L’animale che parla e la (im)possibilità d’immanenza

Pasquale Amato

 

 

Si leva un canto, ora si avvicina ora si allontana. La stessa cosa accade sul piano di immanenza: molteplicità lo popolano, singolarità entrano in connessione, processi o divenire si sviluppano, intensità salgono o discendono.
[Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2014, p. 195]

 

 

1. Con Deleuze

1.0. Gli Storytelling su Deleuze

Leggere Deleuze è faticoso. Fatica protratta e, a volte, poco ricompensata. In sottofondo, le articolate connessioni tra teorie filosofiche classiche, rivisitate ed emendate a comporre tesi originali, con una scrittura “compressa”, difficile, mai accomodante, provocatoria, colta e strafottente. In più, intuibili tra le righe, nozioni matematiche, leggi della fisica e altri complementi, che dimostrano un’attenzione aperta e interessi allargati, e pretendono una competenza del lettore a ben vedere non ovvia. L’impulso a desistere mi accompagna anche ora.

Il testo di Deleuze si presenta come un labirinto di premesse inespresse, parole inattese, movimenti poco assecondabili, i quali potrebbero indurre all’abbandono del tentativo di dare un’intelligibilità al testo deleuziano usando come alibi la sua mancanza di chiarezza, la complessità gratuita e l’oscurità delle fonti direttamente o indirettamente citate.[1]

Ho chiesto aiuto, com’è giusto, e le letture si sono moltiplicate, ma con soddisfazione. Ringrazio innanzitutto (ci tengo molto) Antonello Giuliano, che con generosità ha risposto (se ne pentirà?) a un mio messaggio (posta elettronica da uno sconosciuto), fornendomi una ricca raccolta di suoi testi – materiale pregiatissimo, altrimenti irreperibile – da cui ho imparato (tantissime cose, ma soprattutto) a orientarmi nella trama complessa dei riferimenti storico-filosofici impliciti nel pensiero di Deleuze, a riconoscere le voci, a cogliere i raccordi e le torsioni che Deleuze opera in essi. Ho anche approfittato, con grande giovamento, del profilo deleuziano tratteggiato anni fa da Chiara Di Marco, su Informazione Filosofica: una sintesi chiarissima e completa, che ho apprezzato molto come supporto all’organizzazione del mio schema mentale sull’autore.

Sui testi di Deleuze, ho passato ore e giorni, e continuerò a farlo, ma i tanti testi su Deleuze mi intrigano. Sono ormai convinto di poter catalogare gli interpeti in tre gruppi: quelli che, esperti, analizzano il percorso riflessivo e approfondiscono gli aspetti storico-filosofici più significativi; quelli più audaci che, cogliendo spunti concettuali e nessi con altri pensatori, traggono da Deleuze un impulso propulsivo verso nuove filosofie; quelli tout court entusiasti, infine, che impegnati a emularne la complessità espositiva, propongono appassionate apologie del deleuzismo, spesso criptiche per il mio livello di comprensione (e che hanno un po’ il sapore di occasioni perse). Tre forme di storytelling, direbbe Baricco, tre diverse strategie di narrazione. Ognuna rispettivamente tesa a trasmettere una diversa istanza: per i primi, gli esperti, si tratta di inquadrare il pensiero di Deleuze in una classificazione storico-filosofica che consenta una lettura comparativa con altri filosofi e a cui la riflessione degli studiosi possa appoggiarsi; per gli entusiasti, il sottotesto è “Ci ho lavorato tanto, ora mica vorrai che ti passo gratis il risultato: devi studiare, e poi rassegnarti, perché non sei bravo come me”. Ma è degli audaci che più mi interessa: in loro, la passione – la stessa che muove gli esperti e anche, confido, gli entusiasti – evolve a voglia di vivere secondo filosofia, e Deleuze offre spunti fecondi per una tale visione. Simpatizzo per loro, mi identifico, persino, ma l’empatia che provo, alla fine, si rivela affinità disgiuntiva.

In una lezione su Leibniz[2], Deleuze illustra la teoria matematica dei punti di inflessione. Attraverso il registro filosofico, allude all’ipotetico scenario in cui infiniti mondi sussistono e si mescolano, ognuno composto da imponderabili connessioni di linee curve irregolari risultanti dal moto di punti singolari (singolativi, a dirla tutta) i cui accadimenti convergono, si intersecano o divergono in un continuo divenire di eventi compossibili. Esaminando una delle curve così concepite e individuando, per più concavità attigue, il centro di curvatura (punto di incontro dei vettori di concavità, cioè delle perpendicolari alle tangenti lungo la curva), mostra che tale centro si sposta definendo una regione, che dunque tale centro «ha un sito». In sintesi: nell’inflessione, a ogni lato concavo della curva è attribuibile un centro, determinabile – dice Leibniz – come punto di vista; tale centro percorre una regione, dunque si può parlare di «sito del punto di vista». Conseguentemente, qualsiasi punto dello spazio – in quanto punto in cui convergono infinite rette – è un possibile punto di vista su un’inflessione a curvatura irregolare.

«Che strano mondo,» considera tra sé Deleuze, «questo di Leibniz! È chiamato mondo barocco». In questo mondo leibniziano, ognuno di noi è un punto di vista «a distanza finita», in cui infinite rette si intersecano a definire una prospettiva conica, e la cui particolarità è di essere in reciproca immanenza con il punto di vista di Dio, centro «a distanza infinita» della prospettiva cilindrica che include tutte le infinite prospettive coniche: «Dio e le creature sono punti di vista reciprocamente immanenti […]. Non c’è espressione migliore di: “noi siamo prospettive coniche immanenti alla prospettiva cilindrica di Dio”».

Ora, molte delle rette “filosofiche” che in me concorrono riguardano il linguaggio, e su questa base mi confronterò con tre opere i cui autori seguo con interesse e stima: Gilles Deleuze di Rocco Ronchi, Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti, Il sintomo di Lacan di Alex Pagliardini. Tre testi che hanno in comune un riferimento più o meno forte a Deleuze, e in particolare alla concezione deleuziana dell’orizzonte di pura immanenza in cui l’esistenza si esprime, in cui «stanno tutti i corpi, tutte le anime, tutti gli individui»[3]. I tre autori condividono, tra l’altro, lo studio attento di Lacan che, in diversa misura, suggestiona e arricchisce le rispettive analisi. Tenterò, allora, di mettere a fuoco alcune loro riflessioni che, ognuna a suo modo allacciandosi al pensiero lacaniano, convergono su una particolare lettura dell’opera di Deleuze.

Ricordo, per avviare il discorso, che Lacan concepisce la realtà come risultante dell’interazione tra i tre registri dell’Immaginario, del Simbolico e del Reale, interazione le cui modalità determinano il nostro senso di realtà. Quando il nodo che lega i tre registri si allenta, il Reale – irrappresentabile e indicibile, dissimulato nell’immaginario e solo avvertibile per mediazione del simbolico – affiora in noi con effetti (il sintomo) nevrotici o, peggio, psicotici.

Con l’intento di dispiegare un ampio sfondo deleuziano entro cui collocare le argomentazioni, farò preliminarmente perno sul testo di Ronchi, per poi arricchirlo con le particolari angolature del punto di vista di Davide Tarizzo. So che il risultato comporta due criticità apparentemente discordanti: da una parte, fatalmente, il quadro del pensiero di Gilles Deleuze mancherà di molte delle sue rizomatiche espansioni; dall’altro, il piacere della scoperta dei suoi movimenti riflessivi mi porterà a perlustrare aree più spaziose di quanto strettamente necessario ai fini del presente scritto. Parlo, in ogni caso, di una ricerca per me appagante: spero che si avverta lo slancio, e che contagi.

1.1. Divenire Platone

Deleuze vuole riaffermare la possibilità della filosofia, fortemente messa in discussione (se non dismessa) nella seconda metà del Novecento, soprattutto a partire da Heidegger. Insieme a pochi altri pensatori, Deleuze si erge a difesa della dignità della filosofia, e anima costantemente la dimensione problematica della storia della filosofia, dichiarandosi in ogni caso filosofo “classico”.

Egli comprende la complessità del reale e la riconduce all’univocità dell’essere: il reale, apparentemente informe, è attualizzazione dell’infinità dell’essere (dell’Uno) nel divenire, nella molteplicità illimitata delle forme finite. Ribadire l’univocità del reale equivale ad affermare con forza l’uguaglianza infinita di tutti gli enti nell’essere: «nell’essere infinito coincide tutto quanto nel finito differisce […]. Il finito esprime l’attualità dell’infinito»[4].

In contrasto aperto con la dialettica hegeliana, Deleuze sostiene che la differenza non implica mai negazione, perché è invece affermazione dinamica dell’essere univoco, ed espressione del divenire. La “differenza in sé” dell’assolutamente infinito si esprime (“ripetizione per sé”) nelle molteplici differenze delle forme finite; il divenire procede per differenziazioni e attualizzazioni, e determina un reale costituito da atti e processi, non da fatti e cose.

L’esperienza, per la radicalità dell’empirismo deleuziano, è atto in atto, puro accadere di ciò che accade.

Non c’è niente al di fuori dell’esperienza. Non c’è una realtà di cui essa sarebbe un prodotto e non c’è un soggetto che la “farebbe”. L’esperienza non la si trascende da nessuna parte.[5]

Il reale, come esperienza in atto, è “anonimo” (non c’è un soggetto che lo determina) e “singolare” (non discrimina universale e particolare, idea e cosa). Noi viventi siamo sempre in un tra, “innestati nel mezzo”, perché il divenire, i processi, gli atti, costituiscono un’esperienza che è sempre “più vecchia di noi”, rispetto alla quale non possiamo mai porci prima o dopo, all’inizio o alla fine.

Per sfuggire ai dualismi che il platonismo ha instaurato in filosofia e che continuano a essere ostacolo a un pensiero autenticamente filosofico, Deleuze trae ispirazione da Platone stesso. La riabilitazione dei concetti di differenza e ripetizione esclude la concezione di una realtà che tenda ad adeguarsi a un’Idea trascendente: ci sono solo eventi che ripetono, in un succedersi di elevazioni a potenza della differenza, nuove risposte alle domande sempre uguali dell’esistenza. L’univocità del reale (esperienza pura, atto in atto) comporta quindi l’esigenza di un procedimento selettivo: così come Platone separava le copie ideali dagli ingannevoli simulacri (il filosofo dal sofista), noi abbiamo il compito etico di distinguere i giusti “pretendenti”, di scegliere tra il filosofo e il non-filosofo, tra il divenire “buono” (affetto affermativo, polo schizo-rivoluzionario) e il “cattivo” divenire (passione triste, polo paranoico-fascisteggiante), tra l’evento che è portatore di cambiamento e il fatto che è stagnazione del già dato[6].

In linea con il pensiero che trova espressione negli avvenimenti del 68, ma anche nello strutturalismo e nelle teorie lacaniane, o ancora nel pensiero del Fuori di Blanchot, Deleuze ricusa la “rappresentazione organica” prodotta dalla cosiddetta “eccezione umana”, basilare nell’ontologia dei moderni, che assegna all’umano il predominio ontico-ontologico. L’esperienza è esclusivo correlato dell’uomo, unico ente peculiarmente finito, il cui essere “per la fine” fonda l’ontologia, nei termini di una antropologia trascendentale (avviata da Kant) che vede la finitezza riflettere su se stessa. Nell’ottica anti-umanistica, di contro, l’infinito torna a reggere l’esperienza, la cui consistenza ontologica non è data dall’identificazione per esclusione (X è A perché non è B, non è C, non è …), né è strutturalmente dialettico-negativa, né è concessa da un’entità trascendente che la detiene. L’esperienza in atto, l’univocità del reale, è continuo processo di differenziazione, di purissima affermazione ontologica[7].

1.2. Ontologia e immanenza

La proposizione manifesta chi la enuncia, indica uno stato di cose, di tale stato di cose dice qualcosa, ma mai può dire il proprio senso; lo mostra o, con le parole di Deleuze, lo “esprime”, ma non lo dice. «Quando designo qualcosa, suppongo sempre che il senso sia compreso»[8], presumo quindi che quanto da me espresso, il senso del mio dire, sia già dato, lo considero cioè trascendentale alla comunicazione, sua condizione di possibilità. Il mio interlocutore comprende quanto dico perché attinge dal passato un senso presupposto – un ricordo puro, senza immagine, il “senso” secondo Bergson – a cui la mia proposizione si allaccia, e dal canto suo (che mi risponda o che in silenzio faccia qualcosa, il suo sarà comunque, dice Austin, un “atto illocutivo”) compirà un gesto enunciativo, che avrà come designato il senso della mia proposizione di partenza: è la catena significante al lavoro, una catena senza origine né fine. Ronchi richiama, qui, la Logica del senso, una logica non formale, trascendentale, che accomuna il senso all’evento, al divenire dell’atto in atto (all’energheia aristotelica). L’evento e il fatto sono necessariamente implicati, così come lo sono il detto e l’espresso (proposizione e senso): «non c’è accadere senza accaduto»[9], l’evento (il puro accadere) non è mai in “ciò che accade” (quid), eppure è là, è il “che c’è” (quod) di quel che accade: «Il “che c’è”, l’il y a, l’accadere di quanto accade: ecco l’evento!»[10].

In quanto puro accadere, in quanto atto in atto, un evento non ha soggetto né oggetto. Un rumore o un suono mi indicano che qualcosa sta succedendo (il “che c’è”), ma non mi dicono che cosa (“ciò che accade”); non ho modo di dominare con lo sguardo quanto accade, e posso «dubitare del che cosa sento, ma il che c’è del sentire in atto è sottratto a ogni ragionevole e irragionevole dubbio»[11]: il suono, “segno purissimo”, è un esempio calzante del risuonare di “una presenza che accade”.

La reciproca implicazione dell’accadere e dell’accaduto, in analogia al concatenarsi di ogni detto/espresso nella “semiosi illimitata” – il senso di ogni significante/significato diventa tema e oggetto per un ulteriore significante/significato, il cui senso, a sua volta, … e così via –, definisce per Deleuze il «processo non lineare di natura seriale»[12] in cui, strutturalmente, consiste l’esperienza, e perciò la soggettività.

C’è un grido anonimo che grazie alla risposta diventa, après-coup, la domanda di un soggetto. La differenza dell’evento, il suo “che c’è”, è stata modalizzata e stabilizzata in un significato, si è “alienata” nella formazione “Ego”. […] Il riferimento a Lacan, dicevamo, non è casuale. Con la sua Logica del senso Deleuze cerca infatti di dare una forma logica alla struttura dell’esperienza che la psicanalisi lacaniana aveva fatto emergere.[13]

E con Lacan, Deleuze individua il motore della catena significante, l’origine del processo seriale dell’esperienza, in un particolare elemento che alla catena stessa garantisce continuità funzionale: è la “casella vuota” che nella catena, pur non essendone parte, si ripete quale «istanza assolutamente singolare che come tale non è mai presente in essa, ma che non cessa di insistervi e di sussistervi»[14], di provocarla.

Sembra che la struttura inviluppi un oggetto o elemento del tutto paradossale. […] È evidente che quest’oggetto è eminentemente simbolico. […] Debito, lettera, fazzoletto o corona, […] quest’oggetto […] [ha] per proprietà di non essere mai dove lo si cerca, ma in compenso anche di essere trovato dove non è. Si dirà che «manca al suo posto» (non è dunque qualcosa di reale). Come manca alla propria somiglianza (non è dunque un’immagine) – e alla propria identità (non è dunque un concetto).[15]

La lettera è la casella vuota nel racconto di Poe, così il debito nell’Uomo dei topi, o il fazzoletto nell’Otello. La casella vuota è il “grado zero”[16] della struttura che, sottesa a qualsiasi ambito dell’esperienza (linguaggio incluso), riproduce la logica della concatenazione indotta dal linguaggio, e conduce tutto alla variazione infinita, quindi all’idea di «processo: processo non lineare e seriale, concatenazione, processo di soggettivazione e processo di individuazione»[17]. La casella vuota, come «istanza paradossale»[18] che ci porta al cospetto del Reale, genera il pensiero, perché in noi il pensiero non è ovvio: solo la violenza di una situazione concreta, solo la stoccata infertaci dal “che c’è” dell’evento ci spinge a pensare.

In riferimento alle opere di Lewis Carroll che ispirano Deleuze, Ronchi richiama la metafora della “soglia”, non-ente, al pari della casella vuota, “astratto” e senza luogo. Non sono qualcosa, le soglie, eppure danno ordine alle esperienze, le localizzano, agendo come trascendentali, come occasioni e affermazioni di vicende reali, «ma lo fanno scomparendo dal piano delle cose che sono […], essendo una linea assolutamente “astratta”, “neutra” rispetto ai modi che la significano»[19].

Né morente né già morto potrò comprendere, osservava Agostino, di essere nella morte. Infatti, “si muore” nella soglia – non “io muoio”, perché non c’è più soggetto nella soglia atopica e acronica, non c’è più “io” –, nel mezzo, nel non-tempo dell’exaiphnes, dell’improvviso. Il cambiamento avviene (diviene), allora, nella casella vuota dell’improvviso, fuori dal Chronos ontico, nell’Aion non cronologico che del tempo è peraltro fondamento, nel non-tempo in cui si passa dall’uno al molteplice, in cui si muore, in cui dal simile si passa al dissimile e dal dissimile al simile.

La casella vuota, il grado zero della struttura, istanza paradossale del pensiero, “non-dove” e “non-quando” del morire e perciò del divenire, è secondo Deleuze definitivamente descritta nel Parmenide di Platone, a marcare «quel paradosso del puro divenire solo affrontando il quale la vera filosofia potrà prendere avvio»[20], e risuona nel quesito: se “l’uno è”, quando, da Uno, cambia in Molti? Nel voler riaffermare la possibilità della filosofia, suggerisce Ronchi, va letto il progetto deleuziano di rovesciare il platonismo: accreditando la formula magica “pluralismo = monismo” grazie alla casella vuota (soluzione per l’interrogativo parmenideo), a quella “faglia senza essere” che “contiene” il divenire, Deleuze propone una filosofia dell’immanenza assoluta che sia realizzazione dell’ontologia.

Il grado zero è soglia, quindi limite, scissione acronica che immette al cambiamento, non-presente in cui pure scorre il tempo, in cui si muore. Singolare e non misurabile, il limite non ha un limite che lo racchiuda, né un fuori che gli si opponga: è illimitato, singolare, smisurato “infinito in atto”. Mentre determina puntualmente ogni presente, univocamente inscritto in esso, lo rende eccedente a sé. È confine adimensionale tra peras e àpeiron[21], fenditura in cui, rileva Ronchi, l’univocità dell’essere si condensa. Incontriamo la stessa eccedenza nell’evento, sovrappiù (o “resto”) «che sconvolge i mondi, gli individui, le persone e li restituisce alla profondità del fondo che li travaglia e li dissolve»[22].

Divenire, evento, processo, implicano la dinamicità che Deleuze ascrive alla sostanza causa sui di Spinoza.

Nell’interpretazione di Deleuze la sostanza spinoziana è tutta formicolante di vita, la sostanza è l’uovo, la sostanza è il corpo senza organi, è il soggetto larvale capace delle metamorfosi più incredibili. La sostanza è l’Idea coincidente con il suo processo. Di lei si deve ripetere quello che Whitehead diceva della “entità attuale” […].[23]

Whitehead riconduceva al processo l’identificazione tra essere e divenire della sostanza. E allora, la sostanza spinoziana così “dinamizzata”, contaminata «con l’Eterno ritorno di Nietzsche e con la durata-memoria di Bergson»[24], avalla l’identità dell’uno e dei molti, consentendo a Deleuze di intraprendere la sua “ontologia del vivente”.

Solo concepita quale processo, la sostanza può esprimersi nella dinamica del rapporto tra la propria infinità e la finitezza dei molti modi in cui essa si attualizza, come assoluta semplicità che complica in sé l’illimitata differenza tra i modi che ne esplicano la molteplicità. L’erba è attualità assoluta, molteplicità di fili d’erba mai uguali perché tra loro differenti in infiniti modi, pur ognuno essendo un filo d’erba come gli altri:

in essa essi sono uno, sempre il medesimo uno, e ognuno di quei molti è sempre il medesimo uno in modo infinitamente diverso (non si danno due fili d’erba uguali). I molti sono l’esplicazione nella differenza illimitata di quanto è complicato nella sostanza infinita. […] La complicatio è l’explicatio, l’uno è i molti […].[25]

A questo punto, Ronchi richiama la nostra attenzione sull’attinenza tra la vitale concezione della sostanza spinoziana e la sostanza-soggetto che nella definizione di Hegel «è il divenire dell’Idea senza residui trascendenti. Anche per Hegel la sostanza, Dio, si risolve interamente nell’atto in atto della sua espressione infinita»[26]. Con il fermo rifiuto del processo dialettico hegeliano, però, e prima di tutto della negazione che per tale processo è determinante, Deleuze si sottrae a tale prossimità. Egli accoglie con rispetto l’interpretazione di Hyppolite, suo maestro: alla lettura umanistica della Fenomenologia dello Spirito da parte di Kojeve, che vede l’uomo protagonista della filosofia, Hyppolite contrappone, più fedele al pensiero hegeliano, un processo agito invece dall’Assoluto (infinito in atto), vero soggetto – attraverso la negazione della negazione, secondo il modello della coincidentia oppositorum – del discorso sull’Essere, in cui l’uomo è così solo comprimario. Tuttavia, la negazione della negazione rimanda al “no” umano all’essere, obietta Deleuze, e quindi di nuovo a un’ontologia a misura d’uomo, a una filosofia dell’esperienza umana ancora lontana dall’“empirismo trascendentale” che implica una differenza emancipata dalla negazione.

Il peccato capitale della dialettica è, per Deleuze, il primato che essa accorda al negativo e alla contraddizione. Questa, concepita come la differenza massima, in realtà ne tradisce la natura, perché la costringe a determinarsi solo all’interno di un’identità preliminare. Il concetto del negativo, poi, esercita una vera e propria violenza speculativa: le differenze vengono offuscate, quando non cancellate, il pluralismo delle forze in gioco negato e ridotto a un gravoso e risentito lavoro di mere rappresentazioni. […] La dialettica ignora le forze che determinano i fenomeni, ignora la loro stessa origine, incapace di coglierne sia il senso che l’essenza.[27]

La negazione è esercizio peculiarmente antropologico, pertinente a una “rappresentazione organica” che implica l’uomo, una coscienza e un mondo. La filosofia dell’esperienza pura, invece, è “rappresentazione orgiaca”, e si realizza nell’ambito che viene “prima” dell’organico, della coscienza e del mondo, “prima e dopo” dell’uomo.

La negazione è la differenza, ma la differenza vista di scorcio, colta dal basso. Raddrizzata invece, dall’alto in basso, la differenza è l’affermazione. Ma questa proposizione comprende molti significati. Significa che la differenza è oggetto di affermazione; che la stessa affermazione è multipla; che è creazione, ma anche che deve essere creata, come affermante la differenza, in quanto è differenza in sé. Il negativo non è il motore.[28]

La differenza è concepita da Deleuze come atto creativo, come affermazione pura nella ripetizione, che nel ripetersi differisce da sé, non neutralizzabile come negazione nel confronto dialettico, aperta al divenire e alla molteplicità: «l’essere è il rivenire della differenza, senza che ci sia differenza nel modo di dire l’essere»[29]. Nel futuro deleuzianamente inteso, ogni istante si succede come ripetizione di ciò che, solo in forza della propria differenza, si afferma nell’eterno ritorno, di ciò che differisce, dunque, in forza del proprio ripetersi.

Nel 1972 Deleuze pubblica, con Félix Guattari, Capitalisme et schizophrénie 1. L’Anti-Œdipe, energica critica alle letture del sociale derivanti dalla tradizione psicoanalitica e, in particolare, dalla teoria freudiana del complesso edipico. Gli autori espongono, per aperto contrasto, la provocatoria sfida di una schizo-analisi, pratica mirata a rilevare e superare i limiti di cui la psicoanalisi ha dato prova (insieme al marxismo) nell’influenzare la realtà e la storia occidentali.

Con la lettura attenta de L’anti-Edipo Ronchi porta a conclusione l’opera, identificando il piano di immanenza assoluta, concetto con cui Deleuze e Guattari riformulano la bergsoniana coscienza in sé con “lo splendore del Si senza Sé”. Considerando inoltre che “coscienza” è un termine comunemente assimilato alla rappresentazione, cioè al rapporto tra un soggetto e un oggetto, si rende necessario dare a quell’essere reale della coscienza un nome più appropriato. Sebbene possa apparire contraddittorio, il nome che Deleuze e Guattari scelgono è “inconscio”.

Dunque, la coscienza è una cosa. […] Con il termine “inconscio” Deleuze e Guattari designano il piano di immanenza assoluta che dobbiamo sempre presupporre a fondamento tanto della coscienza intenzionale quanto del suo rovescio simmetrico, vale a dire l’inconscio nevrotico-edipico, figurativo, simbolico, strutturale, molare, ideologico ed espressivo della psicanalisi mainstream. Inconscio è, dunque, lo splendore del Si senza Sé. Inconscio è la coscienza molecolare, la coscienza che è una Cosa, questa volta scritta con la maiuscola a capolettera, perché la Cosa è la vita stessa che vive, è l’Uno eterno e immoltiplicabile (senza opposto) che non cessa di comunicarsi nella molteplicità illimitata degli enti, non essendo mai altrove che in essi, dove, peraltro, come tale non è mai.[30]

Non si tratta, ovviamente, dell’inconscio freudianamente inteso, di quell’inconscio edipico che, a detta del Lacan più conosciuto, è strutturato come un linguaggio, e comporta un desiderio che la Legge e la Castrazione spingono verso un fine trascendente che induce mancanza. Ma il Lacan meno noto, quello del primato del Reale, l’ultimo Lacan, fornisce a Deleuze e Guattari il primo impulso per esplorare le prospettive di un’esperienza svincolata da una coscienza e dall’uomo. Il loro progetto schizoanalitico si dispiega intorno a un inconscio “anedipico”, “molecolare” anziché “molare”, “macchinico” piuttosto che “strutturale”, “concreto” e non “immaginario”, non “espressivo” (teatro o rappresentazione) ma “produttivo”. È l’inconscio che produce il reale, l’inconscio “fabbrica” che è divenire, l’atto in atto che è un farsi sempre al presente (presente continuo). È il “tutto aperto” anteriore (non cronologicamente) all’iscrizione nel simbolico (al “trauma del linguaggio”), il “non-tutto” (privo non altro che della “mancanza”) sul quale, assoggettandosi a una madre e a un padre, si radica l’inconscio “teatro”, che è un “tutto dato”, che è un “già fatto” e aderisce all’eccezione umana.

L’inconscio nasce orfano e poi è articolato a un padre e una madre. […] Edipo è un effetto genealogico. Il processo di soggettivizzazione ha lavorato su un materiale dato. La castrazione ha castrato qualcosa che c’era già. Edipizzare è produrre un soggetto responsabile, cioè imputabile, sul quale il potere possa fare presa […]. Il soggetto si costituisce inscrivendosi nell’ordine del simbolico […]. L’inconscio anedipico è […] il passato trascendentale del soggetto, la sua storia naturale.[31]

Mentre la psicoanalisi dell’ortodossia si confronta con l’esistenza a misura d’uomo, il metodo antiedipico emancipa il piano dell’esperienza da tale criterio. L’orizzonte schizoanalitico è bensì il “corpo senza organi”, un vivente il cui corpo non è ancora stato inquadrato nella disposizione ordinata dell’“organismo”. Il «corpo senza organi è al contempo inconsumabile e irrappresentabile, sospeso nel divenire tra oggetto e soggetto»[32], ha la stessa storia di “un uovo”, anzi «è un uovo»[33], simbolo della natura da cui il soggetto emerge come supergetto o piega.

1.3. Ma che cos’è l’immanenza?

Il sofista e il filosofo contemporanei parlano la stessa lingua, è difficile distinguerli. Condividono la lotta ai dualismi, lo stesso nemico “necessario” da oltrepassare. Nella terra di mezzo tra le due tendenze delle teorie filosofiche del Novecento – da una parte Husserl (e le diramazioni della sua fenomenologia), dall’altra Bergson (e i pochi pensatori dell’immanenza assoluta) –, Deleuze individua in Sartre spunti concettualmente decisivi per la sua riflessione sull’immanenza, e lo considera un maestro.

La coscienza e il mondo sono dati nello stesso momento: per sua stessa essenza, il mondo è, insieme, esterno alla coscienza e relativo ad essa. […] Conoscere è «esplodere verso», strapparsi dall’umidiccia intimità gastrica per correre al di là di sé, verso ciò che non è sé, laggiù accanto all’albero e tuttavia fuori, perché esso mi attrae e mi respinge e io non posso perdermici più di quanto l’albero non possa diluirsi in me: fuori di esso, fuori di me. […] La coscienza altro non è se non il di fuori di se stessa ed è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza, che la fanno coscienza.[34]

Ma il campo trascendentale prepersonale sartriano appare a Deleuze non abbastanza radicale, comunque riferito alla coimplicazione di coscienza e mondo, a un mondo che è mero correlato dell’uomo: la coscienza esplode verso “il suo” fuori, un fuori che ribadisce un dentro e un centro soggettivi, solo umani. A riconferma della metafisica umanistica kantiana, la fenomenologia richiama l’immagine umana dell’esperienza come rappresentazione, alla cui origine non può che esserci un soggetto. Per realizzare la filosofia trascendentale, di contro, il campo trascendentale impersonale va affrancato dall’immagine del pensiero. L’idea di un piano immanente dell’esperienza pura, autoconsistente come la “superficie assoluta” teorizzata da Raymond Ruyer, predispone Deleuze ad assecondare l’ossimoro bergsoniano della “immagine in sé”, statuto paradossale della “coscienza in sé”, di un piano di percezione impersonale (da cui origina la percezione cosciente che, poco più tardi, Husserl chiamerà coscienza intenzionale), provocatoriamente definito da Bergson “materia”. Mentre l’intenzionalità fenomenologica – ogni coscienza è coscienza di qualcosa – proietta un cono di luce che illumina le cose in sé oscure, la materia bergsoniana è un insieme infinito di immagini per se stesse luminose (le cose), con le quali la «coscienza virtuale, diffusa dovunque e che non si rivela»[35], si confonde, producendosi per oscuramento sottrattivo del piano impersonale: «si tratta davvero di una foto già presa e scattata in tutte le cose e per tutti i punti, ma “traslucida”»[36]. Bergson, nel definire una coscienza costituita da infinite immagini che pre-esistono a eventuali spettatori, raffigura il reale in sé come uno spettacolo che prescinda dal pubblico: in fondo, descrive involontariamente il cinema.

È attraverso il cinema (l’arte del Novecento) che Deleuze ritiene si possa meglio stabilire la natura della filosofia. Nell’una e nell’altro, si tratta di impiantare un terzo occhio che corregga artificialmente e impersonalmente la doxa, la visione ingannevole dello sguardo umano: come la macchina da presa, il concetto filosofico è una “macchina per pensare”, che può ipoteticamente funzionare senza un soggetto che lo pensi,

senza polo-Ego. Lo “splendore del Si” decantato in apertura di Differenza e ripetizione è lo splendore di un “si pensa” che non ha bisogno […] di un pensatore che pensi, è lo splendore di un pensare che coincide con lo splendore dell’essere.[37]

All’aporia fenomenologica di un’intenzionalità esposta al regresso infinito – la coscienza intenzionale presupporrebbe una coscienza cosciente di sé, che ne implicherebbe una ulteriore, ad infinitum –, Bergson oppone l’essere reale della coscienza in sé, “autosorvolo assoluto”, trascendentale alla coscienza empirica (che è rapporto) e quindi da essa differente (perché è non-rapporto).

La coscienza – quella dell’incontro tra soggetto e oggetto – è coestensiva al campo trascendentale; il soggetto e l’oggetto sono in certo qual modo “trascendenti”, occasionali e “fuori campo”, contenuti qualsiasi del “Piano di immanenza” di cui il campo è presupposto trascendentale. Né la coscienza può definire il campo trascendentale, né il soggetto e l’oggetto contengono o definiscono il Piano di immanenza.

C’è qualcosa di selvaggio e di possente in un simile empirismo trascendentale. Non è certo l’elemento della sensazione (empirismo semplice), poiché la sensazione è solo un taglio nella corrente di coscienza assoluta. […] Il trascendente non è il trascendentale. In mancanza di coscienza, il campo trascendentale si caratterizza come un puro piano di immanenza, in quanto si sottrae a ogni trascendenza, tanto a quella del soggetto che a quella dell’oggetto. […] Diciamo che la pura immanenza è UNA VITA, e nient’altro.[38]

L’empirismo trascendentale è la filosofia dell’esperienza pura: non il soggetto che intenziona l’oggetto, ma un campo trascendentale che è fluire di una coscienza priva di soggetto, impersonale e irriflessa.

1.4. Tarizzo e il caosmo deleuziano

Credo sia molto interessante integrare questa veloce rassegna con la visuale di Davide Tarizzo che, nel curare la traduzione italiana di Le pli, stimola una particolare lettura del pensiero di Deleuze. Tarizzo rileva il punto di svolta che segna, nel percorso speculativo di Deleuze, il passaggio da una metafisica ispirata a Bergson – “metafisica dell’Uno” – al “pensiero del Fuori” (che guarda a Foucault) e al successivo sviluppo, in chiave metafisica, di suggestioni indotte dai suoi interessi scientifici.

Alle tradizionali ipotesi, riferite a una visione deterministica del mondo, sul margine di libertà dell’uomo, Deleuze replica negando qualsiasi necessità divina o naturale, e propone, sulla scorta del concetto bergsoniano di élan vital, la concezione del tempo come “filo” che dà unità al mondo, ma anche come impulso alla costante evoluzione dell’universo. L’evento, allora, in quanto movimento «di (auto)creazione del tempo»[39], esprime l’univocità ontologica di Essere e Linguaggio. L’essere, infatti, dice Deleuze in Logica del senso, «è l’unico evento in cui tutti gli eventi comunicano […] [e] si dice in un solo e medesimo “senso” di tutto ciò di cui esso si dice»[40].

Ma l’immagine – che, muta, non può esser detta – produce uno iato, un “interstizio” tra vedibile e dicibile: in La piega, e più tardi in Che cos’è la filosofia?, Deleuze riscontra che l’immagine è fuori del linguaggio, che dunque qualcosa sfugge sempre al linguaggio, e perciò l’Essere e il Linguaggio «non sono più l’Uno»[41]. Dalla filosofia dell’Uno, conseguentemente, egli si incammina verso una filosofia del Fuori.

L’immagine, proprio perché è fuori dal linguaggio e quindi dal pensiero, fa risaltare il divario tra dicibile e visibile, e così muove il pensiero: infatti, «se linguaggio ed essere, visibile ed enunciabile fossero uguali, il movimento del pensiero non sarebbe creativo ma apparente, e il senso univoco dell’essere sarebbe immobile e fuori del tempo»[42]. A conferma dell’idea di tempo creatore, l’immagine attiva il pensiero, dice Deleuze, come tensione continua tra visibile ed enunciabile o, che è lo stesso, tra essere e linguaggio. Impensabile, fuori del pensiero, l’immagine è comunque dentro il pensiero come impossibilità di essere pensata, e allora connette il dentro e il fuori. Il dentro del pensiero «non [è] qualcosa di diverso dal fuori, ma proprio il dentro del fuori»[43], è il «pensiero del fuori»[44], un pensiero in cui però la forza del fuori esplode solo qualora ciascuno di noi si assuma la libertà di scegliere e decidere di pensare, si impegni cioè contro stupidità e dogmi. Il pensiero del fuori confluisce quindi in una filosofia della scelta, o anche “della piega”, visto che il pensiero del fuori è la «piega del fuori nel dentro»[45], scaturisce cioè dall’interiorizzarsi della forza del fuori che si ripiega su sé stessa nel dentro.

Ma “scelta” è un termine che non convince Deleuze: rievoca la “volontà” e, con essa, un soggetto che sceglie, che è soggetto (per Kant sostanziale e orientato, con l’anima immortale e l’imperativo categorico a guidarne il libero arbitrio) già prima della scelta. Per Deleuze, invece, il soggetto non pensa che dopo aver scelto di pensare, per cui è disorientato, «non pensa di scegliere, ma sceglie di pensare»[46] (cosicché il pensiero, in movimento costante, è nomade); e prima di scegliere, non solo il soggetto non pensa, ma per giunta non esiste, perché propriamente è l’accadere della scelta, «è l’evento stesso, assolutamente gratuito e infondato, della scelta»[47] (per questo Deleuze parla, non di soggetto, ma di soggettivazione), dunque è eventuale.

Ma siamo veramente liberi di scegliere? Il problema di Deleuze, sottolinea Tarizzo, è almeno salvare la nostra libertà, dopo che Leibniz ha provato invano, con la sua filosofia barocca, a prevenire il nichilismo e a mettere così al sicuro il Mondo. Pur distaccandosene, Deleuze rilancia Leibniz, a lui riferendo la riproposizione di un pensiero metafisico che, ormai incapace di salvare il Mondo, si impegni quanto meno a trovare conferme per la libertà dell’uomo. È in questa prospettiva che La piega fa da ponte tra la filosofia della scelta e la metafisica del “caos”, tra le riflessioni di Cinema 1-2 e gli sviluppi di Che cos’è la filosofia?. Lo spunto speculativo va colto nell’interesse che Deleuze dimostra per le scienze, ma in particolare per la nozione fisica di velocità.

Devo limitarmi, qui, a un rapido volo sulla precisa analisi di Tarizzo, per arrivare subito al punto: la velocità è, in fisica, una grandezza finita (si pensi, per esempio, alla velocità della luce), ma Deleuze la “deterritorializza”, la trapianta nell’ambito filosofico, e ipotizza una velocità bensì infinita che, Tarizzo avverte, non può che essere una grandezza metafisica. Deleuze trae il suo concetto di velocità infinita dagli studi sul caos di Poincaré («il nonno, per così dire, della moderna scienza del caos»[48]), a cui è indirizzato leggendo i lavori di Serres.

Quando ne La piega parla di “serie divergente”, Deleuze ricorre alla teoria matematica delle serie. Secondo tale teoria, a differenza della “serie convergente” che, usata per risolvere un’equazione differenziale, conduce a un risultato finale effettivo (finito), la serie divergente produce una sequenza di espressioni che, non portando a conclusione il calcolo, risulta infinita: se trattiamo sistemi dinamici “caotici”, ci misuriamo con serie divergenti. Consideriamo anche che, per lo studio dei sistemi dinamici (in generale), Poincaré ha concepito uno strumento matematico chiamato “piano di Poincaré”.

In La piega, allora, parlando di serie divergenti Deleuze parla del caos; è probabile, poi, che il “piano di riferimento”, definito da Deleuze in Che cos’è la filosofia?, si rifaccia concettualmente al piano di Poincaré.

La teoria del caos – sia che descriva un universo nel quale leggiamo come effetti casuali alcuni fenomeni solo perché, come afferma Poincaré, i nostri strumenti difettosi non riescono a misurare e spiegarne l’origine; sia che, come per Boutroux, assegni alle leggi scientifiche il merito di organizzare, a posteriori, l’universo come un insieme di fenomeni in realtà dovuti al caso –, presuppone sempre l’esistenza del Mondo, della Natura, del Cosmo, dell’Universo: Deleuze mette in discussione proprio tale presupposto, con l’ipotesi di una velocità infinita che immette metafisicamente all’assoluto disordine, all’idea di un caos assoluto, privo di qualsiasi regolarità, che si esprime in “curvature infinitamente variabili”.

«Le chaos n’existe pas, c’est une abstraction»[49], scrive Deleuze in Le pli, un’apparente contraddizione che trova però il suo senso se consideriamo che la totale assenza di regole è carattere peculiare del caos assoluto, e che allora non possiamo attribuire al caos neanche la regola dell’assenza di regole. Ergo, il caos è inesistente e astratto perché non è Uno, perché convive con l’ordine, con il cosmo: «il Mondo a questo punto scompare, si dilegua, e con esso l’Universo, la Natura, il Creato, il Cosmo […], […] noi dovremmo in realtà parlare sempre di un “caosmo”, ossia di un paesaggio metafisico in cui il caos convive con il cosmo, privandolo perennemente di ogni consistenza, sottraendogli unità e coesione interna»[50].

Il caos non è un Uno-Tutto, né è un Uno-Tutto la realtà. Il Mondo, l’Universo, la Natura, il Creato, il Cosmo, perdono la compattezza che li opponeva al Fuori («Il caos rende caotica e scioglie nell’infinito ogni consistenza»[51]): il caosmo in cui siamo immersi è la risultante di un caos la cui velocità infinita rallenta, spontaneamente producendo alcune “zone” di non-caos, zone di regolarità (le zone di “velocità rallentate” di cui si occupa la scienza, dice Deleuze[52]), un caos che «genera isole di regolarità»[53], che produce più cosmi e al contempo li risucchia in un mare di irregolarità infinita.

Deleuze osserva che il caos è l’impensabile, è il fuori assoluto del pensiero. Il caos è Il piano d’immanenza, sostiene in pratica Deleuze, è cioè l’elemento nel quale il pensiero è già sempre immerso. Il pensiero, in tal senso, è «immanente» al caos. Ma non si può pensare Il caos, non si può pensare Il piano d’immanenza, poiché il caos disfa ogni consistenza del pensiero.[54]

La filosofia, quindi, è il tentativo di ridare ordine, di consolidarsi riconducendo all’Uno ciò che come Uno non è pensabile, immersa nel caos di cui pure non deve perdere l’infinito. Essa deve mostrare che Il piano d’immanenza, non pensabile ma tuttavia da pensare, «è là, non pensato in ogni piano, […] come il fuori e il dentro del pensiero, il fuori non esterno o il dentro non interno»[55].

La ricerca scientifica procede in base all’ipotesi di un universo ordinato. La scienza, dunque, combatte il caos, si muove in nome di un postulato che nega il caos e che, in quanto non dimostrato, è «un postulato teologico: è il postulato dell’Uno»[56], metafisico al pari dell’ipotesi, perciò non meno valida, di un caos coabitante col caosmo. Deleuze ricusa antiplatonicamente, pertanto, l’idea di un mondo matematicamente regolato cui la scienza si conforma, e recupera, con la metafisica del caos, l’irregolare e l’incalcolabile che attiene alla realtà («il presente è un lancio di dadi […] è a un tempo il caso nel gioco, e il gioco stesso come caso; d’un tratto sono gettati i dadi e le regole»[57]).

Se il caos esiste e, impensabile, è assoluto Fuori del pensiero, vuol dire che il pensiero è sempre avviluppato nel caos, è al caos immanente, dal caos costantemente percorso e disgregato: «Il caos è Il piano di immanenza […] nel quale il pensiero è già sempre immerso»[58]. Il caos, però, che ci trapassa il pensiero a velocità infinita, è anche la nostra libertà. Nel cercare di salvaguardarci dal caos, il pensiero asseconda quei frammenti di anti-caos, di regolarità, dal caos stesso prodotti, e su essi si regola per riguadagnare un po’ d’ordine.

Chiediamo soltanto un po’ di ordine per proteggerci dal caos. Niente è più doloroso […] delle idee che si dileguano […]. Sono velocità infinite che si confondono con l’immobilità del nulla incolore e silenzioso che percorrono, senza natura né pensiero. […] Chiediamo soltanto che le nostre idee si concatenino seguendo un minimo di regole costanti […] che ci difendano e ci permettano di mettere un po’ di ordine nelle idee, […] che impediscano alla nostra «fantasia» (il delirio, la follia) di percorrere l’universo in un istante per generarvi dei cavalli alati e dei draghi di fuoco. Ma non ci sarebbe ordine nelle idee se non ce ne fosse anche nelle cose o nello stato di cose, come un anticaos obiettivo […]. Chiediamo tutto questo per poterci fare un’opinione, come una sorta di «ombrello» che ci protegga dal caos.[59]

Il pensiero, sempre in cammino, instabile e vibrante, è libero e nomade, proprio in virtù del caos, del «piano di immanenza, che è Dentro e Fuori del pensiero, che attraversa e libera il pensiero stesso»[60]. La libertà dell’uomo, tratta dall’instabilità del caosmo che muove il pensiero, ricondotta da Deleuze alla «continua “creazione” dei concetti»[61], sembra coincidere, alla fine, con quello che Tarizzo chiama «il tappeto volante della filosofia»[62], la libertà della creazione filosofica.

 

2. Rimpianto (e desiderio) d’immanenza

Ho raccontato al meraviglioso labrador di Marco quello che vorrei dire in questo articolo. Mi ha ascoltato attento, scodinzolando. Quando, alla fine, gli ho chiesto: “Che ne pensi?”, ha scodinzolato di più, e ha abbaiato un paio di volte. Traduco: “Portami al parco”.

I labrador non parlano. Le zecche, i lupi, le mucche e gli scimpanzé, neanche. E non sono interessati alla filosofia. Di più: nella loro animalità, la filosofia non ha spazi, e non ci sono parole.

Gli animali non hanno facoltà di linguaggio. Tutti, tranne uno: l’uomo.

Queste, le premesse da cui parte Felice Cimatti[63]. Più o meno.

Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedono cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.[64]

La questione è: l’uomo è l’animale che parla, è il solo animale che, in forza della facoltà di linguaggio, trascende la propria corporeità e la propria vita. A differenza della celebre zecca di Uexküll[65], che come qualsiasi altro animale vive in stretta simbiosi con il proprio ambiente, l’uomo è l’animale capace di staccarsi dall’ambiente naturale (addomesticandolo, in un certo senso), di frequentarne i “dintorni” – l’uomo, suggerisce Uexküll, si munisce di un “mondo”, organizza topicamente ed eticamente, per così dire, la sua vita e il suo habitat, tracciando limiti fisico-territoriali e fissando regole e norme –, e porsi a un livello trascendente dal quale è «in grado di vedere l’animalità degli altri animali, e quindi […] di prendere le distanze dalla propria stessa animalità»[66].

L’umanità si istituisce all’avvio della cosiddetta macchina antropogenica, operazione di sdoppiamento che porta l’uomo a scindersi dal proprio corpo, ad assumere un distacco, un punto di vista eccentrico, «uno sguardo trascendente»[67] da cui definire umano quel corpo stesso. Così, mentre una zecca è il proprio corpo, l’animale umano ha un corpo: essenzialmente, l’“io” è l’effetto di un primario distacco dalla corporeità, cui segue il prendere le distanze da tutti gli altri enti, nominandoli per dominarli.

Cimatti, in fondo, si interroga sulla natura umana, stimolato però dall’inclinazione etica all’immanenza, vale a dire dal riconoscimento di pari opportunità esistenziali per ogni forma e modo dell’essere, e quindi dalla constatazione critica del carattere antropocentrico di qualsiasi attività riflessiva. L’indagine sull’animalità è rivolta a focalizzarne l’implicazione nella costituzione dell’umano che, pur da essa evolvendo, ne smarrisce l’immediatezza necessitata (propria dell’animale) a vantaggio del rimando “metafisico” al linguaggio (esclusivo dell’uomo). Contestando le definizioni dell’animale tradizionalmente riferite alla mancanza di qualità umane (l’animale non ha linguaggio, non è razionale, e così via), Cimatti individua invece nell’uomo una (struggente, mi pare) lacuna esistenziale determinata dall’impossibilità di immanenza.

Ci separiamo dall’animalità in quanto immersi nel linguaggio. O meglio: siamo linguaggio, perché la nostra esistenza si compie in una dimensione simbolica, su un piano trascendente, e, in quanto parlanti, non aderiamo alla natura e alle cose.

L’«infinità discreta» – la stessa riconoscibile nella serie dei numeri naturali (1, 2, 3 …) –, che Chomsky[68] indica quale proprietà elementare del linguaggio, fa sì che solo la pazienza o la resistenza fisica possano porre limite al comporre frasi sempre più complesse o, che è lo stesso, al formulare qualsiasi concetto. Ma allora, necessariamente, tutto trova accoglienza nel linguaggio umano. Tutto.

Chiunque legga questo testo, darà per ovvio che parlo di ‘pazienza’ e ‘resistenza fisica’ dell’essere umano. È anche indubitabile che ‘tutto’ è antropico[69], e che perfino non sapere che cosa vuol dire ‘antropico’ lo è, o far finta di saperlo; e infischiarsene o dire “Eh?”; e giocare a tennis o fare filosofia… Ossia: qualunque cosa diciamo, scriviamo, pensiamo, è “dell’uomo”, “riguarda l’uomo”, in quanto quel dire, quello scrivere, quel pensare avviene nel (e grazie al) linguaggio.

Ancora: il labrador di Marco non ha idea di che cosa sia la parola ‘tutto’, di che cosa sia ‘parola’, di che cosa sia ‘cosa’. E gli è totalmente estraneo ‘tutto’, parole, cose, il senso di ‘non avere idea’, ogni qualsivoglia senso. A differenza di noi uomini, lui vive nell’immanenza. Anzi, no: lui è inconsapevole immanenza. La prima bizzarra conseguenza di questo è che, mentre all’animale mai verrebbe in mente di reclamare o desiderare la nostra trascendenza (faccenda inconcepibile, nella dimensione a-linguistica che gli è propria), a noi uomini può invece accadere di elucubrare su come sarebbe vivere nell’immanenza. C’è un che di paradossale in questo, e di beffardo: solo in virtù della trascendenza in cui il linguaggio ci getta (a cui il linguaggio ci promuove e ci condanna), possiamo pensare l’immanenza e rincorrerla, ma proprio la condizione di animale parlante – e dunque trascendente – ci impedisce definitivamente di farne esperienza.

Cimatti conduce la sua analisi sulla sponda de “L’immanenza: una vita…”, ultimo scritto di Deleuze in cui l’autore contrappone al pensiero dualistico di soggetto e oggetto il suo empirismo trascendentale, teso a cogliere l’esperienza pura di una coscienza impersonale e irriflessa, priva di soggetto, che aderisce al flusso degli eventi naturali, essendone parte. L’immanenza si delinea come piano trascendentale, come potenzialità che si addensa in una vita, in singolarità non soggettivate, in corpi-senza-organi non “affettati” (non tagliati e non artefatti) dal linguaggio.

Diciamo che la pura immanenza è UNA VITA, e nient’altro. Non è immanenza alla vita, ma l’immanente che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, è completa beatitudine. […] Il campo trascendentale è definito da un piano di immanenza, e il piano di immanenza da una vita.[70]

E solo nell’orizzonte dell’immanenza – niente organismi, strutture, scissioni – in cui siamo radicati (quanto ai nostri corpi, per lo meno), il deleuziano divenire-animale (divenire-corpo) può essere designato, intravisto oltre le faglie che l’“io” produce, oltre l’ostacolo del “noi”.

“La vespa e l’orchidea fanno rizoma”: in queste parole di Deleuze, l’esemplificazione del divenire-animale. Orchidea e vespa, attenuando i margini delle proprie singolarità, rinnovano la reciproca sintesi che fa funzionare la macchina riproduttiva:

l’orchidea mima la vespa per attrarla, questa rispondendo alla seduzione si immerge nel fiore per poi uscirne carica del polline che depositerà nell’apparato riproduttivo di qualche altra orchidea-mimo. […] L’orchidea si deterritorializza formando un’immagine, un calco di vespa; ma la vespa si riterritorializza su questa immagine. La vespa nondimeno si deterritorializza, diventando essa stessa un pezzo nell’apparato di riproduzione dell’orchidea; ma essa riterritorializza l’orchidea, trasportandone il polline. La vespa e l’orchidea fanno rizoma […]: per niente imitazione, ma cattura di codice, plusvalore di codice, aumento di valenza, vero divenire, divenire-vespa dell’orchidea, divenire-orchidea della vespa […].[71]

L’animale partecipa del flusso diveniente naturale, un flusso non frammentato, che il linguaggio non “incide”, che non ritaglia cioè in soggetti e oggetti. Una dimensione, l’animalità, priva di nomi, dove quindi il vivente smette di sussistere, ma non muore, perché l’animale non entra nel linguaggio e così non acquisisce la «soggettività individuata»[72] che, esclusiva umana, implica l’esperienza della morte.

È attraverso il linguaggio, cioè il dispositivo che permette la comparsa di “io” e della sua specifica temporalità, che l’esperienza della morte entra nella vita umana. […] La distinzione […] riguarda il fatto che il vivente che dice di sé “io” è presente a sé nel «mondo», e quindi alla morte non muore solo la corporeità che ha, ma anche la soggettività che è.[73]

L’immanenza assoluta, che è immanenza dell’immanenza, «è piena, […] non manca di nulla»[74], perché solo il parlessere (l’umano che, afferma Lacan, è sempre “a bagno” nel linguaggio) può concepire un’assenza, può cercare qualcosa e constatare che manca. Non distratto dal pensiero, immerso nella compiutezza del sensibile, invece, nulla può sfuggire al vivente senza parole: all’«animale povero di mondo» (espressione di Heidegger[75], che vede inoltre la pietra essere «priva di mondo» e l’uomo «formatore di mondo»), non plasmato dal linguaggio, non manca alcunché, tanto meno, insiste Cimatti, qualcosa che invece l’uomo possiede. Bisogna «rovesciare completamente la prospettiva: non è l’animale che è segnato dalla mancanza, è l’uomo che è segnato da una eccedenza, da un troppo. Non l’animale come un non (ancora) umano, bensì l’umano come un non (più, o non ancora) animale»[76].

Gli animali, proprio perché non governati dal linguaggio, proprio perché totalmente partecipi del flusso vitale della natura, vedono quella che per noi parlanti è una foresta come l’esteso avvicendarsi di tanti singoli alberi: essere l’animale linguistico non ci permette di vedere la «massa vorticante di minuscoli dettagli»[77] che una mucca, al contrario, percepisce. Mentre gli occhi della mucca vedono, rimarca infatti Temple Grandin, non c’è pensiero esplicito o implicito a interferire, a sminuire la potenza (inimmaginabile per l’animale linguistico) di quello sguardo. È per questo che, «decisamente, gli animali si comportano come se vedessero tutto: a una mucca non sfugge nulla»[78].

Cimatti raccoglie l’invito implicito nella proposta tematica di Agamben per la «filosofia che viene»[79]: pensare una vita che riconcili l’uomo con la propria animalità, che ricomponga la separazione da sé dell’animale parlante e trascendente. Il divenire-animale richiede, tuttavia, di progredire oltre il linguaggio e perciò oltre l’“io”, con un movimento – la cui suggestione Cimatti scova nell’indiano-cavallo del Desiderio di diventare un indiano di Kafka, o nella Louise aspirante-animale de Lo stallone di Lawrence – che punti a quello che Heidegger definisce lo «stordimento»[80], condizione dell’animale che non ha esperienza dell’«in quanto»[81], che in altre parole – a differenza dell’“io” che è tanto distante dal proprio corpo quanto la sua mano da quel che stringe – interpreta sempre gli oggetti come “ipotesi d’azione”: l’ape mai è interessata, al contrario dell’uomo, al «fiore in quanto fiore»[82], ma solo lo incontra quale reciproco partecipante del flusso riproduttivo che istintivamente le compete.

Scrupoloso e tenace, Cimatti indaga ambiti diversi, filosofici ma anche poetici, letterari e psicoanalitici, con ulteriori apprezzabili riferimenti a Freud, Vygotskij e Lurija, Derrida, Simondon. Lacan risalta, tra gli altri, nel rinforzare il pensiero deleuziano con il transito dalla visione linguistico-ontologica dell’inconscio, dal desiderio-mancanza connesso a Legge e Castrazione, alla concezione di un “inconscio Reale”, residuo della condizione neonatale pre-simbolica, che, privo solo della “mancanza”, è il “non-tutto” su cui si impianta l’inconscio rappresentativo, il “tutto dato” riservato al soggetto parlante. Il divenire-animale si inscrive, allora, nel piano d’immanenza, per definizione indicibile e impensabile quanto il Reale lacaniano, a cui appare coincidente.

Un inciso: le argomentazioni di Cimatti sul linguaggio umano riportano alla mente il «linguaggio-organo, […] ubicato per intero in interiore hominis»[83] cui Paolo Virno attribuisce, sulla scorta di Chomsky, il «carattere di dotazione biologica già sempre condivisa da ogni membro della specie»[84]. In un’indagine su L’idea di mondo, poi, Virno riflette su “L’uso della vita”, e osserva che l’uomo, nell’usare il proprio corpo, rivela il suo essere animale «maldestro, esposto all’errore e al colpo a vuoto. […] Maldestro, o neotenico (cioè cronicamente infantile), è il vivente distaccato da sé medesimo, che mai coincide del tutto con le sue opere e i suoi giorni: ma […] sono per l’appunto questo distacco e questa non-coincidenza a consentire l’uso della vita»[85]. Nel capitolo conclusivo dell’opera, Cimatti sembra voler porre rimedio a quella inabilità che Virno ravvisa in tutti gli esseri umani[86].

Ma torniamo a noi: l’«humanitas non mi lascia mai in pace, mai»[87], si rammarica Cimatti.

La questione dell’immanenza può cominciare a porsi solo laddove non è più il linguaggio a definire la natura di un corpo; essere l’animale che parla significa infatti lanciare l’esperienza oltre il momento che il corpo sta vivendo, significa usare un gesto espressivo – una parola, ad esempio – per indicare qualcosa che non è presente nel momento dell’enunciazione; la trascendenza entra nella vita dell’Homo sapiens con il linguaggio.[88]

Il lebbroso chiede calore al San Giuliano di Flaubert: “Non con le mani! No! Con tutto il corpo”[89].

Il paradosso del vivente che parla, nota Cimatti, è che, nello stesso momento in cui diventa “io”, del suo “io” perde la pienezza. La lingua appena acquisita, infatti, è priva di un modo per dire l’“io” che «è questo corpo qui, proprio ora, e soltanto qui e soltanto ora»[90]: tutti i corpi che dicono “io” sono altrettanti “io”. Lacerato dal linguaggio, che sempre disgiunge “io” e corpo, «l’uomo è una zecca che sa di essere una zecca e quindi smette di essere soltanto una zecca»[91], e tuttavia solo dopo esser passato per il linguaggio se ne può affrancare: soltanto così, l’animalità umana può intraprendere il tentativo di restituire pienezza al corpo. Un corpo è animalità che si coincide, è pienezza senza mancanza, non si chiede se è un “io”: «è ciò di cui è capace»[92] (“Cosa può un corpo?”[93], si chiede Deleuze), «è laddove il senso “cede”»[94], è dove il linguaggio molla la presa.

È vero […] che l’animale umano è cosi impastato di linguaggio che, in realtà, è un «parlêtre» [parlessere]. L’animale che parla – non come caratteristica aggiuntiva, ma come quella che lo rende l’animale che è, e non un gatto o una lucertola – l’animale che parla è completamente attraversato dal linguaggio.[95]

Un movimento, quello incoraggiato da Cimatti, che Lacan può accreditare: Freud, con un’analisi ermeneutica del sintomo, riconduceva il corpo al linguaggio, ma l’obiettivo lacaniano è, al contrario, tornare dal linguaggio al corpo, quindi dal simbolico al Reale. È accompagnare l’uomo verso la sua animalità, verso il “resto”, verso quel residuo inconscio di Reale che il linguaggio non può ridurre a significante. L’“analizzante” lacaniano viene assecondato nell’«attenersi strettamente a quel resto perché è lì la verità del corpo»[96], lì dove l’animalità umana si concentra, viene pertanto aiutato a convertire, come l’artista, il proprio sintomo in creatività (da sintomo a sinthome).

Sicché, il divenire-animale è divenire-artista: una «deflagrazione» che, liberati dalle «maglie del linguaggio e dell’individuazione»[97], ci introdurrebbe all’immanenza assoluta; un “riuso” del sintomo, direbbe Lacan, che si traduca in un divenire-corpo; l’originale esperienza di “incarnare se stessi”, creativamente impegnando le potenze del corpo per accedere al Reale, e così rinvenire «una ricchezza che nemmeno sospettiamo»[98]. Non un’operazione di ripristino dell’animale che è in noi – inutile, visto che siamo animali da sempre, e comunque impossibile, non potendo mai dismettere l’humanitas –, ma l’impresa (con le parole di Artaud) di «spezzare il linguaggio per raggiungere la vita»[99].

Attenzione, però: il divenire-animale non è un diventare-animale.

Il divenire può e deve essere qualificato come divenir-animale senza avere un termine che sarebbe l’animale divenuto. Il divenir-animale dell’uomo è reale, benché non sia reale l’animale che egli diviene; e, simultaneamente, il divenire-altro dell’animale è reale benché tale altro non lo sia.[100]

Divenire animale, corpo, erba, donna, artista, altro: al dualismo soggetto-oggetto, nell’empirismo deleuziano, si oppone l’apertura a una dimensione rizomatica («Ciò che è in questione, nel rizoma, è un rapporto […] completamente diverso dal rapporto arborescente»[101]), in cui la soggettività viene rimpiazzata da identità molteplici che si intersecano in reciproci divenire, da linee di fuga, deterritorializzazioni, molteplicità lineari che, nell’interagire, fanno «metamorfosi cambiando natura»[102].

E al capo estremo della progressione di «tutte le specie di “divenire”»[103], conclude Cimatti citando Deleuze, il ridursi «a una linea astratta, a un tratto, per trovare la propria zona di indiscernibilità»[104].

Alla fine, dunque, l’“impercettibilità”:

solamente una pura linea astratta. È perché non abbiamo più niente da nascondere che non possiamo più essere presi. Divenire impercettibile, aver disfatto l’amore per divenire capace di amare. Aver dissolto il proprio Io per essere finalmente solo, e incontrare il vero doppio all’altra estremità della linea. Passeggero clandestino di un viaggio immobile. Divenire come tutti, ma appunto è un divenire soltanto per chi sa di non essere nessuno, di non essere più nessuno.[105]

 


3. Momlo e Domlo

Che cosa vuol dire che Momlo e Domlo è, nel mio caso, la piega con cui si dice “sì”, con la quale si acconsente a farsi prendere dall’attualità ripetuta del reale, dal godimento in atto, dall’impatto della lalingua con il corpo?[106]

Ho ascoltato spesso e con grande interesse Alex Pagliardini in convegni sulla psicoanalisi e su Lacan: apprezzo molto il suo stile informale e ammiro l’impegno appassionato della sua riflessione. Cito quindi “Momlo e Domlo”, mi preme dire, con grande rispetto per la naturalezza con cui Pagliardini ci rende partecipi di un’informazione così personale. Detto questo, egli si muove con disinvoltura in un ambito specialistico che io esploro ancora pieno di incertezze, sebbene con impegno e forte attenzione. E tuttavia, voglio brevemente riflettere su alcune suggestioni che traggo da Il sintomo di Lacan, convinto di ricavarne un contributo significativo.

Lo stile di Pagliardini è originale: nell’assecondare il progressivo consolidarsi del ragionamento, procede con ripetizioni ricorsive che, tutt’altro che fastidiose, aiutano anche chi non abbia una competenza specifica (persino me, dunque) a seguire il costituirsi della complessa trama speculativa. Un lavoro ricco e importante che, integrato con interessanti tratti del proprio percorso da analizzante, prende slancio da tutto l’insegnamento di Lacan, e si dispiega nell’articolazione coerente e complessa delle evoluzioni del suo pensiero.

Il Seminario VII sembra far da fulcro a tutte le diramazioni dello studio, in quanto punto di svolta decisivo in cui Lacan porta all’estremo la torsione gradualmente applicata al registro del Reale… Ma prima, è bene esporre alcuni preliminari[107].

Parlavo all’inizio dei tre registri – Immaginario, Simbolico e Reale – le cui modalità di interazione producono secondo Lacan il nostro senso di realtà.

Prototipo dell’Immaginario è l’esperienza del bimbo che scopre il proprio riflesso nello specchio, cogliendo visivamente, per la prima volta, la coerenza organica del proprio corpo. L’Immaginario lacaniano trova origine, perciò, anziché in un esercizio interiore (di fantasia), nel fronteggiare un’immagine esterna e speculare di sé, che nello “stadio dello specchio” diventa matrice della nostra vita immaginaria, “Io ideale” con cui crederemo o cercheremo di identificarci.

L’alienazione fondamentale del soggetto consiste nel vedersi intrappolato nell’immagine narcisistico-speculare dell’altro e nel non poter coincidere con quell’immagine di sé che l’altro ideale gli riflette. Di qui l’idea dell’analisi come processo di disalienazione, […] attraverso la simbolizzazione progressiva delle identificazioni che imprigionano il soggetto in una identità alienata.[108]

Nel 1953, con Funzione e campo[109], Lacan passa, dal concepire l’alienazione come dinamica tra l’io e l’altro speculare (‘altro’ con minuscola, lettura narcisistica di un altro soggetto o del proprio riflesso), a misurare la veemenza del significante e ad affermare il primato del Simbolico.

L’infante («dal lat. infans-antis, “che non parla, che non sa o non può parlare”»[110]) piange, pressato da un desiderio che non sa dire; la mamma, senza esitare, traduce in un significante quel desiderio: “Ha fame”. Da quel momento, osserva Lacan, il bambino sa che il suo desiderio è quel significante, aderisce all’ordine del linguaggio, al registro del Simbolico (in quel momento, pur essendo già da sempre immerso in esso).

Il Simbolico è il piano sovraindividuale, alla cui funzione alienante Lacan annette la maiuscola di Altro.

Altro maiuscolo per indicarne la più totale irriducibilità all’altro inteso come simile, come immagine speculare, come altro io. L’Altro simbolico […] si depsicologizza, si disantropizza per arrivare a coincidere con le leggi stesse della cultura e del linguaggio […]. Di qui, […] un’alienazione che non definisce più il rapporto del soggetto con la sua immagine speculare ma quello con l’Altro come luogo dei significanti.[111]

Ma che cosa desidera veramente ogni bambino in lacrime, prima che la madre parli, prima del linguaggio? Il vero desiderio che, neonati, ci spingeva a piangere resta un mistero, lascia in noi una mancanza, la mancanza, un indecifrabile vuoto che Lacan, citando das Ding dall’Entwurf di Freud, chiama la Cosa, un niente che è fuori dal Simbolico e su cui si costituisce il Reale, registro che – suggerisce Ronchi – del Simbolico è «limite trascendentale e inoggettivabile»[112]. Concetto problematico, il Reale: è muto e irrappresentabile (inconciliabile con il Simbolico e con l’Immaginario), è luogo dell’irrazionale e del non-senso, è “scarto” del Simbolico. Non tutto è strutturabile dall’opera del linguaggio: c’è un’eccedenza, una rimanenza che non si lascia domare dall’Altro. Il Reale è l’ordine dello scabroso, è lo scandalo dell’insensato, è il “fuori senso” e il “fuori significato”.

Né immagine, né linguaggio, la Cosa è, dice Lacan nel Seminario VII, «ciò che del reale primordiale patisce del significante»[113]: il Simbolico, non potendo dire la mancanza primitiva, si rivolge alla Cosa come a un’assenza, e introduce così un “buco nel Reale”, scalfendolo. La Cosa, dunque, presenta una paradossale estimità: è insieme estranea al Simbolico e concepibile solo quale suo effetto. In altre parole, l’Altro (le leggi del linguaggio, la Legge) “cancella” la Cosa, fa della Cosa un indicibile «vuoto al centro del reale»[114], un oggetto da sempre perduto. La cancellazione della Cosa da parte del significante lascia un resto, un “residuo reale”, l’“oggetto a”, un vuoto (“causativo”) che accende il desiderio, una mancanza strutturale che spinge l’uomo alla ricerca nostalgica e ripetitiva – destinata all’impossibilità – di metonimici sostituti dell’irrecuperabile oggetto di soddisfacimento primordiale (piccoli-a, cosette: «sachen, cosucce, cianfrusaglie che, dette, diventano oggetti»[115]).

L’oggetto a – che non è la Cosa, ma un surrogato dell’oggetto perduto definitivamente cancellato dal significante – indica anche il vuoto lasciato dalla sottrazione di godimento che la primitiva perdita ha comportato, e a esso supplisce prospettandosi come un plus de jouir, un plusgodere. Il sintomo è quindi coazione a ripetere il personale modo di perseguire il godimento (jouissance) in cose che sono “altre” rispetto alla Cosa, in soddisfazioni a carattere sublimatorio che nostalgicamente ammettono l’oggetto a al rango della Cosa.

L’ultimo Freud concepisce la ripetizione come automatismo che, travalicando il principio di piacere, porta l’uomo verso un godimento masochistico determinato dalla pulsione di morte. Lacan corregge più volte la sua interpretazione dell’ipotesi freudiana, e in Funzione e campo, anziché all’azione pulsionale, arriva ad annetterla al registro del Simbolico. La compulsione ripetitiva, conseguenza delle leggi del significante, è un modo per il soggetto di scrivere la propria storia: il Simbolico – l’Altro che dà contezza della morte, che rimpiazza la Cosa, che si sovrappone al piano naturale del principio di piacere – coincide pertanto con il freudiano al di là del principio di piacere.

Ma con il Seminario VII, affermando il non-tutto del significante, Lacan oppone la Cosa all’Altro e ne rileva l’eccedenza rispetto al Simbolico. Tra l’al di là del principio di piacere e il Simbolico stabilisce allora una totale discontinuità, che fa coincidere l’ordine Simbolico con il principio di piacere e non più con il suo al di là: mentre la Legge simbolica è limite che modera il piacere, il godimento è inosservanza del limite, è trasgressione, è al di là del principio di piacere.

La Cosa è esterna all’ordine simbolico. Essa mostra che «non tutto è significante». La Cosa manifesta il reale del godimento come ciò che travalica il criterio utilitaristico-edonistico del piacere. Non c’è un’omologia tra l’al di là del principio di piacere e l’ordine significante, quanto piuttosto una discontinuità radicale.[116]

Se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, parla («vuole dire»[117]) ed è decifrabile. La pulsione è invece una spinta al godimento “acefala” («non è più concepibile in termini significanti»[118]), autistica («non tiene conto dell’Altro»[119]), e anzitutto afasica («è silenziosa, non vuol dire niente, ma vuole solo godere!»[120]).

Ora, una lunga citazione – apprezzata, sono sicuro –, senza omissis, di Di Ciaccia, perché mai saprei riepilogare con la stessa efficacia:

Seminario VII, L’etica della psicoanalisi: la pulsione non cede ai poteri della parola. Freud chiama das Ding, la Cosa, quell’osso duro refrattario a ogni diluente dell’ordine significante. È la prima volta che il godimento, dopo essere passato dall’immaginario e transitato nel simbolico, si rivela reale. Il godimento allora è impossibile a significantizzare, è inaccessibile ai poteri della parola. Das Ding, la Cosa, vuol dire che il godimento, il soddisfacimento pulsionale, non si incontra né nell’immaginario, né nel simbolico, vuol dire che è fuori da ciò che è simbolizzato, ed è questo che Lacan chiama “reale”. In questo contesto la madre, intesa come l’oggetto di godimento per eccellenza, viene a occupare il posto di das Ding. Non c’è quindi accesso al godimento se non tramite una forzatura, una trasgressione. Lacan si serve di Sade a questo scopo. Qui Lacan constata la profonda disgiunzione tra il significante e il godimento. Si vede che la libido freudiana scivola dallo statuto di desiderio allo statuto di das Ding, fuori significante e fuori significato.
Due notazioni: a questo punto diventa chiaro che il piacere (Lust) non è il godimento, anzi è una barriera contro il godimento. L’essere umano può avanzare senza farsi male nel piacere, ma si fa male se va nell’al di là del principio di piacere (Janseits des Lustprinzips) perché il godimento è eccesso, un-di-più che va oltre il limite del piacere e verso il dolore. Seconda notazione: ogni sintomo porta il marchio che Freud aveva scoperto sul volto de L’uomo dei topi: la persona soffre, ma è invasa da uno strano godimento ripetitivo di cui non può fare a meno.
Chiamiamo le cose per nome: la definizione del godimento è ormai il nome dell’amalgama di libido e pulsione di morte.[121]

Aggiungo un utile riferimento al “nodo borromeo”. In genere, è pressoché impossibile schematizzare Lacan, e penso che già solo i pochi richiami che ho portato all’attenzione ne diano conto. L’andamento del pensiero lacaniano, con le diramazioni di idee e concetti che, spesso, si ritorcono su se stessi, o inaspettatamente si combinano e riconnettono l’uno all’altro, si rivela rizomatico quanto la filosofia di Deleuze. Proprio per questo, d’altronde, costringerne i percorsi in uno schema significherebbe tradirlo. A tale dinamicità, sono riconducibili i tre anelli legati nel nodo borromeo, che si libererebbero tutti insieme nel tagliarne uno a caso: il nodo borromeo mostra la stessa correlazione che lega l’Immaginario, il Simbolico e il Reale. Questa immagine che Lacan propone nel seminario 1973-1974, Les non-dupes errent (Anelli di corda), avverte che i tre registri devono sempre essere considerati in relazione tra loro e in vicendevole determinazione.

La ciambella ben riuscita, che implica il buco, è un ausilio metaforico per intendere meglio: Lacan assimila il Reale al foro centrale, mentre accomuna la ciambella vera e propria (quella che si morde) al Simbolico. In termini matematici, la nostra ciambella equivale al toroide (o semplicemente toro), figura la cui evidente particolarità è avere il proprio centro nella parte vuota, cioè esterno a sé. Simbolico e Reale, pertanto, si determinano reciprocamente, così come ciambella e vuoto costituiscono, in reciproca determinazione geometrica, il toro. Vale la pena ricordare che anche l’essere umano, per Lacan, è contrassegnato da una basilare estimitàesterna intimità –, in quanto centrato su qualcosa che gli è esterno[122].

È importante sottolineare, per chiudere questa rapida sinossi, un interessante aspetto cui le ultime annotazioni alludono: l’annodarsi dei tre registri implica che la sussistenza di ognuno è necessariamente subordinata alla loro stessa correlazione. In particolare, per quel che ci interessa, è importante ribadire che c’è il Reale solo perché c’è il Simbolico!

Una nostalgia primitiva ci accompagna muta, e sempre ci muove. Attraversandoci ci taglia, e ancora ci ri-taglia. A volte la avvertiamo, ma solo per scoprirla indicibile quanto penosa. Eppure, è proprio la sua indicibilità a darle sostanza, è il non poterla dire che, après coup, la elegge a mancanza, a eccedenza del Simbolico, a vuoto essenziale del dire.

Eccola, la sensazione indicibile. Il mio stomaco si contrae, i miei sensi si confondono per poi farsi più acuti, il mio sangue scorre più fluido, il mio respiro è profondo. Qualcosa mi attraversa, ma come dirlo? È struggente, doloroso, leggero, schiacciante? È nostalgia, forse, o rimpianto, o semplicemente gioia? O paura? Un odore, e insieme un suono, e insieme un posto, e insieme dei volti. Tutto si mescola e diventa altro: un odoresuonopostovoltoaltro a riempirmi.[123]

Dell’intensa e brillante opera di Pagliardini, voglio approfondire un solo capitolo, “Sul non tutto”, dove l’autore segue il movimento che rovescia, nel corso dell’insegnamento di Lacan, il paradigma tutto-eccezione nel paradigma non-tutto – la “logica maschile” nella “logica femminile” (ma non entrerò nei dettagli di questo conseguente raffronto) –, limitandomi, comunque, a cogliere alcuni tra i punti focali della complessa argomentazione. Chiuderò poi con un’incursione lampo sulle pagine finali del libro.

Nel momento in cui l’essere umano viene avviluppato nella catena dei significanti, la morsa del significante produce l’eccedenza del soggetto e del godimento interdetto. Se però si considera che il significante si istituisce, come sistema, proprio nell’assoggettare il vivente – così producendo il soggetto e il godimento interdetto –, il funzionamento di tale sistema non può che implicare i suoi prodotti, che dunque risultano eccedenti eppure inerenti («l’inerenza dell’eccedenza»[124]) al sistema stesso. Semplificando (un po’):

  • entro nel linguaggio, divento soggetto e vengo contestualmente privato del godimento “primordiale”: ecco la fondazione del sistema significante;
  • introdotto nella spirale del Simbolico (sottomesso, cioè, alla legge del significante), comincio a rincorrere (invano) un godimento non integrabile nel significante (eccedente e indicibile in quanto interdetto dal significante stesso): ecco come soggetto diviso e godimento interdetto, effetti eccedenti del sistema significante, ne concausano il funzionamento, al sistema risultando inerenti.

La legge-logica del significante, pertanto, è coerente con il paradigma tutto-eccezione: il sistema del Simbolico (l’Altro) è un Tutto le cui eccedenze interne costituiscono l’eccezione che lo fa funzionare[125].

La logica maschile, che è la logica tutto-eccezione, trova un’esplicitazione nell’insegnamento di Lacan […]: a) tutti gli uomini sono effetto del significante, cioè sono castrati; b) esiste almeno un uomo che non è effetto del significante, cioè non è castrato. […] L’intreccio di (a) e (b) stabilisce la legge-logica del significante e del godimento a essa annesso.[126]

L’uomo (l’essere vivente che parla) è costituzionalmente effetto del e affetto dal linguaggio. L’irruzione dell’Altro fa trauma, innesca la mancanza e genera il soggetto diviso, assoggetta cioè il vivente all’azione della legge del significante, all’interdizione del godimento e a un godimento che sempre torna al posto assegnatogli da quella stessa Legge che lo produce come «godimento localizzato»[127] (di natura fallica).

Il paradigma tutto-eccezione, ossia la logica maschile, è funzione della legge del significante, e il godimento (fallico) «è dunque della Legge, un suo prodotto, una sua proprietà»[128].

Ma: c’è dell’Uno!

Intervistato da Cimatti, Pagliardini spiega che ha voluto tracciare la progressione di Lacan dal cogliere il Reale come “impossibile” del Simbolico, quindi a partire dal Simbolico, al tentativo di trattare il Reale “come tale”, il reale “in sé” [129].

C’è la legge del significante, c’è il registro del Simbolico, c’è l’Altro con cui, sempre, siamo implicati, ma c’è anche lalingua, pura materialità del significante, «significante senza legge […] [e] senza eccezione […], ammasso di elementi senza organizzazione, sciame senza alcun funzionamento»[130]. Questo significante “senza legge” e “senza eccezione” induce un riassetto nella ricerca lacaniana – che deduceva l’incidenza del significante dal suo funzionamento, ovverosia le cause dagli effetti, l’accadere dall’accaduto –, la cui nuova prospettiva isoli e colga l’accadere (in sé) dell’incidere del significante, il c’è del significante e non il suo che cos’è: è qui che Lacan passa dal tutto-eccezione al non-tutto. Il paradigma non-tutto implica peraltro la logica femminile, che rimanda al c’è (all’essere sempre in atto) della catena significante senza legge.

Questo significante è, proprio per queste caratteristiche, dell’ordine dell’Uno e non dell’ordine dell’Altro. Il significante perde la sua legge, […] è inteso a partire dal suo c’è, e in questa direzione perde la propria omologia con l’Altro e acquista omologia con il “c’è dell’Uno”.[131]

Il Simbolico è “non tutto”, e allora «c’è del Reale al di là del linguaggio […]. Non c’è che il linguaggio, e cioè il legame dell’Uno con l’Altro, tuttavia c’è del reale fuori dal simbolico, e cioè un Uno slegato dal suo rapporto con l’Altro, as-soluto»[132]. C’è dell’Uno “tutto solo” che, in quanto puro accadere della relazione tra l’Uno e l’Altro, la eccede: c’è del Reale (Uno senza l’Altro) che è il puro accadere del Simbolico (Uno con l’Altro), a esso eccedente. Reale e Simbolico non si escludono, ma si implicano senza mai arrivare a identificarsi (l’assoluto è l’evento della relazione, suggerisce Ronchi, e allora assoluto e relazione, Dio e mondo, si implicano e non si escludono[133]).

Annessa al nodo accadere-accaduto, la questione del godimento mostra due versanti: riferiamo il godimento fallico alla Legge, rispetto alla quale risulta irriducibile residuo, pur in essa avendo origine e rinforzo costante; connotiamo godimento Uno, invece, quello “in sé”, “autistico” e “fuori Legge”, quello del puro accadere, quello dell’Uno senza l’Altro.

Nel recensire Il sintomo di Lacan, Federico Leoni osserva come Pagliardini, nella transizione da un Reale in termini negativi (ciò che non ha immagine né nome, che è un sasso non digeribile per lo spirito) al Reale in sé, prospetti il correlato passaggio da una clinica che identifica il godimento con l’eccedenza del desiderio, con il suo resto («clinica del desiderio»[134]), a una «clinica lacaniana del godimento, o del Reale»[135], che amplia la propria indagine rivolgendosi a un godimento in sé, positivo, non negazione ma piega e coestensione del desiderio di cui è l’«esatto rovescio, come l’interno di un guanto è l’esatto rovescio dell’esterno»[136]. Il soggetto, pertanto, non è solo l’animale parlante e vincolato alla Legge, estromesso dall’immanenza in ragione di una sua spirituale astrattezza, ma è anche l’essere bucato e marchiato dal senza-rapporto, dal nulla-di-soggettivo, dal non-umanizzabile, dunque dal Reale, dal godimento.

La clinica “estesa” che Pagliardini, a parere di Leoni, desume dalla rilettura attenta di Lacan abbina, perciò, al sasso indigeribile, al Reale e al godimento residui del significante, il loro costante divenire, il loro accadere ininterrotto. Nel prendersi cura del soggetto maldestro, sopraffatto dal desiderio e sgraziatamente teso alla trascendenza, la clinica del godimento coglie altresì l’impotenza di quel soggetto a godere, il suo mancare l’accesso al piano dell’immanenza, l’impedirsene l’esperienza.

Come pensare il Reale secondo se stesso, quali parole e quali manovre adottare se quelle parole e manovre sono pur sempre parole e manovre umane troppo umane? […] Se […] ogni nostra parola e manovra è una parola del Reale, è una manovra del Reale. […] Ogni sintomo è un sintomo del Reale, […] è un commutatore della trascendenza in immanenza, un punto di flessione che mostra la trascendenza come piega dell’immanenza, la trascendenza come rovescio dell’immanenza e dunque nell’immanenza.[137]

Per questo essere su cui fa presa il c’è dell’Uno, il significante senza più legge – e che perciò, rimarca Pagliardini, non può essere semplicemente definito “soggetto” –, Lacan conia l’appellativo di parlessere, indicativo dell’essere vivente la cui soggettività e il cui godimento si combinano, per così dire, in «un corpo che gode, che si gode»[138].

“Quali parole adottare”, dunque? Se la pratica analitica deve condurre l’analizzante a “toccare il Reale”, segnala Pagliardini[139], l’analista lacaniano deve progressivamente ottenere che l’associazione libera del paziente si rovesci nel “rumore che fa”. La problematica disgiunzione tra linguaggio (come significante che rinvia a un altro significante) e Reale-godimento (godimento femminile, cioè godimento in sé, “godimento Uno” imperniato sul non-tutto, sull’aver a che fare con il non-funzionamento – che è l’essere in atto, il costante accadere – del significante) si ricompone in omologia – è questa la “grande invenzione” di Lacan – quando l’intervento analitico, perseguendo uno “svezzamento dal senso”, riesce a ridurre il linguaggio del paziente – pieno di senso, pieno di riferimenti, pieno di storia – al suo rovescio, al suo rumore, al brusio della lalingua.

L’analisi deve permettere – obbligare? – a ogni analizzante di trovare il modo – modo che non è che uno scarabocchio, un tic, ed è qui che il modale di Deleuze è prezioso, che il divenire donna, il divenire musica, il divenire impercettibile ecc… di Deleuze è fondamentale per intendere di che cosa si tratta in questo “modo” – per farsi prendere da questo godimento in sé, da questo godimento femminile.[140]

Anche Pagliardini chiama pertanto in causa Deleuze, filosofo del “farsi dell’Uno”, ossia del non-tutto. Cita Cosa può un corpo? per mostrare come, al pari di Lacan, Deleuze scorga e segnali un Uno non sottomesso all’Altro, un Uno che è puro accadere di quel che accade, “assoluto in atto” che è movimento e piega di sé. Ne L’anti-Edipo, d’altra parte, rintraccia l’omologia tra il Reale lacaniano e il “rovescio della struttura” che, nei termini deleuziani, connota il non-tutto e il c’è dell’Uno.

Eppure, nel cogliere questa comune tensione a garantire che l’esperienza dell’Uno – il maneggiare l’assoluto del godimento in sé – non sia per sempre sacrificata all’Altro, Pagliardini individua un rilevante divario tra Deleuze e Lacan. Il primo persegue lo smantellamento del significante per sbarazzarsene, per stroncare «la sua funzione dogmatica, paranoica, repressiva, imperialista»[141], e quindi il suo potere castrante: l’incidenza del significante ostacola il farsi dell’Uno, e allora il significante va rovesciato per debellarne l’implicita castrazione. Per l’altro (che recupera l’assunto freudiano per cui rinunciare a godere implica comunque un godimento in altra forma), del resto, incidenza del significante e farsi dell’Uno corrispondono, e quindi rovesciare il significante – che nondimeno va sbrindellato – equivale a toccare quel godimento incessante che coincide con l’impatto ripetuto dello stesso significante sul corpo («il godimento in atto non può essere castrato»[142]). Una divergenza significativa, osserva Pagliardini, che, ulteriormente studiata, potrebbe rivelarsi ancor più tagliente.

L’impegno analitico deve peraltro far sì che l’analizzante, incontrando il proprio mormorio (“lpt…mn…psr…”), tocchi il proprio Reale, e si lasci prendere dal godimento Uno, dal godimento in sé. Il linguaggio “ci rappresenta e ci picchia, ci fotografa, ci porta alla luce, e pure, contemporaneamente, ci graffia, ci dà una bastonata: spesso non avvertiamo il rumore della bastonata, ma in analisi bisogna che si avverta”. Uno degli strumenti della pratica lacaniana, forse il più efficace, è il “taglio della seduta”, un’interruzione improvvisa che l’analista può anche decretare con un “brrr”, cosciente e incurante di poter essere preso per folle (scherza, ma non troppo, Pagliardini), o con un “nnnì” che solleciti il rovesciamento in lalingua del linguaggio articolato.

Il lavoro d’analisi non serve a recuperare “oggetti smarriti”, in passato cancellati o dimenticati o trascurati, non è indagine su un trauma subìto e mai capito: è procedere – aggiustando il tiro in  cammino – verso l’ininterrotto percuotere della lalingua nel corpo, verso «l’essere costantemente in atto costante»[143] del godimento, per incontrarlo, per incontrare il “mai incontrato”. E così, l’analisi finisce quando si accetta, dismettendo la speranza, di abitare – «provvisoriamente, malamente, episodicamente»[144] – il reiterarsi dell’Uno.

Quel brusio che sempre circolava, come una saetta, nella mia vita, non aveva me come oggetto, non aveva una fonte, ma circolava là dove mi trovavo, nelle mura di casa, negli spazi fuori, nell’analisi. […] Solo nell’analisi mi è stato possibile […] incontrare propriamente la risonanza della lalingua nel corpo, […] si staccano due lettere, Momlo e Domlo […]. Qui avviene la separazione dal marchio, dal mio marchio, e l’assenso al godimento in atto […]. Momlo e Domlo sono i due “significanti” con i quali si decide quale piega, quale atmosfera, quale stile, quale tic, ha il mio “sì” al godimento. Si può dire che è qui che sta il mio sinthomo.  […] Che cosa vuol dire che Momlo e Domlo è,  nel mio caso, la piega con cui si dice “sì”, con la quale si acconsente a farsi prendere dall’attualità ripetuta del reale, dal godimento in atto, dall’impatto della lalingua con il corpo?
Non vuol dire niente, è così![145]

È indubbiamente così: non “vuol dire” niente, non “significa”.

 

4. Conclusione

Ronchi giunge a prospettare – traccia ancora tutta da svolgere – una filosofia che, redenta dall’eccezione umana, vada oltre il linguaggio. In un Novecento che – rifiutata la metafisica in quanto abbaglio e arroganza di un essere finito e mortale ingenuamente teso all’infinito – marchiava di impossibilità la filosofia, e faceva dell’uomo e dei suoi limiti la misura riflessiva, Deleuze “bestemmiava”: «era un filosofo classico, che con un’alzata di spalle si scrollava di dosso l’epidemico chiacchiericcio sulla fine della filosofia e sui nuovi inizi del pensiero. Ed era un filosofo classico senza essere ingenuo e/o dogmatico, […] ogni trascendenza (morale, religiosa, concettuale) era da lui stanata e braccata con un furore misto ad umorismo che non aveva eguali nei tanti suoi contemporanei dediti alla decostruzione»[146]. Il pensiero “realista e anti-tragico” di Deleuze – ostinatamente convinto della possibilità di pensare un reale svincolato dalla coscienza (ormai reputata limite umano invalicabile) – è pensiero del divenire, dice Ronchi, è ripetizione del gesto dei suoi maestri (Platone, Spinoza, Leibniz, Nietzsche, Bergson, Whitehead, l’ultimo Lacan) nel riflettere sulla natura e sulla vita come atti in atto, è certezza che la filosofia, sottratta alla misura umana, possa (ri)cominciare. In linea con l’impegno filosofico novecentesco a dismettere il soggetto di cartesiana memoria, Deleuze ne corregge radicalmente i lineamenti, lo designa a molteplicità impersonale con funzione di singolarizzazione, fino a escludere qualsiasi richiamo all’Io o alla persona, fino a cancellare ogni residuo nesso coscienziale (reduce della meritevole opera di Sartre e Merleau-Ponty) dall’immanenza equiparata a “una vita”.

Per esempio i neonati si somigliano tutti e non possiedono affatto individualità; ma hanno singolarità, un sorriso, un gesto, una smorfia, eventi che non sono caratteri soggettivi. I neonati sono attraversati da una vita immanente che è pura potenza, e anche beatitudine attraverso le sofferenze e le debolezze. Gli indefiniti di una vita perdono ogni indeterminazione nella misura in cui riempiono un piano di immanenza o – il che, a rigore, è la stessa cosa – costituiscono gli elementi di un campo trascendentale (la vita individuale al contrario resta inseparabile dalle determinazioni empiriche).[147]

La filosofia a venire, conclude Ronchi, filosofia dell’evento e dell’immanenza, dovrebbe mutuare l’empirismo trascendentale deleuziano e l’indirizzo lacaniano all’incontro con un Reale “puro” (sciolto dall’intreccio con l’Immaginario e il Simbolico), alla ricerca di un concepibile recupero dell’immanenza assoluta, di un possibile orientarsi al biologico, all’originario (non cronologico) da cui linguaggio e legge ci hanno strappato da sempre e che sempre ci sottraggono.

Cimatti adotta e approfondisce, dal canto suo, l’appello deleuziano al divenire animale, teorizzando la possibilità per l’uomo di liberare le energie della propria animalità sopita. Dicevamo: «mentre una zecca è il proprio corpo, l’animale umano ha un corpo: essenzialmente, l’“io” è l’effetto di un primario distacco dalla corporeità»[148] determinato dal dispositivo biologico che in via esclusiva contraddistingue gli umani, cioè dal linguaggio. Cimatti identifica la ricomposizione di tale distacco con la conquista dell’immanenza perduta (da sempre), con la tensione dell’umano a coincidere con il proprio corpo, a divenire corpo. L’uomo che vuole vivere l’interezza di “una vita” deve costruirsi la propria immanenza, e solo superando il linguaggio può uscire dalla trascendenza cui è vincolato.

Ma non c’è uscita dal linguaggio – né verso l’alto né verso il basso –, e allora non resta che uscire dal linguaggio attraverso il linguaggio: solo il divenire corpo del linguaggio può condurre ogni singolo umano a divenire corpo. All’uomo, che nasce ed è nel linguaggio (quindi nella trascendenza), che solo attraverso il linguaggio potrebbe uscire dal linguaggio (e dalla trascendenza), la psicoanalisi lacaniana sembra offrire un sentiero e uno sbocco. La filosofia può allora individuare nella psicoanalisi i riferimenti paradigmatici per un confronto efficace con il pensiero dell’immanenza.

Quanto a Pagliardini, rilegge l’ultimo Lacan e ne ricava indicazioni per un progresso della pratica analitica che, rispecchiando i riferimenti spinoziani su cui Deleuze costruisce la sua filosofia dell’Uno come assoluto costantemente in atto, svincoli dalle catene del Simbolico l’analizzante, perché possa confrontarsi faccia a faccia con il Reale e imparare a maneggiare il “fuori senso”, a trasformare – creativamente – il proprio sintomo in sinthomo.

I tre studiosi sono accomunati dall’assentire all’impianto filosofico di Deleuze, ognuno cogliendone le direttive più proficue al proprio percorso speculativo, tutti adottando lo stesso presupposto concettuale, prendendo cioè a spunto quello che Deleuze descrive come “il piano di immanenza”.

Senonché, a ben vedere, Deleuze non sembra mostrare un interesse particolare nei confronti del linguaggio, o quanto meno non ne approfondisce le specifiche implicazioni, anche se incontriamo, nella prima fase della sua riflessione, trattazioni riconducibili con evidenza alle correnti teorie filosofiche sull’argomento (lo strutturalismo, innanzitutto). Le letture di Ronchi, Cimatti e Pagliardini mettono a frutto, d’altronde, tali indiretti riferimenti, efficacemente consolidandoli a supporto delle rispettive indagini che, probabilmente rafforzate da uno scambio e un confronto intellettuali decisamente apprezzabili, si rivelano, alla fine, tra loro complementari.

A me piace credere che l’apparente distacco sia per Deleuze l’espressione di una scelta: parlare del linguaggio è poco redditizio, perché è come soffermarsi sul fatto di avere un fegato. Il cane scodinzola, l’aquila vola, il cefalo ha le branchie; e l’uomo parla.

È altresì vero che l’essere dotati della facoltà di linguaggio comporta conseguenze esistenziali non da poco: possiamo dire “Io”, e questo ci colloca immediatamente su un altro piano rispetto alle “cose” (rispetto a qualunque essente sia “fuori” da Io), ci rende, rispetto alle cose, trascendenti. Ci mette nella condizione di guardare all’universo, al flusso indistinto, ininterrotto e onnipresente del Tutto, e di “farlo a pezzi”, di ridurlo a formazioni e strutture interconnesse in una qualche organizzazione umanamente determinata. Ci mette nella posizione di guardare a noi stessi, analogamente, e “farci a pezzi”…

Pratichiamo questa parcellizzazione costante, sistematica, generalizzata, ridondante e ricorsiva, rispondendo a una logica (o almeno tentiamo) che, in qualche modo, è estensione del linguaggio, è una sua forma, una sua implicazione. Implicazione senza la quale non faremmo filosofia, va detto.

Annoto inoltre che per Deleuze e Guattari il «piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile, ma l’immagine del pensiero, l’immagine che esso si dà di cosa significhi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero»[149]. Pertanto, non si può ridurre l’immanenza a concetto, pensandola polo opposto della trascendenza: l’immanenza è invero un processo, è una vita.

Si può sempre sostenere che un trascendente è esterno al piano di immanenza, oppure se lo attribuisce; resta però il fatto che ogni trascendenza si costituisce unicamente nella corrente di coscienza immanente propria a questo piano. La trascendenza è sempre un prodotto di immanenza.[150]

Una constatazione dello stesso Cimatti ci ricorda che solo in virtù dell’umana trascendenza implicita nella facoltà di linguaggio possiamo pensare l’immanenza e proiettarci in essa. Ma allora, capovolgendo la citazione di Deleuze, dovremo ammettere che, se qualsiasi ricerca sull’immanenza non può avvenire altro che nel linguaggio, una filosofia dell’immanenza sarà sempre e comunque effetto della trascendenza che ci caratterizza.

Addirittura, il “fuori senso” e “fuori del Simbolico” incontrato e “toccato” dall’analizzante Alex, nell’istante stesso in cui – generoso – Pagliardini ne scrive, viene immediatamente risucchiato, se ci si pensa, nel piano trascendente che il lavoro dell’autore proietta: il Momlo e Domlo, che era un privato contrassegno – del Reale e dunque – di immanenza è, ora e ormai, un duraturo e significativo prodotto della trascendenza.

In occasione di un convegno sul suo testo, Cimatti risponde a un commento di Fabio Polidori: «la prospettiva di FdA [Filosofia dell’animalità] non è etica, bensì estetica. […] Il capitolo finale di FdA propone […] una serie di figure esemplari che, pur rimanendo umane […], si collocano oltre la soggettività: la vita estetica, in particolare, è proprio quella vita che non ha più necessità di dire “io”, e sta al mondo come la lucertola di cui parla (con invidia) Heidegger: sta al mondo, senza richieste né domande. Vive»[151]. Quest’affermazione è stimolante: per semplice assonanza, mi fa venire in mente l’estetica trascendentale kantiana, e poi le forme a priori (o funzioni trascendentali). Sarebbe interessante (sicuramente qualcuno ci ha già pensato) riflettere sulle eventuali relazioni tra forme a priori e facoltà di linguaggio… Ma non ora.

Seguo comunque il testo di Cimatti con attenzione, attratto dal continuo protendersi verso il non-luogo di una vita affrancata dalla trascendenza, svincolata dal linguaggio che sempre ritaglia un Io, che sempre comporta un soggetto distaccato dal resto. Ne avverto il fascino, cedo all’invito e accolgo l’istanza, ne radicalizzo i requisiti, la porto all’estremo, e provo mentalmente ad assecondarla. Ma il problema del rapporto tra vita e linguaggio è che qualunque idea io esprima o persegua o realizzi ha una propria consistenza solo nel linguaggio, è formulabile solo grazie al linguaggio: solo in quanto linguaggio, esiste. E allora, come approfittare della pienezza di «una esistenza che rimane incollata alle cose, non impacciata dalla trascendenza che allontana e distrae»[152]? Come goderne io se, irriducibile a un’animalità a-linguistica, definitivamente impossibilitato a dismettere linguaggio e perciò trascendenza, nel rincorrere tale pienezza, ineluttabilmente, ne parlo, magari solo tra me e me, tra il mio sé e il mio sé? O piuttosto, riuscendo non so come a tacerne persino con me stesso, a quella pienezza mi volgo, verso essa mi proietto, ne immagino, muto, l’accesso, se proiezione e immaginazione in me, in quanto uomo, sono pensiero e perciò dal linguaggio fatalmente improntate? E ancora: è ovvio che la questione immanenza-trascendenza possa essere convertita (soprattutto chiamando a supporto Lacan) nel tema del linguaggio come “trascendenza-prigione” per l’uomo. Ma attribuire a Deleuze un’aspirazione a che l’uomo e la filosofia “superino” tout court il linguaggio – come parimenti Ronchi teorizza – per accedere a “una vita” di pura immanenza, a un “divenire animale” (fatte salve tutte le clausole che Cimatti prescrive), alla fine mi suona francamente un po’ intemperante. Tutto sommato, rispetto e condivido buona parte di quello che leggo come legittimo e intrigante sviluppo “personale” delle suggestioni deleuziane. Mi sembra, perfino, che una contaminazione, non troppo risolta, tra linguaggio (trascendenza) e immanenza sia fedele agli scenari filosofici deleuziani, in cui proliferano concetti che la costante e dinamica negoziazione tra ordine e disordine riportano alla realtà vissuta e quotidiana. Il richiamo deleuziano all’immanenza mi pare perciò proiettato in un campo che dell’umanità comprenda tutti gli aspetti, ivi inclusi quelli derivanti dall’essere animali parlanti: direi, insomma, forse grossolanamente, che si possa trattare di immanenza “dentro”, e non “oltre”, il linguaggio; che dopotutto l’immanenza consista in una “piega” del linguaggio.

L’uomo può “divenire animale” (“divenire corpo”), suggerisce Cimatti richiamando la psicoanalisi di Lacan, solo attraverso il linguaggio, solo se “il linguaggio diviene corpo”. L’espressione – non so se volutamente – riecheggia Giovanni («In principio era il Verbo» [Gv 1,1], e poi «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» [Gv 1,14, corsivo mio]), e a me non può non ricordare Paolo Virno. In questo confronto tra linguaggio e corpo rilevo, in definitiva, una separazione un po’ troppo dilatata: se, come credo, «la facoltà di linguaggio è una dotazione biologica innata»[153] della specie Homo sapiens, il linguaggio, in tal senso, è infatti già corpo. Virno, guarda caso, lo dice meglio di me: «l’alterna rivendicazione di una carne taciturna o di un verbo disincarnato dà a vedere con disarmante schiettezza una difficoltà assai diffusa, contro cui urtano anche i progetti filosofici più sofisticati degli ultimi decenni: la difficoltà a intendere le enunciazioni verbali come una attività pienamente naturale, anzi corporea»[154].

Tra l’altro, a supporto di un suo commento alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Virno chiama in causa il teologo Bonhoeffer, che nella sua Etica[155] propone la dialettica tra cose “ultime” e “penultime”[156]. La realtà “ultima” è Dio, naturalmente, mentre sono “penultime” le mere questioni umane. Mi sembra significativamente riferibile al nostro tema la considerazione che la condizione di penultimo sia decretabile esclusivamente come giudizio che la realtà ultima può emettere. Traslando, direi che tale tesi riproduce un asserto che tutti abbiamo condiviso: solo chi sia in una condizione trascendente può prospettare l’immanenza.

Finisco con quello che mi sembra un buon distillato:

“La filosofia è per natura paradossale, [essa] vive così in una crisi permanente”. […] Ma è proprio il paradosso ad aprire il pensiero alla possibilità dell’impossibile, e a consentirgli di aprirsi sul Fuori […]. È proprio attraverso il paradosso, che esplode all’interno del pensiero, e attraversa pure il pensiero di Deleuze, che la filosofia si mantiene nell’immanenza. […] Per più aspetti le tesi dell’ultimo Deleuze ricordano quelle del primo Wittgenstein. In entrambi i casi non vi è più un soggetto psicologico, ma un soggetto metafisico, che rinasce dalle ceneri del primo. […] “[…] L’io filosofico non è né 1’essere umano, né il corpo umano, né l’anima umana di cui si occupa la psicologia, ma è il soggetto metafisico, che è frontiera – e non parte – del mondo.[157]

Il brano è di Davide Tarizzo; penso che il saggio da cui è tratto aprirebbe ampi spazi per un’ulteriore riflessione su Deleuze, in altri modi interessante.

 



Note

[1]     Fabio Treppiedi, “Deleuze. Interpretare e tradire”, in Gilles Deleuze, Da Cristo alla borghesia e altri scritti, a c. di Giuseppe Bianco e Fabio Treppiedi, Mimesis, Milano 2010, p. 202.

[2]     Le citazioni e i riferimenti che seguono sono tratti da Gilles Deleuze, Le point de vue (Le Pli, Leibniz et le Baroque), 1986, video: https://www.youtube.com/watch?v=2ZrA_7ewQGs.

[3]     Gilles Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Les Éditions de Minuit, Paris 1981; tr.it. Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 164.

[4]     Ronchi, Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 2015, p. 17.

[5]     Ivi, p. 19.

[6]     Tenendo conto, a ogni modo, che per Deleuze il simulacro, proprio in quanto estraneo all’identità, proprio in quanto portatore estremo di differenza, è realtà massima.

[7]     Perciò il 68, dice Deleuze ne L’anti-Edipo in riferimento ai registri lacaniani, non pertiene al simbolico né all’immaginario, non è riducibile, cioè, né a trasgressione (negazione) della Legge, né a regressione al Caos: «è stato una “intrusione” del reale puro […], al pari dell’inconscio che non conosce negazione, il 68 è stato pura affermazione. La sua indiscutibile ribellione è stata un atto di fede nel reale» (Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 28).

[8]     Gilles Deleuze, Logique du sens, Les Éditions de Minuit, Paris 1969; tr.it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2009, p. 33.

[9]     Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 59.

[10]    Ibidem.

[11]    Ivi, p. 61.

[12]    Ivi, p. 71.

[13]    Ivi, p. 72.

[14]    Ivi, p. 73.

[15]    Gilles Deleuze, “A quoi-reconnait on le structuralisme?”, in F. Châtelet, Histoire de la philosophie, Vol. VIII, Le XXeme siecle, Hachette, Paris 1972; tr.it. Lo strutturalismo, SE, Milano 2001, pp. 45-46.

[16]    L’espressione è mutuata da Barthes (Roland Barthes, Le Degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953; tr.it. Giuseppe Bartolucci, Il grado zero della scrittura, Lerici, Milano 1960).

[17]    Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 74.

[18]    Deleuze, Logica del senso, cit., p. 43.

[19]    Ivi, p. 75.

[20]    Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 77.

[21]    Cfr. Aristotele, Metafisica, libro I (A), 5, 985b-986a; tr.it. G. Reale, Rusconi, Milano, 1978, p. 90 (πέρας/ἄπειρον: limite/illimite, limitato/illimitato, definito/indefinito, finito/infinito).

[22]    Deleuze, Logica del senso, cit., p. 149.

[23]    Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 89.

[24]    Ivi, pp. 88-89.

[25]    Ivi, p. 88.

[26]    Ivi, p. 89.

[27]    Giuliano Antonello, Prospettiva Deleuze, Ombre Corte, Verona 2011, p. 24.

[28]    Gilles Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr.it. Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p.97.

[29]    Michel Foucault, “Theatrum philosophicum”, in “aut aut”, 277-278, 1997, p. 68; «Il termine rivenire evita sia Divenire che Ritorno» (ivi, p. 72).

[30]    Ronchi, Gilles Deleuze, cit., pp. 126-127.

[31]    Ivi, pp. 115-120.

[32]    Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, K éditeur, Paris 1948; tr.it. Per farla finita col giudizio di dio, Stampa Alternativa, Viterbo 2001, p. 103.

[33]    Gilles Deleuze, L’Anti-Œdipe – Capitalisme et schizophrénie, en collaboration avec Félix Guattari, Les Éditions de Minuit, Paris 1972; tr.it. L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, p. 21.

[34]    Jean-Paul Sartre, “Qu’est-ce que la littérature?”, dans le revue Les Temps modernes, Paris 1947; tr.it. “Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità”, in Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 279-280.

[35]    Gilles Deleuze, Cinema 1. L’image-mouvement, Les Éditions de Minuit, Paris 1983; tr.it. Cinema I, Ubulibri, Roma 1993, p. 77.

[36]    Ibidem.

[37]    Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 114.

[38]    Gilles Deleuze, “L’immanence: une vie…”, “Philosophie”, 47, 1995, pp. 3-7; tr.it. Fabio Polidori, “L’immanenza: una vita…”, “aut aut”, 271-272, 1996, pp. 4-7. Anche in Gilles Deleuze, Deux regime de fous. Textes et entretiens 1975-1995, Les Éditions de Minuit, Paris 2003; tr.it. Deborah Borca, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995 (a c. di Pier Aldo Rovatti), Einaudi, Torino 2010, pp. 320-324.

[39]    Davide Tarizzo, “La metafisica del caos”, in Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2004, p. IX.

[40]    Deleuze, Logica del senso, cit., p. 160.

[41]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. X.

[42]    Ivi, p. XI.

[43]    Gilles Deleuze, Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986; tr.it. Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 98.

[44]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XI.

[45]    Davide Tarizzo, Il pensiero libero, Cortina, Milano 2003, p. 36.

[46]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XIII.

[47]    Ibidem.

[48]    Ivi, p. XVI.

[49]    Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le baroque, De Minuit, Parigi 1998, pp. 103-104.

[50]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., pp. XXVI-XXVII.

[51]    Gilles Deleuze, Felix Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991; tr.it. Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. 33.

[52]    Cfr. Deleuze, Logica del senso, cit., pp.113ss.

[53]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XXVI.

[54]    Ivi, p. XXV.

[55]    Deleuze, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 49.

[56]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XXXI.

[57]    Foucault, “Theatrum philosophicum”, cit., p. 73.

[58]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XXV.

[59]    Deleuze, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 211-212.

[60]    Tarizzo, “La metafisica del caos”, cit., p. XL.

[61]    Ibidem.

[62]    Tarizzo, Il pensiero libero, cit., p. 25. Sul “tappeto volante della filosofia” – mi piace ricordare –, l’autore invita a porre, con riferimento alla filosofia francese post-strutturalista, «alcune domande che attendono ancora una risposta e che per il solo fatto di esistere già ci rendono più liberi: liberi tutti di rispondere come preferiamo»[Ibidem].

[63]    Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Bari 2013.

[64]    F.W. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1882; tr.it. La gaia scienza, Adelphi, Milano 2007, p. 165.

[65]    Jakob Von Uexküll, Georg Kriszat, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten (Sammlung: Verständliche Wissenschaft, Bd. 21.), Julius Springer, Berlin 1934; tr.it. Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, a c. di Marco Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010.

[66]    Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 15.

[67]    Ivi, p. 25.

[68]    Noam Chomsky, Language and Problems of Knowledge: The Managua Lectures, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1987; tr.it. Linguaggio e problemi della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1998, p. 148.

[69]    «antròpico agg. [dal gr. ἀνϑρωπικός, der. di ἄνϑρωπος “uomo”] (pl. m. –ci). – Dell’uomo, che riguarda l’uomo […]» (http://www.treccani.it/vocabolario/antropico/).

[70]    Deleuze, “L’immanenza: una vita…”, cit., pp. 321-322.

[71]    Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris 1980; tr.it. Giorgio Passerone, Mille Piani. Capitalismo e Schizofrenia, Cooper Castelvecchi, Roma 2013, pp. 13 e 43.

[72]    Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 88.

[73]    Ivi, p. 87.

[74]    Ivi, pp. 155-156.

[75]    Cfr. Martin Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik: Welt, Edlichkeit, Einsamkeit, Freiburger Vorlesung Wintersemester 1929/30, Frankfurt a.M. 1983; tr.it. Concetti fondamentali della metafisica, Il Melangolo, Genova 1999, infra.

[76]    Ivi, p. 125.

[77]    Temple Grandin, Catherine Johnson, Animals in traslation. Using the Mysteries of Autism to Decode Animal Behavior, Scribner, New York 2005; tr.it. La macchina degli abbracci, Adelphi, Milano 2007, p. 88.

[78]    Ivi, p. 69.

[79]    Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2010, p.385.

[80]    Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 317.

[81]    Ibidem.

[82]    Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 35.

[83]    Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne, Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 21-22.

[84]    Ibidem.

[85]    Paolo Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata 2015, p. 162.

[86]    Già Plessner (che probabilmente Virno rammemora), nel 1928, rilevava che, rispetto all’animale che semplicemente esiste senza riflettere su sé e sul contesto in cui vive, l’uomo ha smarrito l’immediatezza naturale e, per superare le insufficienze impostegli dalla natura, deve trasformare l’ambiente naturale in mondo artificiale, permanendo in una condizione esistenziale di instabilità e disagio: «l’uomo è un animale carente» (Cfr. Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, Bonn 1928; tr.it. I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Bollati Boringhieri, Torino 2006).

[87]    Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 56.

[88]    Ivi, p. 155.

[89]    Cfr. Ivi, pp. 170-171.

[90]    Ivi, p. 172.

[91]    Ivi, p. 16.

[92]    Ivi, p. 181.

[93]    Cfr. Gilles Deleuze, Les cours de Gilles Deleuze: sur Spinoza, 1978 (https://www.webdeleuze.com/groupes/2); tr.it. Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2010, p. 81.

[94]    Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 173.

[95]    Ivi, p. 183.

[96]    Ivi, p. 188.

[97]    Ivi, p. 182.

[98]    Ivi, p. 159.

[99]    Ivi, pp. 157-158.

[100]  Deleuze, Guattari, Mille Piani, cit., p. 341.

[101]  Ivi, p. 57.

[102]  Ibidem.

[103]  Ibidem.

[104]  Ivi, p. 392.

[105]  Ivi, p. 287.

[106]  Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad, Giulianova (Te) 2016, pp. 364-365.

[107]  Per la sintesi che segue, devo molto a due testi che consiglio a chiunque voglia avere le idee più chiare su Lacan: Jacques Lacan di Di Ciaccia e Recalcati e Lacan, oggi di Benvenuto e Lucci. Entrambi sono esplicitamente citati nelle note successive.

[108]  Antonio Di Ciaccia, Massimo Recalcati, Jacques Lacan, Mondadori, Milano 2000, p. 38.

[109]  Jacques Lacan, “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, in Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, I, pp. 230-316.

[110]  http://www.treccani.it/vocabolario/infante1/.

[111]  Di Ciaccia, Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 39.

[112]  Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 72.

[113]  Jacques Lacan, Le seminaire. Livre 7. L’ethique de la psychanalyse (1959-1960), Le Seuil, Paris 1986; tr.it. Il seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008, pp. 71-72.

[114]  Ivi, p. 192.

[115]  Johanna Vennemann, Cose trovate leggendo Freud: Das Ding – Die Sache, http://www.lacanlab.it/cose-trovate-leggendo-freud-das-ding-die-sache-di-johanna-vennemann/

[116]  Di Ciaccia, Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 200.

[117]  Ivi, p. 201.

[118]  Ibidem.

[119]  Ibidem.

[120]  Ibidem.

[121]  Antonio Di Ciaccia, Il Godimento in Lacan, “La Psicoanalisi” on-line (Rubrica di Antonio Di Ciaccia), Astrolabio, Bologna 18 maggio 2013, http://www.lapsicoanalisi.it/psicoanalisi/index.php/per-voi/rubrica-di-antonio-di-ciaccia/132-il-godimento-in-lacan.html

[122]  Cfr. Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan, Mimesis, Milano 2014, pp. 114-115.

[123]  Il brano è tratto – confesso – da un mio vecchio esercizio letterario (Pasquale Amato, Mentre io, Di Renzo, Roma 2000, p. 12): solo oggi – après coup, neanche a dirlo – mi appare consistente.

[124]  Pagliardini, Il sintomo di Lacan, cit., p. 295.

[125]  L’argomentazione lacaniana relativa al Tutto come sistema trova riferimenti logici nei teoremi di Gödel. Per una più ampia comprensione della visione lacaniana del rapporto vita-linguaggio, comunque, è prezioso Alex Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad, Giulianova (Te) 2011, p. 163.

[126]  Pagliardini, Il sintomo di Lacan, cit., p. 296.

[127]  Ibidem.

[128]  Ivi, p. 297.

[129]  Cfr. Felice Cimatti, “Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale”, intervista ad Alex Pagliardini, in Doppiozero, Milano 24 luglio 2016, http://www.doppiozero.com/materiali/il-sintomo-di-lacan-dieci-incontri-con-il-reale.

[130]  Pagliardini, Il sintomo di Lacan, cit., p. 303. A proposito della lalingua, Recalcati dice: «È fatta di suoni confusi, di affetti, di stati emotivi, di lettere disgiunte, di impasti di fonemi e spasmi del corpo. È una lingua dove il significante non veicola il significato, ma è tutt’uno col corpo di chi parla. Questa lingua prima non conosce ancora le scansioni articolate del linguaggio; si presenta come un magma, una materia indifferenziata e caotica. Questa strana lingua non esce dal corpo come un suo fluido, ma è fatta di corpo; è una lingua che ha un corpo. Ne abbiamo un esempio evidente nella lallazione del bambino o nei segni pre-verbali che caratterizzano i suoi primi scambi affettivi con il suo Altro. Si tratta di una lingua inarticolata, priva di alfabeto, o, meglio, con un alfabeto assolutamente singolare, privatissimo e incondivisibile. Ciascuno ha la propria perché questa lingua non consente dialogo, comunicazione, trasmissione in quanto è il risultato della sedimentazione delle tracce mnestiche che hanno costituito il nostro passato più remoto. Lacan la battezza col termine “lalangue” (lalingua), lalingua tutto attaccato proprio per indicare quell’assenza di spaziatura simbolica – di articolazione – che la contrassegna» (Massimo Recalcati, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/02/che-cosa-succede-al-nostro-io-quando-leggiamo54.html).

[131]  Ivi, p. 304.

[132]  Rocco Ronchi, “Introduzione: Lacan alla fine della filosofia”, in Pagliardini, Il sintomo di Lacan, cit., p. 16.

[133]  Rocco Ronchi, Lacan e i filosofi, http://www.freudlab.it/node/261.

[134]  Federico Leoni, Il sintomo di Lacan, http://www.leparoleelecose.it/?p=26229

[135]  Ibidem.

[136]  Ibidem.

[137]  Ibidem.

[138]  Pagliardini, Il sintomo di Lacan, cit., p. 305.

[139]  Trascrivo qui, liberamente riadattando lo stile discorsivo, brani dell’intervento dell’autore alla Presentazione del libro “Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale” di Alex Pagliarini (Galaad Edizioni), evento organizzato da Jonas Onlus presso la libreria Assaggi (Roma 11 marzo 2016), ripreso e pubblicato on line da Radio Radicale:
www.radioradicale.it/scheda/469231/presentazione-del-libro-il-sintomo-di-lacan-dieci-incontri-con-il-reale-di-alex

[140]  Cimatti, “Il sintomo di Lacan…”, intervista ad Alex Pagliardini, cit.

[141]  Ivi, p. 313.

[142]  Ivi, p. 315.

[143]  Pagliardini, Il sintomo di Lacan. cit., p. 358.

[144]  Ivi, p. 364.

[145]  Ivi, pp. 358-359, 364-365.

[146]  Rocco Ronchi, “Un filosofo classico. Gilles Deleuze a vent’anni dalla morte”, in DoppioZero 3 novembre 2015, http://www.doppiozero.com/materiali/deleuze/un-filosofo-classico-gilles-deleuze-ventanni-dalla-morte.

[147]  Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, cit., p. 323.

[148]  Cfr. supra, cap. 2.

[149]  Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 27.

[150]  Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, cit., p. 323.

[151]  Felice Cimatti, “L’animalità in questione”, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XVII, Università di Trieste, 2015, 3, pp. 226-243.

[152]  Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Bari 2013, p. 142.

[153]  Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 163.

[154]  Paolo Virno, “Linguaggio: carne e voce dell’uomo”, il manifesto, il manifesto Coop. Editrice, Roma 10 aprile 2003.

[155]  Dietrich Bonhoeffer, Ethik, 1949; tr.it. Etica, Queriniana, Brescia 1995.

[156]  Cfr. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., pp. 207-211.

[157]  Davide Tarizzo, “L’anima in fuga. Deleuze e il piano psichico”, in aut aut n. 276, 1996, pp. 139-140 (l’autore riporta, all’inizio del brano, Deleuze, Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 72-74, e, alla fine, Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, proposizioni 5.632-5.641).

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