Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 2

A partire da una ateologia

Pasquale Amato

  1. Della interpretazione. Saggio su Freud – Problematica

Fedeli al dettato ricœuriano che pone la comprensione nella dinamica di un circolo ermeneutico, prenderemo il via da una posizione avanzata del testo su Freud, scegliendola come punto dal quale cominciare a percorrere questo circolo perché convinti che il nostro movimento di studio chiarirà, fin dall’inizio, il “posto” dal quale Ricœur parla.

In un discorso riferito al contrasto tra il “sospetto” e la “fede” – il primo come forma di indagine condotta e inaugurata da Marx, Nietzsche e Freud a favore dello smascheramento di quegli atteggiamenti dell’uomo fondati sull’illusione e sul desiderio, la seconda intesa come ragionevole e critica attesa di un’interpellanza da parte della “Parola”, di una rivelazione di senso che si colloca nella dimensione del sacro – Paul Ricœur scrive: «In verità debbo dire che è quest’attesa che anima tutta la mia ricerca»[1]. È la dichiarazione, da parte di un pensatore credente, della volontà di porsi in gioco, in quanto uomo e in quanto filosofo, in una riflessione che non escluda le implicazioni più umane dell’essere.

Questa attesa – che è speranza – implica, dice egli stesso, l’essere fiduciosi in un linguaggio che pone gli uomini nella condizione di ascoltare più che di dire, un linguaggio che «non è tanto parlato dagli uomini, quanto parlato agli uomini»[2].

Il Della interpretazione si articola in tre libri, Problematica, Analitica e Dialettica[3], nei quali la teoria psicoanalitica freudiana viene affrontata a partire dalla constatazione della ricerca in atto che, dice Ricœur, si propone oggi di dar conto del rapporto tra i diversi modi in cui l’uomo esprime il significato del proprio essere, prospettandone l’iscrizione in una grande filosofia del linguaggio che si faccia carico del problema dell’unificazione del parlare umano.

Nel considerare il sogno quale oggetto primario di indagine, Freud rileva la necessità di un’interpretazione che, sostituendo ad un senso esplicito un senso nascosto, dia l’accesso all’originaria espressione del desiderio. Ma il sogno è «anche modello di tutte le espressioni, travestite, scambiate, fittizie del desiderio umano»[4], cioè di tutte le produzioni psichiche – motti di spirito, miti, opere d’arte, religione, ecc. – che esprimono e insieme nascondono il desiderio, e che, in quanto «significazioni complesse in cui un altro senso nello stesso tempo si dà e si nasconde in un senso immediato»[5], sono da collocare nel dominio del senso duplice, in quella regione del linguaggio, cioè, a cui Ricœur assegna la definizione di “simbolo”.

Ricœur introduce le problematiche connesse alla necessità di una definizione preliminare di che cosa si debba intendere per “simbolo” e per “interpretazione”, in entrambi i casi tentando una mediazione tra una definizione troppo ampia, in cui i termini perdono la loro peculiare consistenza, e una troppo sacrificata che ne riduce la piena significatività[6].

Definizione “troppo larga” del simbolo è, a detta di Ricœur, quella di Cassirer che, nel comprendere qualunque espressione ci serva da veicolo di oggettivazione della realtà, vanifica la fondamentale possibilità di differenziare il linguaggio univoco da quello multivoco. È viceversa “troppo ristretta” la definizione che vuole la funzione simbolica ridotta alla analogia, considerata invece da Ricœur soltanto come una delle possibili relazioni che determinano il legame tra senso manifesto e senso latente.

In definitiva, Ricœur propone l’alternativa di una definizione che conservi al simbolo quell’enigmaticità che il termine greco gli attribuisce e in virtù della quale l’intelligenza viene provocata, spinta ad operare un’interpretazione. Si può parlare di simbolo, quindi, se «l’espressione linguistica, a causa del suo senso duplice o dei suoi sensi multipli, si presta a un lavoro di interpretazione»[7].

Dal De Interpretatione di Aristotele, Ricœur trae la definizione  di interpretazione intesa come significazione di qualsiasi enunciato passibile di risultare vero o falso, definizione troppo “lunga” in quanto si riallaccia al simbolo così come viene posto da Cassirer, e dunque ad una univocità logica che taglia fuori la possibile molteplicità del senso[8]. Seppure più vicina alla nostra ermeneutica, l’esegesi biblica ci fornisce, invece, una definizione di interpretazione limitata al risolvere analogie, per di più sottoposta ad un’autorità – che per i cristiani è quella della Chiesa – e, in quanto “scienza scritturale”, rivolta esclusivamente a testi. L’interpretazione “media” proposta da Ricœur è più vicina a questa seconda definizione, ma è rivolta a qualsiasi produzione umana il cui senso non sia univoco ed è estesa agli altri modi, diversi dall’analogia, di leggere il senso duplice.

A proposito di tale scelta, Ricœur ricorda Nietzsche, al quale assegna il primato della trasformazione di tutta la filosofia in interpretazione nel momento in cui la comprensione viene a significare smascheramento dell’illusione. Il successivo confronto con Freud pone in luce che, nel riconoscere l’interpretabilità, oltre che di un testo, di qualunque produzione psichica dell’uomo, egli si proietta nella apertura di nuove possibilità di comprensione operata da Nietzsche, e in più sposta la concezione del senso duplice dalla menzogna (in qualche modo consapevole) dell’illusione, alla dissimulazione inconscia del desiderio.

Il simbolo, però, e dunque il senso duplice, viene accolto dalla fenomenologia della religione, non come maschera o dissimulazione, ma perché espressione rivelativa del sacro: con questa considerazione Ricœur ci conduce alla conseguente consapevolezza di un’ermeneutica che, in quanto «intelligenza del senso duplice»[9], si presenta in maniere contrapposte, ora come tensione a smascherare l’illusione e a demistificare il desiderio, ora come tentativo di restaurazione di una manifestazione del sacro.

In tal senso, secondo Ricœur, l’attuale problema del linguaggio, nel delinearsi come crisi in ragione dell’oscillazione tra demistificazione e restaurazione del senso, appartiene a noi che «siamo oggi quegli uomini che non hanno completato l’opera di far morire gli idoli e cominciano appena a comprendere i simboli»[10].

Siamo dunque combattuti tra sospetto e fede, una contesa implicita in quella crisi di valori di cui tanto si parla: dove rintracciare la fede? Ricœur ritiene che la fenomenologia della religione si offra quale «strumento dell’ascolto, della meditazione, della restaurazione del senso»[11] per un’interpretazione e una ricerca che ci riconduca ad una fede che sia “nuova ingenuità”.

L’approccio fenomenologico ricœuriano richiama le sue radici husserliane: il riferimento a Husserl è dichiarato ed essenziale per delineare l’epoché, quella neutralità sottintesa nel voler descrivere e non spiegare, nel voler chiarire l’oggetto, in questo caso religioso, nella sua intenzionalità, nel suo essere cioè “il qualcosa in-teso” proprio del rito, del mito, della credenza, con l’attenzione a non ridurlo alle sue funzioni, ai modi del suo nascere, alle sue motivazioni.

Ma nel simbolo si attua il “plenum del linguaggio”, quel legame indissolubile in virtù del quale «il senso secondo abita in qualche modo il senso primo»[12]: l’espressione multivoca si offre alla comprensione in veste di dono in quanto « ciò che dice»[13], mentre le espressioni tecniche, oggetti di calcolo, non possono che restituire quel che in esse viene posto. Il simbolo implica questo legame in maniera duplice risultando legato al senso letterale che veicola nell’“opacità” dell’analogia il senso simbolico, ma anche legato da questo secondo significato che si offre nella parola grazie al potere di rivelazione proprio del simbolo stesso. A questa duplice connessione, che è offerta ma anche appello all’intelligenza, si riferisce Ricœur – come vedremo meglio in seguito – nella ben nota formula “le symbole donne à penser”.

Nel successivo passaggio, il vivo della posizione ricœuriana: io , uomo che accoglie l’offerta del simbolo e ne ascolta l’appello, del simbolo colgo il “rivolgersi a me”, e «ciò che lega il senso al senso mi lega»[14]. Nell’analogia che esprime il potere rivelatore del simbolo mi si annuncia una similitudine che non posso guardare con distacco oggettivante: in forza del mio “interesse” per questa rassomiglianza essa «è una assimilazione esistenziale del mio essere all’essere secondo il movimento dell’analogia»[15], è un invito a partecipare del senso secondo.

Ecco perché il filosofo Ricœur esprime il suo interesse per l’oggetto della fenomenologia del sacro misurandone il valore nel sentirsene interpellato, nel sentire che il simbolo, nel modo enigmatico che gli è proprio, si rivolge all’uomo: spinto a riflettere dall’attesa dell’interpellanza, per sua stessa ammissione, egli ha «infranto la “neutralità” fenomenologica»[16] in nome di una dichiarata decisione filosofica che, riproponendo in chiave moderna la platonica reminiscenza, denota «un desiderio nuovo di essere interpellati, oltre il silenzio e l’oblio»[17], oltre i prodotti della consuetudine con l’univocità dei segni tecnici che è propria dell’uomo contemporaneo.

La “scuola della reminiscenza”, portatrice di un’ermeneutica restauratrice del senso, incontra però la radicale opposizione del pensiero dei tre “maestri del sospetto”. Ricœur individua il nucleo di tale pensiero attribuendo a Marx, Nietzsche e Freud il comune esercizio di falsificazione della coscienza, estensione del dubbio cartesiano sulla cosa a quella che Ricœur definisce la «fortezza cartesiana»[18], all’indubitabile coincidere, cioè, della coscienza con ciò che appare a se stessa. A partire dal comune presupposto della coscienza “falsa”, seppure differenziato nei tre registri, il loro contributo essenziale consiste nell’aver creato, «con e contro i pregiudizi del tempo, una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso»[19].

Attraverso la “triplice astuzia” che confluisce nella promozione di un’esegesi del senso, di un movimento ermeneutico che proceda in senso inverso rispetto all’opera di falsificazione dell’uomo che dissimula, Marx, Nietzsche e Freud, da “detrattori” della coscienza quali apparivano, risultano al contrario fautori di una sua estensione, e la loro opera di “distruzione” in nome del sospetto si rivela ora, dice Ricœur, necessaria a sgombrare il campo per l’avvento di «una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità»[20].

L’ermeneutica demistificante si oppone, in definitiva, all’illusione, e mette in discussione il cuore “mitico-poetico dell’Immaginazione” in forza della “rude disciplina della necessità”. Ricœur, richiamando la riflessione di Spinoza sull’uomo che, resosi consapevole di essere schiavo della necessità, deve comprenderla per poi liberarsi in essa, percepisce però che una tale “ascesi del necessario” porta con sé una privazione: «mancano la grazia dell’immaginazione, l’emergenza del possibile»[21], e il desiderio di recuperarle ci riconduce, ragionevolmente, alla “Parola come Rivelazione”.

Al punto in cui psicoanalisi, conflitto ermeneutico e problematica del linguaggio esprimono quella crisi della riflessione che Ricœur definisce «avventura del Cogito e della filosofia riflessiva che da esso deriva»[22], sorge l’esigenza di valutare se i confini di una filosofia della riflessione riescano ancora a contenere i termini di questa analisi.

Quel che finora si è detto del simbolo ne considerava l’aspetto meramente semantico rappresentato dalla sua struttura sovradeterminata, dal suo offrirsi, cioè, con un’eccedenza, un sovrappiù di senso che fa appello alla sola interpretazione. Ma un secondo tratto la cui considerazione, sostiene Ricœur, induce alla riflessione filosofica sul simbolo, è il suo presentarsi anche in forma di racconto, di mito che narra dell’inizio e della fine del male.

Possiamo riassumere la disamina di Ricœur limitandoci a dire che al valore espressivo linguistico che la semantica fa emergere, va aggiunta la stima del valore euristico rilevabile nei simboli in forma mitica, dal momento che essi «conferiscono universalità, temporalità e portata ontologica alla comprensione di noi stessi»[23].

Rimandiamo la discussione più dettagliata di questi aspetti alla trattazione della Simbolica del male, e osserviamo intanto che le caratteristiche del simbolo esposte consentono a Ricœur di affermare che «il simbolo stesso […] è aurora di riflessione»[24]. In virtù della sua doppia veste semantica e mitica, e della dinamica molteplicità del suo senso, il simbolo provoca la riflessione dall’interno stesso, cosicché essa si scopre inevitabilmente implicata dal problema ermeneutico.

E ancora: i simboli mitici del male si rivelano come rovescio del più ampio simbolismo della Salvezza che, a sua volta, «conferisce il suo vero senso a quello del male»[25] nel delinearlo come “sottoinsieme” interno all’ambito simbolico religioso. Da una totalità così riconsiderata e ricomposta deriva il monito di «sfuggire al fascino di una simbolica del male, recisa dal resto dell’universo simbolico e mitico»[26], e in più un ulteriore impulso a riflettere, perché riflessione e speculazione possano, nei propri termini, “dire” questa integrità simbolica.

Ma il proposito di attingere alla fonte simbolica e convertirsi in ermeneutica, per la filosofia della riflessione suona come uno “scandalo” che, secondo Ricœur, si connota in una triplice aporia: la proverbiale universalità filosofica si incontra, nel ricorrere alla memoria mitica greca, o ebraica, o babilonese, con le singolari contingenze di culture diverse; la riflessione filosofica vede il suo rigore in balia di linguaggi equivoci; il discorso “spezzato” dell’interpretazione, la “guerra” delle ermeneutiche, compromette la coerenza del logos.

Eppure, nell’aporia Ricœur avverte la concretezza. Cardine della riflessione filosofica, a partire da Cartesio, è l’io sono, io penso, la posizione del , «insieme la posizione di un essere e di un atto, di una esistenza e di una operazione di pensiero»[27]. Questa fondamentale verità risulta però astratta nella sua inaccessibilità ad una riflessione che non può coglierla nell’immediatezza ma può solo riafferrarla «“mediata” dalle rappresentazioni, azioni, opere, istituzioni, monumenti, che la oggettivano; è in questi oggetti, nel senso più vasto della parola, che l’Ego deve perdersi e trovarsi»[28].

Le argomentazioni ricœuriane conducono all’affermazione di una coscienza che si delinea non come un dato, ma come un fine da raggiungere, e quindi di una riflessione il cui scopo, o meglio il cui compito, è far coincidere il sé dell’uomo con il suo concreto esistere. È in questa finalità che la filosofia, dice Ricœur, è veramente etica, e, con un richiamo all’Eros platonico e al conatus spinoziano, affida i termini di concretezza della riflessione alla proposizione che la definisce come «l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio»[29].

La riflessione, dunque, per essere concreta, deve farsi ermeneutica ed aprirsi a tutte le discipline il cui tentativo è di comprendere l’uomo decifrandone i segni poiché, sostiene Ricœur, non potremmo cogliere «l’atto di esistere in altro luogo che nei segni disseminati nel mondo»[30].

È quindi il momento, in nome della concretezza, di accettare l’idea di un inevitabile orientamento dell’indagine filosofica ad opera della memoria greca dalla cui base il filosofo “inizia”, perché «solamente la riflessione astratta parla da un punto zero»[31].

Per questo debito nei confronti delle contingenze culturali, che implica il ricorso all’equivocità delle espressioni simboliche, l’ermeneuta porge il fianco a possibili e temibili obiezioni da parte dei logici, fautori di un simbolismo logico – la cui connotazione si oppone totalmente al simbolo ricœurianamente inteso – che ha proprio la funzione di eludere l’equivocità.

Una logica del senso duplice deve, nell’ambito stesso della riflessione, articolarsi in rigore, complessità e non arbitrarietà, pur non riducendosi alla linearità della logica formale: la convivenza tra queste due logiche, sostiene Ricœur, risulterebbe indifendibile se attuata ad uno stesso livello. La logica del senso duplice deve costituirsi non nella dimensione del formale ma del trascendentale, riferita, cioè, alle condizioni di possibilità: «una logica trascendentale si costituisce infatti al livello […] non delle condizioni di oggettività di una natura, ma delle condizioni dell’appropriazione del nostro desiderio d’essere»[32].

All’interno della riflessione, allora, logica simbolica e logica trascendentale possono coesistere in ambiti distinti: mentre l’una è rivolta ad un simbolismo vuoto e mirato all’eliminazione dell’ambiguità, l’altra, decifrando la ricchezza di significatività di un simbolismo pieno proprio nell’attingerne l’equivocità, vuole «porre in luce mediante un procedimento regressivo le nozioni presupposte dalla costituzione di un tipo di esperienza e di un corrispondente tipo di realtà»[33].

Se riteniamo vero che il richiamo reciproco tra riflessione e simbolo fondi l’ermeneutica, riassume Ricœur, possiamo giustificare l’ambiguità, l’espressività indiretta nella riflessione dicendo che un tale linguaggio «può essere valido, non perché è equivoco, ma benché sia equivoco»[34].

Alla critica esterna del logico “intollerante”, però, si aggiunge un’aporia interna alla riflessione stessa che, nella necessità di farsi ermeneutica in nome della concretezza, rischia di frammentarsi per l’improponibilità di un’ermeneutica generale.

Se la transizione da una riflessione astratta a una riflessione concreta comporta la contraddizione delle ermeneutiche, è in questo conflitto che la crisi del linguaggio, suggeriva Ricœur, si estende ad una crisi della riflessione. Fenomenologia della religione e psicoanalisi, restaurazione e demistificazione del senso, producono entrambe, nella riflessione, uno spostamento di fuoco, un decentramento a seguito del quale «il fuoco del senso non è la “coscienza”, ma altro dalla coscienza»[35].

Le due ermeneutiche “più lontane”, quindi, ci pongono di fronte a un medesimo interrogativo che resta in sospeso: può, il primo atto di riappropriazione della coscienza, in quanto atto di riflessione, essere uno spostamento del suo nucleo su qualcosa che sia altro dal cogito stesso?

Nella prospettiva di un’ermeneutica, ancora tutta da costruire, che medi tra mito e filosofia, Ricœur assume una posizione interlocutoria che  aspira alla possibilità di un comune radicamento nella riflessione delle ermeneutiche in conflitto. La sua proposta preliminare si delinea come esigenza di affrontare, in un movimento unico, le tre “crisi” da cui sono attraversati il linguaggio, l’interpretazione e la riflessione, nella convinzione che una riflessione concreta possa non solo incorporare la rivalità delle interpretazioni, ma anche giustificarla nel farsene “arbitro” e nel promuoverne la comprensione.

Oltre questo progetto si intravede, conclude Ricœur, una riflessione rinnovata, che «non sarà più la posizione, esangue quanto perentoria, sterile quanto irrefutabile, dell’“io penso, io sono”»[36] ma, in virtù della “grazia” e insieme della “rudezza” dell’ermeneutica, sarà finalmente riflessione concreta.

Quest’ultima considerazione porta a termine l’esposizione del Libro Primo del Della interpretazione, attraverso il quale possiamo dire di avere una prospettiva abbastanza ampia degli intenti di Ricœur. Ci sembra utile, ora, ripercorrere lo studio condotto nei libri della Filosofia della volontà, alla scoperta dei momenti preliminari e costitutivi di quelle premesse alle quali il Della interpretazione attinge.


[1] Ricœur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p. 40.

[2] ivi, p. 40.

[3] La nostra esposizione  prescinderà dall’Analitica (Libro Secondo), specifica lettura ricœuriana del pensiero freudiano e, in quanto tale, marginale rispetto alle finalità del presente studio.

[4] ivi, p. 15.

[5] ivi, p. 17.

[6] cfr. ivi, pp. 20-28.

[7] ivi, p. 27.

[8] Anche se, dice Ricœur, «la sua discussione delle significazioni molteplici dell’essere [“L’essere si dice in più modi…”] apre una breccia nella teoria puramente logica e ontologica dell’univocità». Cfr. ivi, p. 34.

[9] ivi, p. 18.

[10] ivi, p. 38.

[11] ivi, p. 39.

[12] ivi, p. 41.

[13] ivi, p. 41.

[14] ivi, p. 42.

[15] ivi, p. 42.

[16] ivi, p. 42.

[17] ivi, p. 42.

[18] ivi, p. 43.

[19] ivi, p. 44.

[20] ivi, p. 44.

[21] ivi, p. 46.

[22] ivi, p. 47.

[23] ivi, p. 49

[24] ivi, p. 49.

[25] ivi, p. 50.

[26] ivi, p. 50.

[27] ivi, p. 53.

[28] ivi, p. 53.

[29] ivi, p. 56.

[30] ivi, p. 56.

[31] ivi, p. 58.

[32] ivi, p. 59.

[33] ivi, p. 62.

[34] ivi, p. 64.

[35] ivi, p. 65.

[36] ivi, p. 66.

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