La questione della data in Derrida

Sull’origine metaforica del linguaggio
Ambra Circognini

 

  1. Dal concetto strumentale di linguaggio alla metafora dellarchi-scrittura

Con il presente contributo dedicato a Derrida si cercherà di sondare un terreno particolare. È il terreno dell’esperienza, dell’esperienza di una rinuncia: «Kein ding sei wo das wort gebricht»[1]. È una terra promessa: «Viéns!», «Eccomi!». In una parola: è linguaggio. Ma che cos’è il linguaggio?

A questa domanda si potrebbe rispondere: il linguaggio, questo grande sconosciuto! La formula “che cos’è il linguaggio” in un certo senso è fuorviante, poiché, se, per un verso, suona come una domanda, per l’altro, può esser letta come un’affermazione. Questa domanda, prima ancora di domandare qualcosa, ha già risposto, mentre domanda qualcosa, già asserisce qualcosa: l’essenza, la sostanza, la verità. In altre parole, per porre la domanda sull’essenza, occorre già presupporla.

Come illustrato da Heidegger, quel che un qualcosa è, «il quid che lo costituisce», racchiude in sé ciò che, a partire da Platone, comunemente si dice «essentia» e che, più tardi, sarà detto «concetto»[2]. Per riprendere il celebre esempio di Nietzsche, il concetto di «foglia» racchiude in sé ciò che la foglia è: «una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte»[3].

Così, se, a partire da Platone, la caratteristica della verità è «dire gli enti come sono» e se il concetto si fa carico di questo dire, il grande sforzo di Nietzsche è stato quello di riportare alla luce la verità del concetto che è caduta in oblio: la metafora. In tal senso egli scrive: «Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete»[4].

In primo luogo, la domanda «che cosa…?», scrive Derrida, ha una storia, una provenienza. Essa è comandata da un luogo, un tempo, una lingua o una rete di lingue. Come tale, essa ha un diritto finito a domandare e, nel caso del linguaggio, sembra avere addirittura una «pertinenza contestabile»[5].

L’essenza del linguaggio, afferma Heidegger, è proprio ciò che rinuncia a dirsi. Essa parla, a partire da questa rinuncia[6]. Dell’essenza del linguaggio dobbiamo, pertanto, rinunciare a farcene un concetto.

Stando così le cose, come concepire il linguaggio?

Heidegger ricorre a una metafora e parla del linguaggio come della «dimora dell’essere». Ciò non significa, tuttavia, che l’essere, nel suo venire al linguaggio attraverso la parola, riceva una seconda esistenza. Per dirla con Gadamer, se, per un verso, la parola è tale in virtù di ciò che in essa viene al linguaggio, per l’altro, ciò che viene al linguaggio, non è qualcosa che sia già dato prima, senza il linguaggio[7].

Ricorrendo a concetti che «distruggono il proprio nome»[8], Derrida parla del linguaggio come di archi-scrittura o di archi-traccia. Riflettendo ai margini della filosofia, Derrida s’immagina il linguaggio come un orizzonte, che poi è l’«orizzonte stesso»[9]: il mondo come l’apertura del linguaggio, come uno «spazio d’iscrizione»[10]. Rinunciare a domandarsi “che cos’è il linguaggio?” non significa, necessariamente, rinunciare a interrogarsi su di esso. Ciò comporta, tuttavia, un cambio di registro. In tal senso, scegliamo di ripercorrere le tracce del filosofo francese, la cui riflessione sul linguaggio si sviluppa in dialogo con ciò che «sembra resistere a ogni domanda, a ogni forma di interrogazione filosofica, a ogni oggettivazione, a ogni tematizzazione teorico-ermeneutica»[11].

Il problema epistemologico generale che Derrida ha avuto il merito di riproporre all’attenzione del dibattito filosofico è: perché il linguaggio non è un semplice veicolo strumentale del pensiero?[12]. Alla risposta di questa domanda, Derrida ha dedicato gran parte della sua riflessione filosofica e della sua esperienza di decostruzione, ritenendo opportuno riproblematizzare i luoghi comuni, fin troppo scontati, in cui si è andata cristallizzando la tradizione logo-fono-centrica. Il suo sforzo è stato quello di mostrare l’illusorietà di quell’impalcatura concettuale tradizionale, riassumibile nel binomio metafisico presenza/assenza, che esercita la sua influenza, se non proprio un dominio, sin dai tempi di Platone. Proviamo a visualizzare tutto ciò:

Presenza Assenza

Origine                               Supplemento, Storia
Natura                                Cultura, Convenzione
Assoluto, Verità                Contingenza, Certezza, Inganno
Essenza                              Apparenza, Superficialità
Intuizione, Pensiero           Mediazione, Linguaggio
Coscienza                          Oblio, Erranza, Errore
Interiorità                           Esteriorità
Voce                                  Scrittura
Puro                                   Impuro
Identità                              Differenza
Bene                                  Male, Violenza

Se, da una parte, come si evidenzia attraverso questo schema, il linguaggio in generale, in quanto mediazione, è stato comunemente considerato come un fenomeno non-originario, come uno strumento convenzionale d’espressione, dall’altra, nel linguaggio sono state distinte come due nature: una meno mediante, più interiore, più cosciente e più originaria: la voce; e una esclusivamente esteriore, incosciente e supplementare: la scrittura.

Un segno scritto, anche solo secondo la definizione corrente del termine, si caratterizza come una marca che resta, «che non si esaurisce nel presente della sua istituzione e che può dar luogo a una iterazione in assenza e al di là della presenza del soggetto empiricamente determinato che lo ha, in un contesto determinato, emesso e prodotto»[13]. Sull’impossibilità costitutiva del segno scritto di restituire la presenza nella sua integrità o originalità, nonché sulla materialità, che rende il segno scritto qualcosa di esteriore, fisso, morto, si fonda il giudizio tradizionalmente negativo su di esso. Per la tradizione inaugurata da Platone, la scrittura, concepita, da una parte, solo nella sua forma fonocentrica, come semplice trascrizione della voce, rappresenta una duplicazione esteriore della parola viva, un “segno di segno”, un significante che rimanda a quel significante – la voce – che, a sua volta, è una parola (la quale, sebbene di rango superiore rispetto allo scritto, non perde comunque lo statuto di segno). Dall’altra, la scrittura sfugge al controllo dell’autore, poiché è capace di circolare anche in sua assenza.

La scrittura viene a rappresentare, pertanto, l’istanza dell’assenza o della morte rispetto al logos vivo dell’anima, ovvero al pensiero e alla voce con i quali il soggetto è presso se stesso. Il privilegio che la presenza e la voce celano nel proprio fondo risiede, così, nell’identificazione del sapere e del bene con la presenza a sé, con la coscienza. Tutto ciò che allontana dalla presenza, come la scrittura, che ripete senza sapere (poiché ripete senza coscienza), è erranza, errore, violenza[14].

Il giudizio negativo sulla scrittura continua a essere un Leitmotiv anche nel XVIII secolo. Rousseau «condanna la scrittura come distruzione della presenza»[15] e quest’ultima, che Platone aveva immaginato come un’anima cosciente, come la presenza a sé nel discorso vivo (cosa che più tardi Husserl assocerà alla sua idea d’«intenzionalità pura», ossia di un pensiero che pensa e esperisce se stesso senza più parole)[16], si arricchisce ora di nuovi significati: con Rousseau, «presente» diviene sinonimo di «originario», «naturale» e «insostituibile», di ciò che «non dovrebbe essere supplito perché dovrebbe bastare a sé stesso» e che si contrappone a tutto ciò che presenta i caratteri della «supplementarità», di cui la scrittura costituisce il paradigma[17].

Nel sistema rousseauiano delimitato dai concetti di origine e di supplemento (due entità presunte autonome e in opposizione reciproca) e dove la scrittura viene ridotta a mera esteriorità, a pura addizione o a semplice assenza, si riformula, secondo Derrida, il desiderio metafisico, mai sopito, di escludere dall’origine la non-presenza. Con le parole di Derrida: «La parola si aggiunge alla presenza intuitiva (dell’ente, dell’essenza, dell’eidos, dell’ousia, ecc.); la scrittura si aggiunge alla parola viva e presente a sé […], la cultura si aggiunge alla natura, il male all’innocenza, la storia all’origine, ecc»[18].

Considerata come un prodotto culturale e non naturale, come un fenomeno supplementare e non originario, come un’addizione superflua, la scrittura viene a costituirsi, infine, come l’emblema del male. Infatti, come la scrittura, anche il male è ritenuto da Rousseau e dall’intera tradizione metafisica come un qualcosa che giunge dal di fuori e che si aggiunge e si oppone a ciò che, per natura e in origine, è innocente e buono.

L’associazione dell’avvento della scrittura con l’irruzione del male è, ancora, un Leitmotiv dell’etnologia moderna, esemplificata, secondo Derrida, dalla figura che, nel Novecento, è erede della riflessione rousseauiana: Lévi-Strauss. La sua ambizione è di portare i propri studi su gruppi umani che, secondo l’etnologo sospettato di «etnocentrismo»[19], non sono stati ancora contaminati dall’irruzione del negativo: sui popoli indigeni «senza scrittura». Le popolazioni primitive, che non conoscerebbero l’uso della scrittura, manifestano, per Lévi-Strauss, una purezza e una bontà originarie, motivo per cui esse finiscono col rappresentare un oggetto di studio insostituibile per chiunque cerchi di recuperare quella pienezza ormai perduta dalla società contemporanea, nel momento in cui lo sviluppo degradante della civiltà ha raggiunto il suo apice[20].

Con le sue analisi sul linguaggio, Derrida ci invita a cambiare prospettiva su di esso, sul ruolo che svolge: forse, il linguaggio non è né uno strumento di espressione del pensiero, né è secondario, bensì è originario ed è la condizione di possibilità stessa del pensiero? Forse, per intendere il linguaggio dobbiamo pensare alla scrittura? Ma come pensare la scrittura? Certamente, per Derrida, non più nei termini fonocentrici di trascrizione fonetica, poiché il proprio della scrittura non consiste nella traduzione della voce nella materialità del segno scritto. La voce non precede la scrittura. In questa diversa prospettiva, la voce non possiamo più rappresentarcela nemmeno nei termini logocentrici di una traduzione di un pensiero nella materia fonica, poiché il pensiero non è né l’origine, né uno specchio della realtà già precostituita in una sua presunta autonomia. Il pensiero non precede la parola.

Ricapitolando, il linguaggio, per un verso, non va concepito come uno strumento di traduzione e di estrinsecazione di un qualcosa che gli preesiste nella sua autonomia. Per l’altro, va pensato in generale sul modello della scrittura.

Ora, questo cambiamento di prospettiva non è un mutamento qualunque. Se ci rifacciamo allo schema più su riportato, esso implica, in un certo senso, l’inversione di quei due sottoinsiemi concettuali in cui ha preso forma e si è organizzata l’intera tradizione filosofico-metafisica: dell’origine e del supplemento, della presenza e dell’assenza, dell’identità e della differenza e così via. In tal modo, tutto ciò che ricadeva nel sottoinsieme del supplemento diventa ora originario e tutto ciò che rientrava nel sottoinsieme dell’origine diventa secondario, o più precisamente, diviene il prodotto di una struttura supplementare, che opera come scrittura. Il che significa che l’origine è in rapporto essenziale con l’assenza, con il differire, con la violenza e, pertanto, con il linguaggio, che opera come scrittura. Di qui la celebre “metafora” dell’archi-scrittura: «Nominare, dare i nomi […], questa è la violenza originaria del linguaggio che consiste nell’iscrivere in una differenza, nel classificare, nel sospendere il vocativo assoluto. Pensare l’unico nel sistema, iscriverlo, questo è il gesto dell’archi-scrittura: archi-violenza, perdita del proprio, della prossimità assoluta, della presenza a sé, perdita in realtà di ciò che non ha mai avuto luogo, di una presenza a sé che non è mai data ma sognata e sempre più sdoppiata, ripetuta, incapace di apparire altrimenti che nella propria sparizione»[21].

Non più ridotto ad un ruolo strumentale, il linguaggio viene a rappresentare un problema radicale. Interrogarsi sulla sua natura significa, pertanto, porsi il problema dell’origine. Se già Husserl affermava che tanto l’idea quanto la struttura temporale non si sarebbero potute dare senza delle forme linguistiche di iscrizione, Derrida sostiene che bisogna partire dalla scrittura per pensare «la possibilità prima» dell’uomo[22]. Ciò comporta la «perdita ineluttabile» dell’origine[23], quando quest’ultima viene intesa come una «presenza piena», in altre parole, come un fondamento extralinguistico, come un referente esterno al linguaggio cui esso alluderebbe: parola e cosa, pensiero e realtà, sono, per Derrida, dei «limiti referenziali»[24], come due poli, che solo una struttura supplementare può produrre e indicare. Pensato come un fenomeno originario, il linguaggio assurge a condizione di possibilità, per divenire, infine, la condizione di possibilità del possibile stesso.

La scrittura rappresenta, anzitutto, la condizione di possibilità dell’iterabilità. E l’iterabilità è, a sua volta, necessaria all’idealità. Viceversa, nell’istante del presente assoluto ogni ripetizione e, quindi, ogni idealità sono escluse. Se già Husserl affermava che il contenuto ideale di un’espressione deve sempre poter esser riconoscibile (anche) in assenza dell’oggetto-referente cui esso allude, Derrida afferma che l’idea deve poter essere indipendente, in linea di principio, da qualcuno che la pensa e tale da esistere anche dopo che chi l’abbia pensata smetta di farlo. In caso contrario, essa resterebbe legata alla soggettività del singolo, ai suoi atti psichici singolari. Ciò potrebbe comprometterne in ogni momento la validità (oltre il qui e ora del presente assoluto), la condivisibilità e dunque l’intersoggettività, cioè comprometterebbe la possibilità stessa dell’idealità[25].

Ricapitolando con le parole di Petrosino, se ideale significa valido oggettivamente per tutti, comprensibile per tutti e non legato ad alcuna empiricità, ciò significa: da una parte, che la possibilità della non-presenza empirica del referente e dell’ideatore non può compromettere, in linea di principio, l’idealità di un contenuto. Ma affinché ciò si verifichi, la non-presenza deve essere implicata dalla natura stessa dell’idealità e, quindi, deve essere concepita come strutturale e non contingente. Dall’altra, che l’iterabilità è, di conseguenza, anch’essa un tratto caratteristico dell’idea[26].

Ora, l’iterabilità è, a sua volta, resa possibile dal linguaggio e, in particolare, dal segno scritto, poiché quest’ultimo non si esaurisce nel presente della sua istituzione. Con il segno, l’idea può essere trasmessa o ripetuta anche in assenza del soggetto empiricamente determinato che, in un contesto anch’esso determinato, ha avuto un’intuizione o una sensazione[27]. Viceversa, un puro contenuto ideale chiuso nella puntualità di un istante singolare, irripetibile, senza futuro, né passato, ovvero senza storia, chiuso in un presente assoluto senza testimoni, è ineffabile. Di esso, come afferma Derrida, non resterà traccia, in altre parole, per noi non esiste. Pertanto, un qualcosa del genere non è possibile.

Il problema dell’origine si sviluppa, così, nella riflessione derridiana, come una domanda sulla supplementarità che fonda e struttura, ossia sulla traccia e, pertanto, sulla scrittura che assume il valore ontologico di «rappresentante della traccia in generale»[28]. Lungi dall’essere una semplice assenza, la scrittura è una struttura di rinvio “originaria”: un’«archi-traccia». In questo modo Derrida cerca di far emergere una carenza più originaria di qualsiasi presunta pienezza[29].

Nel momento stesso in cui la scrittura viene assunta nel suo valore fondante, la presenza (e tutti i valori che le sono connessi: identità, idealità, puntualità, coscienza) va pensata, piuttosto che come origine, come «un “effetto” all’interno di un sistema che non è più quello della presenza»[30]. In un passo di Della grammatologia, il filosofo francese scrive: «Se “scrittura” significa iscrizione ed innanzitutto istituzione durevole di un segno (è questo il solo nucleo irriducibile del concetto di scrittura), la scrittura ricopre tutto il campo dei segni linguistici […]. Lidea stessa di istituzione è impossibile prima della possibilità della scrittura e al di fuori del suo orizzonte. Cioè molto semplicemente fuori dallorizzonte stesso, fuori dal mondo come spazio di iscrizione, apertura all’emissione e alla distribuzione spaziale dei segni, al gioco regolato delle loro differenze, sia pure “foniche”»[31].

Se, per un verso, la voce a causa della sua trasparenza, genera il «mito della coscienza»[32], ossia dell’assoluta presenza a sé in uno spazio interno incontaminato, per l’altro, il linguaggio in generale, a causa di una necessità inscritta nel funzionamento stesso del segno, cioè della sua struttura di rinvio, dell’essere, sempre e comunque, “segno-di…”, ci porta a credere vi sia qualcosa di separato ed esterno al segno, una presenza, una sostanza, un’origine, a cui il segno semplicemente rinvia. A questo concetto referenzialistico-metafisico di segno, Derrida oppone le metafore dell’archi-scrittura, della scrittura come orizzonte e del mondo come spazio d’iscrizione: non c’è un fuori dal segno – che sia l’Io o la realtà o la natura –, ma solo un fuori del segno. In altre parole, dal linguaggio non ci sono via di uscite, poiché il linguaggio è sia il «fuori» sia il «dentro». Il «fuori» e il «dentro» non vanno pertanto pensate come due entità autonome fra loro opposte, poiché «il fuori intrattiene con il dentro un rapporto che, come sempre, è tutto meno che di semplice esteriorità. Il senso del fuori è sempre stato nel dentro, prigioniero fuori dal fuori, e reciprocamente»[33], ovvero il senso del dentro è sempre stato nel fuori, prigioniero fuori dal dentro.

A titolo esemplificativo, riprendiamo l’esempio derridiano del modo di scrivere la parola différance, in cui possiamo cogliere una metafora dell’operare del linguaggio in generale. Da una parte, nessuna voce precede la a della parola différance e, viceversa, la scrittura di questa parola non traduce o riproduce nessuna parola viva. La parola différance ha luogo, pertanto, nonostante ogni sua ascoltabilità. D’altra parte, nessun significato o pensiero precede la scrittura di questa parola, bensì è l’evento di questa differenza, è la scrittura di questa a a produrre l’oggetto del mio pensiero. Qui, non c’è un’origine di senso diversa dalla scrittura stessa della parola. Detto altrimenti, il significato della parola différance non corrisponde a una realtà esterna, non c’è qui un fuori dal segno scritto – voce, pensiero o realtà – a cui il segno rinvia. Il segno rinvia, per così dire, a sé stesso, traccia sé stesso, è segno di segno.

Stando così le cose, il senso primo resta inafferrabile, così come il senso ultimo resta irraggiungibile. Dall’inizio alla fine, ogni senso sarà sempre (stato) incompleto, poiché all’inizio e alla fine ci sarà sempre (stato) solo del linguaggio: nient’altro che una parola, nient’altro che un segno, nient’altro che una traccia. Ancora un segno, ancora una parola, ancora una traccia e ancora, ancora… Con le parole di Derrida: «traccia non è solamente separazione dall’origine, qui essa vuol dire […] che l’origine non è affatto scomparsa, ch’essa non è mai stata costituita che, come effetto retroattivo, da una non-origine, la traccia diviene così origine. Allora per sottrarre il concetto di traccia allo schema classico che la farebbe derivare da una presenza o da una non-traccia originaria e che ne farebbe un marchio empirico, bisogna parlare precisamente di traccia originaria o archi-traccia. Sappiamo tuttavia che questo concetto distrugge il suo nome e soprattutto che, se tutto comincia con la traccia, non c’è traccia originaria»[34].

Un concetto che distrugge il suo nome non è un concetto che distrugge il pensiero, bensì è ciò che offre resistenza al pensiero e, in questo modo, ci costringe a pensare, ci costringe a parlare diversamente. Ci toglie le parole di bocca e ci costringe a cercarle. In breve, ci costringe a esperire il linguaggio in modo inusuale. Urtando contro i limiti del linguaggio, facciamo esperienza del linguaggio come dei nostri limiti. Urtando contro i suoi limiti, giungiamo al lembo estremo del mondo, là dove tutto inizia e finisce. Urtando contro il linguaggio, incontriamo per la prima volta noi stessi.

L’esperienza d’urto di questi limiti non sarà, pertanto, un’esperienza qualunque. Basti pensare all’esperienza del linguaggio di Nietzsche, al suo urto contro le gelide pareti di quel «colombario romano»[35], a un tempo «cimitero di intuizioni»[36], «ragnatela»[37] o gabbia di concetti scientifici, all’interno del quale, secondo la sua opinione, prende forma e si solidifica l’intero «mondo antropomorfico»[38].

Un tale urto è valso a Nietzsche la possibilità di riscoprire le «fondamenta mobili» alla base di questo «arco concettuale infinitamente complicato»[39] e a noi di ricordare chi siamo: «Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafore, soltanto attraverso l’indurimento e l’irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà originaria che è la fantasia umana, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano delle verità in sé, in breve solo se l’uomo si dimentica di sé come soggetto e anzi come soggetto che crea artisticamente, egli può vivere con tranquillità, con sicurezza e con coerenza; se gli fosse possibile uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede che lo tiene prigioniero, immediatamente della sua «autocoscienza non ne sarebbe più nulla»[40].

Pensiamo, ancora, all’esperienza del linguaggio di Stefan George, il quale, giunto sino ai margini della sua terra, non potendo attingere, dalla fonte della grigia norna, la parola «appropriata» per il gioiello più ricco e più fine che avesse mai avuto, se lo vede letteralmente sfuggire di mano e mai più un tale tesoro sarebbe esistito. Di qui il suo ammonimento: «Nessuna cosa sia dove la parola manca»[41]. Pensiamo, infine, a Derrida, che si scontra con l’impossibile ed esperisce, così, l’apertura originaria dell’orizzonte linguistico, il quale si dà, poi, a suo avviso, come l’orizzonte stesso. Se, per un verso, i limiti del linguaggio circoscrivono il nostro mondo e delimitano il campo della nostra esperienza e della nostra conoscenza, per l’altro, indicano ciò che si sottrae al dominio del possibile: l’assolutamente altro, la differenza o la singolarità assoluta, in altre parole, l’impossibile.

L’esperienza derridiana del linguaggio è un lungo camminare ai bordi dell’impossibile – l’indicibile, l’impensabile, l’impresentabile – per scorgerlo nell’atto di diventare possibile: è un osservare il linguaggio farsi origine. È scoprire che l’origine, in quanto scrittura, è assente, che i confini del possibile sono originariamente aperti, che il fondamento è, per così dire, s-fondato. L’impossibile – la differenza o l’alterità assoluta –, se, per un verso, rappresenta la condizione necessaria affinché qualcosa accada, affinché ci sia un evento, per l’altro, necessita di un luogo e di un tempo determinati per pervenirci, ovvero per determinarsi e rendersi, così, riconoscibile. Tale processo di determinazione è, al tempo stesso, un processo d’iscrizione, di articolazione nel linguaggio. È, infatti, nel suo orizzonte che accade l’impossibile. Il linguaggio è ciò che lo rende possibile. In tal senso, i limiti del linguaggio, che circoscrivono i confini del possibile, presuppongono l’impossibile, l’Altro, e verso quest’ultimo sono costitutivamente aperti.

Poiché lo spazio circoscritto dal linguaggio non garantisce e anzi impossibilizza ogni compimento finale, ogni verità assoluta, ogni previsione totalizzante, questo orizzonte dischiude un senso di responsabilità e di promessa: nessuna responsabilità e nessuna promessa – avverte Derrida – potrebbero aver luogo come svolgimento di un programma. Così come un senso di attesa e di speranza. È l’attesa del non-ancora-detto, non-ancora-pensato o previsto, che resta custodito nel segno linguistico per ogni nuova articolazione. È la promessa del linguaggio che ce ne farà dono. È la speranza che questo dono dischiuda un avvenire per la ragione.

 

  1. Listituzione della data

Come concepire il darsi di un avvenimento iniziale o di una prima volta in una forma che non sia quella della presenza? Come accostarci a ciò che, inquietando ogni evidenza, la rende tuttavia possibile, a ciò che, in quanto eccedenza, serba in sé quella riserva di significati ancora impensati che attendono sempre di essere ulteriormente articolati? Come concepire l’origine o forse, più precisamente, cosa apparirà al suo posto?

Con il proposito di approfondire la riflessione sulle (im)possibili condizioni di possibilità, avviata nella prima parte con e attraverso Derrida, proveremo ora a rispondere con una metafora: con la data.

Il punto di riferimento del nostro misurarci con la data ce la offre il poeta Paul Celan, accostato attraverso la lettura derridiana della sua poesia, nell’atto di dedicarsi all’iscrizione di date invisibili, forse illegibili: «compleanni, anelli, costellazioni e ripetizioni di eventi singolari, unici, irripetibili»[42].

Attraverso la data, assunta come la metafora sia della parola poetica sia del segno scritto, il nostro intento è ora di chiarire se nella metaforicità sia possibile rinvenire l’origine del linguaggio. Rappresentando il linguaggio in quanto archi-scrittura ciò che, per Derrida, è il fenomeno originario, si tratta qui, non solo e non tanto, di leggere nell’archi-scrittura una metafora dell’origine, bensì di vedere l’origine stessa in quanto una struttura supplementare, la quale opera differenziando, differendo, spostando, trasponendo, trasportando, proprio come una metafora.

Che la data possa essere letta come una metafora del segno scritto sembra indicarcelo proprio Derrida. Scrivendo sulla «potenza drammatica» che concerne ogni marca codificata e, in tal senso, ogni segno linguistico, egli afferma: «Queste marche codificate hanno una risorsa comune […]. In realtà esse non marcano che nella misura in cui la loro leggibilità annuncia la possibilità di un ritorno. Non il ritorno assoluto di quello che non può tornare: una nascita o una circoncisione hanno luogo una volta soltanto […]. Ma il rivenire spettrale di quello stesso che, unica volta non tornerà mai»[43]. Come il segno scritto, ripetendosi, traccia un’origine assente, così la data «marca», nel suo ritorno, la lontananza irriducibile di un presente istitutore, di ciò che, per rendersi leggibile, ha dovuto sospendere quel tratto di singolarità irriducibile che l’avrebbe altrimenti relegato in un silenzio «assoluto».

«Una data è uno spettro»: è il ritorno «spettrale» di una presenza – unica e irripetibile – che torna a marcarsi come tale, cioè come l’impossibile stesso (per esempio, ogni giorno x del mese y)[44].  Ora, ci si potrebbe, naturalmente, domandare come datare ciò che non si ripete? Ma, ancor prima, varrebbe la pena domandarsi perché: perché datare? Perché scrivere o parlare? Perché si deve, risponderebbe Derrida. In altre parole, affinché un evento, che di per sé è irripetibile, possa essere rammemorato, commemorato, condiviso, perché se ne possa parlare, esso deve trascriversi, registrarsi, storicizzarsi. Questa sua esposizione alla leggibilità, all’intelligibilità, alla predicabilità è, tuttavia, al tempo stesso, la perdita di sé in questa leggibilità. Ogni processo di trascrizione, di articolazione del linguaggio rappresenta, pertanto, un processo di espropriazione.

Se, per un verso, la poesia di Celan, come afferma Derrida, rappresenta «la messa in opera poetica della data»[45], per l’altro, proprio nella data, sembra possibile leggere una metafora della sua poesia. La poesia di Celan intanto può rappresentare la messa in opera poetica della data, in quanto sia la parola poetica sia la data condividono una natura metaforica. In tal senso, la data rappresenta la metafora di una metafora. Procedendo sulla via indicataci da Derrida, sembrerebbe proprio che, per sviluppare una riflessione sulla natura della data, del poema o del segno linguistico, occorra avvilupparsi in una trama di metafore. Ci si trova sospinti da una parola a un’altra, da una scrittura a un’altra, senza che sia possibile arrestarsi, se non in via provvisoria, senza che si possa mai afferrare la verità.

Altrettanto, secondo Derrida, non è possibile pervenire al concetto di scrittura, alla definizione della sua essenza o della sua verità, tant’è che la nozione di archi-scrittura, o di archi-traccia, è un concetto che distrugge sé stesso, per cui sarebbe folle cercare la verità della data. Per dirla con le parole di Derrida, questa follia scaturisce dal fatto che una data «non è mai ciò che è, ciò che dice di essere, sempre più o meno di quel che è. Non dipende dall’essere, da un qualche senso dell’essere, ecco a quale condizione il suo folle incanto diventa musica»[46].

Come esempio di una data e della sua dinamica, possiamo rifarci a quella che compare sulla prima pagina del Lenz di Büchner e che Celan menziona nel Meridiano: il «20 gennaio» (giorno in cui Lenz  «andava in montagna»). Scrive Derrida: «Lenz “il 20 gennaio andava in montagna” […]. Chi andava in montagna in quella data? », Lenz o Celan? La data che il poeta, attraverso la sua poesia, ci trasmette è, pertanto, la data di un altro, la data dell’altro: ci fu un 20 gennaio, in cui Lenz andava in montagna; poi, un altro 20 gennaio, «in cui Celan incontra l’altro e incontra se stesso», poiché nell’unico evento della sua «costellazione», «una stessa data commemora eventi eterogenei, improvvisamente vicini gli uni agli altri, mentre si sa che restano, che devono rimanere, infinitamente estranei»[47]. In quanto costellazione di eventi eterogenei, una data può esser letta, o detta, come in In Eins: come una poesia, come una metonimia, come un tutto in uno. Per maggiore chiarezza, riportiamo il testo di Celan:

IN EINSUNIFICANDO
Dreizehnter Feber. Im Herzmund Tredici febbraio. Nella bocca del cuore   
erwachtes Schibboleth. Mit dir,    Si sveglia uno schibboleth. Con te,  
Peuple    Peuple   
de Paris. No pasarán.de Paris. No pasarán[48].   

Cosa si raccoglie e si commemora nell’unica volta di questo In Eins? E se ci fosse più di un venti gennaio o di un tredici febbraio? Come in In Eins, nella data, si concentrano delle singolarità. La sua identità non potrà essere che di tipo differenziale. La verità di una data, o di una poesia, non si fonda sull’universalità del concetto astratto, come nel caso di «foglia». Si tratta piuttosto di un’unità fluida, che si fa carico delle differenze. Il tutto dell’uno, la verità di una data lascia coesistere il particolare con l’universale. Si tratta, pertanto, di una generalità, che non astrae dalla differenza, bensì consiste interamente in essa. Infatti, si tratta di una metafora.

A differenza del concetto, la cui identità è di tipo esclusivo, la metafora non esclude nulla. Come Tutto in uno, il tropo poetico consente ogni tipo di inversione o capovolgimento in qualsiasi direzione spazio-temporale, senza, per questo, perdere di significato. In una configurazione poetica della realtà, ovvero metaforica, il passato può coesistere con il presente, una lingua può rovesciarsi in un’altra, una parola può essere letta in molti modi. Il tredici febbraio ritorna tutti gli anni, ma nel segno di questa ricorrenza, avvenimenti molteplici, accaduti in diverse epoche, luoghi e idiomi, si sono riuniti.

Se il linguaggio, in quanto archi-scrittura, mentre traccia i confini del possibile, fa anche segno verso l’impossibile, che ne rappresenta la soglia, l’impossibile stesso, resosi possibile nell’atto di rendersi leggibile in una data, ne rappresenta una sorta di «cifra». In questo senso, Derrida paragona la data a uno schibboleth: «La data stessa assomiglia a uno schibboleth»[49].

Una parola ebraica (la seconda lingua della poesia), sgorga dalla bocca del cuore: shibboleth. Nell’esempio fornito dal poema, shibboleth marca non solo la diversità delle lingue (in questo caso la diversità delle lingue è quella tra il tedesco, l’ebraico, il francese e lo spagnolo), ma anche le differenze all’interno di una stessa lingua. Shibboleth accoglie in sé diversi significati, quali, ad esempio, «spiga di grano», «ramoscello di ulivo», «affluente e fiume». L’importanza di questa parola consiste nel fatto che, dalla sua corretta pronuncia, dipendeva la possibilità per il popolo degli Efraimiti, sconfitti dall’armata di Iefte, di valicare il fiume della Giordania e scappare. Per gli Efraimiti, noti per la loro incapacità di pronunciare il suono “SHI”, shibboleth era un suono impronunciabile, per cui la loro vita si giocava tutta sulla frontiera invisibile fra “SHI” e “SI”[50]. Schibboleth marcava, così, una differenza insignificante elevandola a condizione di senso, di appartenenza e di sopravvivenza[51].

I versi della poesia In Eins sembrano «cifrati», in più sensi ed in diverse lingue. Prima ancora della cifra tredici, l’uno (Eins) del titolo allude ad una singolarità multipla (tutto in uno). La cifra, come la data, come schibboleth, attraverso il titolo e l’incipit, si trovano incorporate nel poema, fornendo un accesso, seppur cifrato, ad esso, a questa «configurazione segreta di luoghi per la memoria»[52]. In tal senso, dall’inscrizione di una data dipende la possibilità della commemorazione[53] e dall’apertura di questa stessa possibilità dipende la sua speranza di avere un futuro.

Il segreto come tale sfugge ad ogni totalizzazione interpretativa: finché ci saranno date e shibboleth non potrà sussistere il senso. Possiamo leggere in tal senso le seguenti parole di Derrida: «Non c’è un senso, dal momento in cui c’è della data e shibboleth, non un solo senso originario»[54].

In definitiva, la data come uno schibbolet segna la possibilità o l’impossibilità di varcare una soglia, sia essa la frontiera di un luogo o il principio di un poema[55]. E, tuttavia, una data, «abbandonata a sé senza testimoni, senza chi aiuti a passare di nascosto un confine […] senza la complicità avvertita di un decifratore, senza nemmeno la conoscenza esterna della data, una certa necessità interna del poema non parlerebbe di meno, nel senso in cui Celan dice del poema “Ma parla!” al di là di ciò che par confinarlo nella singolarità datata di un’esperienza individuale»[56].

In questo passo, Derrida afferma che, in merito alle condizioni in cui un poema è stato scritto, quelle che il poema maschera, codifica o iscrive nel suo proprio corpo, la testimonianza è, al tempo stesso, essenziale e non: essa sarebbe garante solo di un «sovrappiù di intelligibilità» di cui il poema può anche fare a meno. Come afferma Derrida: «malgrado la data […] il poema parla […] a tutti, all’altro, a chiunque non condivida l’esperienza o il sapere della singolarità così datata.».[57] La data provoca il poema, ma «il poema parla!», e parla proprio di ciò che lo provoca, in quanto convocato dall’avvenire della data stessa, a partire dal suo ritorno ad un’altra data. «Il poema parla!», detto altrimenti, il poema erompe in esclamazioni davanti a quel miracolo che lo rende possibile e che rende possibile ogni altra esclamazione poetica, la quale, invece di murarlo e ridurlo a un silenzio assoluto, gli dà la possibilità di parlare all’altro: «Il poema in dovere verso la propria data come la sua propria causa, cosa, firma più propria, come il suo segreto, ne parla solo liberandosene»[58].

Quando scriviamo in una data, scriviamo a partire da questa data a questa data, dove la preposizione “a” indica l’avvenire di una destinazione sconosciuta. Tutto ciò non significa soltanto scrivere un certo giorno, mese e anno, ma destinarsi alla data come all’altro, alla data in quanto promessa futura e promessa passata. La data provoca il poema ed esso, in quanto singolarità assoluta, a partire dall’essenza più intima della sua solitudine, si mette in cammino agognando una presenza. Si può forse parlare di una agonia della data, perché, per rendersi leggibile, per destinarsi alla ripetizione, essa deve esporsi, rischiando così di perdersi nella leggibilità stessa della sua identificazione. Derrida parla, a questo proposito, di minaccia assoluta: sempre sulla soglia di una sopravvivenza finita, la data è, in effetti, sempre la data di nessuno, poiché la sua leggibilità comporta una perdita irrimediabile della singolarità.

Rischiando l’annullamento di ciò che salva dall’oblio, la data può sempre diventare la data di niente e di nessuno: una «cenere di cui non si sa neanche più cosa vi si è consumato un giorno, una sola volta, sotto un nome proprio»[59]. Sebbene l’annullamento abbia corso ovunque si inscrive una data, potrebbe esserci un altro desiderio oltre a quello di datare, cioè «di lodare e benedire una commemorazione senza il cui annuncio nessuno evento avrebbe mai luogo»?[60]. Nella misura in cui la data dischiude orizzonti di senso alla memoria, determinando così solo un avvenire per la ragione stessa, nel segno di una data ne va della stessa esperienza.

Se l’esperienza della data è, in un certo senso, l’esperienza dell’impossibile, essa dovrà imporsi sempre in riferimento a una alterità. L’altro, l’impossibile, l’irripetibile, lungi dall’essere una semplice assenza, è ciò che struttura ogni segno e accompagna ogni lettera e ogni data e, quindi, ogni esperienza. Come afferma Petrosino, l’altro «è una condizione tragica ma inesorabilmente attiva»[61]. A partire dal suo costitutivo riferimento all’altro, la data si configura come il simbolo dell’impossibilità della presenza assoluta, di un contenuto determinabile una volta per tutte. Essa si dà come una riserva di eventi e di significati inespressi o impensati che si serbano, grazie a essa e attraverso di essa, per ogni avvento iniziale. In altre parole, l’iscrizione di una data istituisce una presenza, la traccia di una singolarità assoluta che resta custodita e, dunque, promessa a un avvenire sconosciuto.

L’«esperienza di una data»[62] è l’esperienza di un segreto. Per Derrida, in ultima analisi, è l’esperienza stessa. Ciò significa che, secondo la sua opinione, l’incontro con l’altro – l’impossibile, l’altro, il segreto – è una condizione necessaria affinché si possa fare esperienza. Come si è cercato di evidenziare attraverso l’esempio della data, assunta come metafora del linguaggio, l’esperienza del linguaggio è un’esperienza che si compie al limite. Si tratta dell’esperienza del limite dell’esperienza e della conoscenza possibili. Si tratta dello scontro con l’impossibile, dell’incontro con l’altro, oppure, come dice Derrida, dell’«incontro del luogo d’incontro»[63]. In breve, della scoperta del meridiano stesso. A questo proposito, richiamiamo le parole di Celan, citate da Derrida: «Ricerco ugualmente, poiché, di nuovo, ne sono all’inizio, il luogo della mia provenienza. Li ricerco con un dito insicuro, perché ansioso, sulla carta – carta da bambino, a dir il vero, la sola che io possieda. Di questi luoghi, nessuno si lascia situare, sembrano assenti, ma io so dove, a quest’ora, devono sorgere alla fine e… scopro qualche cosa. Scopro qualcosa che mi scarica, in parte, dall’essermi addentrato in vostra presenza in questo impossibile cammino dell’Impossibile. Scopro ciò che mi lega e, alla fine conduce, il poema dell’Incontro. Scopro qualcosa – come la parola [Sprache – linguaggio – nell’originale tedesco] – di immateriale, ma terrestre, di questo sole, cosa che ha la forma del cerchio e che, passando da polo a polo, fa ritorno su di sé e interseca – pacatamente – tutti i tropi -: scopro… un Meridiano»[64].

Se si assume il meridiano in luogo della parola o, meglio del linguaggio, come fa Celan e come sembra sottoscrivere Derrida, si tratta della scoperta dell’essenza tropologica del linguaggio, ossia della scoperta di questo luogo o tropo (la metafora), come luogo d’origine di esso.

 

  1. Conclusione: sullavvento del nuovo

Derrida scrive in Il mondo dei lumi a venire che si potrà pensare l’avvenire o il divenire della ragione solo rendendo conto di ciò che in questo “-venire” sembra in primo luogo imprevedibile[65]. Solo a questa condizione, può scaturire un altro pensiero del possibile, di un possibile impossibile secondo la logica del potere, dell’io-posso padrone e sovrano, dell’ipseità stessa. Lincondizionato è, dunque, la struttura stessa dell’evento. Ogni avvenire e divenire della ragione dipende da ciò che in essi sfugge ad ogni controllo razionale-calcolante, sfugge a qualsiasi pre-visione, sfugge ad ogni presentabilità. L’evento deve annunciarsi, perciò, come tale, ossia senza annunciarsi, deve annunciarsi come l’impossibile stesso. Come afferma il filosofo francese, l’evento di un’invenzione tecno-scientifica è reso possibile da un insieme di condizioni, che si possono identificare o determinare in modo saturabile: «esso allora non è più invenzione o un evento. Un evento o un’invenzione non sono possibili che come im-possibili»[66]. Un’“invenzione” tecno-scientifica, in quanto resa possibile da una serie di condizioni calcolabili, non è propriamente un evento. E non lo è perché esso è neutralizzato in partenza. Nessuna logica del sapere, del poter-sapere, del sapere come potere, potrà mai istituire una responsabilità o una decisione, perché, in tal modo, essa si ridurrebbe solo all’applicazione o allo svolgimento di un programma.

Al valore di impossibilità imprevedibile, Derrida associa quello di singolarità incalcolabile ed eccezionale, in assenza della quale non può capitare altro e quindi nulla. L’altro come eccezione, come singolarità assoluta, in quanto non appropriabile dal potere di un sapere calcolante, dischiude la possibilità di un avvenire per la ragione stessa.

Concludiamo con l’esempio dato dal Sofista di Platone. In questo caso, come in molti dei dialoghi platonici, l’altro si configura come lo straniero – xenos – che «mette in questione il logos di nostro padre Parmenide»[67]. Scuotendo la minacciosa logica dogmatica del logos: «l’essere è il non-essere non è», egli afferma che il non-essere, in qualche modo, è, e che, viceversa, l’essere, in qualche modo, non è, ossia che il non-essere è sì un qualcosa di diverso, ma non è tuttavia opposto all’essere.  Lo straniero, l’altro, poiché incomprensibile nella sua estraneità, sconcerta, stupisce e irrita. Come è stato osservato, l’urto dell’incomprensibile interviene in ciò che, una volta compreso, quasi caduto nell’oblio, viene dato per ovvio e scontato[68].

Sin dalla Grecia di Platone, la filosofia, in quanto «logo-centrica», in quanto guidata dal logos della ragione nell’estenuante ricerca di un centro, si vede costretta a escludere tutto ciò che è straniero, estraneo, strano. L’altro o lo straniero, il migrante69, ciò che si sottrae a ogni descrizione, ad ogni definizione – un segno, una data, una parola –, si configura, in tutta la riflessione filosofica di Derrida, come il criterio stesso di ogni definizione, idealità, identità, proprietà e ospitalità. L’enigmaticità della data, come una parola-data, è quella di un’identità che differisce, di una metafora, di una singolarità, la quale, inscrivendosi, si sottrae per destinarsi alla ripetizione, come all’altro: una parola promessa, una parola per l’altro. Nel limite invisibile fra il proprio e l’estraneo, una parola come una metafora, una data come una metonimia, come uno schibboleth, apre a ogni avvenire.

 

 


 

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[1] Verso di S. George dalla poesia Das Wort, cit. in M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, a cura di A. Caracciolo, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 133.

[2] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2006, p. 158.

[3] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano 2015, p. 96.

[4] Ibidem.

[5] J.  Derrida, Schibboleth per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1991, p. 26.

[6] Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 147.

[7] A questo proposito, cfr. D. Di Cesare, Utopia del comprendere, il melangolo, Genova 2003, pp. 48-49.

[8] J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 2006, pp. 88-89.

[9] Ivi, p. 70.

[10] Ibidem.

[11] J. Derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 13.

[12] Cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 21.

[13] J. Derrida, Firma, evento, contesto in Id., Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 185.

[14] Cfr. J. derrida, Della grammatologia, cit., p. 61.

[15] Ivi p. 198.

[16] Cfr. j.  derrida, La voce e il fenomeno, Jaca Boook, Milano 2001; cfr. anche d. di cesare, Ermeneutica della finitezza, Guerini e Associati, Milano 2004.

[17] Cfr. J. derrida, Della grammatologia, cit., pp. 201-202.

[18] Ivi, pp. 229-230.

[19] Cfr. ivi, pp. 164, 171 e 173.

[20] Cfr. ivi, p. 167.

[21] Ivi, p. 161.

[22] Cfr. ivi, p. 97.

[23] Cfr. J. Derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 75.

[24] J. Derrida, Della grammatologia, cit. p. 328.

[25] Cfr. J.  Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 86.

[26] Cfr. s.  petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile. Unintroduzione, Guida, Napoli 1983, p. 68.

[27] Cfr. j. derrida, Firma, evento, contesto, cit., p. 185 (corsivi miei).

[28] j. derrida, Della grammatologia, cit., p. 230.

[29] Cfr. ivi, p. 201.

[30] j. derrida, La différance, in ID., Margini della filosofia, cit., p. 25.

[31] j. derrida, Della grammatologia, cit., p. 70 (corsivi miei).

[32] Ivi, p. 228.

[33] Ivi, p. 58.

[34] Ivi, pp. 88-89.

[35] F. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit. pp. 93 e 97.

[36] Ivi, p. 100.

[37] Ivi, p. 85.

[38] Ivi, p. 100.

[39] Ivi, pp. 97-98.

[40] Ivi, p. 98.

[41] Cfr. M. HEIDEGGER, In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 129.

[42] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 10.

[43] Ivi, p. 31 (corsivi miei).

[44] La presenza nel suo determinarsi solo a partire dal suo rapporto con l’altro da sé, risulta già sempre contaminata. In tal senso, essa va pensata, piuttosto che come origine, come un effetto: «Si viene a porre la presenza […] come una “determinazione” e come “effetto” […] all’interno di un sistema che non è più quello della presenza». Cfr. j. derrida, La différance, cit., p. 25.

[45] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 19.

[46] Ivi, pp. 53-55. Al riguardo, citiamo anche le seguenti parole di Derrida: «La memoria è luttuosa per essenza: essa non si stringe su di sé, non si raccoglie attorno a sé […] se non nell’affermazione (impossibile) del lutto. Ma l’affermazione impossibile deve essere possibile: la sola affermazione che sia affermativa è quella che deve affermare l’impossibile, senza la quale essa non è che una con stazione, una tecnica, una registrazione. L’impossibile […] è l’altro, così come ci accade: mortale a noi mortali […]. A questo livello la possibilità dell’impossibile ordina l’intera retorica del lutto e descrivere l’essenza della memoria». Cfr. j. derrida, Memorie per Paul De Man. Saggio sullautobiografia, Jaca Book, Milano 1995, pp. 43-44.

[47] Ivi, p. 19.

[48] p. celan, Unificando, da La rosa di nessuno, in Id., Poesie, a cura di di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 463.

[49] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 39.

[50] A questo proposito, è bene sottolineare che sapere o riconoscere la differenza di pronuncia tra si e schi non era da sola sufficiente allo scopo di poterla rimarcare e pronunciare e, in definitiva, di continuare a vivere.

[51] Cfr. Libro dei Giudici, cap. 12: «Morte di Iefte».

[52] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 39.

[53] Cfr., su questo tema, d. di cesare, Utopia del comprendere, cit.: «Quel che si è chiamato il “segreto dell’incontro” è forse allora ciò che rende possibile l’impossibile: articolare la singolarità […] rendendola comprensibile, al di là della sua singolarità, ripetere l’irripetibile […] rendendola perciò divisibile e condivisibile» (p. 325).

[54] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 41.

[55] Il valore di schibboleth può sempre e tragicamente invertirsi: parola d’ordine nella lotta contro il razzismo e l’oppressione, condizione di intesa e di alleanza come nel caso dello schibboleth spagnolo “no pasarán”, esso può convertirsi in condizione di morte e in tecniche di polizia.

[56] Ibidem.

[57] Ivi, p. 16 (corsivi miei).

[58] Ivi, p. 29.

[59] Ivi, p. 53. Relativamente al paragone suggerito da Derrida tra la data e la cenere, è utile riportare le sue seguenti parole: «la data, la cenere e il nome, era o sarà ciò stesso che non si limita mai al presente. C’è cenere forse ma una cenere non è. Questo resto sembra restare da ciò che fu, e che fu presentemente […] esaurisce in anticipo l’essere a cui sembra attingere. La restanza del resto – la cenere quasi nulla – non è l’esser-restante, se almeno si intende con ciò l’esser-sussistente». Cfr. ivi, p. 60.

[60] Ivi, p. 58.

[61] s. petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, cit., p. 244.

[62] j.  derrida, Schibboleth per Paul Celan, cit., p. 14.

[63] Ivi, p. 20.

[64] Ibidem.

[65] Ivi, p. 203.

[66] Ivi, p. 204.

[67] Cfr. J. Derrida – A. Dufourmantelle, Sullospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000.

[68] Cfr. d. di cesare, Utopia del comprendere, cit., p. 295.

69 Sul problema della definizione e dello statuto del «migrante» nell’ambito filosofico e politico, cfr. d. di cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

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