la definizione stessa di uomo.[6]

Cimatti rilancia: la «scoperta filosofica del ‘900 è […] che noi coincidiamo con il linguaggio. Homo sapiens significa letteralmente Homo loquens»[7]. Ovverosia: siamo linguaggio, perché la nostra esistenza si compie in una dimensione simbolica, su un piano trascendente, e, in quanto parlanti, non aderiamo alla natura e alle cose.

L’essere dotati della facoltà di linguaggio comporta conseguenze esistenziali non da poco. La più evidente è che ci separiamo dall’animalità in quanto immersi nel linguaggio: possiamo dire “Io”, e questo ci colloca immediatamente su un altro piano rispetto alle “cose”, ci rende trascendenti rispetto a qualunque essente sia “fuori” da Io.

Gli animali, proprio perché non governati dal linguaggio, proprio perché totalmente partecipi del flusso vitale della natura, vedono quella che per noi parlanti è una foresta come l’esteso avvicendarsi di tanti singoli alberi

Essere l’animale linguistico non ci permette di vedere la «massa vorticante di minuscoli dettagli»[8] che una mucca, al contrario, percepisce. La facoltà di linguaggio ci mette nella condizione di guardare all’universo, al flusso indistinto, ininterrotto e onnipresente del Tutto, e di “farlo a pezzi”, di ridurlo a formazioni e strutture interconnesse in una qualche organizzazione umanamente determinata. Ci mette nella posizione di guardare a noi stessi, analogamente, e “farci a pezzi”. Pratichiamo questa parcellizzazione costante, sistematica, generalizzata, ridondante e ricorsiva, rispondendo a una logica (o almeno tentiamo) che, in qualche modo, è estensione del linguaggio, è una sua forma, una sua implicazione.

Implicazione senza la quale non faremmo filosofia, va detto.

Mentre gli occhi della mucca vedono, non c’è pensiero esplicito o implicito a interferire, a sminuire la potenza (inimmaginabile per l’animale linguistico) di quello sguardo. È per questo che, «decisamente, gli animali si comportano come se vedessero tutto: a una mucca non sfugge nulla»[9]

Il confronto tra linguaggio considerato come semplice strumento per l’uomo e linguaggio inteso come fondamento della natura umana trova una sua prima configurazione nelle differenti prospettive in cui Gottlob Frege (1848-1925) e Ferdinand de Saussure (1857-1913) colgono il rapporto tra linguaggio e mondo.

Frege: un segno deve avere un riferimento e un senso

Il pianeta che oggi chiamiamo Venere è l’oggetto che, secondo Frege, costituisce il significato (o riferimento, o denotazione) del nome ‘Venere’. Pitagora comprese che la “stella della sera” (Espero) e la “stella del mattino” (Fosforo), all’epoca considerate due diverse entità, erano in realtà lo stesso corpo celeste (Venere, appunto). ‘Espero’ e ‘Fosforo’, quindi, denotano secondo Frege la stessa cosa, hanno cioè lo stesso significato o riferimento, ma hanno diverso senso. In più, un nome può non avere un riferimento: il nome proprio ‘Ulisse’, per esempio, «ha evidentemente un senso, ma […] è dubbio che […] abbia un significato»[10]. Frege osserva che il «pensiero perde valore per noi non appena ci accorgiamo che una delle sue parti è priva di significato»[11], che manca cioè di un riferimento a una qualche entità del mondo.

Differenziando il riferimento e il senso, ossia distinguendo la cosa indicata con un segno dal modo in cui la cosa è denotata da quel segno, Frege palesemente distingue il linguaggio dal mondo.

A Saussure basta il senso: il valore di un segno è determinato dalla relazione che ha con gli altri segni della lingua («nella lingua non ci sono se non differenze»[12], ogni elemento della lingua è in rapporto negativo e differenziale con tutti gli altri – x non è y, non è w, non è z, …)

Saussure tralascia la distinzione tra senso e significato, e sostiene che ogni segno ha un suo valore, così come accade, per esempio, a ciascun pezzo degli scacchi: il valore del cavallo è determinato dal suo rapporto con l’insieme degli altri elementi sulla scacchiera, risiede quindi nelle mosse che può fare. Il singolo pezzo degli scacchi, allora, non ha un valore in sé, ma solo in relazione a tutti gli altri pezzi. Analogamente, il valore di un nome, la possibilità cioè di essere usato nella lingua, deriva dalla relazione che ha con gli altri segni di quella lingua: «il valore rispettivo dei pezzi dipende dalla loro posizione sulla scacchiera, allo stesso modo che nella lingua ogni termine ha il suo valore per l’opposizione con tutti gli altri termini»[13].

Frege ritiene che un segno debba avere un riferimento e un senso; a Saussure, invece, basta il senso, cioè il rapporto tra quello specifico segno e gli altri segni della lingua. Saussure assume, dunque, che il funzionamento di una lingua non dipenda da una connessione con il mondo: mentre noi umani abbiamo bisogno del continuo riferimento al mondo per le nostre necessità vitali, la lingua non ha questa esigenza.

È poi Noam Chomsky, altro grande linguista del ’900, a rilevare che la sintassi, dispositivo centrale del linguaggio, opera in modo del tutto indipendente dalla volontà dell’uomo.

Per Chomsky la sintassi non ha bisogno del parlante: la lingua non ha bisogno di noi

Come per Saussure la lingua non ha bisogno del riferimento al mondo, così per Chomsky la sintassi non ha bisogno del parlante: «la lingua non ha bisogno di noi»[14]. La sintassi può infatti generare (generare, verbo inequivocabile: la sintassi, e non colui che parla con le sue finalità, genera gli enunciati) un numero potenzialmente infinito di proposizioni, anche enunciati che nessuno mai pronuncerà, e che nessuno persino potrebbe comprendere per le «limitazioni della memoria, le distrazioni, e così via»[15]: la lingua è largamente eccedente rispetto alla nostra capacità di farne uso. Chomsky[16] segnala che, del resto, una proprietà elementare del linguaggio è l’«infinità discreta» – la stessa dei numeri naturali (1, 2, 3 …) –, grazie alla quale solo la pazienza o la resistenza fisica possono porre limite al comporre frasi sempre più complesse o, che è lo stesso, al formulare qualsiasi concetto. E dunque, necessariamente, tutto trova accoglienza nel linguaggio umano. Tutto, a prescindere dalla volontà di chi parla.

Heidegger: il linguaggio parla

L’autonomia del linguaggio viene peraltro riconosciuta da Heidegger, quando afferma che il «linguaggio parla»[17] e che l’«uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio»[18].

Wittgenstein, inoltre, appura efficacemente che l’attività percettiva dell’uomo si accorda alla struttura formale del linguaggio, e che il pensiero si articola secondo una struttura logica corrispondente a quella degli enunciati.

Cimatti: il ‘900 è il secolo che scopre il fatto del linguaggio

«Il ’900 è il secolo che sostanzialmente ha scoperto che il linguaggio non ha bisogno degli esseri umani»[19], conclude Cimatti. La sintesi tra la prospettiva di Frege e, con essa contrastanti, i punti di vista di Saussure, Chomsky e Wittgenstein esprimono, per quel secolo, «il nucleo metafisico […] della scoperta del fatto del linguaggio»[20].

 

 

 

Bibliografia

Richard Rorty, La svolta linguistica, Garzanti, Milano 1994.

Gustav Bergmann, Meaning and Existence, University of Wisconsin Press, Madison 1960.

Aldo Frigerio, Filosofia del linguaggio, Apogeo, Milano 2011.

Felice Cimatti e Francesca Piazza, a c. di, Filosofie del linguaggio, Carocci, Roma 2016.

Wikipedia, voce “Filosofia”, https://it.wikipedia.org/wiki/Filosofia.

Sito I sentieri della ragione, “La filosofia del linguaggio”, https://isentieridellaragione.weebly.com/filosofia-del-linguaggio.html.

Émile Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a c. di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Felice Cimatti, “Verso il reale. Lacan e Baudrillard”, in Lo Sguardo, N. 23, 2017 (I).

Temple Grandin, Catherine Johnson, La macchina degli abbracci, Adelphi, Milano 2007.

Gottlob Frege, Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici, a c. di Carlo Penco e Eva Picardi, Roma-Bari 2001.

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, a c. di Tullio De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2009.

Noam Chomsky, Saggi linguistici, vol. 1. L’analisi formale del linguaggio, Boringhieri, Torio 1969.

Noam Chomsky, Linguaggio e problemi della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1998.

Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a c. di Alberto Caracciolo, Mursia, Milano 1973.

 

Note

[1] Cfr. Richard Rorty, The Linguistic Turn. Recent Essays in Philosophical Method, Chicago 1967, tr.it. La svolta linguistica, Milano 1994, pp. 23-110. Rorty mutua dichiaratamente l’espressione da Gustav Bergmann, Meaning and Existence, Madison 1960.

[2] Aldo Frigerio, Filosofia del linguaggio, Apogeo, Milano 2011, pp. IX-X.

[3] Cfr. Felice Cimatti e Francesca Piazza, a c. di, Filosofie del linguaggio, Carocci, Roma 2016, “Introduzione”, pp. 13-14.

[4] «Defining philosophy is itself a philosophical problem. Perhaps a great many philosophers would agree that whatever else philosophy is, it is the critical, normally systematic study of an unlimited range of ideas and issues. But this characterization says nothing about what sorts of ideas or issues are important in philosophy or about its distinctive methods of studying them» (Robert Audi, “Philosophy”, in Encyclopedia of Philosophy, vol. 7, p. 325, NY Macmillan, 2005 – tratto da Wikipedia, voce “Filosofia”).

[5] https://isentieridellaragione.weebly.com/filosofia-del-linguaggio.html.

[6] Émile Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a c. di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 112.

[7] Felice Cimatti, “Verso il reale. Lacan e Baudrillard”, in Lo Sguardo, N. 23, 2017 (I), p. 177.

[8] Temple Grandin, Catherine Johnson, Animals in traslation. Using the Mysteries of Autism to Decode Animal Behavior, Scribner, New York 2005; tr.it. La macchina degli abbracci, Adelphi, Milano 2007, p. 88.

[9] Ivi, p. 69.

[10] Gottlob Frege, Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici, a c. di Carlo Penco e Eva Picardi, Roma-Bari 2001, p. 33.

[11] Ivi, p. 39.

[12] Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, a c. di Charles Bally, Albert Riedlinger, e Albert Sechehaye, Losanna-Parigi, Payot, 1916, tr.it. Corso di linguistica generale, a c. di Tullio De Mauro, Laterza, Roma-Bari [1967], 2009, p. 145.

[13] Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale [1922], a c. di Tullio De Mauro, Roma-Bari 1978, p. 108.

[14] F. Cimatti, “Verso il reale”, Op.cit., p. 179.

[15] Noam Chomsky, Saggi linguistici, vol. 1, L’analisi formale del linguaggio, Boringhieri, Torio 1969, pp. 121-122.

[16] Noam Chomsky, Language and Problems of Knowledge: The Managua Lectures, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1987; tr.it. Linguaggio e problemi della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1998, p. 148.

[17] Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a c. di Alberto Caracciolo, Milano, Mursia, 1973, p. 43.

[18] Ibidem.

[19] F. Cimatti, “Verso il reale”, Op.cit., p. 181.

[20] Ibidem.

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