Lettera autografa di Giovanni Gentile (1930)

Massimiliano Polselli

La lettera inedita di Giovanni Gentile rinvenuta da Consecutio Temporum evidenzia il rapporto tra individuo e società che, in Gentile, è già mediato dalla filosofia, la quale è proprio ciò che permette di meglio guadagnare il senso profondo dei problemi, e di additare sicure soluzioni. In una lettera del settembre 1894 al siciliano, Jaja scriveva: «La società nostra par malata. E certo sana non è. Ma la sua malsania, la scienza lo assicura, è l’eterna malsania di tutti i tempi e luoghi, sempre vinta e curata in una forma, sempre rinascente da curare in forme nuove e migliori. E dov’è il rimedio? In alto, nella potenza intellettiva, che più s’intende ed intende, più il livello della vita s’alza ed i mali o cessano, trasformandosi, o diventano innocui … Ma occorre che la potenza intellettiva sia intesa in modo pari al suo altissimo valore. E questo fa la scienza filosofica, e la scienza filosofica bisogna che non sia cianciosa, superficiale, piaggiatrice delle ignoranze della moltitudine, non sterile ripetizione dei conati antichi, palesatesi insufficienti nella storia, ma una seria, severa e profonda, degna delle nuove alte condizioni fatte al vivere civile in tutte le contrade d’Europa». Davvero questa lezione è così distante da quella che Gentile impartisce alla «letteratura socialistica», quando scrive: «grande fede, grande dommatismo, scarsa critica e metodi arbitrarii. Prospettive ardite nel futuro su vacillanti fondamenti di una storia costruita più che studiata, indagata e intesa. Poche e discutibili osservazioni affrettate di economia, e una disinvolta mescolanza di concetti generali presi qua e là nelle filosofie correnti: il tutto fuso in una dottrina rudemente presuntuosa e battezzata, secondo il gusto germanico, con nomi sonanti di conio scientifico». Non pare. E allora ha ragione M. Cicalese quando, commentando proprio quella lettera di Jaja, afferma che queste parole lasceranno una traccia indelebile in Gentile, il quale verrà abituandosi a considerare la filosofia nel suo aspetto rigeneratore di questioni teoretiche e pratiche; a considerare la soluzione di problemi storico-politici come passante per quelli di natura filosofico-ideologici: non mero frutto di intellettualismo, ma la certezza che l’«esperienza quotidiana» susciti la riflessione e questa porti il particolare all’universale. La filosofia come autocoscienza, come soluzione continua di problemi che nascono dalla vita e nella vita concreta vanno risolti. Semmai, la soluzione non è preventivamente data, né è data al di là di chi la ricerca. Questi due aspetti non son cosa da poco conto. Ora, qual è l’obiettivo che Gentile si prefissa nel suo primo saggio? Gentile veniva dalle letture e discussioni con Croce attorno al concetto della storia, e certamente questo nuovo studio, in quella temperie culturale così rovente intorno a questi temi, gli sembrò una buona «occasione di mettere alla prova di testi impegnativi e, piacesse ad altro o non piacesse, strettamente connessi alla filosofia classica tedesca, pensieri già da tempo vivi in lui che, alla scuola pisana di Jaja, aveva cominciato ad elaborarli sui testi di Bertrando Spaventa e degli autori, italiani o no». Ma non basta per spiegare perché, in poco più di due anni, egli affrontasse studi – il materialismo storico, mentre continuava quelli su Galluppi, Rosmini e Gioberti che lo avrebbero condotto alla tesi di laurea – apparentemente così distanti. E non si può certo dire che Jaja avesse una qualche disposizione d’animo verso la filosofia del materialismo storico, tale da indurre il suo giovane allievo siciliano a letture, o anche solo a cenni di questa natura. Tutt’altro. Ma erano proprio i suoi studi, erano stati quelli alla scuola spaventiana a condurlo fin lì. Era la storia della filosofia tra Kant e Hegel, che egli riviveva in Spaventa e nel di questi allievo Jaja, che non potevano non essere l’aggancio a quello scoglio, che pareva la punta di un iceberg, pronto a speronare la prua della nave hegeliana. Il pericolo c’era, e andava disinnescato. L’operazione che andava condotta, allora, era un’altra: mostrare che il materialismo storico era una filosofia della storia non per il materialismo storico medesimo – che cascasse l’intero edificio sul Sansone di Treviri e su tutti i filistei che lo seguivano, questo, a Gentile, importava davvero poco – ma per i materiali, per l’intima essenza di questa filosofia: in fondo al carciofo c’era il meglio, e a Gentile toccava dimostrare cosa ci si potesse cucinare. «L’opera di pensiero di Gentile consiste in una difesa attiva dei principi dell’individualismo liberale, risorgimentale e nazionalistico, di fronte alle istanze del socialismo filosofico e politico». Difesa attivo, che non rifiuta dogmaticamente e per partito preso gli apporti della visione socialista dell’uomo e dello stato (come avviene in altri liberali, per es. nell’Einaudi) ma al contrario li accoglie, li sviluppa e positivamente li accentua, sforzandosi tuttavia di inglobarli e ricomprenderli in una concezione di individualismo liberale e di egocentrismo. Si vedano dal pensiero di Emilio Oggioni la visione ideologica che vi è sottesa e tutte le conseguenti valutazioni negative, impiantate nel discorso da termini come «egocentrismo», «nazionalistico», «individualismo», e che davvero sono l’esatto opposto della cifra speculativa del filosofo siciliano, e avremo il significato dell’operazione, consapevole o no, della lettura gentiliana di Marx e la profonda differenza di questa con quelle degli altri due interlocutori: Croce, per esempio, che non veniva da una scuola e che proprio in filosofia sarà sempre un autodidatta, non si poneva con aspettative preconcette, non soccombeva al nuovo studio, ma neppure lo utilizzava per essere confermato in qualche cosa o per dimostrare vera una sua tesi pregressa. Forse sì, e cioè l’importanza della distinzione come perno di concretezza e l’unità-distinzione di teoria e prassi, ma certo vi è una profonda differenza con l’animo del suo amico normalista, che, invece, muove le sue pedine per mettere sotto scacco il pensiero altrui, e che nella battaglia filosofica spera di consolidare le posizione già acquisite più che conquistarne di nuove. «Marx si presenta come uno strumento teorico, un utile campo di sperimentazione, di sollecitazione e di misurazione delle idee e delle intuizioni dell’interprete». Per questo dice bene Del Noce quando afferma che il libro di Gentile su Marx è di estrema importanza, perché inizia «una nuova figura della critica marxiana» e cioè quella dell’inveramento, dove non si tratta di innestare, a mo’ di revisionismo, una parte del pensiero marxiano su un’altra filosofia, ma di oltrepassare la filosofia della prassi . Le fonti a cui attinge il filosofo siciliano sono rintracciabili dai cenni che egli ne fa proprio nei suoi scritti, e sono il Feuerbach, la Sacra Famiglia, il Manifesto e Per la critica dell’economia politica – di questa è citato un brano dell’edizione del ’59, riportato da Labriola nel primo dei suoi saggi – l’opuscolo di Engels Socialismo utopistico e socialismo scientifico, un estratto dell’Anti-Dühring, e per quanto riguarda quella che oggi definiremmo la letteratura critica, i due saggi di Labriola, il saggio di Croce e il libro di Chiappelli. Non è molto, questo è vero, ma «questa informazione di seconda mano» viene additata come limite solo quando si è deciso di mostrare «l’insufficienza critico-interpretativa dell’analisi gentiliana»: Gentile coglierà nessi, che non tutti si sentiranno di liquidare sbrigativamente, e inoltre non è che ad un attento esame del suo lavoro si possa dire che abbia dato un’interpretazione del marxismo per nulla condivisibile, anche per chi al marxismo guardi con l’attenzione disincanta dello studioso non di parte. Il marxismo consiste – dice Gentile – nella concezione materialistica della storia, «per la quale con una rigida critica della storia passata si determinerebbe un andamento costante». Come si vedrà, qui non si mette in dubbio l’inveramento di cui parla Del Noce, anzi; è in dubbio, invece, il fine che l’autore assegna a questo inveramento: la dissoluzione che si avrà con Gramsci. In nota, G. precisa di essersi «quasi interamente» attenuto alla traduzione del Labriola. Che avesse letto da altre fonti e per intero il brano. Ciò che è la scienza Gentile ce lo dice esplicitamente: «Non v’ha scienza senza previsione, cioè senza leggi che non comprendono soltanto i fenomeni, e diciamo pure i fatti passati, ma anche i fenomeni futuri, i fatti ancora da farsi. Chi ha in mano una scienza, non diventa perciò un profeta o un astrologo … Ma è pur vero che egli vede un po’ più in là degli altri, cui la virtù visiva non ringagliardisce alcun vetro di scienza. Che veda, che, cioè, debba vedere nell’avvenire, non è dubbio: ma che può vedervi? Ecco: tutti i fatti singoli e concreti, e le relazioni temporali e spaziali, e tutti gli accidenti di essi fatti non rientrano nel dominio della scienza, quando si sottraggono tuttavia all’esperienza, perché ancor di là da venire. Ma oltre i fatti, singolarmente considerati, con le loro relazioni particolari, e oltre gli accidenti, v’hanno i fatti generalmente guardati in ciò che hanno di costante, di necessario, e perciò d’essenziale; che, determinato specialmente nei fatti passati, è pur determinato a priori per i fatti avvenire, ed è come la forma che questi, quando siano per accadere, rivestiranno. In questo senso, la scienza dà sempre luogo a previsione morfologiche, e non più che a queste…». Dunque, lo scienziato non è un astrologo, non può sapere ogni minimo aspetto di ciò che avrà da accadere: egli sa soltanto questo, che quel che accadrà avrà questa forma, e proprio per questo può essere determinato a priori. La scienza non è una mappa topografica della realtà, e forse neppure una geografica, di quelle che indicano le condizioni geomorfologiche: è, azzardando un paragone, una bussola, non sappiamo cosa e chi incontreremo nel nostro cammino verso il polo magnetico, ma sappiamo che stiamo andando per il verso giusto.Il materialismo storico è sì una filosofia della storia, ha sì una visione scientifica, ed è sì – anticipiamo alquanto alcuni passaggi successivi – il perno dell’azione politica dei socialisti, però tutto questo ad una ed una sola condizione, e cioè che l’analisi a priori non sia errata. Ed è, invece, errata. Il materialismo storico è scienza perché «determina un processo di sviluppo, nel quale deve correre la storia», e dire «processo determinabile a priori» significa dire «necessità di processo», che a sua volta significa stabilire «la base d’una previsione dell’avvenire», almeno in ciò che ha di necessario, cioè «in una data forma, almeno, e in una data misura»88. E poi, se andiamo a guardare alla storia del socialismo, nella quale «ogni utopia di un ideale assettamento della società, si collega, palesemente o no, con uno speciale indirizzo o sistema filsofico»89, davvero non ci sono poi molte possibilità di negargli quello statuto di scienza, rivendicato da alcuni. Il materialismo storico non è una veduta sociologica, perché trascende la minuta esperienza, e la trascende tanto da veder la necessità della nascita di conflitti e la necessità della loro ricomposizione, e quando ciò accade, «s’è già incominciato a filosofare». Ma è proprio la visione di questa necessità che salda la teorica coscienza del mondo che ha da venire con le pratiche politico-sociali atte a pretenderlo: questa scientificità fa passare l’utopia del socialismo al suo stato di legittima rivendicazione. «Altrimenti – osserva acutamente Gentile con un esempio – al proletario che in perfetta coscienza faccia osservare al capitalista che il socialismo è la sola soluzione possibile, quegli potrà rispondere sorridendo: – E chi t’ha detto che ci debba essere la soluzione, e si debba cangiare la faccia del mondo, il quale, dacché esiste, ha contato sempre servi e padroni? – Che se si vuole intendere che una sola è la soluzione possibile o la via d’uscita e che la soluzione ola via d’uscita vi debba essere necessariamente, ricaschiamo a piè pari in quella necessità di concezione storica, alla quale il Croce vorrebbe sottrarre il materialismo, e dalla quale soltanto il socialismo può attingere quella energia di coscienza scientifica, che esso crede oggi di poter vantare». Se, infatti, togliamo di mezzo questa necessità, il socialista potrà ancora rivendicare e combattere per una realtà diversa, ma non si vede quale sarebbe, a quel punto, il motivo per non credere che si tratti di speranze, quando non addirittura di illusioni, ma «già il risultato delle stesse contraddizioni economiche nelle quali presentemente si trova la società nelle nazioni più progredite». Si potrà, comunque, essere socialisti, esattamente come lo si è senza aver coscienza della dottrina di Marx, o prima che egli la formulasse, ma senza questa saldatura, per cui la volontà rivoluzionaria ha in sé la sua legge – che, poi, il filosofo siciliano non la consideri gran che come legge lo si vedrà più avanti – dentro sé la sua norma, tutto diviene relativo, e nella relatività, l’azione stessa perde vigore: perché così e non altrimenti? Perché la lotta e non già la rassegnazione? Perché la giustizia sociale e non già la schiavitù? Perché la legge interna del materialismo storico porta a vedere ciò che deve essere, e che sarà, come ciò che è giusto che sia, mentre ciò che è stato, è stato ciò che doveva essere perché sia ciò che sarà. Ecco il punto, ecco il nocciolo della questione: non la necessità del processo, ma ciò che lo necessita è il problema di fondo, perché il Marx rivoluzionario usa l’Hegel che il Marx filosofico aveva ben inteso. Bisogna fare, a questo punto, un passo indietro nel testo del primo saggio gentiliano, quando il giovane Gentile affronta il brano famoso della Zur Kritik der politischen Oekonomie. Di questa lunga citazione, Gentile si sofferma nell’analisi della proposizione che dice non essere la coscienza dell’uomo ciò che determina l’essere dell’uomo, ma il suo essere sociale a determinare la sua coscienza. Subito, si premura di specificare che l’uomo di cui si sta parlando non è l’individuo «come lo intendevano i francesi del sec. XVIII; sì l’uomo sociale, ossia l’uomo storico, già fornito di tutte le ideologie; e per essere sociale, le condizioni in mezzo alle quali e per le quali, in una data società, la vita umana si deve esplicare; condizioni non politiche, né religiose, né morali, né scientifiche, né artistiche, ma semplicemente ed unicamente economiche; dacché queste sono generatrici delle particolari forme di tutte le altre». Tuttavia, bisogna fare attenzione a non confondere le metafore con la realtà, perché si può stare sicuri «che nelle cose, nella storia, intesa come qualcosa di esterno e indipendente da noi, non c’è né significato, né legge; ma siamo sempre noi, che vediamo una storia con un significato, con una legge secondo la quale pensiamo che si muova; siamo sempre noi, insomma, che foggiamo la storia e la legge che la governa». Fuori, dunque, non c’è nulla che abbia da soverchiarci, e questo passo è già foriero di ulteriori sviluppi, perché la storia non è determinata da entità intellettualisticamente presupposte, ma è immanente all’uomo, e si guardi che l’uomo non è l’atomo che patteggia la propria entrata nella comunità, ma colui che vi è già dentro, che non può essere concepito se non come membro di una questa socialità primigenia. Se siamo «Noi» che facciamo la storia perché fuori non c’è nulla che ce la possa imporre, inconsciamente – certo – Gentile ha già guadagnato la riduzione della storia alla storiografia, superando Hegel e Croce, ed una visione pluralistica non solo metodologicamente – c’è un materialismo storico che è filosofia della storia, dicevamo prima, esattamente come c’è un teologismo storico: c’è Marx, certo, ma c’è Agostino; c’è Hegel, certo, ma anche Bonaventura, ecc. – ma pure, anzi proprio perché ontologicamente il centro di irradiazione della storiografia è plurale: quel «Noi» è il chi che si fa e, facendosi, si rovescia per farsi il ciò che si farà ancora una volta. Questo non vuol dire – lo si vedrà più avanti – che ognuno può costruirsi il mondo che vuole: vuol dire, soltanto, che tutti contribuiamo a farlo. Questa conquista è chiara qualche passo più innanzi, quando Gentile distingue i modi che ha la mente umana di fare la storia: nel fatto o nella conoscenza. Il primo è quello di Vico, e – mutando quel che c’è da mutare (parecchio, vien da aggiungere!) – dei «comunisti critici»; l’altro è quello secondo cui «diciamo che foggiamo la storia e la sua legge che la governa, non nel senso, in cui, secondo Vico, celebriamo nella storia la nostra storia»95. E quando il materialismo storico parla di «teoria obbiettiva e realistica e materialistica del processo storico», bisogna tenere a mente che si tratta di metafore, perché pur sempre «di concetti nostri» si parla96. Concetti che esprimono, nel loro desiderio di obiettività, l’errore di fondo dell’incomprensione marxiana di Hegel. Gentile vuole distinguere nel sua critica sul materialismo storico l’essenza della scienza, che è «propriamente prodotto di formale elaborazione dello spirito», dalle «condizioni reali della società», «destinate a fornire il semplice contenuto», non perché essa non può «far capo» a queste, ma perché «non deve né può mescolarle e farne una cosa sola con ciò che è proprio della sua essenza». Ora, commentando il rapporto tra struttura e sovrastruttura in Marx, il Nostro nota che «la recente dottrina ci fa accorti d’una grave illusione», perché quando guardiamo ai fatti della storia, ci appaiono così complessi, che li analizziamo, prima, per poi ricondurli «sotto certe preformate categorie ideologiche», e solo con queste ci sembrerà di essere venuti a capo delle questioni che ci eravamo posti. Ma in realtà «non sarete riusciti a nulla più che ad una ingannatrice tautologia; sarete rimasti alla superficie, e credendo di aver trovato la causa indagata, vi sarete contentati di barattare semplicemente un fatto con l’altro, un effetto con un altro effetto, non avendo neppur sospettato la loro causa comune»98. Per questo, si tratta di «un nuovo angolo visuale» dal quale «la storia ci appare tutta quanta trasformata»: è il «capovolgimento» a cui mette capo Marx rivedendo l’hegelismo: «Hegel, osservò ironicamente Marx, pone la storia sulla testa; bisogna capovolgerla e rimetterla in piedi. Da questa frase, – che, mentre punge o vuol pungere (vedremo che non la tocca neppure) la costruzione dialettica a priori, che della storia faceva il grande filosofo di Stoccarda col suo assoluto idealismo, dichiara insieme il proposito relativistico del pensiero di Marx, – si scorge intanto l’opposizione in cui la nuova dottrina intende di collocarsi verso l’hegelismo. In questo si idealizzava la storia, nel materialismo essa si obiettivizza, dice il Labriola, anzi si naturalizza; nell’uno Primo, e Immanente nella storia, era l’ Idea; nell’altro è, o si crede che sia, l’opposto principio, ma pure suo natural fondamento, la materia. La materia, ben inteso, in un significato relativo, come sostrato sociale d’ogni e qualsiasi ideologia»99. Il materialismo di Labriola e quello di Marx, il quale si mostra «un po’ più avveduto» di taluni comunisti, non ha nulla da spartire col darwinismo sociale a cui taluni guardavano a quei tempi, nel tentativo di rendere più materialistico – e francamente più semplice – il marxismo. Di questo Gentile ne è cosciente, tanto che si lascia andare ad una serrata critica, dimostrando come la «struggle for life» metterebbe capo a «ben altro perfezionamento sociale», per nulla simile a quello che vogliono i rivoluzionari. E non serve affatto controbilanciarla con la legge della simbiosi, perché se gli uomini «possono ubbidire più ad una legge che ad un’altra», il giovane filosofo si chiede, con la forte tempra speculativa che già lo contraddistingue, se non sia «interrotta la serie di cause e delle leggi naturali, che hanno operato necessariamente nel mondo de’viventi inferiori». Ma il fatto che il materialismo storico non sia così banale, non vuol dire che non abbia commesso il suo grande errore. E qui si viene ad esplicitare l’accenno che, nel passo citato prima, Gentile faceva delle armi spuntate con le quali Marx vuole capovolgere l’hegelismo. Se diciamo che la storia per Hegel è fatta dall’Idea invece per Marx dalla materia come fattore economico, in questa preposizione ci sono già, per Gentile, meriti e demeriti del filosofo di Treviri, perché mentre si può dare merito a Marx di aver mutuato da Hegel la visione della «storia umana [come] divenire per processo di antitesi», ha avuto poi il torto di opporsi all’hegelismo pensando che non l’Idea «o che altro di astratto» si sviluppi dialetticamente, ma «la società stessa… in quello che ha in se stessa d’essenziale ed originario, il fattore economico, dal quale tutti i fenomeni sociali dipendono e derivano», e conclude: «Due cose bisogna dunque distinguere nella dottrina storica di Marx: la prima, mutuata da Hegel, che è il procedimento dialettico; e la seconda, il contenuto o soggetto di questo procedimento, che si contrappone a quello di Hegel. Sicché due sono gli aspetti da cui va considerata la dottrina medesima da chi voglia tentare una valutazione storica: l’aspetto della forma, e l’aspetto del contenuto». La questione della forma e del contenuto è davvero importante, perché è già gravida di sviluppi. E intanto dire forma significa dire filosofia; dire filosofia significa privilegiare il momento della sintesi, e non già quello dell’analisi; e sintesi è unità, non distinzione; e unità è communio. Da qui muove Gentile, dalla filosofia e non dai partiti103, da una filosofia che è scissa da ogni altra considerazione (politica o sociale)104, e non deve ingannare il dualismo forma-contenuto, perché non è un dualismo che la speculazione successiva farà venire meno, bensì è, sotto le mentite spoglie di un linguaggio che – questo sì – ha ancora bisogno di tanto lavorio, la prima proposizione dell’incontro-scontro dei concetto di unità e di distinzione, di filosofia e di scienze, di stato e di società. Il quinto ed ultimo paragrafo del saggio sul materialismo storico è anche dedicato alla «critica della nuova filosofia della storia». In effetti, leggendo tutto il testo, non è che Gentile abbia mai infierito più di tanto contro il nemico comune – suo e di tutti gli hegeliani – del marxismo materialista. Ben consapevole di ciò, si giustifica dicendo che gli premeva di più la «forma che il materialismo storico come filosofia della storia, ereditò da Hegel», e aggiunge che è arrivato il momento : «Vero è che la distinzione di forma e contenuto sarà poi negata dall’ulteriore svolgimento della filosofia attualistica e che anche in questo libro non ha né può avere un significato perentorio» , ma a lui il merito di aver posto in risalto questa (apparente) distinzione di dire qualcosa sul contenuto: proprio quell’aspetto su cui tutti dicono che l’hegelismo è stato superato «intrinsecamente». Però, per arrivare a tanto, bisogna prima che si comprendesse bene cosa sia l’Idea hegeliana, ed è stato proprio nel fraintenderla che è nato l’errore. La si è intesa, infatti, «trascendente la realtà alla maniera platonica, in atto di svilupparsi secondo leggi logiche ugualmente trascendenti, alle quali, come al dispotismo di una esterna sovrana, il processo storico dovrebbe conformarsi obbediente». L’ Idea hegeliana, per nulla opposta al reale, è invece la sua essenza stessa: il fatto è che si fraintende Hegel perché non si è ancora inteso Kant, altrimenti si capirebbe che «la materia del materialismo storico, lungi dall’essere esterna ed opposta all’Idea di Hegel, vi è dentro compresa, anzi è una cosa medesima con essa, poiché… lo stesso relativo (ché esso è la materia di cui si parla) non solo non è fuori dell’assoluto, ma è identico ad esso». Materia e relativo sono i due termini chiave di questo paragrafo, e per chiarirne il significato possiamo rifarci a quanto scrive il filosofo in due note del testo. Nella seconda di queste, Gentile spiega di non credere «che nel materialismo storico [ci possa essere] luogo a porre la questione dello spiritualismo e del materialismo» – affermazione, questa, che è costata al filosofo idealista parecchie accuse di incoerenza. In realtà, la fondatezza di tali osservazioni sta nella lettura volutamente parziale delle argomentazioni gentiliane, giacché, più avanti, è detto chiaramente che il materialismo storico si ricollega alla sinistra hegeliana e ai vari Moleschott, Vogt, Büchner, «rinnovatori inutili del materialismo francese del secolo XVIII». Si faccia attenzione proprio a queste poche righe, e ci si chieda come facciano al caso di chi voglia meglio intendere l’Io attualista, e non fraintenderlo come chi lo intende «alla maniera platonica», come un buco nero, un caos primordiale che risucchierebbe in sé l’intera realtà solo per reazione all’idealismo (quello che esso ritiene sia l’idealismo di Hegel), e nella nota precedente è specificato che questa «materia è un fatto (il fatto economico) della storia come sinora s’è sviluppata … e il fatto tal quale (con quel ritmo dialettico speciale) nulla ci dice che sia necessario». L’economico (i bisogni dell’uomo) è un fatto, e un fatto non ci dice perché debba essere, ma solo che è. Un fatto va pensato, va cioè posto, e infatti Marx vede che è necessario, lo vedo come fulcro della storia, ma non si accorge che quel fulcro lì è già posto. È relativo, è una parte: la coscienza di questo bisogno è il tutto. Sembra, allora, l’antifona di quanto il maturo Gentile chiederà impazientemente all’ormai distante amico di vecchia data: chi pone i quattro distinti? E perché proprio quattro? Per giunta, questo relativo assurge a un ruolo che non gli compete. «Ma il guaio – scrive Gentile infine – incomincia quando, fattasi la sostituzione, il relativo è costretto a far le parti dell’assoluto […] Immanente l’assoluto; ma l’assoluto è immaginario; reale è il relativo; dunque, immanente il relativo. L’assoluto si sviluppa dialetticamente; quindi, per la stessa ragione di prima, si sviluppa dialetticamente il relativo. Il processo dell’assoluto si determina a priori, appunto perché processo dialettico dell’immanente; e però determinabile pure a priori, e come dire, oggetto proprio di filosofia della storia, il relativo». Ecco perché il materialismo storico «considerato dall’aspetto filosofico ci riesce uno de’ più sciagurati deviamenti del pensiero hegeliano», perché intende la metafisica in modo pre-kantiano, cioè in modo astratto – tante formule, cioè, senza considerare colui che fa i conti-, e si inventa una dialettica del relativo: per un hegeliano allievo della scuola di Spaventa, «lo studio di Marx … non avrebbe potuto non condurre alla sua condanna e il libro di Gentile apparve proprio come la dimostrazione di tale condanna», avendo tuttavia il grande merito di aver «lucidamente evidenziato la complessa e intima relazione teorica tra Marx e Hegel, nonché l’enorme debito filosofico marxiano nei confronti dell’hegelismo». Questa operazione non è, tuttavia, scevra da ulteriori interpretazioni di carattere storiografico, polemico e, in ultima analisi, culturale. Gentile «scompone» in due parti il marxismo: da un lato la forma-dialettica, dall’altro il contenuto-materia. Ora, non va dimenticato che il materialismo storico, soprattutto in Italia, era assai venato di positivismo, e che il positivismo rappresentava per la società italiana della fine del XIX secolo quello che, per il primo quarantennio del XX, rappresentò l’idealismo, e il marxismo per il trentennio seguente al secondo dopoguerra. Difficile non vedervi, dunque, un più vasto piano «per neutralizzare il fattore oggettivistico in seno allo stesso positivismo». Scrivendo da Campobasso nel maggio del ’99, dove era finito come professore di liceo, Gentile ringrazia l’amico Croce del volumetto che questi gli ha mandato: si tratta di Rivoluzione e controrivoluzione, o il 1848 in Germania di Marx a quale Croce ha apposto una sua prefazione. Ed accenna poi alla traduzione francese del terzo saggio che il Labriola gli ha mandato, e alla stampa del proprio libro su Marx, che è «in corso di stampa: ma va a rilento». Saranno, questi, mesi di febbrile attesa. Nel giugno dello stesso anno, in una lettera che andrebbe riletta per capire come, in seguito, Gentile non abbia mutato punto il suo carattere – uomo di scuola, il suo primo allievo fu proprio Croce, e se è vero che studiò il marxismo non certo per il semplice fatto di sottrarre Croce all’influenza del Labriola, ma perché vi vide la possibilità di attaccare il positivismo e il materialismo confrontandosi e affrontandosi con quanto di vitale ci fosse in giro in quegli anni, è anche vero che questo progetto passava per la conquista di un’altra vitale e prolifica piazzaforte: quella crociana – il giovane professore si fa beffe del Labriola, si congratula con l’amico che di questi è diventato «il suo più formidabile avversario», e continua a crucciarsi della lentezza editoriale del suo libro su Marx, ma per un motivo ben diverso dall’impazienza con la quale si guarda al possesso di un bene desiderato: Gentile teme di arrivare fuori tempo massimo, che la discussione pubblica passi, che il suo studio sia superato dai tempi. Non è la vanagloria di un giovincello che lo tiene in ansia, ma l’impazienza di entrare in quel modo appena sfiorato con suo primo scritto, e che nemmeno il Rosmini e Gioberti aveva scalfito: possiamo dire che il temuto Gentile nasce con la collaborazione alla Critica del Croce, quantunque sarà col «volumetto» su Marx, citato in quegli anni proprio dal filosofo napoletano, che il nome del giovane normalista comincia a circolare negli ambiti accademici. Il 26 agosto del ’99, finalmente, Gentile può scrivere a Croce di aver ricevuto proprio quel giorno dallo Spoerri le copie del libro, e di provvedere immediatamente a fargliene avere due copie, ed una a Sorel. Gentile non si fa scappare l’occasione di ritornare sulla questione che, ormai, lo assilla: Marx è un filosofo, e in un certo modo lo ammette pure Croce, o, quanto meno, la divergenza tra loro non è poi così profonda da non potersi ripianare. Gentile coglieva nel vero, e i venticinque anni successivi lo dimostreranno, che tra loro non ci fu mai altro a dividerli che piccole differenze, diremmo meglio sfumature. Tutto sta a vedere da sotto quali lenti si guardano, e quelle dei due non erano così grossolane da cogliere la realtà un tanto al chilo. Stupirsi non tanto dell’amicizia tra i due, quando della loro breve, ma intesa collaborazione scientifica: a distanza di un secolo, quel sodalizio filosofico appare destinato al naufragio già alla sua nascita. Gentile aveva un carattere mite, bonario; ebbe, in vita, momenti di profondo altruismo e generosità- con amici, allievi e studiosi, soprattutto quando questi vennero interdetti dall’insegnamento dopo la promulgazione delle leggi razziali, e ciò nonostante fosse un siciliano trapiantato in Toscana per lunghi anni: anche quando, nel vivo della polemica con l’antico amico, lanciava i suo fulminanti strali, l’amicizia, e non l’odio, era l’essenza del furore. E se mai volle rompere definitivamente col Croce, ben che meno voleva farlo in quegli anni. «Il nostro disparere mi pare sia di ben poco conto – scrive Gentile – se ammettete anche voi che quella filosofia, di cui io ho discorso, non me la son cavata io dalla testa, ma appartiene proprio al Marx, ed è un prodotto del suo pensiero. Vero è, che resta sempre a vedere se essa possa dirsi o no un “condimento” di codesto pensiero; se cioè possa considerarsi quasi un’aggiunta arbitraria voluta fare un bel giorno […] Ma “appercepirlo” – come dite voi, – bisogna tale qual fu: non solo come storico e come politico, ma come filosofo anche; altrimenti l’appercezione non è completa, non è vera appercezione». Poi, aggiunge: «Io credo in verità che anche il Marx, per tutta la vita, sia rimasto persuaso che tutte le sue idee, e storiche e politiche, s’imperniassero intorno ad alcuni principj filosofici, indipendenti o diversi da ogni altro corrente sistema, e che se egli, rivolto a speciali ricerche, non ebbe più occasioni di elaborare, ricordò però qua e là in fuggevoli accenni, e avrebbe certamente ripreso a svolgere e a difendere, se gli se ne fosse presentato il destro». Ma perché Marx è un filosofo? Perché la materia nuda, i fatti non dicono nulla in sé stessi: sono lì, davanti a noi, senza senso, cioè non significano nulla, non indicano nulla. Dicono (ed indicano) solo nel momento in cui l’intelletto li appercepisce – per usare una vetusta terminologia. Non c’è, allora, nessuna filosofia nelle cose, che si possa tirare fuori d’incanto, né le cose filosofeggiano: dire che una filosofia è immanente alle cose è solo una metafora, per indicare che si vuole comprendere la realtà in fondo, per quel che è, ed è per questo che «nessuna filosofia mai ha rinunziato a questa pretesa». Questo non vuol dire – anzi – che la filosofia debba ricadere nelle pastoie scolastiche, perché «senza esperienza non si può avere nessuna notizia delle cose», ma solo che «il nesso, la relazione o il sistema di tutte le cose» non li può dare l’esperienza: c’è semmai esperienza, proprio perché c’è quel nesso. Scrive infatti Gentile in La filosofia della prassi: «Questo sistema, nel quale consiste la vera realtà – giacché G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, lett. 75 (Castelvetrano, 26 agosto 1899), nessuna cosa è reale, se non nel sistema universale delle cose – è…l’oggetto della filosofia. I dati dell’esperienza sono molteplici, sciolti, isolati, sconnessi, e ricevono l’unità – e quindi il vero significato- soltanto dal pensiero speculativo. E in ciò – in questa sua relazione coll’esperienza- consiste la originalità (priorità) del pensiero; giacché non altro che il pensiero è e può essere quella unità, in cui sola tutte le cose sono reali. Quindi, non l’esperienza, come pare a prima vista e si giudica comunemente, è la ragione del pensiero; ma questo è, invece, la ragione di quella. L’esperienza è soltanto la base temporanea –il punto di partenza negativo- del pensiero; il quale perciò la presuppone: ma non tira da essa la sua autorità, la sua luce o evidenza, ma da sé solo: dalle sue proprie relazioni e determinazioni. E infatti, essendo il pensiero essenzialmente unità, relazione, nesso, e non essendo dato questo nesso dall’esperienza, la luce ed evidenza non può scaturire che dal pensiero: è lo stesso pensiero». Qui, subito, si pone il problema, che sarà poi il leit motiv dell’intero pensiero gentiliano, fino al suo naturale compimento: il problema di unità e distinzione, che è anche – soprattutto – un problema sociale e politico, e non solo meramente speculativo, teoretico, come potrebbe sembrare, al di là della cifra generale del pensiero neoidealista, che proprio su questa querelle si è intestinamente combattuto. Quando affermiamo che non l’esperienza, ma il pensiero è il primus nella vita, certo siamo ancora in un dualismo non pienamente risolto – vero; ma è anche vero che, quando avremo guadagnato l’unità di pensiero ed esperienza, dove il primo sarà sempre l’ulteriore coscienza, l’autocoscienza che ha da venire di una primitiva coscienza (esperienza), saremo nelle condizioni di porre tutto sotto l’egida dell’unità – o quanto meno di un’unità che ha da venire, che ha sempre da migliorarsi, ma che è, infine, l’intima ragione di quel medesimo processo. «L’identità vera, l’identità piena e concreta non può vivere che nella differenza. Questo pensiero dialettico unifica il dare e l’avere; ma non per questo il debitore diventa il creditore. Unifica l’essere e il non essere; ma non per questo le singole cose sono e non sono, secondo che ci aggrada. Immanenza sì; ma insieme trascendenza. La pura immanenza (intesa come semplice identità) è un momento della vita, della realtà, non la vita e la realtà. Vera energia è trarre i contrari dall’uno, trovato il punto dall’unione, avvertiva già tre secoli fa Giordano Bruno. Dunque l’uno sì, ma anche i contrari». Sembra qui, che Gentile scriva, decenni prima, la sua difesa davanti alle obiezioni che gli verranno: Io e l’Altro, questa distinzione è solo un momento, che c’è e che ci deve essere, ma la vita dello spirito non può fermarsi a questo, perché altrimenti non sarebbe vita, bensì morte. Pensiamo bene questo passaggio logico: la pura e semplice immanenza non può darsi, perché meramente tale è stasi, compimento, dove ogni cosa è sempre ciò che ha da essere ed è data nel suo essere compiuto. Non c’è divenire, non c’è movimento verso l’altro – cosa o oggetto di soggetto, cioè socius nel quale io rivedo me medesimo, mi rispecchio nella mia più intima realtà – ma solo il dato di fatto. E se è così, dove la società tra gli uomini? dove la loro comunione? La filosofia stessa non esisterebbe, perché filosofare è trovare relazioni, andare nel profondo del reale, e non già fermarsi al dato immediato. Che sia, dunque, la realtà come totalità dello scibile, o che si tratti di società, tutto è fondato sulla relazione, che non si può toccare, vedere, udire; ad essere sensibili solo i termini, concepibili in loro stessi, certo, ma reali solo come termini di una relazione: il senso – la visione empirica dell’intuito intellettualistico – ci dà cose, meri punti, non costruzioni geometriche di senso compiuto. L’unità è proprio il presupposto di questa relazione, giacché non ci può essere relazione tra i distinti che non siano, innanzitutto, uguali, e questa unità non è data da una sostanza, ma è ciò che plasma, informa la realtà stessa. In un lungo passo, Gentile anticipa di parecchi anni temi che saranno il nocciolo del suo pensiero maturo: «L’idealismo osserva, che i concetti, le leggi razionali dominano la realtà; e così non vi sono corpi chimici che si sottraggono ai rapporti matematici delle rispettive formule, né c’è lupo o cavallo che sia un quadrupede o mammifero, secondo le note necessarie fissate dalla zoologia, né si dà acqua che discesa a certa temperatura non agghiacci, giusta una legge nota per esperienza. Dunque la realtà stessa è come costruita dalla ragione, che vi si appalesa immanente; e la realtà, quindi, è essenzialmente razionale. Certo la ragione cui s’adegua la realtà, non può essere quella di Hegel, e tanto meno la mia, o quella di Tizio o di Caio. Ma questo importa notare: che tutta la natura è scritta in caratteri matematici; e che la mente può leggere questi caratteri; anzi che questi caratteri, in quanto matematici; sono di loro natura mentali o intelligibili, le matematiche non essendo che costruzioni dell’intelletto. La matematica della natura è appunto la sua razionalità; o la ragione o idea, che vogliasi dire, immanente in essa, e nella realtà in genere»123. Cosa si dice qui? Innanzi tutto, che nell’esperire il mondo, l’uomo si appropria di una realtà che già gli appartiene, e dunque che c’è unità tra mente e mondo, anzi che l’uno è l’altro e viceversa: infatti, le cose non ci dicono nulla per sé, ma solo attraverso l’esperienza. Il cavallo è un quadrupede secondo «le note necessarie fissate dalla zoologia» e l’acqua si solidifica a una certa temperatura sperimentata da una scienza. Questo che vuol dire, che senza queste leggi il cavallo non avrebbe quattro zampe e l’acqua non si solidificherebbe mai ghiacciandosi? Il mondo, senza di noi, non esisterebbe? Si tratta, qui, di vecchie e ormai superate critiche dell’idealismo, e commetteremmo un grave errore nell’attribuirle all’attualismo, anche se ancora in nuce e assai immaturo in questi scritti, giacché a Gentile tanti errori si possono addebitare, ma non già quello di essere stato uno sprovveduto, né di aver avuto scarso rispetto per il buonsenso. Il mondo esisterebbe comunque, si spegnesse l’umanità intera; e i ghiacci perenni ci furono anche prima della scoperta delle leggi fisiche; e i cavalli hanno sempre avuto – almeno, per quanto ne sappiamo oggi – quattro zampe. Ma dobbiamo ammettere che il mondo che noi esperiamo non è, comunque, quello che esperirono i nostri antenati, e che il cavallo avrà sempre avuto quattro zampe, ma non avrebbe senso parlare di «quadrupeti» prima della zoologia, né ne ha parlare di leggi fisiche prima della loro scoperta. Queste leggi sono il mondo, non sono create a bella posta dall’uomo: non è convenzione, il mondo è davvero fatto così, ma non si esperisce immediatamente, in un baleno, e la vita non è qualcosa di diverso da questa nostra esperienza. Quando noi esperiamo il mondo, scopriamo e, a un tempo, ci appropriamo sempre di più di questa razionalità, che è la nostra, ed essendo la nostra scopriamo, nell’empiricità del nostro Io, la trascendentalità della ragione che impernia il Tutto: facciamo il nostro mondo, che non conosce più alcuna involuzione. La vita prosegue, e quasi non capiamo come si possa pensare che un «cavallo» non sia un «quadrupede»: un nuovo gradino è stato scalato, si siano impiegati millenni, e il mondo muta col mutare del nostro spirito. Una nuova vita dello spirito si è appena dischiusa, e il mondo di Copernico non è più quello di Tolomeo.

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