# 27 – luglio 2025

 

Il n. 27 è on-line

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Con una serie di articoli che mettono a confronto l’opera di Leopardi
e il pensiero di Nietzsche

[Saranno presenti, in più, le parti 19, 20 e 21 del testo su “Religione, Ateismo, Fede”]

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Davide Tutino, IL MAGO DEL LAGO DEL DRAGO, Verdechiaro Edizioni

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Davide Tutino
Il Mago del Lago del Drago
La Storia che cambiò se stessa 

Romanzo

© 2022 Verdechiaro Edizioni (www.verdechiaro.com)
ISBN 978–88–6623–473–9
Finito di stampare nel mese di ottobre 2022
a cura di Mediagraf spa – Noventa Padovana (Pd)
Immagine di copertina e illustrazioni nel testo
       di Sofia Capacci

 



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Davide Tutino è professore di storia e filosofia. Allievo diretto del maestro Zhang Du Gan nel Baguazhang kungfu. Grazie alla sua famiglia ha sperimentato la connessione tra impegno verso se stesso e verso gli altri, e in questo scritto traspaiono la lotta non violenta e le sue disobbedienze civili, anche attraverso l’evocazione di un suo grande maestro, Marco Pannella. Pannella è qui trasfigurato in Pennabianca, il Gufo che fuma, e che nel nome del libero insegnamento rifiuta di iscriversi all’Ordine dei Gufi.
Proprio per il suo impegno civile e politico è oggi impedito a Davide Tutino l’insegnamento nel proprio paese, in quanto docenti come lui costituiscono per il governo italiano un “cattivo esempio”.
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Pasquale Amato, C’È CASA E CASA, Ed. Moretti & Vitali

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In qualsiasi libreria (on-line o negozio), sul sito dell’editore Moretti & Vitali, o sui vari siti di e-commerce (Amazon, eBay, ecc.):

Pasquale Amato, C’è casa e casa, Ed. Moretti & Vitali

Prefazione di Robert M. Mercurio (Analista junghiano, Presidente dell’ARPA)
Pagine: 128, Brossura / EAN: 9788871868554

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Lettera di Hegel

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Jahrbuch für Hegelforschung (15-17/2009-2011). Hrsg. von Helmut Schneider. 978-3-89665-628-5. (Jahrbuch für Hegelforschung Bd. 15) Burkhard Mojsisch, Klaus J. Schmidt: Ein neu entdeckter Hegel-Brief vom 18. März 1826 di CONSECUTIO TEMPORUM.  

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Colophon

Consecutio Temporum è una rivista a periodicità semestrale.

www.consecutiotemporum.it
(ex www.consecutio.org)

Direttore editoriale: Giuseppe D’Acunto
Direttore responsabile : Massimiliano Polselli
Redazione e Comitato scientifico : Double-blind peer review

ISSN : 2239-1061
Autorizzazione Tribunale Roma n. 68/2011
Editore Associazione Culturale THESIS

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Su Moda e Morte in Leopardi

Laura Giannelli

Uno dei temi di questo dialogo è senza dubbio la caduta degli eterni, degli immutabili. Sempre nello “Zibaldone” Leopardi a un certo puto cita lo “Zeus” di Luciano di Samosata, dove si rappresenta questo. Gli dei, sospesi al fuso delle parche vengono paragonati da Luciano ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Siamo in una deformazione parodistica della realtà che vuole essere però riflessione sul senso profondo delle cose e che declina in termini satirici una questione della massima serietà. Come il “Dialogo della moda e della morte” che è esemplare da questo punto di vista: si parla di cose serissime fingendo la non serietà di ciò che si sta dicendo. Qui è ancora più radicale il discorso, perché moda, esprime proprio questo, stando alla rappresentazione che ne propone Leopardi. Esprime lo svuotamento di ogni e possibile idea di serietà. Moda qui è una figura che ha la capacità di sottrarre serietà alla stessa figura, più che mai tragica, della morte. La questione della morte, del rapporto tra vita e morte, dunque del senso, qui in questa operetta viene presentata come una questione frivola, il che è da prendere molto sul serio, perché questo significa che qui la posta in gioco è la serietà della non verità, qui ad essere serio è proprio il non serio. E allora quale sarà la forma che la verità assume nel momento in cui l’unica forma assunta dalla serietà è la non verità? Questa è la sfida accolta da Leopardi e che l’ultrafilosofia leopardiana propone alla nostra attenzione, dicendoci che noi rispetto a questa sfida siamo largamente Di nuovo il tema qui è il dialogo (l’essere dialogo del testo fa sempre problema nelle operette in un modo o nell’altro). Qui Moda e Morte vengono presentati come personaggi che dialogo. Nel caso del dialogo tra la natura e l’Islandese abbiamo detto che il dialogo è un confronto e l’idea del confronto di per sé implica l’idea della differenza, la compresenza di due termini diversi che entrano in relazione tra loro. In questo caso che in gioco siano due soggetti differenti è vero fino a un certo punto; perché qui infondo ad affrontarsi sono due figure che fin dall’inizio si rivelano sorprendentemente affini, profondamente simili e anche complici. È proprio moda a dichiarare in modo esplicito questa comunanza assegnando un significato genealogico a questa comunanza. Lo fa invitando morte alla rammemorazione di un aspetto decisivo; già questo è paradossale, in quanto si invita morte a ricordare, proprio lei che è la nemica della memoria per eccellenza. La morte che qui viene rappresentata è una figura ridotta alla condizione di puro scheletro: quasi cieca, quasi sorda, smemorata. Qui tutto scheletro, tutto è segnato dalla caducità, questa è la parola chiave, ciò che moda ricorda a morte. La loro comune affiliazione: entrante sono date dalla Caducità. moda è morte è questo loro tratto condiviso che è la capacità di distruggere sempre e di nuovo le cose di qua giù. Ad accomunarle è il fatto che entrambe lavorino per capovolgere nel nulla, convertire ogni volta nel non essere tutto ciò che è. Sono entrambe agenti del nulla. Certo c’è una certa differenza: nel caso della morte questa azione distruttiva, annientante è un’azione che assume un significato essenzialmente biologico, è qualcosa cioè che riguarda la natura stessa delle cose, il darsi delle cose come cose viventi; nel caso della moda l’azione annientante viene ad assumere un significato non più naturale o biologico, ma culturale e sociale e quindi anche storico. Quella infatti esercitata dalla moda è si un’azione distruttiva, ma è un’azione che investe il piano degli ordini e dei costumi, il piano della socialità umana (un piano per Leopardi importantissimo). I diversi modi e le diverse pratiche attraverso le quali l’uomo costruisce e dà forma dà senso alla sua socialità, cioè al suo essere con gli altri. È lì che agisce moda, è lì che moda fa valere la sua azione distruttiva, annientante, come se moda qui fosse, almeno sotto un certo profilo, la traduzione del nulla sul piano storico, sociale e culturale. È stato detto che moda qui viene innalzata al rango di potenza metafisica, il nulla come potenza metafisica, quest’idea qui viene incarnata da moda, che è però un fenomeno essenzialmente culturale, non naturale. La forza distruttiva di moda investe gli usi e i costumi, in modo esemplare, qui l’accento cade proprio su questo aspetto, le pratiche vestimentarie degli uomini e delle donne. Cioè il modo di apparire del vivente, quell’immagine di sé che il vivente costruisce e che nell’interazione pubblica offre allo sguardo altrui. Il modo in cui ciascuno di noi, si presenta, si rappresenta, all’altro: è lì che moda fa valere la sua azione universalmente annientante. Lo scenario creato da Leopardi, quindi, è uno scenario in cui moda e morte sembrano agire come due facce della stessa medaglia. Dicono infondo il medesimo le due figure: l’azione del nulla. L’idea di morte è il massimo della serietà, la cosa più seria, il fondo dolente dell’esistere, un’idea che tradizionalmente spicca per la sua centralità sotto il profilo ontologico; non c’è considerazione filosofica, che investa il senso dell’essere, che non chiami in causa il tema della morte. La morte è il senso stesso della nostra esperienza, la nostra finitezza. Vuol dire il rapporto tra essere e divenire, con tutte le contraddizioni che quel rapporto custodisce, che la filosofia negli anni ha esplorato. Proprio questo è ciò che ora viene svuotato di senso, viene squalificato, banalizzato, viene riportato su un piano che è il piano del frivolo, del vacuo, dell’inconsistente. Ciò che resta è un’immagine contraffatta di quei problemi, la loro deformazione grottesca, caricaturale. È una coppia anomala quella composta da moda e morte, è anomala e anche concettualmente scandalosa. È uno scandalo, per esempio, rispetto a una tradizione in cui la morte tipicamente viene rappresentata come una figura che certo si oppone, ma insieme anche si rivela affine a un’altra figura: Amore. La posta in gioco qui è il sapere del corpo, tutte le “Operette morali” sono una drammaturgia del sensibile, un’esibizione esemplare di quel paradosso che è il sapere del corpo, con tutte le sue contraddizioni interne. Il sapere del corpo è un sapere che ha nel corpo non soltanto il suo oggetto (un sapere intorno al corpo), ma anche il suo soggetto. Il vivente che possiede un sapere del corpo è un vivente che sente il suo essere corpo, prima ancora che riflettere intorno al suo avere un corpo, un sapere che ci include, ci interpella. E poi sapere del corpo significa sapere della morte, cioè il sapere della finitezza. La coppia concettuale Amore-Morte è una delle espressioni più alte del sapere del corpo, qui noi assistiamo a una dissoluzione di questa connessione vitale, produttiva, quanto mai fruttuosa tra amore e morte. Noi assistiamo allo svuotamento, alla rimozione, alla neutralizzazione del sapere del corpo. La moda come sineddoche dalla modernità è la moda come sineddoche dell’uomo superbo e sciocco. L’uomo superbo e sciocco è il negatore del corpo, il negatore del sapere immanente al corpo, il negatore del sapere implicito del corpo. Bisogna però specificare che questo non è l’unico e possibile volto assunto dalla moda e Leopardi lo sa, perché Leopardi è un cultore dell’apparenza, un cultore dell’estetica. Ma qui Leopardi vuole insistere su questo aspetto di moda, cioè sul suo lato opprimente, condizionante, sulla sua funzione alienante, reificante, distruttiva di usi e costumi. Più radicalmente ciò che questo modo d’essere della moda tende ad annullare è un sapere del corpo, cioè l’immaginazione. Autori come Roland Barthes affrontano la questione della moda e la affrontano proprio con la consapevolezza che moda lavora contro l’immaginazione, contro il sapere del corpo. Anche qui Leopardi sta anticipando contenuti fondamentali della cultura del Novecento, anche senza dover arrivare a Roland Barthes, all’orizzonte post strutturalista, possiamo trovare già Walter Benjamin. Quest’ultimo che pure è consapevole del lato anche costruttivo della moda dice che la moda è negazione del sapere del corpo, è tanto in linea con Leopardi che lo cita “madama Moda”. Benjamin definisce la moda come il “sex appeal dell’inorganico”: l’inorganico, la materia inanimata, il vestito, che di per sé viene innalzata al rango di potenza irresistibilmente seducente, attrattiva, ipnotica. Quella foggia vestimentaria per Benjamin è una merce e allora la moda come “sex appeal dell’inorganico” è una erotizzazione della merce, la merce come fonte inestinguibile di desiderio. Se la moda è questo dice Benjamin la moda è l’espressione di un tempo infernale, caratterizzato dall’eterno ritorno del sempre uguale: dove a ripetersi non è la moda, che cambia continuamente, ma a non cambiare mai è la moda in quanto espressione del circolo marxiano denaro-merce-denaro, che si ripete inesorabilmente come un destino. Allora dal punto di vista di Benjamin la moda è un’agente implacabile della falsa coscienza, è uno degli strumenti ai quali la ragione capitalistica fa appello per perpetuare se stessa. Per esempio attraverso la sessualizzazione della merce che diventa un feticcio, un idolo da adorare. Da questo punto di vista la moda nega il corpo, perché questo viene subordinato a un ordine di significati che non è corporeo, non è sensibile, ma è ideologico. Moda viene presentata come una potenza spoetizzante e snaturante, complice della ragione geometrica. Questo lo coglieranno i post-strutturalisti, ma non è per niente ovvio; che ci sia una sinergia tra ideologia e moda o tra concettualità e moda. Moda viene descritta con una “vocina da ragnatelo”, morte è sia una damina arguta, ma è uno scheletro, quasi cieca, quasi sorda, non sente quindi la vocina da ragnatelo di moda. Vocina da ragnatelo, cioè la ragnatela, cioè il ragno, moda è la tessitrice, l’arte della tessitura, ma nel senso di una tessitura di un senso che ormai è solitamente effimero, contingente. Moda è la tessitrice, cioè la produttrice di forme che hanno già racchiuse in sé il germe della loro estensione. Moda diventa qui la riproposizione, in una forma insieme allegorica ed impoverita, di una figura mitica, Atropo, una delle moire. La moira che ha il compito di recidere il filo della vita, è si la tessitrice, ma è anche quel soggetto che continuamente recide, taglia il filo. La moda quest’azione la svolge a una velocità iper-accelerata, il senso della moda è questa rapidissima, inesorabile estensione, conversione nel nulla di tutto ciò che appare. I diversi modi attraverso i quali il vivente da forma alla sua apparenza sociale. Questo è il regno di moda, il regno delle apparenze sociali, il teatro della vita civile, il mondo dei costumi, per Leopardi il mondo delle opinioni. È quello il luogo in cui moda fa valere la sua potenza annientante. Moda qui viene presentata come una figura che è capace di morte più della morte stessa. La moda ha un doppio volto, ella significa anche la difesa dell’apparenza, quindi il riconoscimento della necessità del sensibile e la rivendicazione del sensibile nella sua unicità, cioè la rivendicazione del diritto che il sensibile ha di valore di per sé e non in funzione d’altro, cioè della sua perfetta inutilità. Questo è il volto progressivo di moda, potenzialmente emancipante, che Leopardi avverte e lo chiama in causa nel dire che è figlia della caducità, perché è lì che continuamente il fenomeno nella sua particolarità rivendica il diritto di valere di per sé, cioè il suo diritto di valere come una forza autonomamente significante, indipendentemente da ogni scopo concettualmente determinato, quindi al di là di ogni logica strumentale. Ma qui consapevole del fatto che in gioco è anche questo motivo, Leopardi insiste soprattutto sul lato regressivo di moda, più che quello progressivo, sul suo lato reificante. In questo termine certo si sente la presenza del termine francese mod. Lì noi leggiamo il rinvio al termine latino modus, modalità maniera, però implicito nel termine moda è anche un altro aspetto, cioè l’avverbio latino modo, che vuol dire ora, adesso, subito, cioè l’idea dell’effimero, dell’istantaneo, della fugacità, dell’impertinenza. Moda costruisce al suo interno questo significato; l’effimero, l’impermanente “siamo nate dalla caducità”. Il termine si afferma in torno al XV secolo, intorno al 400, però fino al 600, il termine moda, mod, indicava in termini generali il modo di vivere e di pensare di qualcuno o di un intera collettività. Poi, intorno al 600, il termine moda assume più stabilmente il significato a noi più vicino di abitudine in fatto di abbigliamento, quindi si chiama in causa in modo diretto la pratica vestimentaria, il modo d’essere e d’apparire all’interno della vita sociale. Ma a partire dal 700 il termine moda assume anche il significato estensivo di industria e commercio in materia di abbigliamento. La connessione tra l’idea di moda e l’idea di merce, la mercificazione dell’esperienza. Lo scandalo di questa coppia sta proprio, quindi, nel fatto che al posto di eros noi troviamo moda, come a dire “moda non è più eros, è qualcosa che si oppone a eros”, come il sex appeal dell’inorganico, dove è la merce che viene erotizzata, il non vivente, il cadavere. Ora infatti nell’orizzonte della modernità è la vita stessa a subire un processo di svuotamento, di questo si fa testimonianza qui l’immagine della moda. La negazione del sapere del corpo è la desertificazione della vita, è la notte dei sensi, è la strage delle illusioni, perché ora, cioè nel secolo superbo e sciocco, ad essere neutralizzata, almeno potenzialmente, è la stessa potenzialità, per ognuno, di fare esperienza di eros. Questo dice moda: l’impossibilità per l’abitatore della modernità di fare esperienza di eros. Per riprendere il riferimento al “Simposio” di Platone che abbiamo fatto precedentemente. Quando Leopardi parla di eros, di amore, in qualche modo è in gioco un riferimento all’orizzonte concettuale dell’erotica di Platone. Nel “Simposio” eros è un evento, non è una forma è qualcosa di costruttivamente intermedio, tra gli opposti. Non è forma eros, il mondo delle idee è costituito da pure forme, ma eros non è questo, è una potenza demonica, evento, qualcosa che il logos non sa dire, evento rispetto al quale il logos si scopre impotente. Eros è la ricezione di un invio, qualcosa ci viene dall’esterno e noi l’accogliamo, è un sentirsi invasi, rapiti da qualcosa, non padroneggiare qualcosa. Un’esperienza generativa di relazionalità, generazione dell’eterno attraverso il bello, il desiderio di essere il bene per sempre. Vuol dire che nel fare esperienza di eros il fenomeno, il sensibile diventa una soglia, una soglia di attraversare in vista del trascendimento di ciò che è dato, la siepe leopardiana, una dimensione erotica in senso platonico. La superficie rivela la profondità inapparente. Dov’è la relazionalità? Il finito entra in relazione con l’infinito, il determinato con l’indeterminato. Eros è il desiderio di possedere il bene per sempre, un bene che è al di là di ogni essenza, allora attraverso la frequentazione del particolare, del singolo dato sensibile siamo spinti a trascendere quella determinatezza, tenendola però ferma, perché quell’indeterminato, quell’infinito non sarebbe tale se non in relazione a quella particolarità a quella determinatezza. Dall’interno stesso del sensibile eros indica al vero amante la strada da percorrere in vista di una liberazione non dal finito, dall’immanenza, ma dall’idea di un’immanenza assolutizzata, un’immanenza che in sé non rinvia più a ciò che è altro da sé. Da un determinato che pretende d’essere tutto, da questo emancipa eros e libera proprio costringendo, perché eros è qualcosa che noi patiamo a cui siamo soggetti, non padroni. È mania per Platone, un invasamento divino, liberazione dai vincoli di un’immanenza satura, di un’immanenza irrigidita, chiusa in se stessa. Siamo partiti dal carattere scandaloso compiuto in questo dialogo da parte di Leopardi: la sostituzione della coppia classica, tradizionale, quella di amore e eros, con una coppia di tutt’altro genere, ovvero morda e morte. Quindi il sfronto qui non è più tra la vita e la morte, tra la forza costruttiva, generativa, inventiva e relazionale di eros e la forza disaggregane, distruttiva della morte. Qui invece ad essere invocato è un confronto che avviene tra due immagini affini o speculari della stessa identica morte; perché moda e morte è come dire morte e morte. E a farcelo notare, che il senso sia questo o anche questo è proprio Leopardi.

Moda come potenza che ha la capacità di rendere morto ciò che è vivo, prima ancora che il vivente muoia. Così per rispetto del corpo come dell’animo, perché fanno tutt’uno per Leopardi corpo e animo. C’è una spiritualità immanente al sensibile che non è disgiungibile dal sensibile. Anche per la questione del rapporto tra parole e pensiero: le parole sono non la veste ma il corpo dei pensieri, quindi la parola è pensiero incarnato, la materia è spiritualità condensata nella materia. Dove questa spiritualità è la sterminata ricchezza di senso, è la relazionalità implicita al dato fenomeno; questo si coglie indugiandosi, prendendo dimora nella frequentazione del fenomeno. Qui tutto il contrario, perché si sta dicendo che questa vita moderna è più morta che viva, perché innanzitutto ora non c’è più spazio per eros. Perché nell’impostare in questi termini il rapporto tra moda e morte si sta alludendo al rapporto tra amore e morte; ciò che si imputa alla moda glielo si sta imputando sapendo che invece altro è lo scenario in cui morte è in relazione con amore. Quindi a perdere di significato qui è la stessa possibilità di distinguere tra l’idea di vita e l’idea di morte; se la vita stessa è più morta che viva diventa complicato, arduo distinguere da ciò che vivo e ciò che morto. La vita viene svuotata di senso.

A delinearsi è uno scenario completamente nuovo in cui l’idea della morte per un verso trionfa (è il secolo della morte, la stessa vita è più morta che viva); ma per altro verso la morte viene immiserita, squalificata, banalizzata. Perché l’idea di morte tende sempre più a sovrapporsi fino a confondersi con la frivolezza della moda, il che si traduce in un depotenziamento della stessa idea classica di morte. C’è da dire poi che questa interazione tra moda e morte appare almeno da un certo punto di vista come un’interazione polemica, si fronteggiano queste due interlocutrici. Il contrasto, la sfida tra le due, assume i toni leggeri, piacevolmente divertiti di una conversazione mondana, da salotto. Un contrasto che evapora, si dissolve nelle forme di un piacevole conversare salottiero. Del senso, della sua asprezza, dei suoi paradossi, cosa resta se non questo ormai? Un piacevole conversare salottiero. Come inizia infatti il dialogo tra moda e morte? A prendere la parola per prima è propria la moda ed è la moda a chiedere alla morte di ascoltarla, cioè a chiederle di prestare attenzione alle sue parole. È moda a dettare il gioco. Quindi ogni discoro che verrà svolto all’interno di questa operetta sul rapporto tra vita morte, sulla tragicità della morte, sulla tragicità della nostra condizione, verrà svolto alla luce di quella tonalità che noi abbiamo visto affiorare. È moda a guidare il gioco, tutto ciò che verrà detto sarà detto nel segno di moda ed è proprio moda a porre l’accento sulla relazione di somiglianza che la lega alla morte, con quell’appellativo importantissimo, caro anche a Benjamin. Questa scelta è significativa perché sia nell’autografo napoletano, sia nelle prime due edizioni delle “Operette morali”, Stella e Piatti, il termine utilizzato qui da Leopardi qui non era Madama, ma Madonna. A partire dall’edizione napoletana Starita, quella bloccata, una parte viene pubblicata, ma il governo borbonico non dà il pubblicetur per la pubblicazione della parte successiva, poi lo Qui ancora troviamo davanti ai nostri occhi il tenore paradossale del dialogo leopardiano, paradossale la scrittura, paradossa il senso. Anche qui il paradosso è protagonista, perché qui ad essere paradossale è proprio l’oggetto stesso della rappresentazione offerta da Leopardi, cioè il rapporto tra moda e morte. Noi abbiamo a che fare con una verità che nasce dalla non verità, dove è proprio la non verità a costituire un problema della massima serietà. Con “leggerezza apparente”, questo è un libro metafisico, da considerare nella sua sistematicità dice Leopardi all’editore Stella, ma il carattere metafisico dell’opera è da ravvisare proprio in quell’apparente leggerezza che connota la scrittura delle “Operette morali”. Quale figura più leggera, più rarefatta della moda, l’esibizione della pura apparenza. Assolutamente insignificante che diventa significante. Due donnine argute che si ritrovano a dialogare, ma proprio questo modo di rappresentare il rapporto tra moda e morte rende serissima la rappresentazione proposta da Leopardi.  L’accento viene a battere sulla complicità di queste due figure, intimamente complici nel lavoro che sono chiamate a svolgere, ovvero mutare e mutare di continuo le cose di qua giù, convertire l’essere nel non essere. Allora questo ci dice che quel confronto, in quanto confronto che dovrebbe scaturire dalla differenza, dialogico, è un confronto, sotto questo profilo, truccato, solo apparente, simulato. Perché infondo dicono il medesimo, fanno tutt’uno. Moda che si rivolge a morte è morte, morte che si rivolge a moda è moda. Non a caso a vincere questa sfida di fatto è moda, a vincerla cioè è una moda che ha già preventivamente ridotto a sé morte, facile la vittoria per la moda. Perché moda vincente, a quali condizioni moda ora può risultare vincente? Non si sta negando la veridicità di morte, perché altrimenti si perderebbe la problematicità del discorso, ma almeno sotto un certo profilo le due figure dicono il medesimo, fanno tutt’uno. Risulta vincente la potenza uguagliatrice di moda, la sua forza di livellamento. Moda è l’espressione di questa forza omologante, omogeneizzante. Omologante vuol dire che moda livella tutto, ha la capacità di ridurre tutto a sé, modella, ridurre tutto alla sua logica. La logica di moda che è una logica dell’apparenza, dell’effimero. Moda ha la capacità di trasformare ogni valore, ogni significato in un significato di moda, alla moda. Persino la morte. Qui è proprio moda ad apparire fin dall’inizio vincente, è lei che detta le regole della sfida dialettica. Di fatto moda costringe morte a giocare la sua partita in un territorio che fin dall’inizio è segnato dal trionfo della moda, impone la sua legalità. Ed è proprio la moda a decretare la sua stessa superiorità e quindi in quale modo la sconfitta di morte. Essa è qualcosa che arriva velocemente, la velocità del tempo della morte, ma la moda è ancora più veloce della morte nell’annientare tutto. Lei elimina tutto nel momento stesso in cui lo produce. Moda è l’espressione di una velocità iperaccellerata. Moda è qualcosa che ha già racchiuso nel suo nascere il suo perire. Se la morte ci mette una vita, la moda nel momento stesso in cui fa nascere qualcosa lo distrugge. Queste considerazioni ci permettono di evidenziare un punto per Leopardi fondamentale, le “Operette morali” sono una vera e propria drammaturgia del sensibile, cioè sono l’esibizione esemplare di quello che per Leopardi è il vero oggetto-soggetto dell’ultrafilosofia, cioè il sapere del corpo. Il sapere del corpo significa il sapere della nostra finitezza, che per Leopardi è sempre una finitudine costitutivamente infinita, il finito implica l’infinito. Il sapere del corpo in quanto sapere della nostra mortalità, implica nello stesso tempo il riconoscimento del fatto che tutto è nulla, nulla ha senso e che proprio quel non senso può essere incessantemente convertito nel senso. Nella nostra finitezza noi siamo in grado di cogliere una indefinita apertura al possibile. Il fenomeno nella sua determinatezza, finitezza, ha in sé una sterminata ricchezza di senso: i due poli stanno insieme e cadono insieme, finitudine e mortalità e apertura al possibile. Tutto è dolore e sofferenza e insieme, proprio a motivo di questo le immaginazioni belle e felici. In questo dialogo questo aspetto diventa importante, perché la moda considerata sotto il suo profilo regressivo, reificante, rappresenta una minaccia rispetto al dispiegamento di un sapere del corpo, che è insieme quelle due cose appena evidenziate, perché la moda qui funziona come una metonimia, la parte per il tutto. È si uno dei fenomeni paradigmatici della modernità, un’espressione particolare della cultura moderna, ma in qualche modo qui moda funzione come espressione della stessa cultura moderna nella sua interezza, una parte che significa il tutto. Quale modernità? La modernità qui significa essenzialmente il secolo superbo e sciocco, cioè un mondo caratterizzato dalla coltivazione degli errori barbari, gli inganni dell’intelletto. Gli errori barbari sono quel tipo di errori che tendono a spegnere l’immaginazione, che ne negano la potenza. Il secolo superbo e sciocco è un secolo logocentrico, è un secolo orientato verso la spiritualizzazione della vita, la negazione del concreto, del particolare a vantaggio dell’astratto, del concetto. La fredda e geometrica ragione è la riduzione di un fenomeno, della realtà alla astrattezza vuota, decorporizzata di un teorema geometrico. Nega il qualitativo, la relazionalità implicita nelle cose, ovvero la connessione tra il determinato e l’indeterminato. Quella trama, quella tessitura di relazioni che è in ogni fenomeno, ma se il fenomeno è la forma logica del fenomeno, del fenomeno non resta più nulla. Allora la spiritualizzazione della vita, in quanto errore barbaro, in quanto tratto saliente della modernità è la negazione del sapere del corpo, è una tendenza che si oppone un dispiegamento del sapere del corpo, se il sapere è quello che abbiamo detto. Allora qui moda diventa nel suo essere metonimia della modernità, diventa metafora di quella fredda e geometrica ragione che nega il corpo come luogo eminente del significare, nega il corpo come luogo di un’indefinita apertura al possibile. Qui a emergere è  il lato positivissimo della modernità, di cui moda diventa immagine.

Quello proposto qui da leopardi è uno scenario in cui la moda lavoro come un meccanismo di spiritualizzazione del corpo, questo vuol dire che moda è una potenza che ha la capacità di trasformare il corpo, in un congegno semiotico, in un sistema di segni. Cosa caratterizza questo sistema? Il fatto di avere già codificati al suo interno i suoi significati, quelli e non altri, un insieme di significati rigorosamente predeterminati, che sono già codificati istituzionalmente, cioè sulla base di una normatività storica. Sono lì all’interno di quel congegno semiotico che è il corpo vestito da moda o alla moda, quelli e non altri. Il fenomeno nella sua indeterminatezza significa ora solo x, y e z, e sono significati determinati, che non implicano il loro poter essere altrimenti. Quei significati che sono inclusi in un corpo che è diventato congegno semiotico, non sono più quei significati che andrebbero a costituire il sapere del corpo (cioè la relazionalità implicita nel fenomeno, l’indeterminato nel determinato). Questo vuol dire che nel caso in cui il corpo sia l’espressione di un sapere del corpo, come Leopardi lo concepisce, il corpo è sì segno, è sì significante, ma significante della finitezza, della caducità, della mortalità e insieme del possibile, dell’assoluto. Se a prevalere è moda, il corpo è ancora segno, ma non è più segno della mortalità e del possibile inespresso, ma diventa segno di un altro ordine di significato, il segno rimanda non più all’indeterminatezza del senso, ma da una serie di significati determinati. La moda è un sistema semiotico, un ordine di significato, il punto è che quelli e non altri e di questo il corpo diventa segno. Il referente è proprio il sistema di moda, cioè l’ordine di significato istituito storicamente e istituzionalmente da moda, che è un agende della cultura capitalistico borghese. Stando all’interpretazione proposta da Roland Barthes la moda è la singola scelta vestimentaria che noi possiamo fare o non fare, ma essenzialmente qualcosa che appartiene al piano del costume, dove il costume non è u fenomeno individuale, particolare, la moda che il singolo individuo può compiere o non compiere. Il costume è qualcosa che per Roland Barthes appartiene all’ordine della struttura, non del processo, all’ordine sincronico, non diacronico, una struttura che agisce indipendentemente dalle singole scelte compiete dagli individui. Questa struttura che sta sullo sfondo per Roland Barthes è un codice, cioè un sistema costituito da equivalenze e opposizioni, un sistema combinatorio, che fa da sfondo al piano delle scelte individuali. Roland Barthes parla della moda come di un sistema semiologico di secondo grado, un sistema che si rapporto all’indumento empirico, come la Lang, si rapporta alla parola. Questo codice notifica e prescrive, funziona come norma, come principio di legalità, obbliga e interdice, euforizza e scredita. C’è una particolare configurazione delle forme che viene esaltata come quella giusta, quella in cui dobbiamo credere, l’opposto viene screditato. Leopardi parla di questo, del lato violentemente condizionante della moda, il suo lato reificante. La moda uccide i corpi come la morte, ma lei proprio uccide il sapere del corpo, laddove la morte, espressione della caducità e della finitezza dell’uomo può funzionare come una soglia critico immaginativa, il tema del nulla come enigma, invece la moda è ancora più brava della morte nella distruzione, annulla il sapere del corpo. Che siano tutti vestiti allo stesso modo, che per tutti valga un unico ordine di significato, un unico modo di frequentare la realtà. Qui una è alla latina, una sola, la logica identitaria incarnata da moda, la struttura prevale sul processo, il sincronico sul diacronico. Perché altro è la moda che si sceglie, altro è la moda che viene imposta. Ognuno di noi può essere portatore, soggetto di una moda. Il lato emancipante, progressivo di moda è quella di un’immagine di noi da offrire all’altro che siamo noi stessi a edificare, dove il corpo è autonomamente produttivo di senso, rivendica il suo diritto di valere come luogo del senso giocando di sogni, cioè giocando di maschere, le maschere più diverse. Poi c’è il lato regressivo, la moda imposta da un codice preordinato, che agisce come un destino. Il lato omologante, oppressivo della moda qui viene rappresentato nel suo carattere violento, cioè il corpo soffre a motivo della sovraimposizione sul corpo di un ordine di significato astratto. La caduta degli immutabili, degli stermini, implica la sostituzione di quegli eterni, di quegli immutabili con una nuova e diversa normalità, la legge astratta di moda. Non importa il danno subito dal corpo, ciò che conta è la perpetuazione della logica astratta di moda, la sua affinità con la fredda e geometrica ragione. C’è un passo della Zibaldone che a questo proposito è illuminante, 147, scrive Leopardi: “Eccetto le piccole differenze provenienti dal clima e dal carattere di ciascheduna popolo, i quali però vanno sempre cedendo all’impulso moderno di eguagliare ogni cosa e certamente da perduto massime nelle classi colte; si ha cura di allontanare tutto quello che c’è di singolare e di proprio nei costumi della nazione e di non distinguersi dagli altri se non per una maggior somiglianza col resto degli uomini – la distinzione diventa per maggior somiglianza -. E in genere si può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione e tutte le nazioni una sola persona. Non c’è più vestito proprio di nessun popolo e le mode invece d’essere nazionali sono europee. Anche la lingua diviene ormai tutt’una per la gran propagazione del francese.”

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Affinità elettive tra Nietzsche e Leopardi

Franca Sera

Friedrich Nietzsche e Giacomo Leopardi: due nomi che raramente compaiono insieme nei manuali di filosofia o di letteratura, eppure tra loro corre una sorprendente consonanza di pensiero. A dividerli ci sono molte cose: la lingua, la formazione culturale, l’epoca (Leopardi muore quando Nietzsche ha appena compiuto un anno), ma a unirli c’è una sensibilità lucidamente tragica nei confronti dell’esistenza e un rifiuto radicale delle consolazioni tradizionali della cultura e della religione. Entrambi hanno scardinato i valori fondanti della civiltà occidentale, mostrando l’inadeguatezza delle illusioni umane di fronte all’abisso del nulla o alla volontà cieca della vita. Leopardi e Nietzsche sono due smascheratori. Il primo, con la lente della ragione illuministica, si fa anatomista delle “belle illusioni” che la natura ha imposto all’uomo per sopravvivere; il secondo, con lo stile aforistico e profetico, denuncia le illusioni morali e religiose che tengono in piedi la “decadenza” dell’Occidente. Entrambi considerano il cristianesimo una forma di menzogna vitale: per Leopardi è una superstizione che ha negato il corpo e la natura; per Nietzsche è la massima espressione della volontà di negazione della vita. Per entrambi, l’uomo moderno ha perso il contatto con la natura originaria. Leopardi parla della “natura matrigna”, che genera per distruggere, mentre Nietzsche oppone al moralismo della cultura europea il dionisiaco, simbolo dell’accettazione tragica della vita, anche nel suo dolore. È qui che le strade sembrano divergere, ma in realtà si incrociano in modo più sottile. Leopardi è il grande cantore del pessimismo cosmico, convinto che la vita sia intrinsecamente dolore, e che la felicità sia solo un’illusione fugace. Ma negli Operette morali, e soprattutto nel Dialogo di Tristano e di un amico, emerge una forma di “eroismo del pensiero”: la forza di guardare in faccia il nulla senza cercare rifugio. Nietzsche condivide questa tensione, ma la rovescia in senso attivo: il nichilismo non va solo riconosciuto, va attraversato. Dove Leopardi parla di disincanto, Nietzsche parla di trasvalutazione: non solo accettare il vuoto, ma trarne una nuova affermazione dell’essere. Il suo superuomo è, in fondo, un poeta tragico, capace di dire sì alla vita anche quando essa non offre senso. Entrambi usano la scrittura non solo per dire, ma per mostrare una verità scomoda. La prosa leopardiana, pur nella forma dialogica o narrativa, è pervasa da un senso di glaciale chiarezza, mentre Nietzsche affida alla frammentazione aforistica e alla metafora il compito di oltrepassare la logica tradizionale. Per entrambi, lo stile è un gesto filosofico. Nietzsche riconosce in Leopardi un’anima affine. Lo cita con stima nelle sue lettere, e ne legge con attenzione i Pensieri. Ammira la profondità e la lucidità leopardiana nel cogliere il rapporto tra uomo, natura e cultura. Anche se non lo inserisce tra i suoi interlocutori privilegiati (come fa con Schopenhauer o Wagner), lo considera una figura che ha intuito, come pochi altri, il destino tragico dell’umanità moderna. In definitiva, Leopardi e Nietzsche possono essere visti come due veggenti dell’abisso: filosofi-poeti che, pur partendo da premesse diverse, giungono a contemplare la stessa verità: l’assenza di fondamento dell’esistenza. Ma non si fermano lì. La loro opera è una chiamata al coraggio intellettuale. Se Leopardi invita a una solidarietà tra esseri umani, fondato sulla comune condizione dolorosa, Nietzsche invita a una nuova affermazione dell’individuo, che crea i propri valori. Un asse fondamentale su cui misurare l’affinità tra Leopardi e Nietzsche è il rapporto con la natura. Per entrambi, la natura non è più la madre benevola dell’Arcadia o l’ordine armonico della teologia naturale. In Leopardi, la natura si rivela come forza indifferente, produttrice incessante di vita e morte, priva di finalità morali. È la “matrigna” del Dialogo della Natura e di un Islandese, dove l’uomo cerca spiegazioni etiche a ciò che etico non è. Allo stesso modo, Nietzsche, soprattutto nei testi maturi (Genealogia della morale, Crepuscolo degli idoli), smaschera l’idea che l’universo abbia uno scopo morale o che l’essere umano occupi un posto privilegiato. In entrambi si affaccia una visione dell’uomo come errore evolutivo o come illusione che pensa se stessa. Leopardi scrive: “l’uomo è un animale infelice per natura”; Nietzsche rincara: “l’uomo è una corda tesa fra l’animale e il superuomo”, cioè un essere di passaggio, né compiuto né stabile. Ma se in Leopardi ciò si traduce in un invito alla compassione laica, Nietzsche lo trasforma in una sfida: trasformarsi, superarsi, non attraverso l’ottimismo ma attraverso la durezza. Qui la differenza si fa netta: Leopardi è l’ultimo dei classici, Nietzsche il primo dei contemporanei. Ma il loro punto di partenza è lo stesso: il crollo delle certezze metafisiche. Ciò che rende ancora più affascinante il confronto è che sia Nietzsche che Leopardi non sono filosofi accademici. Entrambi scrivono fuori dai canoni della trattazione sistematica. Leopardi costruisce un pensiero filosofico attraverso i frammenti dello Zibaldone e il teatro delle Operette morali; Nietzsche rompe la forma del trattato per affidarsi al pathos dell’aforisma, del mito, del simbolo. Il loro pensiero è indissolubilmente legato alla scrittura. Non separano il che cosa si pensa dal come lo si dice. Entrambi sono autori che devono essere letti come poeti del concetto, filosofi dell’immagine, critici della verità intesa come oggettività. E questo li rende ancora oggi radicalmente attuali. Perché ci pongono davanti a un interrogativo che la filosofia troppo spesso rimuove: come pensare l’esistenza senza fondamenti, senza Dio, senza Progresso, senza Natura benevola? Un ultimo dato storico: Nietzsche legge davvero Leopardi. Ne parla in alcune lettere, in particolare tra il 1880 e il 1888, e lo definisce “un grande psicologo e poeta, di profondissima intelligenza”. Lo accosta, seppur marginalmente, a Schopenhauer, pur rilevando che Leopardi “non ha avuto la forza di superare il dolore”. È una lettura che testimonia non solo l’attenzione filologica, ma anche una sorta di empatia intellettuale: Nietzsche riconosce in Leopardi un predecessore che ha toccato il cuore del problema dell’esistenza, pur senza riuscire a oltrepassarlo nella direzione del “sì” alla vita. Alcuni studiosi, come Giorgio Colli, hanno suggerito che proprio Leopardi possa aver esercitato un’influenza sotterranea su Nietzsche, soprattutto nell’idea che la verità non redime, ma distrugge – e che l’arte, la forza dello stile, sia l’unica possibile forma di salvezza. Ciò che Leopardi definisce è una parola cruciale: spiritualizzazione. Due accezioni: una positiva (costruttiva produttiva): la cosa arcana e stupenda, l’enigma che è nelle cose, la capacità che le cose hanno di offrirsi a noi come una soglia critica. L’altra negativa (regressiva, culturalmente regressiva): le barbarie, gli errori barbari (da lui distinti dagli errori buoni, dalle illusioni, leopardi rivendica la forza politicamente costruttiva delle illusioni, dell’immaginazione, proprio nel momento in cui la ragione si avvede che tutto è nulla, ma bisogna lottare) → altro che pessimista, nessuna rinuncia Il suo è un realismo poetico, il realismo critico, egli coglie il tragico che è nelle cose, cogliere il non senso delle cose. Non è pessimismo. Il riconoscimento del non senso delle cose che produce atrofia, indifferenza, ma poi fa scattare per reazione il lavoro costruttivo dell’immaginazione. Tema che attraverserà tutto il 900: non posso ma debbo. Se ne è fatto teorico il giovane Lukács in “Teoria del romanzo”. Uno dei temi di fondo di quest’opera è “mi rendo conto che nulla ha senso e proprio per questo lotto…pur parziale pur provvisorio e tuttavia un qualche senso deve poter essere possibile”. Malgrado il non senso. Questa lezione Lukácsiana ritorna in “Teoria estetica” di Adorno, il tema del nonostante, cioè l’idea del senso come dovere, come compito etico. Etica ed estetica fanno tutt’uno (la grande lezione di Nietzsche). Si parla di tragico soprattutto nel senso di nessuna aspirazione a una sintesi definitiva. Tragica è propriamente la consapevolezza di non aver nessuna possibilità di ridurre il due all’uno, di oltrepassare la contraddittorietà del reale. Il tragico implica questa consapevolezza, profondamente radicata nella cultura occidentale (Eschilo, Sofocle). Tenere insieme l’idea del tragico e l’idea del comico consiste nel sussistere della stessa tensione irrisolta, non mai davvero decidibile, tra i termini che compongono le antinomie del reale: tutto è nulla, ma tutto è contraddizione. La contraddittorietà del reale è qualcosa di non trascendibile, di non redimibile. Nessuna riduzione del due all’uno, si deve persistere sulla soglia del tra due, è lì che il pensiero lavora, che si accende ogni volta il bisogno del senso, indissolubilmente connesso al non senso, ma per noi infinitamente produttivo. Per noi” non c’è per Leopardi la pretesa di dire come stanno le cose per la scienza, anche se vuole conoscere il vero, ma intende che dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, osare di dire l’indicibile attraverso il dicibile, il tentativo di rappresentare l’irrappresentabile con la consapevolezza della sua irrapresentabilità. Ultrafilosofia: espressione di leopardi, un apax, cioè una parola che compare una sola volta nella sua intera produzione. Si qualifica come l’idea di un pensiero poetante, una filosofia al di là della filosofia comunemente intesa, trascende la filosofia dall’interno stesso della filosofia. Seguendo questa linea si giunge a Nietzsche, oltre uomo, al fanciullo eracliteo, creare e distruggere senza un senso, senza un perché. Leopardi lo sa bene e infatti paragona la natura al fanciullo eracliteo, tanto caro a Nietzsche. cerca di risolvere e di comprendere l’intiero intimo delle cose. L’intiero è la totalità, l’intimo è il profondo, qualcosa che anima le cose, la profondità delle cose, che per Nietzsche è la profondità della superficie, il lato oscuro della superficie, il risvolto implicito, il rovescio. Nessuna scissione fra superficie e profondità. Con ultrafilosofia si intende la totalità dell’opera leopardiana, cioè l’opera di Leopardi nelle sue diverse articolazioni. Essa è un progetto di Leopardi, un modo di intendere la pratica filosofia e artistica. Il testo è un insieme di segni, tra i quali si è in grado di cogliere infiniti rapporti, il segno è una traccia, è un elemento sensibile. Sotto questo profilo una delle funzioni essenziali svolte dal segno è la capacità che tali segni hanno di fare cenno, accennare, indicare non un significato determinato, non indicare un particolare specifico uso del linguaggio, ma innumerevoli usi possibili. Indicare non un oggetto dato o un referente, ma più indicare un cammino, un sentiero da percorrere, una via da seguire nella comprensione delle cose. A giocare un ruolo chiave nella pratica filosofica non è il passaggio dal noto all’ignoto, ma una rinnovata considerazione critica del noto, cioè di ciò che noi già sappiamo. Lo dice anche Nietzsche nella “Gaia scienza” “il problema non è l’ignoto, ma il noto”. Non è questa la postura di Socrate? ti esti? Che cos’è? Nella sua accezione pre-platonico è definizione della forma logica della cosa, circoscrivere, determinare l’indeterminato. Quel ti esti, però, vuol dire non tanto la definizione della cosa, ma “che vuoi dire?”, che cosa intendi dire quando dici ciò che dici, non l’essenza della cosa. Appartiene alla postura filosofia questo tratto, l’esigenza di ricomprendere il già compreso, del ripensare il già pensato. Dove il non ancora pensato è il propriamente pensare, cioè il pensare criticamente, filosoficamente ciò che fino a quel momento davamo per scontato. La filosofia come quella postura eminentemente interrogante, uso critico del pensiero, la messa in esercizio di un sempre interrogare. Quel passato da non ancora propriamente pensato a un propriamente pensare che non è dato una volta per tutte. Tradizionalmente si esalta l’elemento intellegibile, è l’intelligibile che dà senso, ragione del sensibile, definire le cose vuol dire cogliere la loro struttura intellegibile, quella e non un’altra (principio di non contraddizione aristotelico). Qui però si sta invitando a ripensare radicalmente il rapporto fra sensibile e intellegibile, nessuna scissione fra questi due piani, ma neanche uno spostamento di accento. In Nietzsche questo è chiaro: ripensare il senso del rapporto e il senso da attribuire a questi due termini; termini che diventano i due poli di una tensione necessariamente irrisolta, nessuna reductio ad unum. Nessuna pretesa di risolve e dissolvere la dualità a vantaggio dell’unità. Risolverla sarebbe sacrificare il sensibile, la particolarità, unicità delle cose in nome di una concettualità di per sé astratta. Divorzio, rottura di quella concettualità con il sensibile. Questa rottura si postula quando si esprime una volontà di dominio del voler porre la pretesa di definire, spiegare il sensibile tramite l’intellegibile. Il volto metafisico del pensiero che domina l’occidente. Valorizzazione del particolare, attenzione al dettaglio. C’è un testo nietzscheiano che in merito è molto importante, ovvero la “Gaia Scienza”, in particolare la prefazione alla seconda edizione del 1886, che è anche la data del cosiddetto tentativo di autocritica (a titolo di introduzione, il ripensamento della tesi da lui stesso sviluppato nella “Nascita della tragedia” – affine alla prefazione della seconda edizione della “Gaia scienza”). Nietzsche lì si fa in modo esplicito sostenitore di un sapere della superficie (“non cercare nulla al di là dei fenomeni già loro sono la teoria” Goethe) ovvero il tragico nietzschiano. Del quale un aspetto fondamentale è nessuna riduzione ad uno, nessuna pretese di una sintesi, di superare la contradditorietà del reale. Un altro è l’idea del tragico come sapere della superficie ovvero il riconoscimento della necessità di salvare l’apparenza, non nel senso metafisico tradizionale che da Platone ad Hegel significa includere i fenomeni in un quadro categoriale logico in grado di spiegarli di darvi un Senso (aspirazione tipicamente logocentrica, metafisica) di contro il riconoscimento della necessità dell’apparenza dove la singolarità delle cose viene riconosciuta nel suo diritto di valere di per sé. Il riconoscimento della forza autonomamente significante del sensibile, il sensibile non attente di ricevere da altro il suo Senso lo ha già in sé, dove esso è una sterminata ricchezza di senso ovvero una indefinita molteplicità di possibili significati, che scaturiscono via via dal fenomeno a motivo della relazione fra noi e il fenomeno. “O questi greci! – capacità di riconoscere ai greci un termine di paragone esemplare – loro si sapevano vivere, per vivere occorre arrestarsi (indugiare, trattenersi) animosamente (partecipazione) alla superficie, all’increspatura (non perché si stia negando l’intellegibile) alla pelle (il mio sentirmi corpo, il mio essere un corpo senziente: rispetto al mio essere corpo la pelle è una soglia, un confine da attraversare, tra il mio mondo e l’esterno, quell’ambiente all’interno del quale io sono incluso, sono dentro, e non posso, quindi, avere la pretesa di trarmi fuori, sono convolto nell’esperienza; ma la pelle è una soglia porosa, permeabile, l’interno esce verso l’esterno e l’esterno penetra nell’interno) adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole (sinestetico), all’intero olimpo della parvenza (il mondo olimpico dai greci è un mondo prodotto dalla sensibilità dei greci, dalla loro immaginazione, da quella capacità produttiva che connota tutti noi, ma soprattutto il greco che sapeva porre al centro della sua esperienza l’estetico. Allora ha inventato l’Olimpo, con sullo sfondo la paura della morte, ma la risposta dei greci è costruttiva, un mondo di sogno, abitato da illusioni) questi greci erano superficiali- per profondità!” Il riconoscimento che non c’è nulla di più profondo della superficie, il massimo della profondità è la superficie, è la profondità della superficie, non sta da un’altra parte. La profondità è la sterminataricchezza di senso della superficie. La profondità è l’ombra della luce all’interno della luce, ovvero Dionisio, la profondità di ogni superficie. Quel fondo oscuro che ogni fenomeno costudisce al suo interno, la sterminata ricchezza di senso immanente al sensibile.Sotto questo profilo sia Leopardi che Nietzsche sono animati dalla necessità di difendere il sensibile, una difesa sempre rinnovata, il sensibile è sempre minacciato, perché nella storia della nostra cultura si è assegnato al logos il primato, al concetto, alla pretesa di definire le cose. Adorno nella “Dialettica dell’illuminismo” con Horkheimer dice “unità rimane la parola d’ordine dell’illuminismo” la logica strumentale, della spiegazione, definizione. Rifiuto del molteplice o svalutazione o subordinazione gerarchica del molteplice all’uno.In “Leopardi e il pensiero moderno” di Carlo Ferrucci, un saggio ha per autore un estetico catalano, Rafael Argullol, dal titolo “Leopardi pensatore tragico”. Secondo Argullol il pensiero di Leopardi assume la forma di un movimento circolare in espansione centrifuga; circolare, si ripete, si torna sempre a considerare il medesimo, la cosa stessa che sempre sfugge, ma in espansione centrifuga, quindi allontanamento dal centro, implicando a sua volta sempre un movimento centripeto(si fugge dal centro e si ritorna verso il centro). Un andamento spiraliforme. “Un movimento dunque che si realizza attraverso successive esplorazioni del reale”. Questo tentativo di comprensione e non di spiegazione, che è un sondare, un esplorare sperimentalmente con il coinvolgimento pieno della propria sensibilità, del proprio sentire, cioè a partire dal proprio essere un corpo senziente, dolente. Nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, del 1830, il pastore è filosofo, il poeta filosofo, che si interroga sul senso dell’esperienza, con quell’allocuzione formidabile all’inizio alla luna Silenziosa la luna, la luna non risponde, il senso non è dato, appartiene all’ordine dell’assenza. Per quanto noi possiamo interrogarci non arriverà mai la risposta capace di estinguere la domanda. Il male è l’idea secondo la quale tutto è nulla, la realtà è non senso, è una consapevolezza insieme soggettiva e oggettiva. Appartiene al piano del comprendere. Che tutto sia male è vero alla luce del fatto che c’è un corpo vivente senziente, dolente che avverte il male – non c’è un male indipendentemente dalle parole del pastore. Quel “A me” è fondamentale. Non è solipsismo, relativismo, ma non è nemmeno oggettivismo. Perché nel dire “a me la vita è male” si sta dicendo “il senso delle cose è male”, quindi c’è un parlare del mondo sentendo che il mio dire coinvolge idealmente tutti gli altri, la comunità etico-estetica dei corpi dolenti e senzienti. La social catena, comunità fondata su rapporti di affinità e differenza. Non è la massa, piuttosto una moltitudine di singolarità incarnate, cioè di corpi dolenti, senzienti, immaginanti che sentono che A LORO la vita è male. Cioè che conta è il coinvolgimento pratico del soggetto, uno che è noi, non singolo, sulla soglia di quel singolo io a parlare sono innumerevoli voci – l’umanità dolente. Il dolore che è nelle cose, che ci colpisce, che ci invade, che ci fa uomini. Quel dolore che ci deve indurre a una lotta comune contro la natura, dove la natura è l’oppressore, cioè l’idea di un non senso che è così terribile da porsi come una datità apparentemente intrascendibile. E invece quella datità non è intrascendibile, perché il sentire del soggetto (io che è insieme noi) si ribella – ritorna il tema del non posso ma debbo. – Tutto è non senso, dunque un senso deve poter essere possibile, perché io soffro, io sento che tutto è male e allora sento di dover impedire il pieno assorbimento della mia esistenza, cioè del particolare, nella totalità astratta di una natura che ci schiaccia, ci soffoca, ci paralizza, che ci impedisce il conseguimento pieno della felicità. Quella natura così concepita diventa l’immagine dell’oppressore, di un non senso che l’uomo avverte come positività assoluta, schiacciante paralizzante, a cui risponde “a me la vita è male”. È la risposta di un corpo dolente che sente la sua affinità con infinito altri corpi dolenti. L’esistenza sarebbe un non senso come datità inamovibile.Questo male che pesa su di noi come un destino intrascendibile. La natura come perpetuo circuito di produzione e distruzione, per conservare l’intero; la legge inesorabile meccanicistica del tutto. Questo è male per noi, non per la natura, che di nulla si avvede e di nulla si cura; la natura carnefice del suo stesso sangue e della sua stessa carne, crea le sue creature per ucciderle, quale contraddizione più profonda e abissale. Se la realtà è questo tutto è male, tutto è distruzione, tutto è nulla, nulla ha senso, nulla ha peso, nulla ha valore. È l’incontro fra l’islandese e una natura sfingea “di volto mezzo fra bello e terribile”. Suggerendo l’illusione della felicità, del piacere e negando la possibilità del piacere.

Diventa agli occhi dell’uomo consapevole di questa verità un dato, il riconoscimento di un non senso, che è però l’unico senso possibile, tutto è nulla. Rispetto a questa datità che sarebbe la negazione di ogni senso, cioè il male come unica condizione dell’essere del vivente, si ribella il sentire, il conoscere sentendo del vivente, cioè del poeta filosofo, del pastore. Un’intelligenza commossa, sentimentalmente indicizzata. Non è l’intelligenza asettica, astratta, un pensiero freddo, che è lo stesso pensiero freddo contro il quale si ribellerà Nietzsche, fin dai suoi primi scritti sulla filosofia, quando contrappone l’idea di un filologo talpa a un filologo centauro. Un occhio astratto, freddamente contemplativo, che pretende di spiegare il testo, di coglierne il senso e che come una talpa sta lì a scavare e torna a scavare perché cerca i significati, la datità del significato. Di contro il filologo centauro, una filologia che deve essere allo stesso tempo storia, scienza naturale e arte (tutte e tre le cose insieme e al contempo nessuna delle tre – una pozione magica, uno strano aggregato). Per Nietzsche la filologia non è accertamento del fatto, ma interrogazione del vero. Sotto il profilo della storia il filologo cerca la legge che regna nella fuga dei fenomeni, cioè il piano dei presupposti. È scienza naturale perché si interroga in particolare sul linguaggio, cioè sul sostrato pratico, lipidico che è all’origine del nostro linguaggio, ma questo sostrato è di nuovo il piano dei presupposti, delle condizioni. Infine deve essere anche arte, perché tenta di risvegliare la “meravigliosa forza formatrice dell’antico”, assumendo cioè l’antico come istanza eternamente esemplare, che di nuovo appartiene al piano dei presupposti, perché è una forza e non una forma. Una forza formatrice, la genesi di tutte le forme possibile. La cultura greca come esibizione esemplare dell’azione continuamente esercitata da questa meravigliosa forza formatrice, ovvero Dionisio: la genesi informe di tutte le forme. Il punto è quindi risalire al piano delle condizioni, dei presupposti, dove i presupposti non sono presupposti di ordine logico concettuale, perché sfuggono al piano del logos. Non a caso leopardi è anche un filologo.Ne cogliamo il profumo, cioè questa dimensione inespressa che è all’origine di tutte le forme della cultura antica e che il filologo ha il compito di risvegliare è qualcosa che non si lascia chiudere dentro una definizione, perché si offre a noi solo come profumo. Non ci può definire un profumo così come non si può definire una melodia musicale. C’è un possibile equivoco, ovvero l’dea secondo la quale noi avremmo a che fare da una parte con un Leopardi poeta, e soltanto, essenzialmente poeta, puro; dall’altra con un’estetica, concepita come filosofia dell’arte, tra cui arti c’è anche la poesia. Dalla connessione fra questi due momenti sorge l’equivoco: Leopardi artista come oggetto dell’estetica. L’estetica in primo luogo non è una filosofia dell’arte, anche se quest’idea è ancora diffusa e continua a risuonare. Leopardi pur immenso poeta non è soltanto poeta e si tratta di capire in che senso sia poeta e in che senso non sia soltanto poeta filosofo, un pensiero poetante che si specifica come ultrafilosofia che vive e si nutre della connessione inscindibile di poetica e pensiero. Il senso della poesia non è un senso denotativo, non possiamo fare appello alla poesia come se avessimo una concezione referenzialsitica del linguaggio. La poesia è una sfida infinta per il comprendere, dobbiamo tentare di comprendere quel verso sempre e di nuovo, ma quel verso non si può risolvere in una riformulazione in prosa.

Una disciplina filosofica, ma anche come modo d’essere originario, costitutivo della nostra vita mentale, cioè del nostro fare esperienza del mondo. Un tratto saliente, primordialmente, della nostra vita mentale, “il tratto saliente della fioritura umana”. Sotto questo profilo l’estetico significa tante cose, per esempio quando noi parliamo di estetica ciò a cui noi stiamo alludendo è qualcosa che implica sempre in qualche modo all’idea del caso felice o della felice contingenza.

[La contingenza è ciò che può essere altro da sé, il poter essere altrimenti da parte delle cose, nulla costringe le cose ad assumere quella forma che via via assumono, non c’è una necessità logica che pesi sulle cose e che le inchiodi inevitabilmente al loro essere così e non altrimenti; ovvero il divenire → un tratto costituivo dell’estetica/o]

“Il caso felice” espressione ossimorica, paradossale: felice dice di fatto il contrario rispetto a caso, rispetto a contingenza, lo contraddice. Felice vuol dire un’unione di attesa e adempimento, di esser e dover essere; si dà felicità perché le cose così come sono, così come appaiono, vanno proprio bene, un’idea di pienezza, di compiutezza. Quest’idea di felicità chiama in causa la necessità, il non poter essere altrimenti delle cose. Allora è come se noi stessimo dicendo “la necessità del contingente”, l’estetico è proprio quest’unione paradossale di necessità e contingenza. Espressione di una relazione armonica, di colpo sopraggiunge una condizione di armonia e accordo, quello che Kant nella terza critica chiama il libero gioco di immaginazione e intelletto. Un accordo, sinergia tra le nostre facoltà rappresentative, fra i diversi aspetti della nostra vita mentale, per Kant, ma non solo. Anche contemporaneamente armonia fra noi e il mondo, un sentirsi in armonia con il mondo, in accordo con le cose “è così che deve essere”. Armonia fra i diversi aspetti della nostra vita mentale, per esempio intelletto e sentimento, si accordano fra loro sull’occasione di una certa rappresentazione determinata, di un farci immagine delle cose. Di colpo ci sentiamo in armonia con le cose, ciò di colpo cogliamo un senso, cioè sentiamo più in generale che ha senso fare esperienza; le cose in qualche modo attendono, il loro senso già c’è l’hanno, ma è in attesa di affiorare. Questa capacità di cogliere la sensatezza dell’esperienza, di anticiparla, questo sentirsi in armonia con le cose è l’estetico.

L’estetico, sotto questo profilo, esprime la piacevolezza dell’accordo, è per noi fonte di compiacimento. Il perché non è dato dirlo e saperlo, ma perché qui è in gioco un sentire che è dato prima del logos, non lo possiamo spiegare logicamente dal momento che capiamo che è proprio quel sentire alla base di ogni spiegazione. Possiamo dare spiegazioni in quanto innanzitutto ad agire nella nostra esperienza è questo modo d’essere, cioè il piano del senso, dove il senso è un senso da sentire, un senso sentimento (l’importanza della critica della facoltà di giudizio di Kant). Un senso del quale noi possiamo avere coscienza solo nella forma di un sentimento, kantianamente di Gefuhl. Il sublime è il lato oscuro di quest’accordo (ricordarsi per la tesi).

Questo senso sentimento è di fatto il presupposto di ogni nostra esperienza, la condizione che rende possibile ogni nostra esperienza, conoscitiva o non conoscitiva, teorica o pratica. Ciò sul cui sfondo si dispiega ogni modo d’essere della nostra vita mentale, Quel sentire, non è scisso dal pensiero, è un pensare, ma non un pensare concettualmente determinato: è la fonte di infinito concetti e rappresentazioni. Un sapere come, cioè un sapere che è insieme un sentire. La qualità delle cose non è dicibile, non la si può ridurre a significati, alla logica dell’enunciato.

Questo senso sentimento appartiene all’ordine del sensibile o dell’intellegibili?

Simultaneamente ad entrambi, perché quel senso sentimento a ben vedere lo possiamo immaginare come la freccia che scocca all’incrocio fra sensibile e intellegibile, che diventano come gli estremi di un arco che nella nostra esperienza non smettiamo mai di tendere. Questo senso sentimento è al confine fra i due ambiti, sulla soglia fra sensibile e intellegibile, non è n’è l’uno né l’altro ma appartiene ad entrambi.

Di colpo sulla soglia di quella siepe il senso viene a manifestazione, fosse pure per un istante, come totalità indeterminata del possibile (l’infinito). Il finito (la siepe) viene a configurarsi come soglia critico immaginativa capace di dischiudere di colpo l’infinito, cioè la totalità del senso. Quel senso come condizione dei diversi possibili significati che noi possiamo dare all’esperienza. Questo senso sentimento condizionante non lo possiamo mai coglier indipendente dai diversi singoli significati particolari che noi di volta in volta vediamo affiorare. Per esempio la siepe che appartiene all’ordine del determinato, che diventa soglia critica, cioè quel luogo in corrispondenza del quale io sento la congiunzione paradossale di senso e significato, finito e infinito. Questo senso non lo cogliamo mai in quanto tale. Tali singoli significati, sono ciò che va a comporre il nostro linguaggio e la nostra vita mentale, essendo sempre in relazione con quel condizionato. Ma condizione e condizionato non sono mai scindibili. La condizione cioè il senso io lo colgo sempre e soltanto attraverso il condizionato (l’eccedenza del determinato), per il suo favore, senza poterlo mai esplicitare.

La condizione è come un orizzonte, uno sfondo oscuro, irrapresentabile (Nietzsche lo chiama Dionisio), ma se è vero che questa condizione noi la possiamo sentire, cogliere, pensare sempre e solo attraverso il condizionato, allora è anche vero che la siepe, cioè il condizionato diventa la condizione che mi permette di sentire, pensare l’indeterminato, l’infinito. Si profila così un paradosso, la condizione si scopre condizionata dal suo stesso condizionato, il condizionato che funge da condizione della sua stessa condizione. Paradosso è questa condizione originale e costitutiva del nostro fare esperienza del mondo. Piano del senso che eccede le categorie del logos.

L’’estetica come filosofia del senso, non è da intendersi come un settore particolare dell’ambito della filosofia, l’estetica si dà come filosofia non speciale, filosofia tout court. L’estetica in quanto riflessione filosofia sulle condizioni di possibilità della nostra esperienza. Questo tentativo di risalire verso le condizioni di senso della nostra esperienza, è un tentativo da noi compiuto dall’interno stesso dell’esperienza. Quest’idea dell’estetica esclude la pretesa di contemplare l’esperienza dall’esterno e di disegnare dall’esterno i confini dell’esperienza, procedendo per forme logiche e definizioni, che hanno di mira l’oggettivazione del senso (l’aspirazione della metafisica). Questa riflessione, invece, implica la nostra partecipazione all’esperienza, il nostro coinvolgimento, il nostro stare dentro le cose. L’estetica è questa continua oscillazione fra partecipazione (stare dentro) e il distacco (stare fuori), abita il confine fra l’interno e l’esterno. Non si da mai uno svelamento pieno del nascosto, ogni volta lo svelare è un rivelare, ovvero coprire di nuovo. La filosofia come continua ricerca. Un tentativo di risalire alle condizioni non logiche della logica.

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Aspetto critico intorno a Leopardi

Lorenzo Napoleoni

Croce ha formulato su Leopardi un giudizio assai severo, ingiustamente severo. Il giudizio di Croce è un giudizio svalutante, anche quando lo valorizza, perché lo valorizza in funzione di alcuni presupposti che non rendono giustizia fino in fondo a Leopardi. Da questo punto di vista è un giudizio non autenticamente comprendente: c’è in Croce la tendenza a sovrapporre all’opera di Leopardi le struttura della sua impostazione idealistica. Per esempio una struttura fondamentale dell’idealismo crociano che pesa sulla lettura di Leopardi è il modo in cui Croce intende la poesia. Quella è la definizione nei confronti della quale Leopardi vale o non vale. Per Croce la poesia è sentimento, intuizione ed espressione di questa intuizione, in tal senso appartiene all’ordine del sentimento. L’arte è conoscenza del particolare, la logica conoscenza dell’universale. Agli occhi di Croce Leopardi è grande (e neanche sempre) solo quando è poeta, poeta nel senso più stretto, in particolare valido agli occhi di Croce è il Leopardi idillico. Laddove a emergere è la presenza del concetto (indeterminato), gli elementi di ordine riflessivo, teorico, lì l’apprezzamento cade. “Questo è aridità, astrattezza, non ha a che vedere con la purezza del sentimento, l’intuizione”. Un altro punto dolente della lettura crociana è l’idea secondo la quale la cosiddetta “vita strozzata” del poeta, cioè dell’uomo Giacomo Leopardi, funzionerebbe come principio esplicativo del senso della sua opera. Un biografismo spinto alle estreme conseguenze. Se Leopardi è pessimista è perché è un uomo sofferente, volendo radicalizzare, perché è gobbo, in quanto era segnata la sua vita da innumerevoli dolori di ordine fisico (la malattia agli occhi, la scoliosi, la deformità, ecc…). Un poeta sofferente dunque legge il mondo in termini pessimistici. Quindi un condizionamento esercitato deterministicamente del pensiero di Leopardi – lettura assolutamente regressiva, non comprendente di Leopardi, si riduce la sterminata ricchezza di senso dell’opera a quell’unico significato concettualmente determinato che sarebbe la vita strozzata di Leopardi. Per quanto riguarda il primo punto il vero tema lì è l’opposizione fra cuore e intelletto fra poesia e ragione. La poesia è cuore e sentimento, non pensiero, non ragionamento. Poi quest’idea della vita strozzata come principio esplicativo del cosiddetto pessimismo leopardiano. In questo curiosamente Croce (laico) riprende e usa strumentalmente una posizione innanzitutto sostenuta dal cattolico Niccolò Tommaseo, ostile a Leopardi. Il dato biografico che diventa principio esplicativo dell’opera d’arte. Posizione che poi verrà sostenuta anche da Giuseppe Sergi, autore positivista: il genio è tale perché è un disadattato. La genialità dell’artista è l’espressione del fatto che quel soggetto è disfunzionale, non si adattato all’ambiente allora la sua posizione si fa radicale, il suo dolore si fa estremo e da qui si deriva il pessimismo di Leopardi. Dati questi presupposti è evidente il tipo di lettura che Croce dà di Leopardi: “Una strana prosa poetica”. C’è la satira, il tragico, la compenetrazioni dei generi, non valgono i confini tradizionali tra i generi letterali, è riflessione, ma è anche teatralità, un teatro filosofico costituito da maschere, c’è prosa e poesia insieme, e al tempo stesso né l’una né l’altra. È irriducibile ad una categoria la scrittura delle “Operette morali”. Cosa sono le opere morali infatti agli occhi di Croce? “Un frigido vaniloquio accademico” – frigido, si ritorna al punto iniziale. È il cuore che conta, manza il sentimento, l’intuizione e la sua espressione. Freddezza della prosa poetica, perché ragionante, pensante, che si fa carico del paradosso del senso. Il paradosso del senso nella prosa artistica delle “Operette morali” si fa scrittura. “Hanno un che di monaldesco” – Monaldo il padre di leopardi, fiero sostenitore del legittimismo san fedista, uomo reazionario, esaltatore dei valori della tradizione, del dogma, dello stato della chiesa, lo spirito della restaurazione. Questa lettura è poi stata smantellata dai critici.

Per Croce le “Operette morali” sono soliloqui spacciati per dialoghi, il vaniloquio – un discorso futile e inconcludente – di un singolo dolente, che fa quello che fa perché soffre. E laddove noi vediamo agire due interlocutori, non sono veri interlocutori, ma meri nomi, come fossero manichini, lì utili a una funzione stabilita dall’autore. “C’è del malsano – dice Croce – in quelle prose, e in quelle palinodie e paralipomeni e lo stesso De Sanctis fu tratto a parlare del cattivo riso che vi si avverte e delle coltellate che lo scrittore tenta di dare con la gioia di chi si vendica e di una inimicizia per la stirpe umana, – Leopardi stesso dice che il suo pensiero non ha nulla a che fare con la misantropia, l’opera di Leopardi è invece intonata a un profondissimo sentimento di amore per l’umano, che si fa carico, come dice Adorno, della colpa e della tenebra del mondo, cioè del non senso della realtà – nella quale si sente repulso. – dato che si sente isolato, non valorizzato, un disadattato, allora la sua opera assume questa forma – Su ciò conveniva che ci fermassimo un momento, in considerazione della consueta inintelligenza, onde si esaltano quelle scritture come purissime opere di fantasia, di pensiero e di arte. – il senso dell’opera leopardiana non è nient’altro se non il grido di dolore di un animo sofferente, altro che opera d’arte – ma affrettiamoci ad aggiungere, che quel riso cattivo, quello sfogo di rabbia, è veramente da mettere sul conto della natura a lui matrigna e crudelissima e se merite le nostre riserve di critici, comanda la nostra pietà di uomini. In ogni caso non vada a cangiare il giudizio già regato sull’intima nobiltà di Giacomo Leopardi. – Massima pietà e compassione per l’uomo sofferente che era Giacomo Leopardi, ma non ci vengano a dire che quella è arte. Non ha niente a che vedere con quello che l’arte deve essere. – La sua fondamentale condizione in spirito, non solo era sentimentale e non già filosofica – quando Leopardi pensa lì non c’è vera filosofia, lì c’è il grido di dolore di un animo sofferente, non è da ascoltare in quanto filosofo. Croce nega la filosofici immanente alla forma artistica leopardiana – ma si potrebbe addirittura definirla un ingorgo sentimentale. Un vano desiderio e una disperazione così condensata e violenta, così estrema, da riversarsi nella sfera del pensiero e determinarne i concetti e i giudizi. – non è una visione lucida quella del Leopardi filosofo, è l’ingorgo sentimentale che lo affligge e lo porta a dire ciò che dice – Anzi sempre che quella disposizione d’animo, dimentica del suo vero essere, prese a comportarsi come se fosse una raggiunta posizione dottrinale. E si atteggiò a critica, a polemica, a satira; ne venne fuori quella parte dell’opera del Leopardi che è da riconoscere francamente viziata: – Laddove è più esplicito il suo essere filosofo, laddove la sua postura si offre a noi come postura pensante, riflessiva. Uno degli aspetti fondamentali nella lettura crociana è quindi proprio la negazione della filosofici dell’opera leopardiana. Il pensiero di leopardi viene da Croce sostanzialmente negato, in quanto pensiero. Dice invece Sebastiano Timpanaro, grande interprete leopardiano e, più in generale, grande filologo, ponendosi in riferimento a questa lettura crociana: “La stessa malattia che affligge Leopardi, diventano un formidabile strumento conoscitivo.” Di quello che lo stesso Timpanaro chiama un pessimismo lucido e combattivo. In questa connessione fra malattia, sofferenze e strumento conoscitivo, in questo nesso a risuonare è un motivo classico, fondamentale, costitutivo della nostra cultura, ovvero il pathei mathos, l’inno a Zeus dell’Agamennone. Col patire capire, attraverso il patire capire, attraverso il dolore, che non è soltanto suo, ma di tutti e di ciascuno, questo canta e mostra il Leopardi filosofo. La sofferenza come tratto ontologico diventa il presupposto, cioè diventa il materiale costruttivo di una rinnovata considerazione delle cose, cioè del vero, diventa conoscenza. Trasformare il dolore in comprensione delle cose, leggere nel dolore una via d’accesso alla comprensione delle cose. Questo motivo è al centro del pensiero tragico di Eschilo – riaffiora in Nietzsche che parla di saggezza nel dolore, non indipendente dal dolore. O in Baudelaire che nell’iperstimolazione nervosa della vita urbana, in un mondo alienato, reificato, traumatico va in contro al trauma, lo cerca, dice Benjamin, perché cerca l’incontro con il non senso, perché sa che può e deve trovare nel non senso della realtà un’occasione di risveglio del senso, lo trasforma in uno strumento conoscitivo. Severino che riconosce la valida teoretica dell’opera di Eschilo per ragioni completamente diverse fa riferimento al fatto che Eschilo per primo indica nell’episteme, nella metafisica, nell’idea degli eterni il rimedio da opporre all’angoscia del divenire. Superamento del mito in direzione di un logos che si fa episteme, epi istemi, dominare il divenire attraverso la costruzione degli eterni, degli immutabili. Per esempio Zeus che diventa l’immagine del senso con la S maiuscola. Questa postura nei confronti di Leopardi era già diffusa ai tempi di Leopardi, quando lui era ancora in vita, egli ha avuto notizia di questo modo di intendere la sua opera. In qualche modo Leopardi si è dovuto da sempre confrontare con questo atteggiamento. C’è una lettera di Leopardi importante a Luigi de Sinner del 24 maggio 1832: “Io faccio obiezione a quelli che hanno voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato dei miei mali fisiche e che si sono ostinati ad attribuire a circostanze materiali particolari quel che è frutto soltanto del mio intelletto. Prima di morire voglio protestare contro questa invenzione della pochezza mentale e della volgarità e pregare i miei lettori di impegnarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che delimitarsi ad imputarli alle mie malattie” Perché nel momento in cui si liquida il discorso leggendolo come quell’effetto di quella causa che sarebbe la malattia, il pensiero leopardiano diventa non più degno di essere discusso. Leopardi vuole che si vada nel merito del suo pensiero. Il Motivo compare anche nelle “Operette morali” per esempio nel “Dialogo di Timandro ed Eleandro” scritta nel 23, presente già nella prima edizione milanese e nel “Dialogo di Tristano e di un amico” del 32, quindi presente nella seconda edizione. Nietzsche come Leopardi sono autori inattuali. Diceva Nietzsche: “Si tratta di agire nel proprio tempo, contro il proprio tempo a favore se possibile di un tempo venturo”. L’artista incarna l’altro del presente, la voce capace non soltanto di contraddire l’esiste, cioè la logica dominante del mondo, ma anche di indicare nel presente le possibilità inespresse, implicitamente costudite. Il modo in cui il mondo a lui contemporaneo ha reagito (all’opera di Leopardi); un libro malinconico, sconsolato, disperato. Quel libro sono le “Operette morali”, è una meta riflessione. Libro in cui Tristano afferma l’infelicità costitutiva della vita, il non senso della realtà. Qui il riferimento è al modo in cui quel libro è stato accolto dai lettori. Il dialogo di Tristano e un amico è una falsa palinodia, cioè una falsa ritrattazione. Tristano finge di aver cambiato idea – mi sono sbagliato, non è vero, il mondo non è infelice – finge di identificarsi con il senso comune egemone per decostruirlo dall’interno. La mimesi, l’identificarsi con il non identico, l’assimilazione dell’eterogeneo. Adorno dice che la mimesi è l’impulso a farsi uguale a ciò che è altro da sé, come il mimo che fa come qualcun altro. Allora noi continuamente possiamo rintracciar nelle parole di Tristano il momento della palinodia e lo smascheramento del vero senso della palinodia. Nello scrivere quel libro Leopardi/Tristano fa appello a quella comunità del senso che è una comunità del sentire. Discorso presente già nella lettera a de Sinner, quasi questa è una previa risposta alle accuse di Croce: Leopardi proietta a livello ontologico, cosmico, universale una condizione sua particolare, che non riguarda la realtà delle cose, riguarda soltanto lui, dunque è irrilevante, non ha contenuto di verità. Aristotele dice che si dà scienza solo di ciò che può essere predicato di molti, cioè l’individuo sfugge alla trattazione epistemica, quindi che a Leopardi venga detto questo, da un punto di vista aristotelico, destituisce il fondamento del discorso di Leopardi. Svalutazione radicale della portata filosofica dell’opera leopardiana.

Ecco il punto: il riso, il comico. Qui innanzitutto il comico significa questo. Si ride dei negatori del vero, cioè di chi crede della felicità della vita, di chi nega il non senso della realtà, di chi nega l’acerbo vero, di chi nega l’infinita vanità del tutto. Di costoro si ride. Anche se non si ride solo di questo, dei negatori del vero, ma si ride anche di chi quel vero sostiene, cioè si ride degli stessi affermatori del vero, perché non ci si può limitare all’affermazione del fatto che tutto è nulla. Se ci si limitasse a questa affermazione il risultato sarebbe l’indifferenza, l’infingardaggine. Perché quella stessa affermazione diventerebbe un dato intrascendibile, che ci schiaccia. E allora anche di quell’acerbo vero si deve poter ridere, di un riso pensante e consapevole del tragico.

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Divagazioni sul concetto del NULLA a partire da Leopardi

Massimiliano Polselli

Quello che De Sanctis chiama il rapporto tra nosse e velle (conoscere e volere). Tradizionalmente (Aristotele, Sant’Agostino, …) c’è un nesso molto forte fra conoscere e volere. Per De Sanctis in Leopardi questo nesso viene spezzato; ciò che Leopardi porta a rappresentazione è la scissione fra questi due piani, il che è un lato positivo, un lato eticamente produttivo.  “C’è l’idea insomma secondo la quale a rendere possibile l’azione non è il conoscere, non è il sapere, ma è il volere”Il volere non dipende dal conoscere, il piano logico concettuale non fonda quello etico. In Leopardi le cose, secondo De Sanctis, non stanno così. Se io faccio quel che faccio è perché lo voglio e non perché sappia che le cose stanno o non stanno in un certo modo.“L’uomo fa quello che vuole e non quello che intende”. L’uomo agisce in relazione alla sua volontà e non perché a dettare la sua azione sia un’istanza teorico conoscitiva. C’è un’autonomia dell’agire: l’agire ha in sé la ragione di sé. De Sanctis coglie un punto importante della poetica leopardiana, ne mette in rilievo il carattere operativamente costruttivo. C’è una forza etica implicita che agisce continuamente nella tessitura del tessuto leopardiano. → La valorizzazione della prassi De Sanctis coglie l’idea dell’autonomia del piano del volere, del piano dell’etico in Leopardi che si pone di per sé come forza significante, al di là di tutto ciò che il concetto può sostenere “In Leopardi la volontà si ribella all’intelletto. L’intelletto dice: – Tutto è nulla. Tutto è vanità. Nulla ha senso. – e allora la volontà risponde: – Voglio vivere, voglio amare, voglio illudermi.” Volere il senso malgrado tutto. Dobbiamo continuare a tentare di farci rappresentazioni dell’irrapresentabile anche se sappiamo che dell’irrapresentabile non si possa avere mai una rappresentazione adeguata. Sotto questo profilo per De Sanctis il piano del nosse si scinde da quello del velle. Il piano teorico si separa dal volere. Quindi la volontà rivendica i suoi diritti contro ogni prospettiva logico concettuale. Quindi un’etica, una filosofia morale che si rivela in contraddizione con le sue stesse premesse, laddove le premesse sarebbero premesse logiche. Se l’intelletto dice “Tutto è nulla, nulla ha senso”, l’esito al quale mette capo l’esibizione di questa consapevolezza è “Voglio illudermi, voglio amare, voglio vivere”. Lotto per l’affermazione di un possibile senso malgrado tutto – so benissimo che nulla ha senso proprio per questo lotto . Quel voglio vivere non potrà essere negato da nessun convincimento teorico, da nessuna definizione logico concettuale. La vita come forza che eccede e trascende ogni possibile forma. L’etica contraddice la logica. Tale presupposto di De Sanctis non tiene. Stando allo schema De Sanctisiano da una parte si avrebbe l’intelletto che vede il nulla. L’intelletto cioè che concettualizza l’esperienza e che concettualizzando si avvede del nulla. Quindi il nulla è un concetto, quindi determinato, una definizione, una forma logica. Dall’altra parte invece avremmo una volontà, un piano etico che reagisce, si ribella a ciò che l’intelletto ha svelato. Ma è proprio vero che in Leopardi il nulla è un prodotto dell’intelletto? Rispetto alla capacità che l’uomo ha di concettualizzare, cioè di definire, procedere per sillogismi, un uso logico intellettuale, il piano del sentire, del conoscere sentendo, in Leopardi, è più forte. Poiché Leopardi afferma il primato dell’immaginazione, come essenza della nostra vita mentale, tanto da dire che l’immaginazione è la sorgente della ragione e che intelletto e immaginazione sono tutt’uno. Questo perché la nostra vita mentale è sostanzialmente immaginazione, cioè la capacità che noi abbiamo di farci immagini, cioè rappresentazione dell’esperienza. Il punto è che in Leopardi la stessa idea del nulla non è un concetto dell’intelletto, è un prodotto dell’immaginazione, con la consapevolezza che l’immaginazione è la sorgente della ragione. Che intelletto e immaginazione fatto tutt’uno, ma non perché l’immaginazione procede per inferenze e sillogismi, ma al contrario, nel senso che l’intelletto trova nell’immaginazione la sua fonte, la sua radice. L’ultrafilosofia di Leopardi in quanto pensiero poetante è un pensiero dominante immaginativo. L’espressione di una ragione poetica, commossa. Quindi le premesse non sono fissate dall’intelletto come dice De Sanctis, ma appartengono all’ordine di una ragione poetica. Non è una forma logica il nulla, il nulla è il modo in cui l vivente coglie il senso delle cose e lo coglie facendo appello al conoscere sentendo, essenzialmente l’immaginazione. In Leopardi certo che c’è il riconoscimento della forza autonomamente significante del volere, dell’autonomia del volere, ma questo non si oppone a una premessa di ordine intellettuale, perché l’idea che nulla ha senso è a sua volta il prodotto dell’immaginazione. Leopardi afferma il primato dell’immaginazione tanto da dire intelletto e immaginazione sono tutt’uno, perché la nostra vita mentale è sostanzialmente immaginazione, cioè la capacità che noi abbiamo di farci immagini, rappresentazioni dell’esperienza sensibile. Non si trova in Leopardi una distinzione analitica delle varie facoltà come invece avviene in Kant. Resta il fatto che rispetto a quella attività che Kant chiama intelletto, cioè la classificazione, la scomposizione analitica dell’esperienza. Il nulla è ambivalente, perché è uno schema dell’immaginazione, cioè è una rappresentazione insieme determinata e indeterminata: determinata perché in qualche modo io ne posso parlare, me ne posso fare un’idea, ma è carica di opacità. Quindi una rappresentazione che ha la capacità di produrre ulteriori rappresentazioni, in quanto schema dell’immaginazione, è una fonte inesauribili di ulteriori immagini. Solo che quello che nasce come prodotto dell’immaginazione, cioè il nulla, finisce a un certo punto per presentarsi a noi come un dato, solido, inamovibile, fonte di un’angoscia che ci paralizza. Contro quel dato si innesca di nuovo il lavoro dell’immaginazione, per esempio attraverso il riso, il comico. Contro il solido nulla la forza dell’illusione e del comico. Posto che non è l’intelletto il vero soggetto della produzione dell’idea del nulla De Sanctis coglie comunque un punto importante, cioè la capacità che il piano dell’agire ha in Leopardi di opporre una resistenza al piano del concetto e affermare la sua autonomia rispetto ad esso. L’etica in Leopardi secondo De Sanctis sta più in alto della logica, in quanto logica del concetto, non ogni e qualsiasi logica, perché anche l’immaginazione ha la sua logica che non è la logica della definizione. Ma a stare più in alto, insieme all’etica è l’estetica. Perché l’immaginazione in quanto espressione di una ragione poetica è essa stessa una potenza insieme etica ed estetica. Il luogo del sentire è il luogo del volere, del desiderare, ma è appunto il piano del sentire, del conoscere sentendo, e quindi la centralità dell’estetico centralmente connesso all’etico, come poi sarà in Nietzsche e in Adorno. Questa ricezione di Leopardi da parte di Croce e De Sanctis ha fortemente condizionato la sua lettura successiva, fino a che ad un certo punto, sia a livello teorico, che storico-critico, c’è un cambiamento. Nel 1947 escono due libri importantissimi: “La nuova poetica leopardiana” di Walter Binni e “Leopardi progressivo” Cesare Luporini. In entrambi i casi c’è un riconoscimento pieno della filosoficità dell’opera di Leopardi nel senso della stretta connessione che sussiste in Leopardi tra poesia e filosofia. In Binni c’è l’idea di un Leopardi intellettuale, artista, disorganico, cioè che in modo costitutivo Leopardi, agli occhi di Binni, è un contestatore dell’esistente. Leopardi è un contestatore dell’esistente, dove l’esistente si intende in senso ampio, non soltanto della forma assunta dall’esistente ai tempi di Leopardi, perché c’è in Leopardi l’idea della critica del dato, l’esistente è sempre un dato e deve essere quindi ricostruito, cioè risalito nelle sue condizioni di possibilità, interrogato, sempre. Altra affinità interessantissima con Nietzsche. Nietzsche è permanentemente inattuale, non c’è tempo determinato che possa trovare in Nietzsche un termine di rispecchiamento, non c’è forma assunta dal dato che possa soddisfare le istanze di un pensiero critico così radicale. Lavorare nel proprio tempo contro il proprio tempo (qualunque tempo) e a favore di un tempo venturo. Cioè rispetto a ogni forma assunta dall’empirico, dall’esistente così com’è risvegliare l’altro dell’esistente, nel dato l’altro del dato. Questo vuol dire essere inattuali per Nietzsche, ma anche Leopardi come contestatore dell’esistente è inattuale, proprio in questo senso. Leopardi è nel mondo estraneo al mondo. Luporini mette in luce un aspetto decisivo, ossia l’importanza, in Leopardi, del tema del possibile. In qualche modo questo Leopardi progressivo, che non vuol dire progressista in senso classico, non è progressista nel senso della fiducia illuministica nel progresso. Dal momento della presenza nei temi leopardiani del rifiuto dell’idea delle magnifiche sorti progressiva. Quindi non progressista, ma progressivo. Il che è fondamentale perché il progressivo è un’ideologia del progresso, laddove l’essere progressivo da parte di Leopardi, secondo Luporini, significa che Leopardi è un poeta- filosofo del possibile. In Leopardi la stessa disposizione ad essere dell’uomo, la sua attitudine al vivere, il modo in cui l’uomo abita l’esperienza, questa disposizione ad essere deve essere letta a rigore nei termini di una disposizione a poter essere. Il che vuol dire che l’essere in Leopardi è un poter essere. Ovvero l’essere acquista per noi un senso in quanto espressione di un poter essere. Cioè di una apertura al possibile, alla possibilità stessa del possibile. Proprio spingendo ai suoi limiti estremi, radicalizzando il non senso, avverte e ci fa avvertire il bisogno di un senso possibile. Un senso possibile che affiora dal negativo, dal non senso, cioè dal riconoscimento della stessa impossibilità del senso. Quando più si riconosce l’impossibilità del senso, tanto più noi avvertiamo la necessità del senso, che è la necessità della sua possibilità. Un senso deve poter essere possibile. Questo tema si ritrova anche in Donà, fino a sostenere che in archè, in origine, sta il possibile. E il possibile fa tutt’uno con il nulla, potenza annientante, l’annullamento di ogni senso, ma insieme la possibilità di un senso sempre diverso. È una forza creativa il nulla – principio della distruzione, ma anche della creazione. – Possibile che viene pensato da Leopardi in tutta la sua radicalità, perché è un possibile che nulla costringe ad essere possibile, non è un fondamento metafisico, non c’è una necessità logica a motivo della quale sempre nuove forme vengano a manifestazione. Questo riconoscimento del possibile è qualcosa che avviene a partire dal nostro essere immersi nell’esperienza, noi abitiamo il mondo, avvertiamo la finitezza del mondo e nel momento in cui la riconosciamo ci rendiamo conto che il che del mondo, il fatto che il mondo sia, il fatto che ogni ente sia presuppone la sua possibilità. Se è vuol dire che è possibile, ma questo possibile è una possibilità che coincide con l’idea dell’abisso, è un fondamento infondato, è quell’enigma che è l’unione inscindibile di produzione e distruzione. C’è una piena assunzione da parte di Leopardi della contingenza del nostro essere nel mondo. Donà oltre a insistere sul tema del possibile insiste anche sul tema della aseità di ogni ente, ovvero il puro fatto dell’esistere di ogni ente, cioè la contingenza di ogni ente, l’ente è così com’è, ma potrebbe essere altrimenti. Nulla costringe l’ente ad essere così com’è. Nulla lo determina, nulla lo vincola ad essere ciò che è. Non c’è una necessità più forte della contingenza, la contingenza è un dato originario, ma che la contingenza sia un dato originario vuol dire che il possibile è una dimensione originario. Allora l’aseità di ogni ente è il puro fatto dell’esistere. Cioè ogni ente è senza perché, senza scopo, senza senso, senza fine, senza fondamento. Questa aseità dell’ente ci permette di riconoscere l’originarietà del possibile. Tornando a Luporini, per lui in Leopardi la stessa dignità dell’uomo, l’idea della virtù che anche è importante in Leopardi, non è un dato al centro del cosmo, non è una necessità di ordine logico, un fatto che noi siamo chiamati soltanto a constatare. Non è qualcosa di garantito. È qualcosa che il vivente deve continuamente conquistare e riconquistare. Questa dignità dell’uomo è un’esigenza, un bisogno, un’esigenza forte ai margini: un’esigenza operativa. Perché il bisogno del senso è qualcosa che noi avvertiamo a partire dall’operatività del nostro essere. Noi siamo corpi viventi, senzienti, agenti. Il nostro essere insomma per Leopardi è un fare. Allora anche il senso acquista un significato operativo, è qualcosa che appunto noi dobbiamo continuamente conquistare e riconquistare, quindi agire il un certo modo. Considerando anche che il pensiero è una forma dell’agire. Nessuna scissione tra teoria è prassi. Per Leopardi la parola è prassi. Leopardi è anche un filologo, riconosce nella tecnica della parola, nell’arte della parola un fare, la possibilità di costruire un senso. Filologia per Leopardi vuol dire retorica, fondamentalmente e la retorica è eloquenza, è una parola pragmaticamente connotata. L’oratore deve persuadere deve coinvolgere emotivamente e insieme deve convincere, cioè deve modificare la prassi. La parola dell’oratore, del filologo, la parola in quanto tale è un modo d’essere della prassi, è una forma dell’agire. Quindi di per sé ha la capacità di trasformare il mondo, l’istallazione di un nuovo intervento di senso che modifica la prassi perché genera nuove assuefazioni, opinioni, nuove rappresentazioni che vanno a modificare la nostra vita mentale. A partire dall’incontro con quella parola leggiamo il mondo diversamente, ma se lo leggiamo diversamente ci comportiamo diversamente. → l’idea del senso come esigenza operativa. Per Luporini si può parlare a proposito di Leopardi di un nichilismo si, ma un nichilismo attivo.

In Leopardi la volontà si ribella all’intelletto. L’intelletto dice: -Tutto è nulla. Tutto è vanità. Nulla ha senso. – e allora la volontà risponde: – Voglio viverre, voglio amare, voglio illudermi. – ”Volere il senso malgrado tutto. Dobbiamo continuare a tentare di farci rappresentazioni dell’irrapresentabile anche se sappiamo che dell’irrapresentabile non si possa avere mai una rappresentazione adeguata. Sotto questo profilo per De Sanctis il piano del nosse si scinde da quello del velle. Il piano teorico si separa dal volere. Quindi la volontà rivendica i suoi diritti contro ogni prospettiva logico concettuale. Quindi un’etica, una filosofia morale che si rivela in contraddizione con le sue stesse premesse, laddove le premesse sarebbero premesse logiche. Se l’intelletto dice “Tutto è nulla, nulla ha senso”, l’esito al quale mette capo l’esibizione di questa consapevolezza è “Voglio illudermi, voglio amare, voglio vivere”.  Quel voglio vivere non potrà essere negato da nessun convincimento teorico, da nessuna definizione logico concettuale. La vita come forza che eccede e trascende ogni possibile forma. L’etica contraddice la logica. Tale presupposto di De Sanctis non tiene. Stando allo schema De Sanctisiano da una parte si avrebbe l’intelletto che vede il nulla. L’intelletto cioè che concettualizza l’esperienza e che concettualizzando si avvede del nulla. Quindi il nulla è un concetto, quindi determinato, una definizione, una forma logica. Dall’altra parte invece avremmo una volontà, un piano etico che reagisce, si ribella a ciò che l’intelletto ha svelato. Ma è proprio vero che in Leopardi il nulla è un prodotto dell’intelletto alla capacità che l’uomo ha di concettualizzare, cioè di definire, procedere per sillogismi, un uso logico intellettuale, il piano del sentire, del conoscere sentendo, in Leopardi, è più forte. Poiché Leopardi afferma il primato dell’immaginazione, come essenza della nostra vita mentale, tanto da dire che l’immaginazione è la sorgente della ragione e che intelletto e immaginazione sono tutt’uno. Questo perché la nostra vita mentale è sostanzialmente immaginazione, cioè la capacità che noi abbiamo di farci immagini, cioè rappresentazione dell’esperienza. Il punto è che in Leopardi la stessa idea del nulla non è un concetto dell’intelletto, è un prodotto dell’immaginazione, con la consapevolezza che l’immaginazione è la sorgente della ragione. Che intelletto e immaginazione fatto tutt’uno, ma non perché l’immaginazione procede per inferenze e sillogismi, ma al contrario, nel senso che l’intelletto trova nell’immaginazione la sua fonte, la sua radice. L’ultrafilosofia di Leopardi in quanto pensiero poetante è un pensiero dominante immaginativo. L’espressione di una ragione poetica, commossa. Quindi le premesse non sono fissate dall’intelletto come dice De Sanctis, ma appartengono all’ordine di una ragione poetica. Non è una forma logica il nulla, il nulla è il modo in cui l vivente coglie il senso delle cose e lo coglie facendo appello al conoscere sentendo, essenzialmente l’immaginazione. In Leopardi certo che c’è il riconoscimento della forza autonomamente significante del volere, dell’autonomia del volere, ma questo non si oppone a una premessa di ordine intellettuale, perché l’idea che nulla ha senso è a sua volta il prodotto dell’immaginazione. Leopardi afferma il primato dell’immaginazione tanto da dire intelletto e immaginazione sono tutt’uno, perché la nostra vita mentale è sostanzialmente immaginazione, cioè la capacità che noi abbiamo di farci immagini, rappresentazioni dell’esperienza sensibile. Non si trova in Leopardi una distinzione analitica delle varie facoltà come invece avviene in Kant. Resta il fatto che rispetto a quella attività che Kant chiama intelletto, cioè la classificazione, la scomposizione analitica dell’esperienza. Il nulla è ambivalente, perché è uno schema dell’immaginazione, cioè è una rappresentazione insieme determinata e indeterminata: determinata perché in qualche modo io ne posso parlare, me ne posso fare un’idea, ma è carica di opacità. Quindi una rappresentazione che ha la capacità di produrre ulteriori rappresentazioni, in quanto schema dell’immaginazione, è una fonte inesauribili di ulteriori immagini. Solo che quello che nasce come prodotto dell’immaginazione, cioè il nulla, finisce a un certo punto per presentarsi a noi come un dato, solido, inamovibile, fonte di un’angoscia che ci paralizza. Contro quel dato si innesca di nuovo il lavoro dell’immaginazione, per esempio attraverso il riso, il comico. Contro il solido nulla la forza dell’illusione e del comico. Posto che non è l’intelletto il vero soggetto della produzione dell’idea del nulla De Sanctis coglie comunque un punto importante, cioè la capacità che il piano dell’agire ha in Leopardi di opporre una resistenza al piano del concetto e affermare la sua autonomia rispetto ad esso. L’etica in Leopardi secondo De Sanctis sta più in alto della logica, in quanto logica del concetto, non ogni e qualsiasi logica, perché anche l’immaginazione ha la sua logica che non è la logica della definizione. Ma a stare più in alto, insieme all’etica è l’estetica. Perché l’immaginazione in quanto espressione di una ragione poetica è essa stessa una potenza insieme etica ed estetica. Il luogo del sentire è il luogo del volere, del desiderare, ma è appunto il piano del sentire, del conoscere sentendo, e quindi la centralità dell’estetico centralmente connesso all’etico, come poi sarà in Nietzsche e in Adorno. Questa ricezione di Leopardi da parte di Croce e De Sanctis ha fortemente condizionato la sua lettura successiva, fino a che ad un certo punto, sia a livello teorico, che storico-critico, c’è un cambiamento. Nel 1947 escono due libri importantissimi: “La nuova poetica leopardiana” di Walter Binni e “Leopardi progressivo” Cesare Luporini. In entrambi i casi c’è un riconoscimento pieno della filosoficità dell’opera di Leopardi nel senso della stretta connessione che sussiste in Leopardi tra poesia e filosofia. In Binni c’è l’idea di un Leopardi intellettuale, artista, disorganico, cioè che in modo costitutivo Leopardi, agli occhi di Binni, è un contestatore dell’esistente. Leopardi è un contestatore dell’esistente, dove l’esistente si intende in senso ampio, non soltanto della forma assunta dall’esistente ai tempi di Leopardi, perché c’è in Leopardi l’idea della critica del dato, l’esistente è sempre un dato e deve essere quindi ricostruito, cioè risalito nelle sue condizioni di possibilità, interrogato, sempre. Altra affinità interessantissima con Nietzsche. Nietzsche è permanentemente inattuale, non c’è tempo determinato che possa trovare in Nietzsche un termine di rispecchiamento, non c’è forma assunta dal dato che possa soddisfare le istanze di un pensiero critico così radicale. Lavorare nel proprio tempo contro il proprio tempo (qualunque tempo) e a favore di un tempo venturo. Cioè rispetto a ogni forma assunta dall’empirico, dall’esistente così com’è risvegliare l’altro dell’esistente, nel dato l’altro del dato. Questo vuol dire essere inattuali per Nietzsche, ma anche Leopardi come contestatore dell’esistente è inattuale, proprio in questo senso. Leopardi è nel mondo estraneo al mondo. Luporini mette in luce un aspetto decisivo, ossia l’importanza, in Leopardi, del tema del possibile. In qualche modo questo Leopardi progressivo, che non vuol dire progressista in senso classico, non è progressista nel senso della fiducia illuministica nel progresso. Dal momento della presenza nei temi leopardiani del rifiuto dell’idea delle magnifiche sorti progressiva. Quindi non progressista, ma progressivo. Il che è fondamentale perché il progressivo è un’ideologia del progresso, laddove l’essere progressivo da parte di Leopardi, secondo Luporini, significa che Leopardi è un poeta- filosofo del possibile. In Leopardi la stessa disposizione ad essere dell’uomo, la sua attitudine al vivere, il modo in cui l’uomo abita l’esperienza, questa disposizione ad essere deve essere letta a rigore nei termini di una disposizione a poter essere. Il che vuol dire che l’essere in Leopardi è un poter essere. Ovvero l’essere acquista per noi un senso in quanto espressione di un poter essere. Cioé di una apertura al possibile, alla possibilità stessa del possibile. Proprio spingendo ai suoi limiti estremi, radicalizzando il non senso, avverte e ci fa avvertire il bisogno di un senso possibile. Un senso possibile che affiora dal negativo, dal non senso, cioè dal riconoscimento della stessa impossibilità del senso. Quando più si riconosce l’impossibilità del senso, tanto più noi avvertiamo la necessità del senso, che è la necessità della sua possibilità. Un senso deve poter essere possibile. Questo tema si ritrova anche in Donà, fino a sostenere che in archè, in origine, sta il possibile. E il possibile fa tutt’uno con il nulla, potenza annientante, l’annullamento di ogni senso, ma insieme la possibilità di un senso sempre diverso. È una forza creativa il nulla – principio della distruzione, ma anche della creazione. – Possibile che viene pensato da Leopardi in tutta la sua radicalità, perché è un possibile che nulla costringe ad essere possibile, non è un fondamento metafisico, non c’è una necessità logica a motivo della quale sempre nuove forme vengano a manifestazione. Questo riconoscimento del possibile è qualcosa che avviene a partire dal nostro essere immersi nell’esperienza, noi abitiamo il mondo, avvertiamo la finitezza del mondo e nel momento in cui la riconosciamo ci rendiamo conto che il che del mondo, il fatto che il mondo sia, il fatto che ogni ente sia presuppone la sua possibilità. Se è vuol dire che è possibile, ma questo possibile è una possibilità che coincide con l’idea dell’abisso, è un fondamento infondato, è quell’enigma che è l’unione inscindibile di produzione e distruzione. C’è una piena assunzione da parte di Leopardi della contingenza del nostro essere nel mondo. Donà oltre a insistere sul tema del possibile insiste anche sul tema della aseità di ogni ente, ovvero il puro fatto dell’esistere di ogni ente, cioè la contingenza di ogni ente, l’ente è così com’è, ma potrebbe essere altrimenti. Nulla costringe l’ente ad essere così com’è. Nulla lo determina, nulla lo vincola ad essere ciò che è. Non c’è una necessità più forte della contingenza, la contingenza è un dato originario, ma che la contingenza sia un dato originario vuol dire che il possibile è una dimensione originario. Allora l’aseità di ogni ente è il puro fatto dell’esistere. Cioè ogni ente è senza perché, senza scopo, senza senso, senza fine, senza fondamento. Questa aseità dell’ente ci permette di riconoscere l’originarietà del possibile. Tornando a Luporini, per lui in Leopardi la stessa dignità dell’uomo, l’idea della virtù che anche è importante in Leopardi, non è un dato al centro del cosmo, non è una necessità di ordine logico, un fatto che noi siamo chiamati soltanto a constatare. Non è qualcosa di garantito. È qualcosa che il vivente deve continuamente conquistare e riconquistare. Questa dignità dell’uomo è un’esigenza, un bisogno, un’esigenza forte ai margini: un’esigenza operativa. Perché il bisogno del senso è qualcosa che noi avvertiamo a partire dall’operatività del nostro essere. Noi siamo corpi viventi, senzienti, agenti. Il nostro essere insomma per Leopardi è un fare. Allora anche il senso acquista un significato operativo, è qualcosa che appunto noi dobbiamo continuamente conquistare e riconquistare, quindi agire in un certo modo. Considerando anche che il pensiero è una forma dell’agire. Nessuna scissione tra teoria è prassi. Per Leopardi la parola è prassi. Leopardi è anche un filologo, riconosce nella tecnica della parola, nell’arte della parola un fare, la possibilità di costruire un senso. Filologia per Leopardi vuol dire retorica, fondamentalmente e la retorica è eloquenza, è una parola pragmaticamente connotata. L’oratore deve persuadere deve coinvolgere emotivamente e insieme deve convincere, cioè deve modificare la prassi. La parola dell’oratore, del filologo, la parola in quanto tale è un modo d’essere della prassi, è una forma dell’agire. Quindi di per sé ha la capacità di trasformare il mondo, l’istallazione di un nuovo intervento di senso che modifica la prassi perché genera nuove assuefazioni, opinioni, nuove rappresentazioni che vanno a modificare la nostra vita mentale. A partire dall’incontro con quella parola leggiamo il mondo diversamente, ma se lo leggiamo diversamente ci comportiamo diversamente. → l’idea del senso come esigenza operativa Per Luporini si può parlare a proposito di Leopardi di un nichilismo si, ma un nichilismo attivo.

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Sulla forza del NULLA tra Leopardi e Nietzsche

Danilo Compagnone

In questo passo considerato nella sua interezza l’accento cade nello stesso tempo sulla forza distruttiva del nulla, cioè sull’idea del nulla come potenza universalmente annientante, e sulla forza produttiva del nulla, il nulla come l’enigma. Quindi la realtà come perpetuo circuito di produzione e distruzione, l’idea della natura come ordine meccanicistico, deterministico, perfettamente insensato in quanto tale, perché non risponde alle domande di senso dell’uomo. Infatti tutto è posteriore all’esistenza, nulla preesiste alle cose, cioè il dato empirico, è il sopraggiungere dell’evento, del fenomeno, ma ciò che noi vediamo in quel fenomeno è l’essere nulla di tutte le cose. Né il nulla è una cosa, né l’esistenza è a motivo di qualcosa, che sorga dal nulla vuol dire che sorge senza un perché. La aseità del fenomeno, cioè il fenomeno è assolutamente ingiustificabile, non presuppone né una causalità, né una finalità, la contingenza è il primus. Per altro verso l’idea eraclitea della natura come fanciullo che gioca, quel gioco che per noi è un gioco colpevole perché è la fonte di tutte le nostre sofferenze, ma anche un gioco inconoscibile, logicamente inspiegabile. Proprio in quanto enigma il nulla è anche una forza produttiva, è un principio affermativo, è la natura che ama nascondersi, ma nel suo sottrarsi a ogni possibilità di spiegazione la natura è fonte di inesauribili significati. Se la siepe può funzionare come una soglia critico immaginativa è perché la natura si dà come enigma. Un gioco quindi sia affermativo che distruttivo, un’inesauribile produzione di forme, perché è vero che il senso viene sempre annientato, ma sempre nuovi sensi emergono. Il nulla è il principio di annientamento di ciò che di volta in volta è, ma è anche la totalità del possibile, cioè è tutte le possibilità che sono indeterminatamente costudite in ogni fenomeno. Per questo l’ultrafilosofo poeta, può fare ciò che fa, altrimenti non potrebbe essere poeta. Questa produttività del nulla, questa inesauribile forza produttiva del nulla, è la produttività del vero, cioè la forza generativa implicita in quella verità che è l’ultrafilosofia, quindi l’ultrafilosofia è un atto creativo, un atto vitale, di qui il sentimento di fiera compiacenza connesso alla cognizione del vero. Il nulla finisce per presentarsi come un dato, quindi come un concetto dell’intelletto, ma il nulla non è soltanto questo. È essenzialmente uno schema dell’immaginazione, un’idea estetica, che produce infinti concetti, ma non si risolve in concettuali, nel momento in cui il nulla si risolve o sembra risolversi in concettuali, cioè si offre a noi come qualcosa di dato, allora in questo caso il nulla finisce per presentarsi come un solito nulla, dove il solito nulla è l’enigma che si irrigidisce in determinatezza. È quel nulla la cui comprensione produce dice leopardi indifferenza e insensibilità, bassezza d’animo. “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”

Il nulla non più come enigma, ma come dato e noi a quella datità finiamo per sentirci inchiodati, cioè il nulla diventa un destino inesorabile, una potenza che schiaccia, ogni possibilità di risveglio al possibile. Leopardi scardina la presunta incontrovertibili del nulla come solido nulla.

Allora se il nulla è questo, stiamo dicendo che la rappresentazione del nulla, lo stesso gesto che consiste nel tradurre in immagine il nulla, ha la forza di trascendere il nulla. Se noi rappresentiamo qualcosa noi non siamo quel qualcosa. Il gesto di Perseo: guardando altrimenti la Medusa, l’irrapresentabile, Perseo attesta la sua differenza, la distanza da quella potenza annientante, la guarda altrimenti, se ne difende guardandola altrimenti. La rappresentazione è un risveglio del vivente alla possibilità di trascendere quel solido nulla, è un arma. L’opera di genio in Leopardi è quell’arma, l’ultrafilosofia è un arma, quando nello “Zibaldone” parla delle prosette satiriche ispirate al modello di Luciano di Samosata, parla delle armi del ridicolo, cioè parla del comico come di un’arma, uno strumento al quale il vivente si appella o si affida per fronteggiare l’orrore, il non senso, la cieca distruttività della natura concepita come perpetuo circuito di nascita e morte. Il comico è un modo d’essere dell’immagine, un modo d’essere della rappresentazione: il comico e il tragico sono categorie estetiche. Allora il ridicolo come arma vuol dire la rappresentazione come arma, l’estetico come arma, anche il tragico. Il tragico non è soltanto l’acerbo vero, il non senso, ma è anche la cognizione di questo acerbo vero, cioè la rappresentazione del nulla, cioè un atto estetico. C’è questo rapporto tra il ripensare e ricordare, pensare è sempre ripensare il già pensato, ma è anche il ricordare, cioè richiamare alla mente, alla lettera ricordare al cuore, un conoscere sentendo. Un richiamare alla mente che cosa? Le radici del tragico.

Questo è un gesto destabilizzante e allora l’uomo superbo e sciocco tende a rifiutare questo, a guardarlo con diffidenza, perché frequentare questa pratica, mette continuamente in discussione i pregiudizi dell’uomo superbo e sciocco. L’esistenza di Leopardi, come testimoniato da Eleandro nel “Dialogo di Timandro e Eleandro” rappresenta una discontinuità, una dissonanza nell’apparente consonanza del mondo, dove a prevalere è un uso acritico della ragione. L’ultrafilosofo è fuori di moda, è un soggetto permanentemente inattuale, perché incarna l’altro dall’esistente costringendo l’esistente a mettere in questione se stesso. “Di figure, di favole di sentenze… infelicità umana”. Estrema vuol dire non redimibile, la radicale insensatezza di tutto ciò che è. In fondo le “Operette morali” sono la messa in scena del sapere del corpo, in quanto sapere di una finitezza non redimibile. Non redimibile perché nessun concetto potrà dare ragione di quella finitezza, di quel limite. Quel limite è per noi risorsa, infondo Eros è figlio di Poros e Penia, è povertà, ma è risorsa, apertura al possibile. Il limite include l’illimitato, la nostra è una finitezza costruttivamente infinita. Ci sono molti elementi in questo dialogo che ci permettono di osservare l’emergere del comico a valle del tragico, per esempio la stessa scelta della palinodia come strategia retorica stilistica. È una ritrattazione, ma una finta ritrattazione, un dispositivo strutturalmente ironico, quindi pertiene all’ambito del comico. Che il tragico possa costituire l’oggetto di una palinodia, questo di per sé è un gesto comico, appartiene all’ordine del comico. Dove il tragico è il massimo della serietà, perché è il riconoscimento del non senso come tratto essenziale della nostra condizione ontologica. Allora che la serietà del tragico possa costituire oggetto della ritrattazione, quindi che la verità del tragico possa essere rovesciata nel suo contrario (“non è vero che il tragico è”, “non è vero che il non senso è”), questo viene appunto a sancire il passaggio dal tragico al comico. Se io ritratto il tragico ritratto ciò che è serio, quindi dico che il tragico, cioè il serio, non è, ma se io faccio questo capovolgo il serio in ciò che non è vero, dicendo che il serio non è affatto serio – “non è vero, era una pazzia” -Da qui troviamo un’accumulazione di espressioni che hanno lo stesso tenore (“Certissimo”, “Sicuro”, “Sì, certamente”). Sembra una mimesi della liturgia cristiana, un atto di fede che amico chiede a Tristano di pronunciare a conferma di ciò che sta dicendo. È il punto di vista dell’uomo superbo e sciocco, quel punto di vista che ritorna in Croce. Leopardi è pessimista in quanto è gobbo. Le condizioni fisico mentale diventano il principio esplicativo del suo nichilismo, del pensiero tragico: un assurdo riduzionismo che non ci fa capire nulla. Leopardi lo sa, già allora gli veniva imputato. Dire io non è soltanto io, a parlare è un io scrittura, ma è un io che è insieme un non io, un io che è tutti noi. Quell’io include un appello all’uomo in quanto corpo dolente, senziente, fantasticante, quel corpo che ciascuno di noi è essendo sempre in relazione con tutti gli altri. Qui a parlare è una voce collettiva che si incarna in quel medium che è l’io poeta. Lotta contro l’ovvietà del senso comune egemone, quel senso comune egemone che trova nella filosofia dei giornali, il luogo della sua manifestazione, diffusione. Quindi di nuovo è all’opera il doppio meccanismo della palinodia, cioè ritrattazione e insieme l’esibizione del carattere solo simulai, fittizio della ritrattazione. Qui infatti si sta dicendo una questione serissima, è in gioco la questione dell’essere, ma la si sta dicendo fingendo di non dirla. Qui infatti ad essere importante è proprio il modo in cui Tristano mette in atto la sua palinodia, perché nello stesso dispiegamento del meccanismo palinodia, noi leggiamo il contenuto di verità del libro. La ragione illuministica tipicamente divide arte e scienza, allora agli occhi dello scientista dire arte significa di parlare di qualcosa che non ha niente a che fare con la realtà. Allora agli occhi dell’uomo superbo e sciocco queste parole significano non avere niente a che fare con la realtà, ma invece ha proprio a che fare della realtà. Sogni poetici, capricci malinconici e invenzioni sono il modo in cui l’ultrafilosofo parla del vero. La vita onirica è la dimensioni dove il soggetto in quanto soggetto determinato manca a se stesso, viene meno a se stesso, l’io viene destituito dal suo carattere di io. A venire in primo piano è una dimensione pre concettuale, il principio di non contraddizione non vale nel sogno, è un giocare con le strutture categoriali poste a fondamento della nostra realtà. È il risalire a una dimensione precedente rispetto a quella istituita dal principio di ragione, il principio di individuationis. Un io che viene restituito al suo lato oscuro che è il vero. Come dire capricci malinconici: è un ossimoro. Perché il capriccio è uno dei modi in cui la cultura occidentale ha tradotto un idea classica dell’estetica, cioè il “non so che”, un principio concettualmente indeterminato, qualcosa che noi possiamo tradurre anche in termini di capriccio perché il capriccio è ciò di cui non si dà ragione. Esprime una condizione di libertà eccitata in cui il libero esercizio della nostra creatività si dà come eccesso, come eccedenza, cade fuori rispetto ad ogni spiegazione. Nel dire capriccio si sta sottolineando soprattutto il lato gioioso di questa creatività, malinconia è ancora una condizione dionisiaca, ma è per così dire il lato dolente della creatività. Malinconia non è semplicemente una condizione di tristezza, ha caratterizzare la malinconia è una connessione tra tristezza e pensiero, tra dolore e riflessione, la malinconia è una tristezza pensante, è un dolore carico di riflessione, un dolore pensoso. La malinconia ha a che fare con il fondo dolente dell’essere, la riflessione che ne scaturisce ha per oggetto l’enigmaticità dell’essere, la contraddittorietà dell’essere. E allora capricci malinconici sono i due lati della creatività dionisiaca. Così abbiamo una riaffermazione di nuovo del contenuto di verità del libro di Tristano. Quel libro è vero e dice il vero proprio perché consiste in invenzioni e capricci malinconici, perché sogni, capricci malinconici e invenzioni dicono la verità profonda del nostro essere, cioè dicono la sua enigmaticità e lo dicono nel segno della creatività, non di una rinuncia alla creatività. In questo dialogo noi abbiamo a che fare con la continua messa in esercizio della tensione tra due poli: il comico e il tragico. Dove il tragico in particolare ha due significati. Il primo è l’impossibilità della sintesi, ovvero l’impossibilità di ridurre i due all’uno; quindi l’impossibilità di ricomporre i contrasti, mediare, passare dall’opposizione alla conciliazione dialettica degli opposti, cosa che in Leopardi non avviene mai. Perché farlo significherebbe affermare il primato del logos sulla realtà, significherebbe identificare il reale e il razionale. Solo agli occhi della ragione si dà la conciliazione degli opposti, perché gli opposti sono un altro modo per dire la contraddittorietà della vita, cioè l’impossibilità di ridurre la vita al piano della forma, dove la forma è il concetto. Il secondo significato è implicito nel primo, ovvero l’idea della contraddizione come dimensione non trascendibile, questo ha a che fare con il sapere della superficie, riconoscere la necessità dell’apparenza. Il fenomeno ha valore in sé, il fenomeno è di per sé carico di infiniti significati, questa sterminata ricchezza di senso che custodisce è la contraddizione implicita nel fenomeno, perché questi significati impliciti sono significati anche opposti e innanzitutto, sono in conflitto tra loro. Il fenomeno si offre a noi come una soglia immaginativa, ma questa soglia è anche il rivelarsi di una contraddizione non trascendibile. Ogni fenomeno è un enigma. Riconoscimento della necessità dell’apparenza quindi l’esigenza di salvare i fenomeni, cioè di restituire ai fenomeni il diritto di valere di per sé non in funzione d’altro. Il tragico è il riconoscimento dell’intrascendibilità della contraddizione. Il pensiero tragico è tale perché è consapevole dell’impossibilità di ridurre il due all’uno, di risolvere la molteplicità in unità, cioè di superare le contraddizioni, conciliare gli opposti.

Il riso è riso innanzitutto dei negatori del vero, di costoro si ride. Allora il comico da questo punto di vista restituisce il negatore del vero alla consapevolezza del carattere acritico, non comprendente della sua postura. Gli fa capire che la sua posizione è una posizione falsa e quindi risveglia il tragico. Ridendo di chi il vero lo nega si mette in chiaro che la verità delle cose è il tragico. Questo è il riso a monte della rivelazione del tragico. Poi questo tragico si rivela e allora il negatore del vero viene restituito alla consapevolezza del carattere non autenticamente comprendente della sua posizione, perché il tragico viene presentato come verità dell’essere. Ma un tragico presentato come verità dell’essere corre sempre il rischio di ridursi a datità, di ridursi a positività, concetto. Allora di nuovo, rispetto a questa datità l’ultrafilosofia fa valere le risorse del comico, anche di questo si può ridere. Quel ridere è rimedio, ma è anche risveglio della vita alle sue condizioni di possibilità. Il comico, l’ironia, la parodia, la stessa satira in qualche modo in Leopardi dicono il medesimo. Allora si ride, si ridicolizza, di tutto si può ridere tranne che del ridere di tutto. Di tutto si può ridere perché il riso è una riaffermazione della vitalità del soggetto, è la vita che rivendica i suoi diritti contro l’oppressione esercitata dal non senso. Allora certo si ride dei negatori del vero, ma si ride anche di chi quel vero ha il coraggio di affermarlo. L’ultrafilosofo ha la capacità di ridere di se stesso, della sua stessa disperazione. Si ride della stessa cognizione del vero, ride della stessa dimensione della sofferenza se quella sofferenza viene assunta come un dato intrascindibile. Leopardi con ribellione oppone sempre resistenza a tutto ciò che si vuole imporre come un dato intrascindibile. E questo è certo, il discorso è intonato all’ironica. “A quanto pare”, cioè l’ironia appartiene all’ordine di ciò che pare, di ciò che appare, cioè all’ordine dell’apparenza, della superficie. La superficie del discorso è ironica, mostra l’ironia. Scritto con leggerezza apparente. Uno dei temi fondamentali è la serietà della non verità, cioè la profondità della superficie. L’ironia, la superficie, è il massimo della profondità. L’idea che Leopardi ha dell’antico: l’antico è il luogo per eccellenza dell’immaginazione, l’uomo antico è un uomo che vede nell’immaginazione come una capacita acuita, intona la sua esistenza al primato dell’immaginazione. Primato dell’immaginazione vuol dire primato assegnato al corpo, dove il corpo non è l’annullamento dello spirito. Il corpo ha una sua spiritualità immanente. Quindi l’uomo nella sua complessità, l’uomo in quanto totalità indeterminata delle sue forme e possibilità, questo uomo è corpo. La totalità del possibile di cui l’uomo, l’umano è espressione, è il suo essere corpo, perché il suo essere corpo è il suo essere natura e dire natura vuol idre enigma insolubile, apertura indefinita al possibile. Il corpo è l’uomo, l’uomo debole di corpo. È chiaro che questo non ha niente a che fare con un’esaltazione dell’atletismo fisico. C’è l’idea qui del carattere sempre sensibilmente incarnato nel senso. Il modo in cui l’uomo abita il mondo è corpo, corpo carico di spirito, carico di un’eccedenza irrapresentabile. Allora l’uomo debole di corpo è l’uomo che nega la radice sensibile del senso è l’uomo spiritualizzato, cioè l’uomo che elegge e innalza la fredda e geometrica ragione a principio orientativo, unica verità. Bambino nel senso dell’infante, in fans, incapace di Parlare. Dove la parola nell’uomo è la continua manifestazione del sapere del corpo. Infatti quest’uomo quando parla non parla davvero, perché il parlare di quest’uomo è accumulare concetti determinati. La parola poetica è ciò che dice la vita nella sua autenticità, parola che non appartiene all’uomo moderno. L’affermazione della ragione epidemica innalza il concetto a firmamento di ogni pedagogia. L’educazione nella quale si riconosce l’uomo epidemico è un’educazione alla concettualità, non alla poeticità. Rovina il corpo perché quel modo di intendere lo spirito, cioè la riduzione dello spirito a concetto è una negazione del corpo, ovvero una negazione della natura, dell’immaginazione e della poeticità. Quindi la natura come enigma è una verità poetica che solo la parola poetica può cantare, perché è una parola che sta al gioco, si pone in dialogo con il sensibile, dà voce a ciò che nel fenomeno attende di essere ascoltato. Perché corpo e spirito fanno tutt’uno. Non c’è altra spiritualità che quella immanente al corpo. Lo spirito in cui crede l’uomo superbo e sciocco è il risultato di un irrigidimento del sapere del corpo, come se la totalità del senso indeterminata fosse ridotta a un insieme di significati. Nietzsche nella seconda inattuale riferendosi all’antico, il mondo greco, parlerà di una cultura che per l’uomo greco è una nuova e migliorata physis, cioè una estensione, una espansione della natura. Non è qualcosa la cultura che si oppone alla natura per l’uomo greco. Agli occhi di Nietzsche è l’emanazione della natura, cioè è esplicitazione di possibilità implicite nella natura; così si può dire anche dell’idea di immaginazione in Leopardi. L’immaginazione per Leopardi non avviene dentro i confini del nostro corpo, nella nostra scatola cranica, essa è un tentacolo della natura, cioè è un prolungamento della natura, la natura in noi. La mente per leopardi è una mente espansa, estesa. Nell’orizzonte della cultura antica possiamo cogliere per Leopardi una fedeltà all’umano, cioè una fedeltà all’essere natura dell’uomo, all’essere corpo dell’uomo.

L’uomo epistemico, l’uomo superbo e sciocco è un funzionario delle masse, è colui che pretende di aver colto il senso ultimo delle cose. Che senso può avere, riconosciuta l’infelicità dell’umano, l’idea, tipicamente illuministica, di una massa felice, non oggi magari, ma domani, grazia alla ragione, una massa composta da individui felici? Il tragico è elemento non trascendibile, non la si può negare altrimenti si rinuncia all’esercizio di un pensiero critico. Attuale: i libri nell’epoca della massificazione, della standardizzazione della cultura (tema fondamentale in Adorno nella “Dialettica dell’illuminismo” del 47 e nel 67 “la società dello spettacolo” uno dei cardini della cultura del novecento) costano poco e valgono poco. La riduzione dei costi è proporzionale alla riduzione di valore. Sono libri pensati per le masse, sullo sfondo c’è la rivoluzione tipografica, l’accelerazione dei processi di produzione del sapere che si diffondono a velocità sempre più accelerate e raggiungono tutti. Cosa raggiunge tutti? Una cultura massificata, standardizzata, svuotata di senso, simbolicamente degradata, immaginativamente impoverita, pensata a uso e consumo delle masse. Tema della mercificazione della cultura, la riduzione della cultura a merce, che Leopardi già coglie. E allora una cultura dell’effimero in cui il valore, ovvero il senso, finisce per evaporare in una molteplicità di pratiche tutte ugualmente segnate dalla povertà e vacuità. Questa moltiplicazione è una moltiplicazione innanzitutto nel senso del nulla, nel nulla di un vero nichilismo distruttivo, dove a cadere è proprio la potenza dell’immaginazione. Quell’oggetto, il libro, diventa un simulacro, una merce, smette di essere una soglia critica.

Non vi è in Leopardi una nostalgia dell’antico come di una dimensione a cui si debba ritornare, l’antico per Leopardi è un paradigma esemplare, cioè un termine di paragone sempre attivo, una possibilità sempre attiva per ogni epoca, perché vuol dire il primato dell’immaginazione. Non è una datità l’antico alla quale si debba tornare, sarebbe un reazionario Leopardi se pensasse questo. Leopardi vuole essere moderno tra i moderni, ma dice non è questo l’unico modo d’essere possibile della modernità. Leopardi non scrive di cose troiane, scrive in lingua moderna, dei tempi moderni e in modo moderno. Allora l’uomo moderno criticamente accorto, deve necessariamente sottoporre il moderno al vaglio di un rigorosissimo esame critico. Dove si accentuano i lati regressivi e barbarici del moderno, che non ne esauriscono però il senso. Le “Operette morali” sono un tentativo di rigenerazione del senso del moderno, proprio attraverso la barbarie del moderno, un’opera moderna per i tempi moderni.

La morte come oggetto estremo del desiderio che anima il vivente. È l’espressione di un sentimento vitale, è la vita che costruisce l’immagine della morte, per dare voce al suo bisogno di senso inappagato. Perché non è la morte in quanto morte, ma è la morte in quanto idea, prodotto dell’immaginazione. Il vivente che soffre, che desidera la morte come liberazione dalla vita, è un soggetto che ama la vita, cioè la ama al punto da costruirsi un’immagine, quella della morte, nella quale si incarna il desiderio di liberazione. Quell’immagine dice il bisogno di liberazione del vivente, in quanto immagine in quanto pensiero la morte diventa un’arma. È l’ennesima strategia adotta dal vivente per restituire a se stesso il sentimento del possibile. Perché comunque quella morte è una possibilità altra rispetto alla forma fattuale assunta dall’essere, cioè il dolore estremo.

Quindi l’idea della morte è l’espressione di una vita che immaginando la morte, immaginando come superamento del dolore, ha la forza di sconfiggere il fato. L’estrema ribellione nei confronti di una potenza destinale che ci opprime, allora il vivente dice “mi uccido” o “annullo la vita”, perché se la vita è quel fato io nego quel fato con il gesto estremo dell’auto-annientamento. È un’immagine prodotta dal vivente in funzione di una riaffermazione paradossale del suo essere vita. Diceva Gentile, nell’attesa di questa morte consolatrice il fato, la datità incontrovertibile, viene vinto nella stessa vita. Quindi l’immaginazione produce una rappresentazione, fosse pure quella della morte, che è di per sé dotata di una funzione emancipante.

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Dolore e Morte in Leopardi

Federico Cavalieri

Un altro punto importassimo è l’idea del dolore, una filosofia dolorosa, ma vera quella di cui si fa esponente Tristano come Leopardi, cioè un pensiero tragico, perché il tragico sotto questo punto di vista è l’idea di una sofferenza che connota, in modo tragico, non redimibile, il nostro essere nel mondo. Il dolore come verità dell’essere, il patei mathos. Severino legge questa comprensione attraverso la sofferenza come un trascendimento del dolore, dove l’episteme avrebbe la capacità di togliere la sofferenza, l’idea dell’esistere che l’uomo oppone al dolore. Mentre nella nostra lettura il patei mathos dice che sempre il pathos è la radice del mathos, non c’è un sapere, un logos, che possa avanzare la pretesa di togliere il dolore. Al contrario quel pathos è il nostro essere corpo, allora questa dimensione sensibile è la radice di infiniti sensi possibili, cioè è il presupposto dello stesso logos, la comprensione si nutre di sofferenza. Un grande interprete della tragedia attica, Pier Julien de la Come ha messo ben in evidenza questo punto, ovvero che nell’Inno a Zeus noi troviamo il riconoscimento dell’intrascendibilità del dolore, quindi della impossibilità di ridurre il pathos al logos. Anche questo è il tragico.

Il comico qui nelle “Operette morali” fa tutt’uno con la dimensione dell’ironia e della parodia, dove parodia vuol dire un canto in contro canto, un canto in parallelo, cioè un canto che si articola su un altro canto che è ciò che viene parodizzato; per esempio la posizione dei negatori del vero, come se la loro prospettiva diventasse un testo al di sopra del quale leggiamo un altro testo: il discorso ironico contro i negatori del vero. In questo senso i negatori del vero, l’oggetto della parodia diventa l’ipotesto di un ipertesto.

Il riso è riso innanzitutto dei negatori del vero, di costoro si ride. Allora il comico da questo punto di vista restituisce il negatore del vero alla consapevolezza del carattere acritico, non comprendente della sua postura. Gli fa capire che la sua posizione è una posizione falsa e quindi risveglia il tragico. Ridendo di chi il vero lo nega si mette in chiaro che la verità delle cose è il tragico. Questo è il riso a monte della rivelazione del tragico. Poi questo tragico si rivela e allora il negatore del vero viene restituito alla consapevolezza del carattere non autenticamente comprendente della sua posizione, perché il tragico viene presentato come verità dell’essere. Ma un tragico presentato come verità dell’essere corre sempre il rischio di ridursi a datità, di ridursi a positività, concetto. Allora di nuovo, rispetto a questa datità l’ultrafilosofia fa valere le risorse del comico, anche di questo si può ridere. Quel ridere è rimedio, ma è anche risveglio della vita alle sue condizioni di possibilità. Il comico, l’ironia, la parodia, la stessa satira in qualche modo in Leopardi dicono il medesimo. Allora si ride, si ridicolizza, di tutto si può ridere tranne che del ridere di tutto. Di tutto si può ridere perché il riso è una riaffermazione della vitalità del soggetto, è la vita che rivendica i suoi diritti contro l’oppressione esercitata dal non senso. Allora certo si ride dei negatori del vero, ma si ride anche di chi quel vero ha il coraggio di affermarlo. L’ultrafilosofo ha la capacità di ridere di se stesso, della sua stessa disperazione. Si ride della stessa cognizione del vero, ride della stessa dimensione della sofferenza se quella sofferenza viene assunta come un dato intrascindibile. Leopardi con ribellione oppone sempre resistenza a tutto ciò che si vuole imporre come un dato intrascindibile. E questo è certo, il discorso è intonato all’ironica. “A quanto pare”, cioè l’ironia appartiene all’ordine di ciò che pare, di ciò che appare, cioè all’ordine dell’apparenza, della superficie. La superficie del discorso è ironica, mostra l’ironia. Scritto con leggerezza apparente. Uno dei temi fondamentali è la serietà della non verità, cioè la profondità della superficie. L’ironia, la superficie, è il massimo della profondità. L’idea che Leopardi ha dell’antico: l’antico è il luogo per eccellenza dell’immaginazione, l’uomo antico è un uomo che vede nell’immaginazione come una capacita acuita, intona la sua esistenza al primato dell’immaginazione. Primato dell’immaginazione vuol dire primato assegnato al corpo, dove il corpo non è l’annullamento dello spirito. Il corpo ha una sua spiritualità immanente. Quindi l’uomo nella sua complessità, l’uomo in quanto totalità indeterminata delle sue forme e possibilità, questo uomo è corpo. La totalità del possibile di cui l’uomo, l’umano è espressione, è il suo essere corpo, perché il suo essere corpo è il suo essere natura e dire natura vuol idre enigma insolubile, apertura indefinita al possibile. Il corpo è l’uomo, l’uomo debole di corpo. È chiaro che questo non ha niente a che fare con un’esaltazione dell’atletismo fisico. C’è l’idea qui del carattere sempre sensibilmente incarnato nel senso. Il modo in cui l’uomo abita il mondo è corpo, corpo carico di spirito, carico di un’eccedenza irrapresentabile. Allora l’uomo debole di corpo è l’uomo che nega la radice sensibile del senso è l’uomo spiritualizzato, cioè l’uomo che elegge e innalza la fredda e geometrica ragione a principio orientativo, unica verità. Bambino nel senso dell’infante, in fans, incapace di Parlare. Dove la parola nell’uomo è la continua manifestazione del sapere del corpo. Infatti quest’uomo quando parla non parla davvero, perché il parlare di quest’uomo è accumulare concetti determinati. La parola poetica è ciò che dice la vita nella sua autenticità, parola che non appartiene all’uomo moderno. L’affermazione della ragione epidemica innalza il concetto a firmamento di ogni pedagogia. L’educazione nella quale si riconosce l’uomo epidemico è un’educazione alla concettualità, non alla poeticità. Rovina il corpo perché quel modo di intendere lo spirito, cioè la riduzione dello spirito a concetto è una negazione del corpo, ovvero una negazione della natura, dell’immaginazione e della poeticità. Quindi la natura come enigma è una verità poetica che solo la parola poetica può cantare, perché è una parola che sta al gioco, si pone in dialogo con il sensibile, dà voce a ciò che nel fenomeno attende di essere ascoltato. Perché corpo e spirito fanno tutt’uno. Non c’è altra spiritualità che quella immanente al corpo. Lo spirito in cui crede l’uomo superbo e sciocco è il risultato di un irrigidimento del sapere del corpo, come se la totalità del senso indeterminata fosse ridotta a un insieme di significati. Nietzsche nella seconda inattuale riferendosi all’antico, il mondo greco, parlerà di una cultura che per l’uomo greco è una nuova e migliorata physis, cioè una estensione, una espansione della natura. Non è qualcosa la cultura che si oppone alla natura per l’uomo greco. Agli occhi di Nietzsche è l’emanazione della natura, cioè è esplicitazione di possibilità implicite nella natura; così si può dire anche dell’idea di immaginazione in Leopardi. L’immaginazione per Leopardi non avviene dentro i confini del nostro corpo, nella nostra scatola cranica, essa è un tentacolo della natura, cioè è un prolungamento della natura, la natura in noi. La mente per leopardi è una mente espansa, estesa. Nell’orizzonte della cultura antica possiamo cogliere per Leopardi una fedeltà all’umano, cioè una fedeltà all’essere natura dell’uomo, all’essere corpo dell’uomo.

L’uomo epistemico, l’uomo superbo e sciocco è un funzionario delle masse, è colui che pretende di aver colto il senso ultimo delle cose. Che senso può avere, riconosciuta l’infelicità dell’umano, l’idea, tipicamente illuministica, di una massa felice, non oggi magari, ma domani, grazia alla ragione, una massa composta da individui felici? Il tragico è elemento non trascendibile, non la si può negare altrimenti si rinuncia all’esercizio di un pensiero critico. Attuale: i libri nell’epoca della massificazione, della standardizzazione della cultura (tema fondamentale in Adorno nella “Dialettica dell’illuminismo” del 47 e nel 67 “la società dello spettacolo” uno dei cardini della cultura del novecento) costano poco e valgono poco. La riduzione dei costi è proporzionale alla riduzione di valore. Sono libri pensati per le masse, sullo sfondo c’è la rivoluzione tipografica, l’accelerazione dei processi di produzione del sapere che si diffondono a velocità sempre più accelerate e raggiungono tutti. Cosa raggiunge tutti? Una cultura massificata, standardizzata, svuotata di senso, simbolicamente degradata, immaginativamente impoverita, pensata a uso e consumo delle masse. Tema della mercificazione della cultura, la riduzione della cultura a merce, che Leopardi già coglie. E allora una cultura dell’effimero in cui il valore, ovvero il senso, finisce per evaporare in una molteplicità di pratiche tutte ugualmente segnate dalla povertà e evaquità. Questa moltiplicazione è una moltiplicazione innanzitutto nel senso del nulla, nel nulla di un vero nichilismo distruttivo, dove a cadere è proprio la potenza dell’immaginazione. Quell’oggetto, il libro, diventa un simulacro, una merce, smette di essere una soglia critica.

Non vi è in Leopardi una nostalgia dell’antico come di una dimensione a cui si debba ritornare, l’antico per Leopardi è un paradigma esemplare, cioè un termine di paragone sempre attivo, una possibilità sempre attiva per ogni epoca, perché vuol dire il primato dell’immaginazione. Non è una datità l’antico alla quale si debba tornare, sarebbe un reazionario Leopardi se pensasse questo. Leopardi vuole essere moderno tra i moderni, ma dice non è questo l’unico modo d’essere possibile della modernità. Leopardi non scrive di cose troiane, scrive in lingua moderna, dei tempi moderni e in modo moderno. Allora l’uomo moderno criticamente accorto, deve necessariamente sottoporre il moderno al vaglio di un rigorosissimo esame critico. Dove si accentuano i lati regressivi e barbarici del moderno, che non ne esauriscono però il senso. Le “Operette morali” sono un tentativo di rigenerazione del senso del moderno, proprio attraverso la barbarie del moderno, un’opera moderna per i tempi moderni.

La morte come oggetto estremo del desiderio che anima il vivente. È l’espressione di un sentimento vitale, è la vita che costruisce l’immagine della morte, per dare voce al suo bisogno di senso inappagato. Perché non è la morte in quanto morte, ma è la morte in quanto idea, prodotto dell’immaginazione. Il vivente che soffre, che desidera la morte come liberazione dalla vita, è un soggetto che ama la vita, cioè la ama al punto da costruirsi un’immagine, quella della morte, nella quale si incarna il desiderio di liberazione. Quell’immagine dice il bisogno di liberazione del vivente, in quanto immagine in quanto pensiero la morte diventa un’arma. È l’ennesima strategia adotta dal vivente per restituire a se stesso il sentimento del possibile. Perché comunque quella morte è una possibilità altra rispetto alla forma fattuale assunta dall’essere, cioè il dolore estremo.

Quindi l’idea della morte è l’espressione di una vita che immaginando la morte, immaginando come superamento del dolore, ha la forza di sconfiggere il fato. L’estrema ribellione nei confronti di una potenza destinale che ci opprime, allora il vivente dice “mi uccido” o “annullo la vita”, perché se la vita è quel fato io nego quel fato con il gesto estremo dell’auto-annientamento. È un’immagine prodotta dal vivente in funzione di una riaffermazione paradossale del suo essere vita. Diceva Gentile, nell’attesa di questa morte consolatrice il fato, la datità incontrovertibile, viene vinto nella stessa vita. Quindi l’immaginazione produce una rappresentazione, fosse pure quella della morte, che è di per sé dotata di una funzione emancipante. Sono sempre mosse strategie nel gioco dell’argomentare in quella drammaturgia del sensibile che è il mondo delle “Operette morali”. Qua Eleandro ci sta invitando a riflettere, fa passare il fatto che contenuto e intenzioni sono biasimevoli, purché non lo sia l’operare. Si sta dicendo il primato della prassi, ciò che sempre a Leopardi sta a cuore, l’importanza fondamentale della operatività, del fare. L’opera non vi è piaciuta, ma il mio fare che si incarna nell’opera anche non vi è piaciuto? Ci costringe qui Eleandro a riflettere sull’importanza dell’operare, non c’è mai in Leopardi un primato della vita contemplativa su quella attività e allora anche il momento teorico è un momento pratico. Quell’opera risveglia la prassi a se stessa, in quanto la fonte di innumerevole forme possibili assunte dal fare. L’opera, in come ci apre gli occhi sul mondo, ristruttura e trasforma la nostra vita mentale. “Le parole e gli scritti contano poco” qui è volutamente provocatorio, non è che contino poco, a contare davvero sono quegli scritti e quelle parole in cui noi leggiamo una passione etica capace di trasformare l’azione che è essa stessa azione. Sono grande quelle opere in cui noi leggiamo la stretta connessione tra teoria e prassi, animate da un senso forte della centralità della prassi. Le grandi opere antiche erano questo, come l’epos omerico, che per l’uomo greco era un vettore di moralità, un modello d’assumere come riferimento per l’azione, un’enciclopedia. Questo è un gioco drammaturgo in cui Leopardi qui finge di disarticolare quell’insieme che sono teoria e prassi, perché lo vuole usare strategicamente contro l’avversario, che afferma che la teoria conta più dell’operare. Quindi enfatizza il momento dell’operatività, che non vuol dire che stia negando la connessione tra l’opera e l’intenzione.

In Leopardi c’è sempre il primato del fare, dove anche il momento teorico è un momento operativo e c’è l’idea sempre della relazionalità del nostro essere del mondo. Noi siamo relazione, che è ancora più radicale di dire che noi siamo in relazione, noi siamo strutturati relazionalmente. Questo è anche uno dei motivi che è molto presente nel libro di Donà, che insiste sempre molto su questa relazionalità implicita nel determinato, dove l’indeterminato è la relazionalità implicitamente presupposta dal determinato.

“Timandro. Nell’opera, non trovo… per non volere”

Timandro in questo gioco delle parti è il lodatore dell’umano, del presente, crede nelle magnifiche sorti progressive; mentre Eleandro, eleos, è il commisuratole dell’umano, commiseratore di quel non senso che caratterizza la condizione umana. Perché coglie il fondo intrascendbile, irredimibile di dolore di infelicità che sempre abita il vivente in generale, l’universo in generale. Dove questa commisurazione dell’umano implica comunque una fiducia nell’um ano.

Qui Timandro dice che si rende perfettamente conto del fatto che il suo interlocutore non vuole fare male deliberatamente, al contempo però egli è impotente a fare il bene. Il tema è l’impotenza dell’ultrafilosofia a fare il bene, quindi l’inutilità dell’ultrafilosofia, il suo carattere non utile.

“Ma nelle parole e… si può dire in altro.”

Questa frase ha un doppio volto. Può essere l’elogio del presente da parte di quel lodatore dell’umano che è Timandro, ma c’è anche qui Eleandro, in una reciprocità tra le due maschere. La nostra vita presente non consiste in altro che in parole e scritti: la filosofia delle gazzette. Timandro è il lodatore della ragione illuministica, quindi non si può dire che parole e scritti non contino, perché la ragione illuministica mette al centro l’uso pedagogico, emancipante della parola. Qui c’è implicita la critica di Eleandro: la riduzione del senso a parole e scritti che ormai non significano più nulla, impoveriti, imbarbariti. Agli occhi di Timandro parole e scritti sono strumenti di formazione, sono l’espressione della ragione illuministica che distrugge il mito e libera l’uomo, agli occhi di Eleandro parole e scritti sono parole vuote, decorporizzate.

“Lasciamo le parole ora…abbiano cattiva fortuna”

Qui il tema se lo fa dire da Timandro, ma l’ultrafilosofo (Leopardi lo dice a se stessa): la postura ultrafilosofica, in quanto contraria all’uso corrente, è strutturalmente atipica, dissonante rispetto all’esistente e sarà sempre fuori di moda e quindi avrà cattiva fortuna, perché non ci sarà la disponibilità da parte dell’uomo acriticamente atteggiato a mettere in discussione le sue certezze. Allora l’accusa qui rivolta da Timandro a Eleandro è l’accusa di nuocere, l’accusa di fare del male agli altri, di nuocere al genere umano, accusa che pesava sulle spalle di Leopardi, già negli anni in cui lui operava. In sostanza lo accusa di misantropia. Come se Eleandro, riconoscendo il non senso della condizione umana, non riconoscesse il vero, ma fosse animato da un sentimento di odio verso l’umano, verso tutto ciò che caratterizza l’umano. Leopardi lo dice chiaramente che la sua filosofia esclude la misantropia e invece, l’abitatore del presente legge la postura critica come una postura misantropica. Viene definito nel testo come una sorta di moderno Timone, che apprezzava Alcibiade perché sapeva che avrebbe danneggiato Atene. Eleandro risponde “io non sono un Timone, non sono un misantropo”.

  • Come si articola la risposta di Eleandro a questa accusa?
  • Eleandro intanto pone l’accento sull’importanza del fare, la sua dunque non è una postura Questo implica porre al centro la questione del rapporto fra l’opera filosofica e la realtà, il luogo del fare, della prassi. Se è vero che il fare è fondamentale, allora non potremmo non interrogarci sul rapporto tra arte e vita, tra opera e realtà, in questo caso tra arte e anche filosofia, quindi tra pensiero poetante e realtà. Che ruolo gioca il pensiero poetante della nostra vita rispetto al nostro essere, agire, operare nella realtà, nel mondo così com’è; quindi il ruolo del filosofo nel mondo.

Eleandro innanzitutto nel rispondere ammette la propria impotenza.

Timandro è antropocentrico è quindi caratterizzato dalla tendenza a dire bene dell’uomo. Per Eleandro dire bene dell’uomo fa davvero del male all’uomo. Allora, Eleandro acconsente parzialmente all’accusa di Timandro e dice sì è vero, io non voglio fare il male volontariamente.

Tuttavia riconosce la sua impotenza, la ammette la sua impotenza a fare il bene. Questo è un punto delicato. L’impotenza di Eleandro a fare il bene è qualcosa che Eleandro riconosce, dove l’impotenza a fare il bene che vuol dire l’impotenza a giovare all’uomo. È proprio vero che le parole e gli scritti di Eleandro, cioè di Leopardi, non giovano all’uomo, non rappresentano un bene per l’uomo. Allora la domanda è quindi si può dire che l’ultrafilosofia, faccia del male, sia impotente a fare il bene anche involontariamente? Noi la risposta in qualche modo la conosciamo. Certo che l’ultrafilosofia fa del bene, fa del bene l’uomo, ma è anche vero che l’ultrafilosofia è impotente a fare il bene.

Allora, come tenere insieme questi due aspetti? L’impotenza a fare il bene che Eleandro riconosce e il riconoscimento del fatto, contemporaneamente, simultaneamente, che l’ultrafilosofia giova all’uomo, fa del bene all’uomo.

  • L’impotenza a fare il bene, l’impotenza a giovare all’uomo da parte di Eleandro, le parole, gli scritti di Eleandro, l’ultrafilosofia dunque, in che senso la dobbiamo intendere?
  • È l’impotenza a fare il bene secondo l’idea dominante di Questo è il punto centrale. Certo che Eleandro e l’ultrafilosofia è impotente a fare il bene, ma è impotente a fare il bene secondo quella rappresentazione di bene che è dominante nel mondo.
  • E qual è l’idea di bene dominante nel mondo?
  • È l’idea di bene conforme alla logica dominante nel mondo, che è sostanzialmente la logica spiritualistica o spiritualizzante, cioè quella logica comune in fondo al fideismo di matrice cattolica e allo scientismo, che afferma il primato del concetto, cioè il primato dell’astratto sul L’idea secondo la quale il concetto può dare ragione del tutto e una volta per tutte della realtà, cioè può cogliere il senso ultimo della realtà. Questo è il punto fondamentale, è il punto che Eleandro rifiuta e che lo porta a dire che la vita è non senso e nessun concetto, nessuna forma assunta dal concetto, nessuna razionalità potrà dare ragione del tutto e una volta per tutte di quella condizione di sofferenza, dolore, morte, che connota l’esistenza.

Allora, questa filosofia dolorosa ma vera, che è la filosofia di Tristano, è la filosofia di Eleandro, è sì impotente a fare il bene, secondo l’idea di bene dominante nel mondo, ma nello stesso tempo è capace di promuovere il bene, fa del bene all’uomo, giova all’uomo, nell’unico modo possibile per così dire e cioè attraverso la cognizione del vero. Agli occhi di Eleandro, cioè agli occhi dell’ultra filosofo, chi dice bene dell’uomo gli fa del male. Chi dice bene è la logica dominante del mondo, una logica antropocentrica, che professa la realtà. L’indefinita perfettibilità della condizione umana. Così si dice bene dell’uomo, così gli si fa del male perché gli si nega la comprensione del vero, cioè il riconoscimento del non senso. Allora la sfida dell’ultrafilosofia consiste nel promuovere un’idea di pensiero con cui si può fare del bene agli uomini non dicendone bene, ma dicendone male. Ovvero riconoscendo il male che è nelle cose, che tutto è male, laddove il male non è da intendersi nel senso di una peccaminosi fideisticamente intesa. Vuol dir che il dolore è la verità profonda dell’essere. È il tragico, il riconoscimento del pathos nella nostra condizione. Cioè di una apertura al possibile, alla possibilità stessa del possibile. Proprio spingendo ai suoi limiti estremi, radicalizzando il non senso, avverte e ci fa avvertire il bisogno di un senso possibile. Un senso possibile che affiora dal negativo, dal non senso, cioè dal riconoscimento della stessa impossibilità del senso. Quando più si riconosce l’impossibilità del senso, tanto più noi avvertiamo la necessità del senso, che è la necessità della sua possibilità. Un senso deve poter essere possibile. Questo tema si ritrova anche in Donà, fino a sostenere che in archè, in origine, sta il possibile. E il possibile fa tutt’uno con il nulla, potenza annientante, l’annullamento di ogni senso, ma insieme la possibilità di un senso sempre diverso. È una forza creativa il nulla – principio della distruzione, ma anche della creazione. – Possibile che viene pensato da Leopardi in tutta la sua radicalità, perché è un possibile che nulla costringe ad essere possibile, non è un fondamento metafisico, non c’è una necessità logica a motivo della quale sempre nuove forme vengano a manifestazione. Questo riconoscimento del possibile è qualcosa che avviene a partire dal nostro essere immersi nell’esperienza, noi abitiamo il mondo, avvertiamo la finitezza del mondo e nel momento in cui la riconosciamo ci rendiamo conto che il che del mondo, il fatto che il mondo sia, il fatto che ogni ente sia presuppone la sua possibilità. Se è vuol dire che è possibile, ma questo possibile è una possibilità che coincide con l’idea dell’abisso, è un fondamento infondato, è quell’enigma che è l’unione inscindibile di produzione e distruzione. C’è una piena assunzione da parte di Leopardi della contingenza del nostro essere nel mondo. Donà oltre a insistere sul tema del possibile insiste anche sul tema della aseità di ogni ente, ovvero il puro fatto dell’esistere di ogni ente, cioè la contingenza di ogni ente, l’ente è così com’è, ma potrebbe essere altrimenti. Nulla costringe l’ente ad essere così com’è. Nulla lo determina, nulla lo vincola ad essere ciò che è. Non c’è una necessità più forte della contingenza, la contingenza è un dato originario, ma che la contingenza sia un dato originario vuol dire che il possibile è una dimensione originario. Allora l’aseità di ogni ente è il puro fatto dell’esistere. Cioè ogni ente è senza perché, senza scopo, senza senso, senza fine, senza fondamento. Questa aseità dell’ente ci permette di riconoscere l’originarietà del possibile. Tornando a Luporini, per lui in Leopardi la stessa dignità dell’uomo, l’idea della virtù che anche è importante in Leopardi, non è un dato al centro del cosmo, non è una necessità di ordine logico, un fatto che noi siamo chiamati soltanto a constatare. Non è qualcosa di garantito. È qualcosa che il vivente deve continuamente conquistare e riconquistare. Questa dignità dell’uomo è un’esigenza, un bisogno, un’esigenza forte ai margini: un’esigenza operativa. Perché il bisogno del senso è qualcosa che noi avvertiamo a partire dall’operatività del nostro essere. Noi siamo corpi viventi, senzienti, agenti. Il nostro essere insomma per Leopardi è un fare. Allora anche il senso acquista un significato operativo, è qualcosa che appunto noi dobbiamo continuamente conquistare e riconquistare, quindi agire il un certo modo. Considerando anche che il pensiero è una forma dell’agire. Nessuna scissione tra teoria è prassi. Per Leopardi la parola è prassi. Leopardi è anche un filologo, riconosce nella tecnica della parola, nell’arte della parola un fare, la possibilità di costruire un senso. Filologia per Leopardi vuol dire retorica, fondamentalmente e la retorica è eloquenza, è una parola pragmaticamente connotata. L’oratore deve persuadere deve coinvolgere emotivamente e insieme deve convincere, cioè deve modificare la prassi. La parola dell’oratore, del filologo, la parola in quanto tale è un modo d’essere della prassi, è una forma dell’agire. Quindi di per sé ha la capacità di trasformare il mondo, l’istallazione di un nuovo intervento di senso che modifica la prassi perché genera nuove assuefazioni, opinioni, nuove rappresentazioni che vanno a modificare la nostra vita mentale. A partire dall’incontro con quella parola leggiamo il mondo diversamente, ma se lo leggiamo diversamente ci comportiamo diversamente. → l’idea del senso come esigenza operativa. Per Luporini si può parlare a proposito di Leopardi di un nichilismo si, ma un nichilismo attivo.

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Passaggi marxiani

Amelia Forte

 

 

Nella teoria di Marx questo nesso non si può scomporre. Il concetto di rivoluzione presuppone una periodizzazione della storia articolata in sistemi; il sistema implica la nozione di passaggio, quindi la rivoluzione. Però è vero che, oltre Marx, questi due concetti possono essere separati, scomposti, si può pensare l’uno senza l’altro. Ed è quanto è avvenuto di fatto con la crisi del marxismo (o anche, come si dice, dell’idea di progresso e delle filosofie della storia). Se ci pensate, la crisi del marxismo è essenzialmente la crisi di quel nesso. Cosa va in crisi del pensiero di Marx? La dialettica, l’idea di rivoluzione, il progresso, la filosofia della storia. La crisi di questi concetti – cioè del nesso sistema-rivoluzione – è stata chiamata crisi del marxismo.

Si può pensare il sistema come tale, cioè senza dialettica. Se il sistema non è attraversato da una negatività (si pensi al Poscritto del 1873), esso non muore, non passa, riproduce sé stesso. Grosso modo, l’idea di sistema senza rivoluzione può essere definita strutturalismo, ed è diventato il discorso politico egemone nella cultura contemporanea. Il sistema può riprodursi indefinitamente, senza mai incontrare una crisi radicale, che ne ordini il passaggio ad altro. È la lezione della crisi del 1929 o della più recente crisi finanziaria del 2008. D’altronde, chi pensa oggi, sul serio, a una rivoluzione? Quale soggetto politico ha in programma di fare una rivoluzione?

D’altra parte, però, si può anche pensare la rivoluzione senza il sistema. È l’altra faccia della crisi del marxismo. In questo caso la rivoluzione diventa rivolta, sollevazione degli oppressi, degli emarginati, dei subalterni. È una ri volta spontanea, che non implica né presuppone un passaggio di sistemi. Non è l’operaio che fa la rivoluzione, ma il subalterno. La dialettica dei tempi si accorcia. C’è il presente, un passato omogeneo di sfruttamento, un futuro di liberazione. Ma la rivoluzione non è fondata nella successione di sistemi.

La teoria di Walter Benjamin è esemplare in questo senso, ne rappresenta l’espressione massima e più elevata. Nella visione di Benjamin, è nell’«at timo» in cui il passato si contrae nel presente, nello «stato d’eccezione», che l’azione rivoluzionaria redime il passato, delineando una storia degli oppressi che supera il «patrimonio culturale» dei vincitori. Perciò la rivoluzione si con figura come una specie di «vendetta»: «è nella tradizione degli oppressi – scrive Benjamin – che la classe operaia compare come l’ultima classe asservita, come la classe vendicatrice e liberatrice. Questa coscienza è stata abbandonata dalla socialdemocrazia fin dall’inizio. Essa assegnò alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni a venire».

Qui la rivoluzione non è più passaggio tra sistemi, non deriva dalla periodizzazione della storia, ma accade nell’unità della storia degli oppressi. La differenza con Marx è fondamentale. Per Marx, la rivoluzione comunista è “erede” della rivoluzione borghese e del suo mercato mondiale, non di schiavi o servi, e con ciò riscatta la regola del lavoro alienato e dello sfruttamento. Per Benjamin, invece, la rivoluzione è la vendetta dei subalterni, che rivoltano il guanto di tutta la storia, spezzano la linea del progresso, non sono eredi della rivoluzione borghese, figli del suo sviluppo, ma voce emarginata della storia umana. In questa, che è certo l’elaborazione più alta e complessa della rivolu zione come rivolta dei subalterni, possiamo vedere in trasparenza la crisi del marxismo, cioè la rottura del nesso tra sistema e rivoluzione. Marx appartiene alla vicenda moderna dell’idea di progresso, ma vi aggiunge un concetto fondamentale, destinato a trasformare tutta la nostra vi sione della storia. A partire da Marx, infatti, la storia umana è concepita nella struttura di un sistema, di una forma economico-sociale, che, anzi tutto, deve essere prodotta o, meglio, deve continuamente riprodursi, e che ha una nascita e una fine. Perciò la storia è definita dalla successione di sistemi, ciascuno dotato di un proprio principio, secondo un ritmo che è ordinato dall’idea di rivoluzione. In una prima e generale approssimazione, la rivoluzione indica questo aspetto (a prescindere dal modo in cui accade, che può essere più o meno violento), che ogni sistema ha una genesi, un principio proprio, ed è destinato a essere superato da un sistema ulteriore. Il sistema ha dunque una struttura dialettica, nel senso che è attraversato da una negatività, da una contraddizione, che ne determina il superamento (vedremo poi in cosa consiste questa contraddizione). Nel pensiero di Marx c’è un nesso inscindibile tra sistema e rivoluzione. Solo il concetto di rivoluzione ci permette di pensare il sistema come inizio e fine.

Abbiamo aggiunto che la crisi del marxismo (come categoria storiografica) indica in definitiva la rottura di questo nesso. Si pensa il sistema senza rivoluzione (sociologia) o la rivoluzione come rivolta spontanea, immediata, dei subalterni. In sostanza, i due Marx di cui parlava Lucio Colletti.

Tuttavia in Marx non c’è solo questo, non c’è solo una strutturazione della storia in sistemi successivi. C’è anche una visione unitaria della storia. Tutta la storia, infatti, è una storia di oppressione e di sfruttamento. Cambiano le figure, ma la regola della storia si riproduce in ogni sistema. C’è una struttura archetipa della storia, una ferita iniziale, una rottura dell’unità del genere umano. Per questo, la rivoluzione comunista è superamento del sistema borghese ma, al tempo stesso, superamento di tutta la civiltà umana, un passaggio, come si esprime Marx, dalla preistoria alla storia.

Questa regola archetipa chiama in causa l’operazione del lavoro. Il fatto che il lavoro non è riconosciuto come operazione essenziale dell’uomo, come espressione dell’essenza umana, come principio della civiltà e della storia, ma degradato a funzione strumentale, animale, servile. Libertà, civiltà, significa libertà dal lavoro, quindi puro consumo e contemplazione. La civiltà non nasce dal lavoro, ma dalla negazione del lavoro. Il segno visibile di questa frattura è la divisione del lavoro originaria tra produzione e consumo, tra chi elabora la natura e chi consuma il prodotto del lavoro. In una parola, tra un servo e un signore. Ora dobbiamo provare a guardare più a fondo in questa concezione della storia. Un buon punto di partenza (non solo cronologico, perché è il primo risultato degli studi economici di Marx) sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (secondo il titolo che venne assegnato nel 1932).

Si tratta di 3 quaderni di grande formato (A7, A8 e A9 nella notazione archivistica dell’International Institute of Social History di Amsterdam), scritti da Marx a Parigi tra il maggio e l’agosto 1844, pubblicati integralmente solo nel 1932. I Manoscritti presentano la prima definizione del principio del sistema del capitale. Raramente sono stati letti in questa prospettiva, ma forse è la chiave più promettente. In genere, la teoria dell’alienazione è stata piuttosto combinata con la psicanalisi e con Freud per trarne una filosofia dell’uomo e una critica della civiltà. Questa definizione del capitale gioca sui due significati (non solo diversi, ma opposti) della parola italiana alienazione. La parola traduce due termini tedeschi: Entäusserung, Entfremdung. Marx poteva trovarne il senso nei due filosofi prediletti: Hegel e Feuerbach. In Hegel indica il farsi altro della determinazione, in un processo di progressivo arricchimento. Ha dunque un significato positivo, nel senso che l’essere si aliena per costituirsi come Sé, per diventare soggetto.

In Feuerbach l’alienazione indica, all’opposto, una perdita del Sé, una proiezione dell’uomo nella figura di Dio. L’uomo si aliena nel senso che, senza consapevolezza, toglie a sé stesso quella natura infinita che proietta in Dio. Quindi si smarrisce come soggetto. Il soggetto diventa Dio. L’uomo nasconde la sua essenza, proprio come accadrà nella teoria del feticismo delle merci (dove il rapporto tra cose nasconde il rapporto di interdipendenza fra produttori).

Marx riprende entrambi questi concetti. In generale applica la teoria hegeliana della Entäusserung nel concetto di oggettivazione. Entäusserung diventa soprattutto Vergegenständlichung. Oggettivazione significa che l’uomo elabora la natura, la trasforma, converte il dato naturale in un bene artificiale. Ma trasformare la natura in artificio (opera dell’arte, della prassi) significa porsi oltre la natura, oltre la vita animale, e così iniziare la storia, entrare nella civiltà. Grazie all’oggettivazione, l’uomo da animale diventa soggetto, rea lizza il suo fine nell’ordine degli enti. Questo rapporto tra sé e la natura e tra sé e gli altri uomini apre la prospettiva della vita umana, non più solo animale.

D’altro lato c’è la teoria feuerbachiana della Entfremdung. Per Feuerbach, «più l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ritiene in sé stesso». Per Marx, più l’operaio della grande fabbrica trasferisce nel prodotto, più si svalorizza, più toglie a sé stesso: «l’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce». L’esperienza di una realizzazione diventa il fatto di uno svuotamento.

L’alienazione come Entäusserung, come Vergegenständlichung, oggettivazione, indica l’operazione fondamentale dell’uomo, la sua essenza. Il lavoro, la praxis, è la capacità dell’uomo di oggettivarsi nel prodotto, di staccarsi dalla natura e di costruire un terreno artificiale, cioè di costruire una storia umana. Come Entfremdung, invece, l’alienazione è perdita di sé, sottrazione di quella oggettivazione umana, e costituisce il principio del sistema moderno di fabbrica, cioè del capitale. La conversione tra queste due figure è la chiave della prima lettura dell’economia politica. Ma questa conversione indica il passaggio tra ciò che l’uomo è per sua essenza e ciò che diventa nel sistema del ca pitale.

Qui incontriamo subito un nodo fondamentale di tutto il pensiero di Marx. La condizione umana (come la merce o il lavoro nel Capitale) ha questa struttura dialettica, è compresenza di opposti. L’uomo (l’operaio) è, al tempo stesso, oggettivazione e perdita di sé, sé e negazione del sé, soggetto e crisi del soggetto. Questa dialettica va tenuta ferma, nel senso che l’uomo non è mai annullamento di sé, alienazione totale. È sempre sé e altro da sé. Possiamo dire che l’alienazione è una deformazione dell’uomo. Deformazione significa alte razione della sua forma essenziale, fino a una nuova subalternità alla natura. In questa deformazione sorge il problema stesso della coscienza rivoluziona ria. Pensate a Gramsci. In Gramsci l’operaio è prassi progressiva e, al tempo stesso, eredità di un senso comune regressivo. Deve enucleare questa prassi, prenderne coscienza e trasformare il senso comune. Ma anche in Marx l’operaio è questa struttura contraddittoria, essenziale e alienata: deve prendere co scienza della propria funzione nella storia e costruire un mondo adeguato alla sua funzione di produttore dell’esistenza. L’uomo mette sé stesso nel prodotto, si oggettiva, e così entra veramente in una dimensione umana. La sua umanità è lì, nell’opera. Così crea il suo mondo, un mondo artificiale, storico, che ha una base naturale, ma la oltre passa. Possiamo dire che la storia è questa catarsi della natura. Nel conferimento di valore l’uomo si oggettiva, realizza sé stesso secondo un fine razionale, posto da lui stesso. L’uomo è sostanzialmente questa prassi razionale. L’azione si oggettiva nell’opera secondo fini razionali posti dall’uomo stesso. Quindi cambia la natura del bisogno (fini razionali posti da lui medesimo) e cambia la natura del lavoro (realizzazione dell’uomo nel ricambio organico con la natura). L’oggettivazione non è alienazione, ma realizzazione dell’uomo.

Si presti attenzione. L’oggettivazione indica una storia possibile, come il lavoro concreto nel Capitale. Come avrebbe potuto essere la storia umana se, fin dall’inizio, il signore non avesse degradato la praxis a pena, a negatività, e non avesse concepito la libertà come liberazione dal lavoro, come puro con sumo e contemplazione. Nella società capitalistica l’uomo, nella figura dell’operaio, continua a oggettivarsi, a realizzare sé stesso, a conferire valore alla natura. Ma la merce è espropriata al lavoratore e si erge di fronte a lui come potenza indipendente, che gli è estranea. La sua oggettivazione diventa estraneazione. L’uomo si realizza nell’oggetto, ma questo oggetto gli viene sottratto. È una rapina del suo oggetto. La prima figura dell’alienazione consiste dunque nel fatto che il prodotto viene espropriato e si erge come estraneo di fronte al produttore. È necessario osservare la conversione del positivo (il lavoro come oggettivazione) nel negativo (l’oggetto come potenza estranea). Marx non dice che il lavoro come oggettivazione viene annullato dal processo di estraneazione. L’alienazione (come poi la merce e il feticismo, e più in generale il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro concreto e lavoro astratto) ha questa struttura dialettica. L’uomo è oggettivazione e al tempo stesso estraneazione. Se non continuasse a oggettivarsi nel prodotto, la rivoluzione e il comunismo sarebbero, d’altronde, impossibili. Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo [als in fremdes Wesen], come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento [Entwirklichung] dell’operaio, l’oggettiva zione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estrania zione, come alienazione [als Entfremdung, als Entäusserung].

Poche pagine dopo, Marx aggiunge che ciò che viene espropriato non è solo il prodotto del lavoro, la cosa (come nella rapina), ma l’atto della produzione, la praxis stessa. Espropriare l’atto della produzione significa espropriare l’umanità dell’operaio, la sua creatività, la sua forza e capacità di oggettiva zione. Con ciò l’elemento umano è ridotto ad animalità. Appare questa figura fondamentale dell’animale. L’animale consuma l’oggetto per la sua sopravvivenza, non elabora l’oggetto. La differenza tra uomo e animale è tutta nella prassi razionale, cioè nella capacità di oggettivazione posseduta dall’uomo. L’uomo è animale, ma oltrepassa l’animale; è natura, ma oltrepassa la natura. Come vedete (a differenza dei sistemi idealistici), l’uomo non pone o crea la natura (si pensi, per esempio, a Gentile), ma la presuppone, la trasforma e la supera nella storia. L’uomo non lavora solo per soddisfare i suoi bisogni, per questo basterebbe la natura (come Adamo che coglie la mela). L’uomo lavora per creare un mondo artificiale, per produrre una storia umana (quella catarsi di cui parlavamo prima).

Chi è dunque l’animale? L’animale è vita senza storia. Nell’animale non c’è oggettivazione, prassi razionale, creazione di bisogni. Non c’è terreno artificiale. La natura non viene oltrepassata nella civiltà. L’operaio è, al tempo stesso, oggettivazione e alienazione. È uomo espropriato della propria umanità.

Perciò l’alienazione, oltre il prodotto, tocca la praxis come operazione fondamentale dell’uomo. L’operaio è alienato non solo perché gli viene sottratto il prodotto, ma im Akt der Produktion. Ma ora Marx aggiunge che l’aliena zione riguarda l’uomo come ente generico [Gattungswesen], cioè l’umanità nella sua radice. Per così dire, ora usciamo dalla fabbrica (non parliamo più di operaio, capitalista, atto di produzione, neanche di oppressione e di sfrutta mento) e guardiamo l’umanità nel suo insieme. Nella visione di Marx l’uomo è il nodo che stringe insieme due relazioni: il rapporto uomo-natura e il rap porto uomo-uomo. È ricambio organico con la natura ed essere sociale. Ma questi due lati sono lo stesso: l’uomo è in rapporto con la natura in quanto essere sociale; ed è in rapporto con l’altro uomo in quanto produce la propria esistenza, quindi nel ricambio organico con la natura.

La prima teoria del comunismo nasce da questa analisi. Il comunismo è la situazione che riunifica ciò che la modernità borghese ha separato, ricongiunge l’uomo alla natura e all’altro uomo attraverso la liberazione della praxis, del lavoro. Quando il prodotto non è più separato dal produttore (prima figura) e quando l’uomo riconosce nella praxis la propria operazione fondamentale (seconda figura), allora l’uomo si ricongiunge con la natura e con il proprio essere sociale. Come Marx si esprime, nel linguaggio giovanile e un po’ poetico dei Manoscritti, il comunismo realizza l’uomo totale:

L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale.

Nei Manoscritti, perciò, il principio del sistema è indicato nella perdita di sé dell’uomo all’altezza storica della grande fabbrica moderna. Qui sorgono due questioni, sulle quali, per altro, avremo modo di tornare. Noi abbiamo interpretato i Manoscritti come un discorso sul capitale e sull’uomo moderno. È l’operaio della grande fabbrica, infatti (non l’uomo in generale), che viene espropriato del suo prodotto e, di conseguenza, della sua praxis e, in generale, della sua umanità. Però per Marx l’oppressione (prendiamo questo termine dal Manifesto) non appartiene solo alla modernità, ma a tutta la storia umana. Alienazione e sfruttamento sono caratteri della preistoria dell’umanità. In che consiste, dunque, la ferita di tutta la storia umana, antica come medievale o moderna? Quello sfruttamento che c’è anche prima della nascita della fabbrica moderna?

Marx adopera alcune categorie critiche fondamentali: l’alienazione, l’op pressione e lo sfruttamento. Queste parole non dicono la stessa cosa. Quando si parla di oppressione, si parla di una regola della storia umana, per cui, fin dall’inizio, l’umanità si divide in due generi: alcuni uomini consumano ciò che altri uomini producono. L’umanità è spezzata. Ad alcuni è assegnato il compito della prassi, ad altri quello della teoria. L’immagine archetipa dell’op pressione è il signore antico, che si limita a consumare ciò che lo schiavo pro duce, ed è perciò libero di dedicarsi a una pura vita teoretica o alla vita civile. Come abbiamo detto, in questo mondo deformato il signore antico scopre la libertà, fonda la civiltà ed esce dalla vita animale. Come si legge nella Prefazione del 1859, l’epoca dell’oppressione rappresenta la preistoria dell’umanità: la storia umana comincia solo con la rivoluzione comunista. Però nella società borghese l’oppressione cambia volto: l’oppressore, il borghese, non è più un puro consumatore, non ha come fine la vita teoretica o la vita civile ma l’accumulazione, l’arricchimento, il profitto, e quindi esercita l’oppressione secondo la norma rigorosa e razionale dello sfruttamento, estrae plusvalore dal lavoro dell’operaio salariato, sulla base delle condizioni di libertà personale e di eguaglianza formale caratteristiche della modernità.

La questione riguarda in ultima istanza i concetti di bisogno e di lavoro. Questi sono i concetti cardinali della teoria dello sfruttamento. La storia come oppressione presuppone la naturalità del bisogno e la negatività del lavoro. La fame è un bisogno naturale, perché ordinato dalla natura, non dall’uomo stesso. Nell’Ideologia tedesca vedremo che la soddisfazione del primo bisogno trasforma la natura del bisogno: il bisogno si moltiplica, da naturale di venta umano. L’uomo pone a sé stesso i suoi fini. Il bisogno, da natura, si converte in fatto umano (l’uomo, per esempio, non usa più il grido della natura per salvarsi dalla morte, ma accresce le sue possibilità di comunicazione con il telefono, la radio, i social e così via). Da un bisogno naturale nasce un bisogno umano. Questo è un aspetto fondamentale del concetto di catarsi che abbiamo introdotto: il bisogno naturale (innegabile) si oltrepassa nel bisogno artificiale (creazione della storia umana).

La stessa cosa accade per il lavoro. Per la storia dello sfruttamento, per la preistoria dell’uomo, il lavoro è negativo, è solo un prezzo pagato alla natura, tanto che il Signore fonda una civiltà, una libertà, emancipandosi dalla pena del lavoro, lasciandolo al servo. Come nel caso del bisogno, e in misura più fondamentale, Marx converte la negatività del lavoro nella sua positività, lo considera come realizzazione dell’essenza umana. È il movimento inverso rispetto a quello del capitale, che converte la positività del lavoro nella sua negatività. La negazione del lavoro spiega l’origine dell’oppressione. Essa è di fatto la radice dell’alienazione, il motivo della rottura dell’umanità in due generi opposti (l’oppressore e l’oppresso, il signore e lo schiavo). Ma veniamo alla seconda questione. Se la grande fabbrica genera l’aliena zione dell’uomo, possiamo dire che l’industria è alienante? Marx fissa un con fine preciso con questa concezione, in almeno due punti dei Manoscritti. In primo luogo nella critica del comunismo primitivo, che vorrebbe tornare in dietro nella storia. In secondo luogo, nella forte affermazione per cui la storia dell’industria è «il libro aperto delle forze essenziali umane». Si vede come la storia dell’industria e l’esistenza oggettiva già formata dell’industria sia il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana, presente ai nostri occhi in modo sensibile. Questa storia dell’industria sino ad oggi è stata intesa non nella sua connessione con l’essere dell’uomo, ma sempre soltanto in una relazione esteriore d’utilità. Possiamo dire così. La rivoluzione borghese ha promesso di superare il privilegio, di uccidere il sistema signorile, di affermare i valori della laboriosità e del lavoro; invece ha frammentato l’uomo, lo ha diviso dalla natura e dall’essere sociale e ha edificato una diversa forma di società signorile. Per via dello sfruttamento, ha conservato la regola dell’oppressione, il modello signorile. Quindi ha lasciato l’uomo frammentato, lo ha ricondotto alle funzioni ani mali. Il comunismo primitivo vorrebbe tornare indietro nella storia, all’ozio signorile. Ma il comunismo di Marx non è un passo indietro nella storia, è il passo decisivo oltre il limite della rivoluzione borghese. Possiamo dire che il comunismo realizza la promessa che la rivoluzione borghese non ha saputo o potuto mantenere.

Come Marx si esprime, il comunismo è il risultato della storia umana. Risultato significa ciò che risulta, ciò che viene dopo, non prima, ciò che racco glie e compie il processo di sviluppo dell’umanità, non ciò che lo nega o lo rifiuta: l’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo – l’atto di nascita della sua esistenza empirica; ma è anche per la sua coscienza pensante il movimento, compreso e reso cosciente, del suo divenire, mentre il comunismo non ancora giunto al proprio compimento cerca per sé una prova storica, una prova in quella situazione di fatto, traendola da singole forme storiche antitetiche alla proprietà privata; e a questo scopo estrae singoli momenti dal movimento storico e li fissa come prove storiche della purezza del suo sangue; ma con ciò riesce proprio a dimostrare che la parte incomparabilmente più grande di questo movimento contraddice alle sue affermazioni e che, se mai esso sia qualche volta esistito, proprio il fatto di essere esistito nel passato è in contraddizione con la pretesa di valere come essenza.

Più precisamente, il comunismo non è una critica dell’industrialismo o della tecnica (ecco perché quel comunismo è primitivo, perché vuole tornare al di qua della storia dell’industria), ma uno svolgimento della modernità oltre la forma borghese.

Dunque, il comunismo realizza la storia dell’industria, riportandola alla sua figura sociale e ristabilendo la continuità tra uomo e natura.

Secondo la nostra lettura, nei Manoscritti Marx ha indicato il principio del sistema del capitale. In generale, questo principio è rappresentato dal concetto di alienazione. Nella sua essenza, cioè nella sua operazione fondamentale, l’uomo è oggettivazione, capacità di elaborare, trasformare, il contenuto della natura e della vita animale, così convertendo la natura in artificio, in una storia umana. L’uomo è attività formatrice (praxis) e la storia è la vicenda di questa forma, sempre rinnovata dal rapporto originario con la natura. Nel sistema della grande fabbrica moderna l’operazione fondamentale dell’uomo è compiuta dall’operaio. Non da tutti gli uomini, si osservi, ma dall’operaio. Tuttavia l’operaio è alienato. Egli trasforma la natura e si oggettiva nel prodotto, ma il prodotto è sottratto dal capitale. Questa sottrazione del prodotto ha conseguenze laceranti. Sottrarre il prodotto significa sottrarre il Sé, l’umanità, all’operaio, cioè alienare l’atto del lavoro, ciò per cui l’uomo è uomo. Quindi implica una alienazione universale, che separa l’uomo dalla natura e dall’altro uomo. Nella sua prima definizione, il comunismo ricompone questa scissione, ricostruisce l’uomo totale. L’uomo totale è l’uomo che si riappropria del suo prodotto (torna proprietario del Sé), della sua operazione fondamentale umana (l’oggettivazione, la praxis, il lavoro), del rapporto con la natura e con l’altro uomo. Cessa di essere animale e torna a essere uomo. Se ci pensate, il comunismo realizza così la promessa liberale. Locke aveva scritto che la proprietà è legittimata dal lavoro delle mani, perché chi lavora pone sé nella natura. È un diritto, come il diritto al proprio corpo. In questo comunismo l’uomo è proprietario di ciò che produce e, quindi, di sé, del suo rapporto con la natura e con l’altro uomo. Però Locke aveva concepito l’uomo come individuo. In Marx, come ora vedremo, le cose vanno diversamente.

Nei Manoscritti Marx non ha offerto una precisa determinazione del sistema, non ha spiegato come è fatto un sistema storico, come nasce la storia stessa. Sappiamo che l’oggettivazione è l’operazione fondamentale (essenza) dell’uomo, e che questa operazione istituisce la storia. Poi sappiamo che nel sistema della grande fabbrica questa operazione si è alienata. Perciò l’intera storia è una storia alienata, deformata, distorta. Indicazioni più precise le troviamo nel primo capitolo dell’Ideologia tedesca, un testo scritto insieme a Engels nel 1845-1846. Qui vediamo nascere la concezione materialistica della storia. Come vedremo, il problema di fondo è la genesi della storia umana, cioè il punto in cui la storia dell’uomo, la civiltà, si distacca dalla natura, dalla vicenda propriamente animale.

In una prima approssimazione, Marx e Engels oppongono all’idealismo il fatto, «constatabile per via puramente empirica» dei wirkliche Individuen, degli individui reali. O ancora di «individui umani viventi». Questo è il punto di partenza, dimenticato dall’idealismo. Sembrerebbe che siamo tornati, con que sta affermazione, all’empirismo di Locke. Come tale, però, non ci dice molto sulla storia umana, l’individuo vivente è ancora natura, vita animale, non è ancora storia. Il discorso, come vedremo, deve essere rovesciato. Tutto il paradigma liberale deve essere rovesciato. Come tale, l’individuo vivente è vita animale, non ancora vita storica. L’individuo umano non è il presupposto o il protagonista della storia umana, ma un prodotto della storia. Prestate attenzione: in questo rovesciamento del rapporto individuo-società civile c’è tutta la critica al giusnaturalismo e al contrattualismo, cioè al modello liberale. Non sono gli individui naturali che costituiscono la forma sociale, ma, al contrario, è la società che costituisce gli individui, che perciò sono un prodotto non un presupposto.

Marx e Engels adoperano due forti espressioni. In primo luogo, affermano che gli uomini non si distinguono dagli animali per la coscienza, ma perché producono i loro mezzi di sussistenza (non si limitano a raccogliere i frutti o a mangiare gli altri animali, ma producono la vita). In secondo luogo, che questa produzione dell’esistenza è una Lebensweise, un modo di vita, una forma di vita, un «modo determinato dell’attività», dove non conta solo il ciò che viene prodotto, ma il come si produce. La produzione della vita è condizionata dalla natura, ma la oltrepassa in una Lebensweise. Leggiamo qualche brano:

Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. [] Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali quando cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza [].

Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.

Sono parole forti. «Ciò che gli individui sono», l’essere degli individui, dipende da come essi producono la loro esistenza. La parola produrre i mezzi di sussistenza ha un peso particolare. Esso non è solo un modo si riproduzione, di conservazione, della vita, ma è una forma di vita, una civiltà, una storia.

Il problema dell’Ideologia tedesca è la genesi della storia umana dalla vita animale, l’oltrepassamento della condizione naturale. Per spiegare questo passaggio, Marx e Engels descrivono, in forma semplice e didascalica, i princìpi della nuova teoria della storia.

In primo luogo, l’uomo soddisfa i propri bisogni elementari. La vita umana comincia con la conservazione di sé, con il bisogno elementare. Questa non è la storia, ma la «condizione fondamentale di qualsiasi storia». Nella situazione iniziale, dunque, domina il bisogno naturale e la necessità di soddisfarlo. In sostanza, questa è ancora una condizione animale o naturale. L’uomo può an cora soddisfare il bisogno naturale senza produrre la vita, senza una forma sociale. Il punto di partenza è dunque la natura.

Il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una con dizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. … In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta.

Qui non parliamo ancora di come l’uomo risolve questo problema (delle forme storiche della produzione della vita), ma affermiamo che, in ogni caso, la vita umana comincia così, come produzione dell’esistenza. L’uomo è segnato dal bisogno, da una negatività. Se non soddisfa il bisogno, muore. Marx parla qui di bisogni elementari, potremmo anche dire animali. A questo livello l’uomo non è ancora propriamente uomo, è animale come gli altri animali.

In secondo luogo, la soddisfazione del bisogno naturale implica immediatamente la creazione di nuovi bisogni, una moltiplicazione dei bisogni, che è indotta dalla produzione stessa. Questa è «la prima azione storica». Qui si esce dal terreno della conservazione, si entra in quello dell’artificio, ossia della sto ria. In questa moltiplicazione dei bisogni l’uomo si distingue davvero dalla vita animale.

Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica.

Ho detto che il passaggio è immediato. Non c’è un prima e un poi. La «creazione dei mezzi» (la prima scheggia di pietra per tagliare, il primo indumento per coprirsi, la prima capanna da abitare) è già una produzione di civiltà, è già artificio. Perché il lavoro è opera umana, non ha la negatività del bisogno.

In terzo luogo, accanto alla produzione di beni e alla moltiplicazione dei bisogni, l’uomo produce sé stesso.

Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini [an dere Menschen zu machen], a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia.

Questi sono i tre elementi basilari della vita umana. La loro successione è solo didascalica, vanno concepiti in modo organico, come tre aspetti o momenti di un solo processo, che è l’avvio della storia umana. Al tempo stesso, l’uomo produce l’esistenza, moltiplica i bisogni e riproduce la specie.

Questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre «momenti» (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia.

Il quarto aspetto è quello decisivo. Ogni attività produttiva (anche la scheggia di pietra per tagliare) è un rapporto sociale. È fin dall’inizio una forma sociale determinata. Il principio non è dunque l’uomo, l’individuo o il lavoro, ma la forma sociale, il sistema, cioè l’uomo e il lavoro socialmente determinati. L’uomo conserva sé stesso solo in una forma sociale. Fra produzione, riproduzione della vita e socialità non vi è differenza. In questo senso l’uomo è animale sociale e non si presenta mai nella forma dell’individuo. Qui ve diamo sorgere propriamente il concetto di sistema. Sappiamo già, in termini molto elementari, cosa è un sistema.

Nel primo momento in cui produce la vita (e non muore), l’uomo è forma sociale, cioè rapporto duplice con la natura e con gli altri uomini. Non esiste un Robinson che possa produrre da solo la propria vita. Oppure Robinson è solo un animale senza storia. È la società che produce la vita di ogni individuo. Marx adopera questa forte espressione: la cooperazione è una forza produttiva. Non è la mano del singolo che produce la vita, ma la mano collettiva dell’intero sistema sociale.

La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procrea zione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una «forza produttiva»; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio.

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Divagazioni su Marx

Maria Cristina Falessi

 Alla fine del 1847, Marx e Engels vengono incaricati dalla Lega dei comunisti della stesura del Manifesto. Con la Lega dei comunisti poi con l’Internazionale (tra il 1864 e il 1876), Marx e Engels si trovano di fronte al problema, ben più concreto rispetto al periodo precedente, di tradurre il materialismo storico (che pure implicava una teoria della rivoluzione e del comunismo) in una politica in atto. In particolare, il concetto di sistema, definito nella Ideo logia tedesca, viene messo alla prova di una figura determinata della storia umana, cioè del sistema borghese-capitalistico. Dobbiamo usare questa espressione, con il trattino, perché i due aggettivi – borghese e capitalistico – non hanno lo stesso significato né la stessa periodizzazione. La borghesia è una classe che, in alleanza con le classi popolari, compie una rivoluzione progressiva, che libera i popoli europei dal sistema del privilegio, costruisce gli Stati nazionali e inaugura un libero mercato. La sua ideologia è il liberalismo, dove la proprietà privata è legittimata dal lavoro (si pensi a Locke) e che si propone di garantire una serie di libertà nei confronti degli abusi del potere politico. La borghesia, come vedremo, è una classe rivoluzionaria, la più im portante della storia. Però essa, nel momento in cui emancipa l’uomo dal privilegio, prosegue una storia di sfruttamento. Anche il borghese è un signore, un consumatore, anche se non più un consumatore improduttivo, ma produttivo, che investe razionalmente il profitto per accrescere il processo di accumulazione. Perciò il mondo borghese incontra un limite storico insuperabile nella costruzione del sistema del capitale. A un certo punto, le ragioni del ca pitale entrano in aperto contrasto con i princìpi della civiltà borghese. Il borghese è un soggetto rivoluzionario, è una classe, il capitalista è il funzionario di un sistema, che ha in sé stesso la sua regola, che ha come unico fine l’accumulazione. Perciò nel punto essenziale la storia borghese (libertà, mercato, proprietà privata) entra in contraddizione con il sistema mondiale che ha edi ficato. La civiltà borghese diventa una civiltà del capitale, e il borghese, come classe, è degradato a funzione di un sistema oggettivo. La rivoluzione borghese crea le condizioni di un sistema, il capitale, che ne dissolve la visione del mondo, la forma di civiltà. Ecco perché ha grande importanza in Marx il 1848 e perché, nel marxismo, ha grande importanza la periodizzazione successiva, il “fine secolo” e l’età dell’imperialismo.

Quando la borghesia abbandona i suoi valori, nasce veramente il sistema del capitale. A quel punto il proletariato, il soggetto rivoluzionario, diventa l’erede di quella storia borghese, ne raccoglie la promessa di libertà, di eguaglianza, di democrazia. Questo passaggio dei valori di civiltà nel campo del lavoro operaio rappresenta la grande svolta nella storia contemporanea. La costruzione della democrazia diventa il compito specifico del movimento operaio. Engels espresse questo concetto di eredità nella Introduzione del 1895.

L’ironia della storia capovolge ogni cosa. Noi, i “rivoluzionari”, I “sovversivi”, prosperiamo molto meglio coi mezzi legali che coi mezzi illegali e con la sommossa. I partiti dell’ordine, com’essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la légalité nous tue, la legalità è la nostra morte; mentre noi in questa legalità ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti, e pro speriamo ch’è un piacere. E se non commetteremo noi la pazzia di lasciarci trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale.

La prima parte del Manifesto ha come titolo Borghesi e proletari. Fin dalle prime pagine vi si legge qualcosa di inaudito, che non può essere trovato in nessun testo precedente della letteratura rivoluzionaria. Marx ed Engels giungono a un vero e proprio elogio della borghesia, come classe autenticamente rivoluzionaria. Il capitolo si apre con l’indicazione del senso della storia umana. Questo senso è il conflitto sociale:

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.

Si parla della Geschichte, della storia. Tutta la storia ha questo significato, di essere Geschichte von Klassenkämpfen. Ma cosa è una classe? Marx parla di patrizi, di schiavi, di artigiani e così via. Una classe non è una associazione volontaria (come un partito) né un gruppo sociale che si costituisca, poniamo, per affinità di interessi. La classe è un dato oggettivo della forma sociale. Le classi possono diventare partiti, sindacati, associazioni, ma intanto esistono in quanto classi, cioè come funzioni oggettive del sistema. In maniera altrettanto oggettiva esse sono in lotta con altre classi, cioè manifestano immediatamente un conflitto con altre classi che hanno interessi opposti. Questa è la struttura oggettiva della storia umana, dal momento in cui, come sappiamo, la civiltà si è costituita attraverso la divisione del lavoro tra mano e mente, tra prassi e intelletto, tra produzione e consumo. Dunque nella storia vi sono le classi e queste classi sono portatrici di una forma sociale, di una visione del mondo, che è in aperto conflitto con quella di altre classi.

Subito dopo Marx ed Engels chiariscono il senso di questo conflitto. In generale si tratta del conflitto fra «Unterdrücker und Unterdrückte», tra «op pressori e oppressi». Questo conflitto che attraversa la storia viene specificato in senso storico:

Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. (p. 7)

Il passaggio è di grande significato. Nella storia si contrappongono oppressori e oppressi. Che vi sia questa dialettica è una necessità inderogabile. Questi opposti danno sempre luogo a una battaglia: bald versteckten, bald offenen Kampf. Der Kampf, la lotta, può essere offenen, aperta, o versteckten, nasco sta, latente. Ci sono periodi, o intere epoche, in cui il combattimento non si vede, è sottotraccia, sembra scomparso.

Inoltre, se il conflitto è una necessità inderogabile, il risultato storico non ha lo stesso carattere di necessità, è aperto a due esiti differenti. Il conflitto può finire con una Umgestaltung, con una trasformazione, dell’intera forma sociale, oppure con uno Untergang, un tramonto, uno sfacelo, un naufragio comune di entrambe le classi in lotta.

  1. Il disincanto

Però questo conflitto è pervenuto a un punto culminante, che Marx ed Engels definiscono die Epoche der Bourgeoisie, «l’epoca della borghesia» (p. 7). Perché l’epoca borghese è culminante nella storia? Come Marx ed Engels si esprimono, la borghesia «ha strappato il commovente velo sentimentale» (p. 9), ha «svelato» la realtà sociale, ha guardato il mondo «con occhio disincantato» (p. 10). L’epoca della borghesia è l’epoca del disincanto: «solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo» (p. 10). Scrivono così: La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato «pagamento in contanti». Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.

La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari.

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i reazionari tanto ammirano nel Medioevo, avesse il suo appropriato completamento nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acque dotti t romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima con dizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conserva zione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima an cora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene -Consacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

Inoltre la borghesia ha unificato il mercato mondiale, «ha dato un’impronta cosmopolitica» al mondo, ha generato «uno scambio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni», non solo sul piano economico ma anche su quello intellettuale.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il con sumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili — industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni luna dall’altra. E come nella produzione mate riale, cosi anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce ima letteratura mondiale. Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città1. Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale, e cosi ha strappato una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, cosi ha reso di pendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente.

La borghesia sopprime sempre piu il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centra lizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, pro vince con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi.

trici, dissodamento di intieri continenti, fiumi resi navigabili, intiere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo — quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?

Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scam bio, le condizioni nelle quali la società feudale pro duceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasfor mavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate.

Come vedete, la borghesia ha assoggettato la campagna alla città, vincendo «l’idiotismo della vita rurale», e ha accentrato lo Stato politico svelando la vera natura dello Stato: «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese».

Veniamo a un altro aspetto di questa pagina del Manifesto. Marx ed Engels affermano che la borghesia, in quanto «potenza sociale», genera la propria contraddizione, la ragione del suo superamento. La lezione della dialettica hegeliana si riassume tutta in questa concezione, nel rapporto necessario fra contraddizione e superamento. La borghesia, scrive, è come il mago che non riesce più dominare le potenze evocate: «gleicht dem Hextenmeister». Der Hexen meister è propriamente lo stregone. Come lo sciamano, anche la borghesia evoca le potenze degli inferi. Ma lo sciamano le evoca per sconfiggerle, per farne l’incantesimo. Invece la borghesia le evoca ma non può incantarle:

I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, in somma la moderna società borghese, che ha come per incantesimo prodotto mezzi di produzione e di scambio tanto potenti, è come l’apprendista stregone incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate. La storia dell’industria e del commercio è ormai da decenni solo la storia della sollevazione delle moderne forze produttive contro i moderni mezzi di produzione, contro i rapporti di proprietà che esprimono le condizioni di esistenza e di dominio della borghesia.

Il volto oggettivo di questa contraddizione sono le crisi di sovraproduzione:

Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ri cacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le for ze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono dive nute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rap porti borghesi sono diventati troppo angusti per conte nere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, di struggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.

Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa.

La sovraproduzione innesca una sequenza micidiale. Spinta dalla propria energia economica, la borghesia produce più di quanto il mercato può assorbire. Questo la porta a distruggere le forze produttive oppure a cercare nuovi mercati: colonialismo e guerra.

Come vedete, c’è una stretta necessità nella crisi. Il sistema non ha, in ultima istanza, le risorse per assorbire le crisi che produce nel suo seno. È un problema che si riaprirà nel terzo libro del capitale (la caduta tendenziale) e in tutta la storia del marxismo.

Nella lezione di martedì abbiamo osservato che civiltà borghese e sistema del capitale non hanno lo stesso significato. La borghesia è una classe rivoluzionaria, che compie una rivoluzione progressiva, capace di abbattere il sistema signorile del privilegio in alleanza con le classi popolari. Possiamo dire che quei due termini – civiltà borghese e sistema del capitale – rappresentano anche i due momenti dell’analisi di Marx. Dal Manifesto agli scritti storici, il problema di Marx è la rivoluzione borghese europea, lo studio del suo signifi cato e delle sue fasi. Nel periodo di Londra il problema principale diventa il risultato di quella rivoluzione, cioè il sistema del capitale e il mercato mondiale.

Come abbiamo osservato, la rivoluzione borghese è la storia di una pro messa di liberazione. La borghesia, con la sua rivoluzione, promette di liberare l’uomo dal privilegio, cioè dal sistema signorile, e di costruire progressiva mente un ordine di libertà e di democrazia. Perciò la sua ideologia è il liberalismo. Da Locke all’illuminismo a Hegel, la sua filosofia è una filosofia della libertà. Però questa promessa non si realizza. Qui sorge il problema della modernità. La storia borghese combatte il privilegio signorile ma, al tempo stesso, prosegue la storia signorile e, anzi, la porta a compimento. Invece di superare lo sfruttamento, lo perfeziona. Non supera la preistoria, ma è dentro la preistoria e la conclude. Se tutta la storia è una storia alienata (originata dalla di visione tra produzione e consumo, dalla frattura del genere umano), la borghesia porta questa alienazione al massimo grado. Il motivo di questo risultato è il capitale, il sistema del capitale.

Perciò (come vedremo meglio) la storia borghese ha due tempi. La storia borghese nasce come processo rivoluzionario, come movimento liberale, lotta contro il privilegio. Borghesia e classi popolari sono alleati contro i vecchi ceti. Ma, a un certo punto, il processo di inverte. La borghesia torna ad allearsi con i vecchi nemici, con i resti dell’aristocrazia, abbandona la filosofia della libertà, diventa reazionaria e costruisce sistemi politici autoritari. La borghesia non è più liberale, usa lo Stato per combattere il proletariato. Questa inversione ha la massima importanza nella storia della rivoluzione borghese. È l’evento fondamentale della storia contemporanea. In quel punto accadono tante cose. In primo luogo, il sistema del capitale consuma le basi stesse della civiltà liberale. Lo Stato liberale è sostituito da regimi autoritari, da vere e proprie dittature. Per conservare il potere economico, la borghesia rinuncia alla pro messa di libertà. È una metabasis, un rovesciamento delle basi del sistema. In secondo luogo, e di conseguenza, il movimento operaio eredita quei valori di libertà e quella promessa di democrazia che la borghesia abbandona. Come scrive Engels nel 1895, «l’ironia della storia capovolge ogni cosa». Da quel momento, il movimento operaio difende le istituzioni di libertà, i parlamenti, costruisce la democrazia. La borghesia entra nella storia dell’imperialismo, del colonialismo, delle dittature del Novecento.

Cosa significa tutto questo? Significa che la promessa di libertà e di demo crazia che aveva animato le rivoluzioni borghesi diventa irrealizzabile nel sistema del capitale. C’è una contraddizione insuperabile tra democrazia e capitalismo. La democrazia non può essere realizzata dentro quella storia alienata, in quella preistoria dello sfruttamento.

Però la rivoluzione borghese lascia il segno. Le sue conquiste sono dura ture, irreversibili. Come abbiamo osservato, essa realizza almeno due cose. Da un lato, l’epoca della borghesia è l’epoca del disincanto. La borghesia toglie il velo, rivela, il fatto dello sfruttamento, che nei sistemi precedenti appariva coperto da innumerevoli rappresentazioni mitologiche, filosofiche o religiose. Ora la lotta è aperta, perché si gioca sul terreno puro e semplice della produzione dell’esistenza, sul terreno dell’economia. D’altro lato, la borghesia uni fica il mondo, porta a compimento la rivoluzione moderna, crea un mercato mondiale, supera i confini delle nazioni. Prestate attenzione a questo passaggio cruciale. Unificazione del mondo, divisione del genere umano. Nel sistema borghese questi due aspetti convivono, si alimentano reciprocamente. La borghesia unifica il mondo sotto il profilo economico, ma lo fa proseguendo una storia di sfruttamento, dove ancora (per usare le parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Galati) c’è il giudeo e il greco, il servo e il libero, il maschio e la femmina. In una parola, la regola della storia umana rimane la stessa: la divisione tra produzione e consumo, tra servo e signore, tra mano e mente, tra uomo e filosofo.

Due tempi della storia borghese. Perciò, in termini hegeliani, contraddizione del sistema generato dalla borghesia. La contraddizione del sistema è, anzitutto, un processo di crisi periodiche, ricorrenti, che segnano la base del sistema. Nel Manifesto (lo abbiamo visto) queste crisi si chiamano crisi di sovraproduzione. Le forze produttive, spinte dal fine dell’accumulazione, crescono in maniera tale che la società civile non può sostenere il peso di questa crescita. L’industria cresce, ma il sistema non ce la fa a sostenere questo ritmo di sviluppo. Ciò che importa è che queste crisi cicliche costringono alla distruzione delle forze produttive, a un arresto del progresso (declino della scienza, dell’occupazione e così via) oppure, finché è possibile, alla guerra. La guerra diventa la regola del genere umano. La ragione della guerra è la creazione di nuovi mercati, il reperimento di manodopera a basso costo, la creazione di nuovi consumatori. Come abbiamo visto, la civiltà borghese si espande, ingloba il sottosviluppo, porta ovunque i propri valori, si fa mondo. Ma la regola di questa espansione è la guerra. Solo attraverso la logica di conquista la borghesia può costruire un proprio sistema-mondo. Ma oltre questa contraddizione oggettiva (la crisi di sovraproduzione, la guerra), c’è anche una contraddizione soggettiva. Il sistema borghese è culmi nante nella storia anche perché, rispetto a tutti i sistemi precedenti, semplifica il conflitto sociale. Nel Manifesto si legge: La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi.

L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intiera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. La semplificazione operata dalla borghesia ha come effetto la caduta di tutte le classi intermedie nell’orizzonte del proletariato: ciò vale per i conta dini, per la classi medie, per gli intellettuali. La tesi fondamentale è dunque quella di una compiuta polarizzazione del conflitto nell’epoca matura della borghesia. La semplificazione del conflitto riguarda determinati ceti sociali: una parte della borghesia, la piccola borghesia, nella sequenza delle crisi si proletarizza; in particolare gli intellettuali passano dalla parte del proletariato. Leggiamo un brano del Manifesto:

Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell’industria intiere parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza. Anch’esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione.

Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, cosi aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.

Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, men tre il proletariato ne è il prodotto più genuino.

Cerchiamo di guardare a fondo in questa tesi della semplificazione, che certo può apparirci molto datata. Tutta la storia umana è una storia di sfruttamento e di lotte di classi, tutta la storia umana rappresenta la divisione tra un signore e un servo. La storia è dialettica, anche se le classi sono frammentate, molteplici. Ora, il sistema borghese riporta la storia al suo principio dialettico: ora non abbiamo più una molteplicità di classi, ma emergono, in forma limpida, le due vere classi della storia, il signore e il servo. Emergono nella figura culminante, come borghese e come proletario, come consumatore e come produttore, come sfruttatore e come produttore. La dialettica borghese svela la dialettica di tutta la storia umana.

Ma c’è un secondo aspetto da sottolineare. Cosa accade quando tutte le classi della società decadono nei due campi nemici (eppure, ricordiamolo, di pendenti l’uno dall’altro, perché il capitalista non può essere tale senza il proletario e l’operaio ha bisogno dell’industria capitalista)? Accade che intorno al proletariato (attraverso questa semplificazione) si costituisce un popolo nazione, la grande maggioranza della nazione (ecco perché la dittatura del proletariato è una dittatura della maggioranza). Il movimento operaio (cioè l’alleanza strutturale della classe operaia con gli altri ceti della società) si costituisce a nazione, proprio come aveva fatto il Terzo Stato di Sieyès nell’Assemblea Nazionale francese. Cosa è il Terzo Stato? È la nazione.

Più complesso è il discorso per das Lumpenproletariat e per i contadini. A differenza della borghesia, il sottoproletariato non «passa al proletariato» ma alla reazione:

Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie.

Anche il destino dei contadini non è esattamente quello dei piccoli borghesi. Intanto la borghesia ha assoggettato la campagna alla città, strappando gli uomini «all’idiotismo della vita rurale». Nelle conclusioni appare chiaro che il comunismo supera «l’assoggettamento», ma prosegue l’opera della borghesia unificando «l’esercizio dell’agricoltura» con quello dell’industria, quindi industrializzando le campagne. Il contadino si proletarizza, in certo modo, diventando esso stesso operaio, grazie al progresso dell’agricoltura.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 19

a partire da una ateologia

Pasquale Amato

6. Religione, Ateismo, Fede (II)

6.1. Dell’accusa

Nello studio sull’accusa, l’analisi prende avvio da un confronto tra le critiche della religione di Nietzsche e di Freud, a partire dalla considerazione del comune intento di smascherare il desiderio e il timore di cui le rappresentazioni culturali sarebbero i “sintomi”. La loro ermeneutica riduttrice si annuncia, quindi, sia “filologica”, in quanto esegesi della coscienza, che “genealogica”, in quanto ricerca di un’origine della “distorsione” con la quale la coscienza si manifesta. Questa origine, dalla quale i valori etici e religiosi nascono, che si può definire, dice Ricœur, come «un centro focale virtuale o meglio […] uno spazio vuoto»[1], è per Nietzsche la volontà di potenza, per Freud la libido.

Prima di proseguire, Ricœur osserva che, al di là delle differenze tra le posizioni dei due pensatori, «le loro rispettive analisi della religione, quale fonte di interdizione, si rafforzano vicendevolmente»[2], fino ad essere più comprensibili singolarmente, se prese insieme.

Il nichilismo nietzscheiano è una forma di distruzione della metafisica tradizionale nella quale il «Dio del divieto è questo luogo ideale che non è e da cui promana il divieto. […] Non è Nietzsche che inventa il nichilismo»[3], continua Ricœur, già di per sé implicito in una metafisica che pone un ideale illusorio nel quale Nietzsche, testimone di questo “processo storico”, coglie l’espressione di un disprezzo della vita e «il risentimento dei deboli nei confronti dei forti»[4]. La sua azione riduttrice si rivolge, allora, al cristianesimo conseguentemente ritenuto “platonismo per il popolo”.

La transvalutazione risulta, infine, il «rovesciamento di un rovesciamento, la restaurazione dell’origine dei valori che è la volontà di potenza»[5].

D’altro canto, il Super-Io freudiano, «costruzione ideale, da cui procedono divieto e condanna»[6], appare come uno sviluppo diverso delle stesse intenzioni. La psicoanalisi, nel far emergere il dramma edipico, spoglia dell’apparente assolutezza l’istanza morale del Super-Io, che «si rivela essere una istituzione derivata ed acquisita»[7] riconducibile alla introiezione della figura paterna.

Ma l’Edipo individuale, sottolinea Ricœur, fa da modello, in Freud, ad un «Edipo collettivo appartenente all’archeologia dell’umanità»[8], a quel dramma primitivo dell’assassinio del padre a cui si ricollega l’istituzione della legge.

Perché sia possibile la transvalutazione, dunque, al nichilismo di Nietzsche, «angoscia di una prova di cultura»[9], va affiancato il lavoro del lutto, «una rinuncia personale, che Freud ha chiamato nel suo Leonardo “la rinuncia al padre”»[10]. È sulle “vie parallele” del nichilismo e del lutto, perciò, che si procede verso quell’origine dei valori che Nietzsche ha chiamato volontà di potenza e che per Freud era Eros in conflitto perenne con Thanatos.

Chiariti i principi dell’ateismo nietzscheiano e freudiano, è necessario ora rispondere a tre domande per poterne individuare i connotati.

Il pazzo, ne La gaia scienza, afferma: “Dio è morto”. Allora, «il problema è innanzitutto di sapere quale dio è morto; poi chi l’ha ucciso […]; e infine che tipo di credito possiede la parola che proclama questa morte»[11].

Il principio di obbligazione su cui poggia il “dio etico” di Kant, sottoposto all’analisi regressiva sia nietzscheiana che freudiana, perde il suo carattere a priori, per risultare derivato «da un processo nascosto, che rinvia ad un atto di accusa radicato nella volontà»[12]. Ma l’accusa è rilevabile «alla radice dell’obbligazione»[13] solo da un’ermeneutica, non da una riflessione che distingue l’empirico dall’a priori. Dunque, l’interpretazione riduttrice, nello svelare l’accusa, identifica con un dio “giudice” il dio morale della metafisica, che è anche il dio della teologia riferito al principio di causa prima, e lo designa come «il dio che ha fallito»[14],.

«Quale dio è morto? Possiamo ora rispondere: il dio della metafisica e anche quello della teologia, […] che è il dio dell’onto-teologia, per impiegare il termine forgiato da Heidegger, dopo Kant»[15].

Non è difficile, a questo punto, rispondere alla seconda domanda. Nietzsche ha mostrato che l’assassinio è in realtà il processo culturale del nichilismo. Freud, d’altra parte, in una chiave psicologica, lo delinea come lavoro del lutto sulla figura del padre. L’assassino non è, dunque, l’ateo, ma «il nulla specifico che abita nel cuore dell’ideale, la mancanza di assolutezza del Super-Io»[16]

Ma ora: quale credito dare a Nietzsche e alla sua parola?

La ribellione dell’“uomo dal martello” è prigioniera del risentimento. Alla proclamazione della morte del dio morale ad opera del nichilismo, all’ermeneutica distruttiva, servirebbe il seguito di una filosofia costruttiva: la parola di Zaratustra, è vero, prospetta il tipo nuovo di vita del sì a Dioniso, dell’amore per il destino, dell’eterno ritorno, ma non esiste uno Zaratustra a rendere autorevole questa riproposta in positivo dei termini della ermeneutica negativa nietzscheiana. Nietzsche non è Zaratustra, e la sua opera, dice Ricœur, non va oltre «una accusa della accusa»[17].

E se il filosofo non è il profeta, Ricœur pensa «che nulla sia deciso, che tutto resti aperto dopo Nietzsche e che una sola via […] sia chiusa dopo di lui, quella di un’onto-teologia che culmini in un dio morale, concepito come il principio e il fondamento di un’etica della proibizione e della condanna»[18]. L’uomo d’oggi è ormai incapace, insomma, di accettare una morale retta dai comandamenti di una volontà esterna, seppure divina. Attraverso la critica della religione, la “scuola del sospetto” ci ha insegnato «a discernere un prodotto e una proiezione della nostra debolezza nel comandamento che dà la morte e non la vita»[19], e per questo, ribadisce Ricœur, merita il nostro consenso.

Poiché «solo il Dio morale è rifiutato»[20], possiamo allora tentare di attribuire al nostro ateismo “parziale” un qualche significato religioso. Quale?

Al profeta, dice Ricœur, basterebbe parlare e, nel dire, assegnando «un nome, un nome nuovo e antico, a questo ultimo stadio del nostro itinerario, […] chiamarlo la fede»[21].

Ma tuttora il cristianesimo è “un platonismo per il popolo”, e nichilismo e lutto non hanno ancora portato a termine il loro compito: «il filosofo pensa in questo tempo intermedio»[22], e non è “predicatore profetico”. La sua responsabilità «è di pensare […] fino a che abbia trovato il livello di problematizzazione che renda possibile una mediazione tra la religione e la fede attraverso l’ateismo»[23], per eludere la semplice posizione antinomica di una ermeneutica riduttrice e di una proposta kerygmatica che prescinda dal dio morale della proibizione e della condanna.

A questo punto, ammette Ricœur, il sentiero si fa più impervio, e il contributo di Heidegger, già avvezzo alle difficoltà di un tale procedere, ci può offrire buone coordinate.

La difficoltà maggiore di fronte alla quale si trova oggi la filosofia, osserva Ricœur, «riguarda il problema della origine dei valori, dal momento che siamo condannati ad oscillare tra una impossibile creazione dei valori ed una impossibile intuizione dei valori»[24]. L’etica risente di questo “scacco teorico” vivendolo come antinomia tra sottomissione e ribellione. Di conseguenza, l’unico «modo di pensare eticamente consiste innanzitutto nel pensare non eticamente»[25], e allora, per poter accedere al problema dell’autonomia e dell’obbedienza, prosegue Ricœur, dobbiamo individuare un “luogo pre-etico” affrancato dall’accusa, e quindi da proibizione e condanna.

Se consideriamo che nella «relazione alla parola – alla parola del poeta o del pensatore, cioè ad ogni parola che […] rivela qualche cosa a riguardo degli esseri dell’essere – […] è implicata una specie di obbedienza totalmente spoglia di ogni risonanza etica»[26], comprendiamo che il luogo pre-etico da noi cercato «è quello dell’“ascolto” […] un modo d’essere che non è ancora un modo di fare e che, per questa ragione, sfugge alla alternativa della soggezione e della rivolta»[27].

Il sostegno di Heidegger in Essere e tempo[28] consente dunque a Ricœur di mettere in luce la circolarità tra la parola, l’ascolto e l’obbedienza, anche in forza del nesso semantico, presente in molte lingue, tra ascoltare e obbedire[29]. La radicalità dell’analisi heideggeriana, il suo precedere cioè «ogni insegnamento morale e […] ogni moralismo»[30], risulta funzionale ad un discorso che, opportunamente, non entra nel merito «della parola come parola di Dio»[31], ma può almeno designare, in un ambito esistenziale, le possibili modalità di una “appartenenza” implicita nell’ascolto (in tedesco hören), «una appartenenza (zugehören), che costituisce l’obbedienza pre-etica verso la quale»[32] Ricœur tenta di orientarsi.

Ma, ancora, per poter ascoltare, è necessario lasciar dire, e dunque tacere, osservare il silenzio, il che ci consente di affermare che «il silenzio è l’origine dell’ascolto e dell’obbedienza»[33].

L’analisi ricœuriana, che mutua i caratteri del Dasein heideggeriano, apre così la prospettiva di una «relazione a Dio in quanto parola che precede ogni divieto ed ogni accusa»[34], fino alla consapevolezza dell’impossibilità di incontro con la Parola, con il Vangelo, ma con la chiarezza dell’invito «a non permettere che il kerygma si perda nel labirinto della obbligazione e del dovere»[35].

Abbiamo delineato un tipo di etica, finora, della quale sappiamo cosa non deve implicare, cioè il divieto, l’accusa e la condanna, ma su queste premesse dobbiamo adesso individuarne le condizioni di possibilità.

Il riferimento a Spinoza, da una parte, e quello a Platone e a Freud, dall’altra, consentono a Ricœur – il quale sviluppa in questa sede un argomento già esposto nel Dell’interpretazione[36] – di chiamare «questa etica anteriore alla morale della obbligazione un’etica del desiderio d’essere e dello sforzo per esistere»[37].

Il conatus spinoziano, sforzo come «posizione nell’esistenza, […] potenza affermativa di esistere, […] fonda l’affermazione più originaria, quella dell’“io sono”, Ich bin, I am»[38], ma di questa affermazione, che l’incontro con il male ha alienato, ci dobbiamo riappropriare mediante l’etica, in uno sforzo ridotto a «desiderio d’essere, desiderio che, qui come ovunque, significa mancanza, bisogno, domanda»[39], libido che Freud accomuna all’Eros del Convivio platonico.

Quindi l’etica è «appropriazione progressiva del nostro sforzo per essere»[40], in quanto radicata nell’affermazione e, insieme, nella mancanza dell’essere.

Arriviamo così a stabilire, con Ricœur, che obbligazione e valori perdono la loro connotazione prioritaria, pur conservando un loro posto – «ma non il primo»[41] – nella riflessione etica. L’obbligazione, la proibizione, assume un suo senso come criterio riferito alla volontà; la definizione dei valori, perché non sia adorazione del valore come idolo, sopraggiunge nel punto di incontro tra le possibilità indefinite del nostro desiderio d’essere e la finitezza delle situazioni in cui viviamo.

Ricapitolando, non solo l’ermeneutica demistificante nietzscheiana e freudiana, ma anche la filosofia della parola rinvia i processi di costituzione dell’eticità allo sforzo per esistere e al desiderio d’essere dell’uomo. I cambiamenti che la parola induce in noi non provengono dall’obbedienza ad un ordine superiore, ma dal nostro predisporci ad un “ascolto che comprende”. La parola, infatti, osserva Ricœur, «ci raggiunge a livello delle strutture simboliche della nostra esistenza, degli schemi dinamici che esprimono il nostro modo di comprendere la nostra situazione e di progettare il nostro potere in questa situazione»[42].

[1] ivi, p. 458.

[2] ivi, p. 458.

[3] ivi, p. 458.

[4] ivi, p. 458.

[5] ivi, p. 458.

[6] ivi, p. 459.

[7] ivi, p. 459.

[8] ivi, p. 459.

[9] ivi, p. 459.

[10] ivi, p. 459.

[11] ivi, p. 460.

[12] ivi, p. 460.

[13] ivi, p. 460.

[14] ivi, p. 461.

[15] ivi, p. 460.

[16] ivi, p. 461.

[17] ivi, p 461.

[18] ivi, pp. 461-2.

[19] ivi, p. 462.

[20] ivi, p. 462.

[21] ivi, p. 462.

[22] ivi, p. 463.

[23] ivi, p. 463.

[24] ivi, p. 463.

[25] ivi, p. 464.

[26] ivi, p. 463.

[27] ivi, p. 464.

[28] cfr. Heidegger M., Essere e tempo, tr. it. Chiodi, Longanesi, Milano 1970, pp. 255-6.

[29] cfr. Ricœur P., «Religione, Ateismo, Fede», op.cit., p. 464, in cui Ricœur esemplifica il nesso tra le parole tedesche horchen, “ascoltare”, e gehorchen, “obbedire”.

[30] ivi, p. 465.

[31] ivi, p. 465.

[32] ivi, p. 465.

[33] ivi, p. 465.

[34] ivi, p. 466.

[35] ivi, p. 466.

[36] cfr. Ricœur P., Dell’interpretazione…, op.cit., pp.

[37] Ricœur P., «Religione, Ateismo, Fede», op.cit., p. 466.

[38] ivi, p. 466.

[39] ivi, p. 467.

[40] ivi, p. 467.

[41] ivi, p. 468.

[42] ivi, p. 468.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 20

a partire da una ateologia

Pasquale Amato

6. Religione, Ateismo, Fede (III)

6.2. Della consolazione

 

L’evidenza del nesso tra accusa e consolazione è riscontrabile nella “legge di retribuzione”, razionalizzazione del “dio che minaccia e protegge” già presente nell’Antico Testamento. Il dio morale, esecutore della legge di retribuzione, è “provvidenza” (πρóνοια, providentia). Ma voci discordi si levano fin dall’antichità: il Giobbe delle letteratura sapienziale è l’emblema del rigetto di tale legge e di una fede autentica che si propone come «fede tragica al di là di ogni assicurazione e di ogni protezione»[1].

L’ipotesi di Ricœur si può dunque estendere a significare l’ateismo come morte del dio morale, non solo nel suo aspetto punitivo, ma anche «in quanto fonte ultima di protezione, in quanto provvidenza»[2].

In virtù di questa integrazione, il significato religioso dell’ateismo, osserva Ricœur, potrebbe prendere spunto dal superamento del dio provvidenziale in una fede tragica sul modello di quella di Giobbe. Questa nuova fede si opporrebbe alla metafisica classica delle teodicee (Ricœur si riferisce, in particolar modo, a Leibniz), così come Giobbe rifiutò i consigli dei suoi amici pii. Né abbandoneremmo l’ambito della critica di Nietzsche e di Freud alla religione, in quanto anche il dio morale visto come rifugio e protezione ne subisce gli effetti.

Affinché la nostra critica non rimanga, però, entro i limiti di una “accusa della accusa” alla maniera nietzscheiana, è giunto il momento, secondo Ricœur, di superare il “risentimento” nella proposta di una ontologia positiva che si prospetti come «una visione intieramente non etica»[3], negli stessi termini di quella che Nietzsche stesso chiama “l’innocenza del divenire”. Tale ontologia positiva, avverte Ricœur, deve contenersi nei limiti di una interpretazione, eludendo quindi il rischio di esporsi, come dogmatismo, alla sua stessa critica, ma comunque rischiando di autodistruggersi. L’aspetto più problematico, però, di una simile proposta, è  che si troverà inevitabilmente a doversi confrontare – e, in qualche modo, a restarne coinvolta – con la misura di quelle “mitologie” ( Dioniso, l’eterno ritorno, il superuomo, e così via fino al mondo come gioco) che, tutte, «proclamano l’assenza di colpa, cioè l’assenza di carattere etico della totalità dell’essere»[4]. A questo punto Ricœur depone, opportunamente, qualsiasi intento di confutare tale dottrina o, peggio, di dimostrarla a sostegno di una apologetica che la trasformi in fede cristiana. Essa rimane “là dove è”, irripetibile termine di paragone con il quale Ricœur sa di doversi misurare nel momento in cui dice a se stesso: «qualunque cosa io pensi e qualunque cosa io creda, deve esserne degna»[5].

Ma è ancora importante accennare a Freud e al suo principio di realtà, un’innocenza del divenire in forma prosaica, dice Ricœur, che però si avvicina alla dimensione tragica greca quando Freud gli dà il nome di Anànke, necessità, richiamando l’idea nietzscheiana di amore del destino. Contrapponendo il principio di realtà al principio di piacere, Freud sottopone a critica l’aspetto protettivo della religione, in quanto funzione culturale che difende l’uomo nel confronto con la natura superiore e nel contenimento delle pulsioni necessario al vivere sociale.

L’implicazione del timore nell’interdizione religiosa, diventa implicazione del desiderio nella religione come protezione; conseguentemente, il lavoro del lutto rivolto alla figura del padre punitivo si estende, in forza del principio di realtà, alla necessaria rinuncia alla nostalgia del padre protettivo, rinuncia che, osserva Ricœur, si profila quindi come una «ascesi del desiderio»[6].

Al di là del tono “meno lirico” di Freud, il principio di realtà prende il sopravvento sul principio di piacere, così come in Nietzsche l’innocenza del divenire e il mondo come gioco rovesciano la visione morale del mondo.

Il cammino fin qui percorso ci permette ora di tratteggiare una prima idea del tipo di fede che merita di superare il giudizio di Nietzsche e di Freud.

Se Ricœur potesse affidarne l’annuncio ad un predicatore profetico, per quanto riguarda l’accusa egli «pronuncerebbe solo una parola di liberazione»[7]. Al problema della consolazione, poi, porrebbe rimedio nei termini di una fede tragica come quella di Giobbe.

Questa nuova fede, prosegue Ricœur, si presenterebbe al cospetto «di un Dio che non mi proteggerebbe, ma mi abbandonerebbe ai pericoli di una vita degna di essere chiamata umana»[8]. Essa attraverserebbe una nuova “notte dell’intelletto”, una notte sia per il timore che per il desiderio, una notte solo al di là della quale si potrebbe scoprire il significato di Dio.

«Mi immagino questo predicatore profetico; talvolta lo sento; ma, ancora una volta, il filosofo non è questo predicatore profetico»[9] ribadisce Ricœur, e riprende il cammino, filosoficamente in ricerca.

Il primo passo è un reimmergersi nella relazione con la parola, fonte di quell’obbedienza che prescinde dall’accusa, in cerca di una possibile consolazione che, allo stesso modo, vada oltre l’infantile desiderio di protezione. E in effetti, il porsi in ascolto di cui abbiamo già discusso implica una relazione con la parola che ci “neutralizza”, non solo in merito al timore, ma anche per quanto riguarda il nostro desiderio narcisistico, reintroducendoci «così in un regno di significazione dove non si tratta più di me, ma dell’essere come tale»[10]. Nel Libro di Giobbe, Dio risponde “di mezzo al turbine” senza dir nulla dei problemi personali di Giobbe o della sofferenza dell’uomo, senza nulla suggerire a sostegno di una qualunque teodicea. Infatti, prosegue Ricœur, «da turbine non emerge nessuna teleologia, nessuna connessione intelligibile tra un ordine fisico e un ordine etico, resta il dispiegamento del tutto nella pienezza della parola, resta solo la possibilità di una accettazione che sarebbe il primo grado della consolazione, al di là del desiderio di protezione»[11].

Questo primo grado della consolazione è la rassegnazione, il consenso all’ordine non-etico del tutto, ordine estraneo al desiderio narcisistico, ma non estraneo alla parola.

Dio ha parlato a Giobbe ma non di Giobbe, eppure questa situazione di dialogo basta a consolare Giobbe, a trasmettergli il senso del legame con il tutto, a dargli un senso: «l’essere può essere condotto alla parola»[12].

A questo punto, dice Ricœur, Giobbe ci riporta alla percezione dei pre-socratici secondo la quale “Essere ed essere pensato sono una sola e medesima cosa”[13], fino a permetterci di concludere che, in questa «unità dell’essere e del logos»[14] che è appartenenza al tutto dell’uomo in quanto dotato di parola, risiede la radicale possibilità della consolazione, «l’origine, non solo dell’obbedienza al di là del timore, ma del consenso al di là del desiderio»[15].

Il successivo passo di Ricœur è un ulteriore richiamo ad Heidegger e alla sua critica alla metafisica classica, responsabile sia della dicotomia di uomo e mondo e di soggetto e oggetto, che «di un oblio fondamentale del problema dell’essere»[16].

Per poter rispondere all’affermazione nietzscheiana della volontà di potenza, è necessaria, allora, «una meditazione sul logos riunificante»[17], sul «logos che riunisce ogni cosa»[18], sul logos, ancora, grazie al quale, per Heidegger, «l’uomo emerge non solo come volontà di potenza, ma come un essere che si interroga sull’essere»[19].

In questo nuovo senso, Ricœur afferma la possibilità di una consolazione come «felicità di appartenere al logos e all’essere come logos»[20], attraverso la quale l’ateismo si mostrerebbe idoneo a mediare tra religione e fede.

Ma, se facciamo ancora qualche passo in compagnia di Heidegger, scopriamo che il logos equivale per i pre-socratici alla physis, intesa come «ciò che sorpassa e predomina»[21], e che ad essa appartiene la «potenza di riunificare le cose attraverso il linguaggio»[22]. È su questa via che giungiamo, con Ricœur e con Heidegger, a considerare che è il linguaggio a disporre di noi e non viceversa, ma «proprio perché noi non siamo i padroni del nostro linguaggio, possiamo essere “riunificati”, cioè uniti a ciò che riunifica»[23].

E dunque, memori della consolazione di Giobbe, crediamo che la nostra consolazione sopraggiunga «quando nel linguaggio lascia[mo] che le cose siano o siano mostrate»[24].

La consolazione, per Nietzsche, è la “più grande speranza”, il grande desiderio del superamento dell’uomo. Essa implica, osserva Ricœur, la redenzione dalla vendetta, quella vendetta che la volontà mette in atto contro il tempo che passa e contro il passato. Ma l’opera di Nietzsche appartiene «allo spirito di vendetta, nella misura in cui essa rimane accusa della accusa»[25], e non può condurre alla consolazione, sottolinea Ricœur, proprio perché il movimento di redenzione dalla vendetta che Nietzsche auspica non dipende dalla parola, ma dalla volontà. Solo il consenso può superare lo spirito di vendetta, in quanto, in esso, il parlare individuale si sottomette al linguaggio. E per riassumere questo legame tra consenso e parola, Ricœur afferma: «Il consenso deve essere unito alla poesia»[26].

Ora, il dialogo con Heidegger diventa un dialogo a tre: il riferimento è al commento heideggeriano della poesia di Hölderlin, e in particolare al verso: “Meritevole è tuttavia, che poeticamente l’uomo abiti su questa terra”.

In questo brano interpretato da Heidegger, Ricœur legge la sintesi dell’abitare nel mondo, il senso primordiale del porsi all’ascolto del linguaggio, la proposta di una poiesis, di un atteggiamento creativo che assicuri all’uomo l’armonica «tensione tra la sua preoccupazione per i cieli, per il divino, e il radicamento della sua esistenza nella terra»[27].

E questo «amore della creazione»[28], conclude Ricœur, in quanto amore, «trova in se stesso la propria ricompensa»[29], e va oltre la retribuzione, oltre l’“amore del destino”, oltre la “redenzione dalla vendetta”: «è esso stesso la consolazione»[30].

[1] ivi, p. 470.

[2] ivi, p. 470.

[3] ivi, p. 471.

[4] ivi, p. 472.

[5] ivi, p. 472.

[6] ivi, p. 473.

[7] ivi, p. 474.

[8] ivi, p. 474.

[9] ivi, p. 474.

[10] ivi, p. 475.

[11] ivi, p. 475.

[12] ivi, p. 475.

[13] cfr. ivi, p. 476.

[14] ivi, p. 476.

[15] ivi, p. 476.

[16] ivi, p. 477.

[17] ivi, p. 478.

[18] ivi, p. 478.

[19] ivi, p. 478.

[20] ivi, p. 478.

[21] ivi, p. 478.

[22] ivi, p. 478.

[23] ivi, p. 479.

[24] ivi, p. 479.

[25] ivi, p. 480.

[26] ivi, p. 480.

[27] ivi, pp. 480-1.

[28] ivi, p. 481.

[29] ivi, p. 481.

[30] ivi, p. 481.

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