Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 4

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Il volontario e l’involontario (II)

2.2. Decidere, agire, consentire (I)

E finalmente, poste le premesse, l’analisi si sviluppa attraversando i tre momenti in cui volontario e involontario si articolano: il decidere – il cui oggetto specifico è il progetto – che conduce all’esame delle sue motivazioni; l’agire – a cui si riferisce la mozione volontaria – che rivela i poteri; il consentire alla necessità vissuta.

2.2.1. La decisione

Punto di partenza dell’eidetica è l’enunciato “Io mi decido perché…”, l’affermazione, cioè, della scelta motivata da cui scaturisce il progetto, un pensare che si proietta nell’azione futura e, con una sorta di atto di fiducia nella possibilità a scapito della realtà, la rende possibile.

È interessante rilevare, nello sviluppo di questa prima parte, la tensione a condurre l’analisi – attraverso incroci di riferimenti fra triade potere-volere-dovere, problema dei valori e altre implicazioni del decidere – verso l’affermazione stringente di un uomo che, nel porsi al cospetto del mondo munito della propria libertà, ne perde di fatto la capacità, paradossalmente e autonomamente, nel momento stesso in cui, sottraendosi alla mediazione con la realtà necessaria, si sottrae alla propria responsabilità. A tal proposito, Ricœur osserva come il possibile si presenti in tre momenti distinti: il potere (poter fare), in forza del quale ho la possibilità di decidere; il possibile (da fare) che il mio progettare apre; «il possibile permesso dal mondo come un percorso attraverso l’impossibile»[1], quel che posso, cioè, tenuto conto della realtà (eventualità del non poter fare). Il legame evidente tra queste forme del possibile (dalla mia decisione deriverà un progetto per poter concretizzare il quale dovrò fare i conti con la realtà) è lo stesso che si riscontrerà tra decidere, agire e consentire. Tale legame, una volta di più, mostra l’intento ricœuriano di preparare l’affermazione di una libertà che, in quanto umana, non può prescindere dalla necessità.

Ora, se consideriamo che ogni mia decisione (e dunque ogni mia conseguente azione) è imputabile a me, possiamo renderci conto come, al di là del mio assumermi la responsabilità dei miei atti, non dispongo di altri mezzi per poter affermare me stesso: «l’io ha dimora nei suoi atti»[2]. La responsabilità, dunque, è il sentimento che, espresso, permette alla coscienza di manifestarsi, al sé di farsi riconoscere dicendo «questa azione sono io»[3].

Non mancano, in questa parte dell’opera, riferimenti ad autori il cui richiamo risulta ineludibile. Difficile, per esempio, dire di un atto volontario che è «a un tempo qualcosa come un comando – sul possibile, sul corpo, sul mondo – e qualcosa come un’obbedienza – a dei valori riconosciuti, accolti e ricevuti»[4], senza chiamare in causa l’obbedienza all’imperativo kantiano. Ricœur non può certo esimersi dal farne cenno, anche se, prescindendo il suo tentativo di descrizione dal considerare le restrizioni etiche a priori che possono influire sul binomio motivo-progetto, la ricerca condotta da Kant del «rapporto necessario e a priori fra la massima di un’azione ed il libero volere»[5] risulta estranea a questa descrizione.

Ancora: nel criticare l’attuale tendenza a rinnegare il rispetto di valori non istituiti dalla volontà ma da essa riconosciuti (nel senso di attribuir loro una certa oggettività), fino a confondere tale rispetto con l’alienazione, Ricœur imputa a Kierkegaard la pretesa di una soggettività che possa porsi a margine di ogni forma di oggettività, pur riconoscendogli il merito di aver dato un notevole impulso ad una presa in carico, da parte della filosofia moderna, della esistenza individuale[6]. Secondo Ricœur, il contributo kierkegaardiano, che trova il suo sviluppo in Nietzsche e nel suo processo ai valori stabiliti, ha influito in modo determinante sul pensiero moderno che dimostra «gravi confusioni sui rapporti della libertà con un qualsiasi ordine di valori»[7].

2.2.2. L’azione

L’azione, afferma Ricœur, è il criterio dell’autenticità di un volere che progetta: «il progetto anticipa l’azione e l’azione mette alla prova il progetto»[8]. Chi veramente vuole, muove il proprio corpo per cambiare qualcosa del mondo, altrimenti «non ha ancora veramente voluto»[9]: è solo agendo che la sua intenzionalità si trasforma in pragma.

Responsabile dell’orientamento del progetto verso l’azione è il potere, il quale, presente nel volere, fa sì che il progetto sia altro che «una semplice non-impossibilità»[10], e diventi una promessa di possibilità all’interno del mondo. E’, dunque, mediante il potere a cui è legato, che il volere è intenzionato verso il reale e non naufraga nell’immaginario.

Il rapporto tra volontario e involontario, in questo ambito, si delinea attraverso lo sforzo che permette alla volontà di imporsi ad un corpo che a volte è disponibile, a volte renitente. L’effetto dello sforzo è sempre di controllare il movimento del corpo resistendo alle opposizioni dell’emozione e dell’abitudine.

Quel che preme a Ricœur è affermare l’unità dell’anima e del corpo, di cui «la genesi dei nostri progetti è solo un momento»[11]. La questione è: contro una descrizione empirica che oggettivizza l’io, incarnare la soggettività nel corpo.

Il dramma del Cogito, la sua avventura vissuta come soggetto attivo e passivo, è frutto proprio di questa interdipendenza tra soggettività e corpo.

[1] ivi, p. 58.

[2] ivi, p. 61.

[3] ivi, p. 61.

[4] ivi, p. 82.

[5] ivi, p. 83.

[6] cfr. ivi, p. 177.

[7] ivi, p. 177.

[8] ivi, p. 198.

[9] ivi, p. 197.

[10] ivi, p. 199.

[11] ivi, p. 198.

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