Amelia Forte
Nella teoria di Marx questo nesso non si può scomporre. Il concetto di rivoluzione presuppone una periodizzazione della storia articolata in sistemi; il sistema implica la nozione di passaggio, quindi la rivoluzione. Però è vero che, oltre Marx, questi due concetti possono essere separati, scomposti, si può pensare l’uno senza l’altro. Ed è quanto è avvenuto di fatto con la crisi del marxismo (o anche, come si dice, dell’idea di progresso e delle filosofie della storia). Se ci pensate, la crisi del marxismo è essenzialmente la crisi di quel nesso. Cosa va in crisi del pensiero di Marx? La dialettica, l’idea di rivoluzione, il progresso, la filosofia della storia. La crisi di questi concetti – cioè del nesso sistema-rivoluzione – è stata chiamata crisi del marxismo.
Si può pensare il sistema come tale, cioè senza dialettica. Se il sistema non è attraversato da una negatività (si pensi al Poscritto del 1873), esso non muore, non passa, riproduce sé stesso. Grosso modo, l’idea di sistema senza rivoluzione può essere definita strutturalismo, ed è diventato il discorso politico egemone nella cultura contemporanea. Il sistema può riprodursi indefinitamente, senza mai incontrare una crisi radicale, che ne ordini il passaggio ad altro. È la lezione della crisi del 1929 o della più recente crisi finanziaria del 2008. D’altronde, chi pensa oggi, sul serio, a una rivoluzione? Quale soggetto politico ha in programma di fare una rivoluzione?
D’altra parte, però, si può anche pensare la rivoluzione senza il sistema. È l’altra faccia della crisi del marxismo. In questo caso la rivoluzione diventa rivolta, sollevazione degli oppressi, degli emarginati, dei subalterni. È una ri volta spontanea, che non implica né presuppone un passaggio di sistemi. Non è l’operaio che fa la rivoluzione, ma il subalterno. La dialettica dei tempi si accorcia. C’è il presente, un passato omogeneo di sfruttamento, un futuro di liberazione. Ma la rivoluzione non è fondata nella successione di sistemi.
La teoria di Walter Benjamin è esemplare in questo senso, ne rappresenta l’espressione massima e più elevata. Nella visione di Benjamin, è nell’«at timo» in cui il passato si contrae nel presente, nello «stato d’eccezione», che l’azione rivoluzionaria redime il passato, delineando una storia degli oppressi che supera il «patrimonio culturale» dei vincitori. Perciò la rivoluzione si con figura come una specie di «vendetta»: «è nella tradizione degli oppressi – scrive Benjamin – che la classe operaia compare come l’ultima classe asservita, come la classe vendicatrice e liberatrice. Questa coscienza è stata abbandonata dalla socialdemocrazia fin dall’inizio. Essa assegnò alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni a venire».
Qui la rivoluzione non è più passaggio tra sistemi, non deriva dalla periodizzazione della storia, ma accade nell’unità della storia degli oppressi. La differenza con Marx è fondamentale. Per Marx, la rivoluzione comunista è “erede” della rivoluzione borghese e del suo mercato mondiale, non di schiavi o servi, e con ciò riscatta la regola del lavoro alienato e dello sfruttamento. Per Benjamin, invece, la rivoluzione è la vendetta dei subalterni, che rivoltano il guanto di tutta la storia, spezzano la linea del progresso, non sono eredi della rivoluzione borghese, figli del suo sviluppo, ma voce emarginata della storia umana. In questa, che è certo l’elaborazione più alta e complessa della rivolu zione come rivolta dei subalterni, possiamo vedere in trasparenza la crisi del marxismo, cioè la rottura del nesso tra sistema e rivoluzione. Marx appartiene alla vicenda moderna dell’idea di progresso, ma vi aggiunge un concetto fondamentale, destinato a trasformare tutta la nostra vi sione della storia. A partire da Marx, infatti, la storia umana è concepita nella struttura di un sistema, di una forma economico-sociale, che, anzi tutto, deve essere prodotta o, meglio, deve continuamente riprodursi, e che ha una nascita e una fine. Perciò la storia è definita dalla successione di sistemi, ciascuno dotato di un proprio principio, secondo un ritmo che è ordinato dall’idea di rivoluzione. In una prima e generale approssimazione, la rivoluzione indica questo aspetto (a prescindere dal modo in cui accade, che può essere più o meno violento), che ogni sistema ha una genesi, un principio proprio, ed è destinato a essere superato da un sistema ulteriore. Il sistema ha dunque una struttura dialettica, nel senso che è attraversato da una negatività, da una contraddizione, che ne determina il superamento (vedremo poi in cosa consiste questa contraddizione). Nel pensiero di Marx c’è un nesso inscindibile tra sistema e rivoluzione. Solo il concetto di rivoluzione ci permette di pensare il sistema come inizio e fine.
Abbiamo aggiunto che la crisi del marxismo (come categoria storiografica) indica in definitiva la rottura di questo nesso. Si pensa il sistema senza rivoluzione (sociologia) o la rivoluzione come rivolta spontanea, immediata, dei subalterni. In sostanza, i due Marx di cui parlava Lucio Colletti.
Tuttavia in Marx non c’è solo questo, non c’è solo una strutturazione della storia in sistemi successivi. C’è anche una visione unitaria della storia. Tutta la storia, infatti, è una storia di oppressione e di sfruttamento. Cambiano le figure, ma la regola della storia si riproduce in ogni sistema. C’è una struttura archetipa della storia, una ferita iniziale, una rottura dell’unità del genere umano. Per questo, la rivoluzione comunista è superamento del sistema borghese ma, al tempo stesso, superamento di tutta la civiltà umana, un passaggio, come si esprime Marx, dalla preistoria alla storia.
Questa regola archetipa chiama in causa l’operazione del lavoro. Il fatto che il lavoro non è riconosciuto come operazione essenziale dell’uomo, come espressione dell’essenza umana, come principio della civiltà e della storia, ma degradato a funzione strumentale, animale, servile. Libertà, civiltà, significa libertà dal lavoro, quindi puro consumo e contemplazione. La civiltà non nasce dal lavoro, ma dalla negazione del lavoro. Il segno visibile di questa frattura è la divisione del lavoro originaria tra produzione e consumo, tra chi elabora la natura e chi consuma il prodotto del lavoro. In una parola, tra un servo e un signore. Ora dobbiamo provare a guardare più a fondo in questa concezione della storia. Un buon punto di partenza (non solo cronologico, perché è il primo risultato degli studi economici di Marx) sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (secondo il titolo che venne assegnato nel 1932).
Si tratta di 3 quaderni di grande formato (A7, A8 e A9 nella notazione archivistica dell’International Institute of Social History di Amsterdam), scritti da Marx a Parigi tra il maggio e l’agosto 1844, pubblicati integralmente solo nel 1932. I Manoscritti presentano la prima definizione del principio del sistema del capitale. Raramente sono stati letti in questa prospettiva, ma forse è la chiave più promettente. In genere, la teoria dell’alienazione è stata piuttosto combinata con la psicanalisi e con Freud per trarne una filosofia dell’uomo e una critica della civiltà. Questa definizione del capitale gioca sui due significati (non solo diversi, ma opposti) della parola italiana alienazione. La parola traduce due termini tedeschi: Entäusserung, Entfremdung. Marx poteva trovarne il senso nei due filosofi prediletti: Hegel e Feuerbach. In Hegel indica il farsi altro della determinazione, in un processo di progressivo arricchimento. Ha dunque un significato positivo, nel senso che l’essere si aliena per costituirsi come Sé, per diventare soggetto.
In Feuerbach l’alienazione indica, all’opposto, una perdita del Sé, una proiezione dell’uomo nella figura di Dio. L’uomo si aliena nel senso che, senza consapevolezza, toglie a sé stesso quella natura infinita che proietta in Dio. Quindi si smarrisce come soggetto. Il soggetto diventa Dio. L’uomo nasconde la sua essenza, proprio come accadrà nella teoria del feticismo delle merci (dove il rapporto tra cose nasconde il rapporto di interdipendenza fra produttori).
Marx riprende entrambi questi concetti. In generale applica la teoria hegeliana della Entäusserung nel concetto di oggettivazione. Entäusserung diventa soprattutto Vergegenständlichung. Oggettivazione significa che l’uomo elabora la natura, la trasforma, converte il dato naturale in un bene artificiale. Ma trasformare la natura in artificio (opera dell’arte, della prassi) significa porsi oltre la natura, oltre la vita animale, e così iniziare la storia, entrare nella civiltà. Grazie all’oggettivazione, l’uomo da animale diventa soggetto, rea lizza il suo fine nell’ordine degli enti. Questo rapporto tra sé e la natura e tra sé e gli altri uomini apre la prospettiva della vita umana, non più solo animale.
D’altro lato c’è la teoria feuerbachiana della Entfremdung. Per Feuerbach, «più l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ritiene in sé stesso». Per Marx, più l’operaio della grande fabbrica trasferisce nel prodotto, più si svalorizza, più toglie a sé stesso: «l’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce». L’esperienza di una realizzazione diventa il fatto di uno svuotamento.
L’alienazione come Entäusserung, come Vergegenständlichung, oggettivazione, indica l’operazione fondamentale dell’uomo, la sua essenza. Il lavoro, la praxis, è la capacità dell’uomo di oggettivarsi nel prodotto, di staccarsi dalla natura e di costruire un terreno artificiale, cioè di costruire una storia umana. Come Entfremdung, invece, l’alienazione è perdita di sé, sottrazione di quella oggettivazione umana, e costituisce il principio del sistema moderno di fabbrica, cioè del capitale. La conversione tra queste due figure è la chiave della prima lettura dell’economia politica. Ma questa conversione indica il passaggio tra ciò che l’uomo è per sua essenza e ciò che diventa nel sistema del ca pitale.
Qui incontriamo subito un nodo fondamentale di tutto il pensiero di Marx. La condizione umana (come la merce o il lavoro nel Capitale) ha questa struttura dialettica, è compresenza di opposti. L’uomo (l’operaio) è, al tempo stesso, oggettivazione e perdita di sé, sé e negazione del sé, soggetto e crisi del soggetto. Questa dialettica va tenuta ferma, nel senso che l’uomo non è mai annullamento di sé, alienazione totale. È sempre sé e altro da sé. Possiamo dire che l’alienazione è una deformazione dell’uomo. Deformazione significa alte razione della sua forma essenziale, fino a una nuova subalternità alla natura. In questa deformazione sorge il problema stesso della coscienza rivoluziona ria. Pensate a Gramsci. In Gramsci l’operaio è prassi progressiva e, al tempo stesso, eredità di un senso comune regressivo. Deve enucleare questa prassi, prenderne coscienza e trasformare il senso comune. Ma anche in Marx l’operaio è questa struttura contraddittoria, essenziale e alienata: deve prendere co scienza della propria funzione nella storia e costruire un mondo adeguato alla sua funzione di produttore dell’esistenza. L’uomo mette sé stesso nel prodotto, si oggettiva, e così entra veramente in una dimensione umana. La sua umanità è lì, nell’opera. Così crea il suo mondo, un mondo artificiale, storico, che ha una base naturale, ma la oltre passa. Possiamo dire che la storia è questa catarsi della natura. Nel conferimento di valore l’uomo si oggettiva, realizza sé stesso secondo un fine razionale, posto da lui stesso. L’uomo è sostanzialmente questa prassi razionale. L’azione si oggettiva nell’opera secondo fini razionali posti dall’uomo stesso. Quindi cambia la natura del bisogno (fini razionali posti da lui medesimo) e cambia la natura del lavoro (realizzazione dell’uomo nel ricambio organico con la natura). L’oggettivazione non è alienazione, ma realizzazione dell’uomo.
Si presti attenzione. L’oggettivazione indica una storia possibile, come il lavoro concreto nel Capitale. Come avrebbe potuto essere la storia umana se, fin dall’inizio, il signore non avesse degradato la praxis a pena, a negatività, e non avesse concepito la libertà come liberazione dal lavoro, come puro con sumo e contemplazione. Nella società capitalistica l’uomo, nella figura dell’operaio, continua a oggettivarsi, a realizzare sé stesso, a conferire valore alla natura. Ma la merce è espropriata al lavoratore e si erge di fronte a lui come potenza indipendente, che gli è estranea. La sua oggettivazione diventa estraneazione. L’uomo si realizza nell’oggetto, ma questo oggetto gli viene sottratto. È una rapina del suo oggetto. La prima figura dell’alienazione consiste dunque nel fatto che il prodotto viene espropriato e si erge come estraneo di fronte al produttore. È necessario osservare la conversione del positivo (il lavoro come oggettivazione) nel negativo (l’oggetto come potenza estranea). Marx non dice che il lavoro come oggettivazione viene annullato dal processo di estraneazione. L’alienazione (come poi la merce e il feticismo, e più in generale il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro concreto e lavoro astratto) ha questa struttura dialettica. L’uomo è oggettivazione e al tempo stesso estraneazione. Se non continuasse a oggettivarsi nel prodotto, la rivoluzione e il comunismo sarebbero, d’altronde, impossibili. Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo [als in fremdes Wesen], come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento [Entwirklichung] dell’operaio, l’oggettiva zione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estrania zione, come alienazione [als Entfremdung, als Entäusserung].
Poche pagine dopo, Marx aggiunge che ciò che viene espropriato non è solo il prodotto del lavoro, la cosa (come nella rapina), ma l’atto della produzione, la praxis stessa. Espropriare l’atto della produzione significa espropriare l’umanità dell’operaio, la sua creatività, la sua forza e capacità di oggettiva zione. Con ciò l’elemento umano è ridotto ad animalità. Appare questa figura fondamentale dell’animale. L’animale consuma l’oggetto per la sua sopravvivenza, non elabora l’oggetto. La differenza tra uomo e animale è tutta nella prassi razionale, cioè nella capacità di oggettivazione posseduta dall’uomo. L’uomo è animale, ma oltrepassa l’animale; è natura, ma oltrepassa la natura. Come vedete (a differenza dei sistemi idealistici), l’uomo non pone o crea la natura (si pensi, per esempio, a Gentile), ma la presuppone, la trasforma e la supera nella storia. L’uomo non lavora solo per soddisfare i suoi bisogni, per questo basterebbe la natura (come Adamo che coglie la mela). L’uomo lavora per creare un mondo artificiale, per produrre una storia umana (quella catarsi di cui parlavamo prima).
Chi è dunque l’animale? L’animale è vita senza storia. Nell’animale non c’è oggettivazione, prassi razionale, creazione di bisogni. Non c’è terreno artificiale. La natura non viene oltrepassata nella civiltà. L’operaio è, al tempo stesso, oggettivazione e alienazione. È uomo espropriato della propria umanità.
Perciò l’alienazione, oltre il prodotto, tocca la praxis come operazione fondamentale dell’uomo. L’operaio è alienato non solo perché gli viene sottratto il prodotto, ma im Akt der Produktion. Ma ora Marx aggiunge che l’aliena zione riguarda l’uomo come ente generico [Gattungswesen], cioè l’umanità nella sua radice. Per così dire, ora usciamo dalla fabbrica (non parliamo più di operaio, capitalista, atto di produzione, neanche di oppressione e di sfrutta mento) e guardiamo l’umanità nel suo insieme. Nella visione di Marx l’uomo è il nodo che stringe insieme due relazioni: il rapporto uomo-natura e il rap porto uomo-uomo. È ricambio organico con la natura ed essere sociale. Ma questi due lati sono lo stesso: l’uomo è in rapporto con la natura in quanto essere sociale; ed è in rapporto con l’altro uomo in quanto produce la propria esistenza, quindi nel ricambio organico con la natura.
La prima teoria del comunismo nasce da questa analisi. Il comunismo è la situazione che riunifica ciò che la modernità borghese ha separato, ricongiunge l’uomo alla natura e all’altro uomo attraverso la liberazione della praxis, del lavoro. Quando il prodotto non è più separato dal produttore (prima figura) e quando l’uomo riconosce nella praxis la propria operazione fondamentale (seconda figura), allora l’uomo si ricongiunge con la natura e con il proprio essere sociale. Come Marx si esprime, nel linguaggio giovanile e un po’ poetico dei Manoscritti, il comunismo realizza l’uomo totale:
L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale.
Nei Manoscritti, perciò, il principio del sistema è indicato nella perdita di sé dell’uomo all’altezza storica della grande fabbrica moderna. Qui sorgono due questioni, sulle quali, per altro, avremo modo di tornare. Noi abbiamo interpretato i Manoscritti come un discorso sul capitale e sull’uomo moderno. È l’operaio della grande fabbrica, infatti (non l’uomo in generale), che viene espropriato del suo prodotto e, di conseguenza, della sua praxis e, in generale, della sua umanità. Però per Marx l’oppressione (prendiamo questo termine dal Manifesto) non appartiene solo alla modernità, ma a tutta la storia umana. Alienazione e sfruttamento sono caratteri della preistoria dell’umanità. In che consiste, dunque, la ferita di tutta la storia umana, antica come medievale o moderna? Quello sfruttamento che c’è anche prima della nascita della fabbrica moderna?
Marx adopera alcune categorie critiche fondamentali: l’alienazione, l’op pressione e lo sfruttamento. Queste parole non dicono la stessa cosa. Quando si parla di oppressione, si parla di una regola della storia umana, per cui, fin dall’inizio, l’umanità si divide in due generi: alcuni uomini consumano ciò che altri uomini producono. L’umanità è spezzata. Ad alcuni è assegnato il compito della prassi, ad altri quello della teoria. L’immagine archetipa dell’op pressione è il signore antico, che si limita a consumare ciò che lo schiavo pro duce, ed è perciò libero di dedicarsi a una pura vita teoretica o alla vita civile. Come abbiamo detto, in questo mondo deformato il signore antico scopre la libertà, fonda la civiltà ed esce dalla vita animale. Come si legge nella Prefazione del 1859, l’epoca dell’oppressione rappresenta la preistoria dell’umanità: la storia umana comincia solo con la rivoluzione comunista. Però nella società borghese l’oppressione cambia volto: l’oppressore, il borghese, non è più un puro consumatore, non ha come fine la vita teoretica o la vita civile ma l’accumulazione, l’arricchimento, il profitto, e quindi esercita l’oppressione secondo la norma rigorosa e razionale dello sfruttamento, estrae plusvalore dal lavoro dell’operaio salariato, sulla base delle condizioni di libertà personale e di eguaglianza formale caratteristiche della modernità.
La questione riguarda in ultima istanza i concetti di bisogno e di lavoro. Questi sono i concetti cardinali della teoria dello sfruttamento. La storia come oppressione presuppone la naturalità del bisogno e la negatività del lavoro. La fame è un bisogno naturale, perché ordinato dalla natura, non dall’uomo stesso. Nell’Ideologia tedesca vedremo che la soddisfazione del primo bisogno trasforma la natura del bisogno: il bisogno si moltiplica, da naturale di venta umano. L’uomo pone a sé stesso i suoi fini. Il bisogno, da natura, si converte in fatto umano (l’uomo, per esempio, non usa più il grido della natura per salvarsi dalla morte, ma accresce le sue possibilità di comunicazione con il telefono, la radio, i social e così via). Da un bisogno naturale nasce un bisogno umano. Questo è un aspetto fondamentale del concetto di catarsi che abbiamo introdotto: il bisogno naturale (innegabile) si oltrepassa nel bisogno artificiale (creazione della storia umana).
La stessa cosa accade per il lavoro. Per la storia dello sfruttamento, per la preistoria dell’uomo, il lavoro è negativo, è solo un prezzo pagato alla natura, tanto che il Signore fonda una civiltà, una libertà, emancipandosi dalla pena del lavoro, lasciandolo al servo. Come nel caso del bisogno, e in misura più fondamentale, Marx converte la negatività del lavoro nella sua positività, lo considera come realizzazione dell’essenza umana. È il movimento inverso rispetto a quello del capitale, che converte la positività del lavoro nella sua negatività. La negazione del lavoro spiega l’origine dell’oppressione. Essa è di fatto la radice dell’alienazione, il motivo della rottura dell’umanità in due generi opposti (l’oppressore e l’oppresso, il signore e lo schiavo). Ma veniamo alla seconda questione. Se la grande fabbrica genera l’aliena zione dell’uomo, possiamo dire che l’industria è alienante? Marx fissa un con fine preciso con questa concezione, in almeno due punti dei Manoscritti. In primo luogo nella critica del comunismo primitivo, che vorrebbe tornare in dietro nella storia. In secondo luogo, nella forte affermazione per cui la storia dell’industria è «il libro aperto delle forze essenziali umane». Si vede come la storia dell’industria e l’esistenza oggettiva già formata dell’industria sia il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana, presente ai nostri occhi in modo sensibile. Questa storia dell’industria sino ad oggi è stata intesa non nella sua connessione con l’essere dell’uomo, ma sempre soltanto in una relazione esteriore d’utilità. Possiamo dire così. La rivoluzione borghese ha promesso di superare il privilegio, di uccidere il sistema signorile, di affermare i valori della laboriosità e del lavoro; invece ha frammentato l’uomo, lo ha diviso dalla natura e dall’essere sociale e ha edificato una diversa forma di società signorile. Per via dello sfruttamento, ha conservato la regola dell’oppressione, il modello signorile. Quindi ha lasciato l’uomo frammentato, lo ha ricondotto alle funzioni ani mali. Il comunismo primitivo vorrebbe tornare indietro nella storia, all’ozio signorile. Ma il comunismo di Marx non è un passo indietro nella storia, è il passo decisivo oltre il limite della rivoluzione borghese. Possiamo dire che il comunismo realizza la promessa che la rivoluzione borghese non ha saputo o potuto mantenere.
Come Marx si esprime, il comunismo è il risultato della storia umana. Risultato significa ciò che risulta, ciò che viene dopo, non prima, ciò che racco glie e compie il processo di sviluppo dell’umanità, non ciò che lo nega o lo rifiuta: l’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo – l’atto di nascita della sua esistenza empirica; ma è anche per la sua coscienza pensante il movimento, compreso e reso cosciente, del suo divenire, mentre il comunismo non ancora giunto al proprio compimento cerca per sé una prova storica, una prova in quella situazione di fatto, traendola da singole forme storiche antitetiche alla proprietà privata; e a questo scopo estrae singoli momenti dal movimento storico e li fissa come prove storiche della purezza del suo sangue; ma con ciò riesce proprio a dimostrare che la parte incomparabilmente più grande di questo movimento contraddice alle sue affermazioni e che, se mai esso sia qualche volta esistito, proprio il fatto di essere esistito nel passato è in contraddizione con la pretesa di valere come essenza.
Più precisamente, il comunismo non è una critica dell’industrialismo o della tecnica (ecco perché quel comunismo è primitivo, perché vuole tornare al di qua della storia dell’industria), ma uno svolgimento della modernità oltre la forma borghese.
Dunque, il comunismo realizza la storia dell’industria, riportandola alla sua figura sociale e ristabilendo la continuità tra uomo e natura.
Secondo la nostra lettura, nei Manoscritti Marx ha indicato il principio del sistema del capitale. In generale, questo principio è rappresentato dal concetto di alienazione. Nella sua essenza, cioè nella sua operazione fondamentale, l’uomo è oggettivazione, capacità di elaborare, trasformare, il contenuto della natura e della vita animale, così convertendo la natura in artificio, in una storia umana. L’uomo è attività formatrice (praxis) e la storia è la vicenda di questa forma, sempre rinnovata dal rapporto originario con la natura. Nel sistema della grande fabbrica moderna l’operazione fondamentale dell’uomo è compiuta dall’operaio. Non da tutti gli uomini, si osservi, ma dall’operaio. Tuttavia l’operaio è alienato. Egli trasforma la natura e si oggettiva nel prodotto, ma il prodotto è sottratto dal capitale. Questa sottrazione del prodotto ha conseguenze laceranti. Sottrarre il prodotto significa sottrarre il Sé, l’umanità, all’operaio, cioè alienare l’atto del lavoro, ciò per cui l’uomo è uomo. Quindi implica una alienazione universale, che separa l’uomo dalla natura e dall’altro uomo. Nella sua prima definizione, il comunismo ricompone questa scissione, ricostruisce l’uomo totale. L’uomo totale è l’uomo che si riappropria del suo prodotto (torna proprietario del Sé), della sua operazione fondamentale umana (l’oggettivazione, la praxis, il lavoro), del rapporto con la natura e con l’altro uomo. Cessa di essere animale e torna a essere uomo. Se ci pensate, il comunismo realizza così la promessa liberale. Locke aveva scritto che la proprietà è legittimata dal lavoro delle mani, perché chi lavora pone sé nella natura. È un diritto, come il diritto al proprio corpo. In questo comunismo l’uomo è proprietario di ciò che produce e, quindi, di sé, del suo rapporto con la natura e con l’altro uomo. Però Locke aveva concepito l’uomo come individuo. In Marx, come ora vedremo, le cose vanno diversamente.
Nei Manoscritti Marx non ha offerto una precisa determinazione del sistema, non ha spiegato come è fatto un sistema storico, come nasce la storia stessa. Sappiamo che l’oggettivazione è l’operazione fondamentale (essenza) dell’uomo, e che questa operazione istituisce la storia. Poi sappiamo che nel sistema della grande fabbrica questa operazione si è alienata. Perciò l’intera storia è una storia alienata, deformata, distorta. Indicazioni più precise le troviamo nel primo capitolo dell’Ideologia tedesca, un testo scritto insieme a Engels nel 1845-1846. Qui vediamo nascere la concezione materialistica della storia. Come vedremo, il problema di fondo è la genesi della storia umana, cioè il punto in cui la storia dell’uomo, la civiltà, si distacca dalla natura, dalla vicenda propriamente animale.
In una prima approssimazione, Marx e Engels oppongono all’idealismo il fatto, «constatabile per via puramente empirica» dei wirkliche Individuen, degli individui reali. O ancora di «individui umani viventi». Questo è il punto di partenza, dimenticato dall’idealismo. Sembrerebbe che siamo tornati, con que sta affermazione, all’empirismo di Locke. Come tale, però, non ci dice molto sulla storia umana, l’individuo vivente è ancora natura, vita animale, non è ancora storia. Il discorso, come vedremo, deve essere rovesciato. Tutto il paradigma liberale deve essere rovesciato. Come tale, l’individuo vivente è vita animale, non ancora vita storica. L’individuo umano non è il presupposto o il protagonista della storia umana, ma un prodotto della storia. Prestate attenzione: in questo rovesciamento del rapporto individuo-società civile c’è tutta la critica al giusnaturalismo e al contrattualismo, cioè al modello liberale. Non sono gli individui naturali che costituiscono la forma sociale, ma, al contrario, è la società che costituisce gli individui, che perciò sono un prodotto non un presupposto.
Marx e Engels adoperano due forti espressioni. In primo luogo, affermano che gli uomini non si distinguono dagli animali per la coscienza, ma perché producono i loro mezzi di sussistenza (non si limitano a raccogliere i frutti o a mangiare gli altri animali, ma producono la vita). In secondo luogo, che questa produzione dell’esistenza è una Lebensweise, un modo di vita, una forma di vita, un «modo determinato dell’attività», dove non conta solo il ciò che viene prodotto, ma il come si produce. La produzione della vita è condizionata dalla natura, ma la oltrepassa in una Lebensweise. Leggiamo qualche brano:
Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. […] Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali quando cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza […].
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.
Sono parole forti. «Ciò che gli individui sono», l’essere degli individui, dipende da come essi producono la loro esistenza. La parola produrre i mezzi di sussistenza ha un peso particolare. Esso non è solo un modo si riproduzione, di conservazione, della vita, ma è una forma di vita, una civiltà, una storia.
Il problema dell’Ideologia tedesca è la genesi della storia umana dalla vita animale, l’oltrepassamento della condizione naturale. Per spiegare questo passaggio, Marx e Engels descrivono, in forma semplice e didascalica, i princìpi della nuova teoria della storia.
In primo luogo, l’uomo soddisfa i propri bisogni elementari. La vita umana comincia con la conservazione di sé, con il bisogno elementare. Questa non è la storia, ma la «condizione fondamentale di qualsiasi storia». Nella situazione iniziale, dunque, domina il bisogno naturale e la necessità di soddisfarlo. In sostanza, questa è ancora una condizione animale o naturale. L’uomo può an cora soddisfare il bisogno naturale senza produrre la vita, senza una forma sociale. Il punto di partenza è dunque la natura.
Il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una con dizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. … In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta.
Qui non parliamo ancora di come l’uomo risolve questo problema (delle forme storiche della produzione della vita), ma affermiamo che, in ogni caso, la vita umana comincia così, come produzione dell’esistenza. L’uomo è segnato dal bisogno, da una negatività. Se non soddisfa il bisogno, muore. Marx parla qui di bisogni elementari, potremmo anche dire animali. A questo livello l’uomo non è ancora propriamente uomo, è animale come gli altri animali.
In secondo luogo, la soddisfazione del bisogno naturale implica immediatamente la creazione di nuovi bisogni, una moltiplicazione dei bisogni, che è indotta dalla produzione stessa. Questa è «la prima azione storica». Qui si esce dal terreno della conservazione, si entra in quello dell’artificio, ossia della sto ria. In questa moltiplicazione dei bisogni l’uomo si distingue davvero dalla vita animale.
Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica.
Ho detto che il passaggio è immediato. Non c’è un prima e un poi. La «creazione dei mezzi» (la prima scheggia di pietra per tagliare, il primo indumento per coprirsi, la prima capanna da abitare) è già una produzione di civiltà, è già artificio. Perché il lavoro è opera umana, non ha la negatività del bisogno.
In terzo luogo, accanto alla produzione di beni e alla moltiplicazione dei bisogni, l’uomo produce sé stesso.
Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini [an dere Menschen zu machen], a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia.
Questi sono i tre elementi basilari della vita umana. La loro successione è solo didascalica, vanno concepiti in modo organico, come tre aspetti o momenti di un solo processo, che è l’avvio della storia umana. Al tempo stesso, l’uomo produce l’esistenza, moltiplica i bisogni e riproduce la specie.
Questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre «momenti» (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia.
Il quarto aspetto è quello decisivo. Ogni attività produttiva (anche la scheggia di pietra per tagliare) è un rapporto sociale. È fin dall’inizio una forma sociale determinata. Il principio non è dunque l’uomo, l’individuo o il lavoro, ma la forma sociale, il sistema, cioè l’uomo e il lavoro socialmente determinati. L’uomo conserva sé stesso solo in una forma sociale. Fra produzione, riproduzione della vita e socialità non vi è differenza. In questo senso l’uomo è animale sociale e non si presenta mai nella forma dell’individuo. Qui ve diamo sorgere propriamente il concetto di sistema. Sappiamo già, in termini molto elementari, cosa è un sistema.
Nel primo momento in cui produce la vita (e non muore), l’uomo è forma sociale, cioè rapporto duplice con la natura e con gli altri uomini. Non esiste un Robinson che possa produrre da solo la propria vita. Oppure Robinson è solo un animale senza storia. È la società che produce la vita di ogni individuo. Marx adopera questa forte espressione: la cooperazione è una forza produttiva. Non è la mano del singolo che produce la vita, ma la mano collettiva dell’intero sistema sociale.
La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procrea zione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una «forza produttiva»; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio.