Essere astratto nella logica filo-hegeliana

Giovanni Finaldi Russo

La prima categoria che dobbiamo commentare è quella dell’Essere puro. Così come lo abbiamo già visto, l’aggettivo “puro” indica sempre, nel sostantivo che qualifica, la purezza e l’assenza di mescolanza con, in aggiunta, quella sfumatura di isolamento, di separazione e dunque di astrazione che queste espressioni comportano. L’Essere puro è dunque l’Essere che non è che Essere e nient’altro: un’astrazione rispetto a qualsivoglia determinazione ulteriore. Pertanto, non si tratta qui, come nel § 84, della sfera dell’Essere tutta intera con l’insieme delle determinazioni nelle quali il Concetto vi si dispiega come Essere. Si tratta piuttosto dell’Essere in un senso restrittivo, per cui esso coincide con la primissima delle determinazioni logiche e, in particolare, con la principale tra le determinazioni logiche contenute nella prima parte della Logica: la dottrina dell’Essere (“Essere” essendo inteso stavolta come senso più vasto della sfera dell’Essere in generale).

Questo ESSERE PURO costituisce il Cominciamento. Il cominciamento di cosa? Della scienza in generale certamente, ma, con più precisione, della Scienza della Logica. In effetti, il paragrafo giustifica questo cominciamento attraverso l’Essere affermando, da una parte, che l’Essere è puro pensiero e, dall’altra, affermando che è la Logica che, nell’insieme della scienza, “abbraccia tutti i pensieri in quanto essi sono ancora nella forma di pensieri” (§ 85). L’Essere puro è dunque il cominciamento della Logica poiché è puro pensiero e, inversamente, la Logica inizia con l’Essere puro in quanto e, per prima cosa, esso è puro pensiero. Che significa tutto ciò? L’essenziale, a questo proposito, è stato già esposto nella lettura dei §§ 18 e 19. Precisiamo pertanto solamente ciò che segue.

Le categorie della Logica sono definite “pensieri puri” allo stesso tempo retrospettivamente e prospetticamente. Retrospettivamente nella misura in cui, a differenza di quanto accade nella

Fenomenologia dello Spirito, che è un’introduzione al sistema dal punto di vista della coscienza sensibile immediata, il sapere logico si dispiega al di là dell’opposizione coscienziale della certezza e della sua verità nell’elemento dell’entità del soggetto pensante e dell’oggetto pensato, sicché il progresso del sapere non è oramai più legato alla diversità esteriore delle figure della coscienza ma, piuttosto, al puro movimento interno al pensiero che si pensa esso stesso come pensiero, nella sua purezza. Prospetticamente invece, nella misura in cui la Logica si occupa del pensiero nella sua completa astrazione, vale a dire, intanto che esso è ancora nella forma trasparente del solo pensiero e non già del pensiero nell’elemento concreto della sua alterità spazio-temporale, ossia in quanto esso costituisce la doppia sfera della Natura e dello Spirito, oggetti rispettivi della Filosofia della Natura e della Filosofia dello Spirito.

È evidentemente la prospettiva coordinata a dominare in questa sede. In effetti, all’inizio dell’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche (Scienza della Logica, Scienza della Natura e Scienza dello Spirito), ciò che è messo in rilievo nei puri pensieri della logica, non è tanto la loro mediazione fenomenologica, implicata dal fatto che l’Essere puro a partire dal quale essi si dispiegano è l’unità immediata in cui ritorna il Sapere assoluto nella sua purezza, quanto, al contrario, l’immediatezza propriamente ideale che ne fa dei puri pensieri logici e non delle realtà della Natura e dello Spirito, oggetti di due scienze “reali” (realen) della filosofia menzionate in un certo momento: la filosofia della Natura e la filosofia dello Spirito.

Se dunque la Logica comincia con l’Essere puro è, lo abbiamo detto, prima di tutto perché, come tutte le altre categorie della Logica (la Quantità, l’Essenza, l’Effettività, il Concetto ecc.), esso è un puro pensiero e non una realtà della Natura o dello Spirito. Questo semplice immediato che è l’Essere puro non è, per esempio, l’immediatezza naturale dello spazio né quella spirituale della coscienza: questo immediato è infatti piuttosto il puro pensiero dell’immediato o l’immediatezza del puro pensiero.

E tuttavia, che l’Essere puro sia un puro pensiero non è sufficiente a giustificare il fatto che la Logica cominci con esso, visto che anche tutte le altre categorie della Logica sono pensieri puri. Se la Logica comincia con l’Essere puro è pertanto e in maniera più precisa per le seguenti ragioni:

  • L’inizio (della Logica e dell’Enciclopedia) non può essere niente di mediato né di determinato ulteriormente (al di là dell’Essere Puro).
  • In effetti, 1) qualsiasi mediazione preliminare presupporrebbe un movimento a partire da qualche entità prima e più originale che costituirebbe perciò il vero inizio. Cosa sarebbe, difatti, una mediazione se non, come affermato da Hegel nella Nota, “un essere-uscito da qualcosa di primo verso qualcosa di secondo e un tornare in sé a partire da entità differenti”? L’inizio della Logica non può essere pertanto nulla di mediato.
  • Quanto meno nell’ordine della Logica stessa, il cui punto di vista e concetto propri sono, altrimenti, il risultato della Fenomenologia come scienza dell’esperienza della coscienza, e astrazione fatta di ciò che l’Essere puro è anche sul piano logico, l’immediato in cui fa ritorno l’Idea logica al termine del suo sviluppo.
  • Parallelamente, 2) qualsiasi determinazione ulteriore implicherebbe già un’uscita fuori dell’immediato originale e quindi un movimento verso una tappa successiva dell’idea.
  • L’Essere puro è l’immediato indeterminato e semplice. Esso però non è solo un immediato – giacché tutte le cose contengono sempre un momento di immediatezza – ma l’immediato stesso, l’immediatezza pura e semplice. L’Essere puro, in effetti, non dice il pensiero di alcun contenuto: è senza rapporto, senza riferimento, senza determinazione alcuna: esso non dice nulla che sia ed è propriamente indicibile perché tutto ciò che se ne può dire comporta una determinazione ulteriore che occorre invece negargli. Essere, Essere puro, questo è il solo nome che conviene propriamente a questo immediato indeterminato, semplice. “Semplice” è qui praticamente un sinonimo di “indeterminato” e di “immediato”, salvo forse per il fatto che il termine “semplice” esprime in maniera essa stessa più immediata ciò che i termini “indeterminato” e “immediato” non esprimono che marcandone già una “riflessione”, vale a dire, un “riferimento”, un rapporto di opposizione a ogni determinazione ulteriore e a ogni mediazione preliminare. L’ “indeterminato” e l’immediato” della proposizione minore, che sono i garanti dei termini “mediato” e “ulteriormente determinato” della proposizione maggiore del nostro ragionamento, non sono dunque le designazioni più originarie della prima categoria della Logica in quanto connotato già esplicitamente una negazione: essi sono, di fatto, il non-determinato e il non-mediato. “Nella sua vera espressione, questa immediatezza semplice (che essi designano) è dunque l’Essere puro”.
  • Quindi l’inizio è l’Essere puro. Ciò significa che, all’inizio, il pensiero non è neppure posto come “pensiero” puro, ma solamente come coincidenza o uguaglianza astratta con sé: due espressioni già mediate e riflesse poiché implicanti un “movimento” di coincidenza e un “rapporto” di uguaglianza “con” sé il cui vero equivalente, strettamente immediato, è l’Essere puro, punto e basta. Il Pensiero o l’Assoluto è l’Essere e questa è quindi la prima definizione di Assoluto. L’Idea logica “è”: questo è il minimo che si possa dire.

Si è detto che l’Essere puro non ha alcuna determinazione. Esso è l’assolutamente indeterminato. A dire il vero però, questo Essere puro comporta già implicitamente una qualificazione: quella dell’Essere “puro”. Esso include una determinazione: quella di non averne alcuna. Questo stato di cose è rimasto implicito e viene ora tematizzato e affrontato: l’Essere puro, precisamente perché è assolutamente indeterminato, è pura astrazione. Esso fa astrazione o, piuttosto, in esso il Pensiero che si pensa fa astrazione da ogni mediazione e determinazione; esso è dunque e conseguentemente l’assolutamente negativo, ossia l’astrattamente negativo, l’immediato indeterminato che respinge o, più esattamente, che nega ogni mediazione e si tiene lontano da qualsiasi determinazione. Se preso anch’esso, come l’Essere, in maniera immediata, vale a dire isolata e astratta, questo assolutamente-negativo è, nella sua purezza, il Niente o il NULLA. Invero, a causa della sua purezza e indeterminatezza iniziali, l’Essere puro non è niente, è un indicibile, un nulla.

Questa è dunque la seconda definizione di Dio o dell’Assoluto: il Pensiero o l’Assoluto è il Nulla, il Niente. L’Idea logica è il Nulla, essa non è niente, è la più povera e immediata espressione di ciò che si riveleranno più avanti essere la trascendenza e la libertà concrete dell’Idea in rapporto a ogni contenuto da essa stessa determinato (come) sua assoluta negatività. In quanto ab-solutus, l’Assoluto nega tutto, compreso se stesso. Nella sua immediatezza, trattiene soltanto questo assoluto diniego che somiglia alla brutalità astratta di un “no”, di un “non”: niente, il Nulla.

L’Idea-Nulla, il Nulla logico, non è quel Nulla concreto, elaborato e carico di positività che ritroveremo costantemente nelle forme più ricche e complesse della negatività semplificate dalle categorie ulteriori della Logica. Il Nulla con cui il Pensiero logico ha a che fare in questo momento preciso dello sviluppo del suo pensiero di sé non è che questo Nulla immediato e uguale a sé che abbiamo descritto come essente, insieme all’Essere, l’inizio dell’Idea logica.

Il Nulla immediato, uguale a se stesso. E prima di tutto: Nulla immediato, allo stesso tempo retrospettivamente e prospetticamente. Retrospettivamente perché il Nulla che qui sorge non è in

“rapporto” con l’Essere puro che è trapassato in lui – ci fermeremo tra breve su questo punto nel commentare il punto 1) della Nota. Prospetticamente in quanto la pura negatività che qui si afferma nella sua più totale astrazione non è ancora combinata con la positività dell’Essere al fine di offrire una categoria complessa in cui, sia il Nulla che l’Essere, rivestano un significato concreto. Successivamente: Nulla uguale a se stesso: quest’espressione ha all’incirca la stessa portata della precedente: designa la stessa astrazione, retrospettiva e prospettiva, del Nulla, ma lo fa più positivamente e più immediatamente poiché ne sottolinea l’aspetto di “continuità” proprio

dell’immediata coincidenza con sé del nulla di pensiero. Per questo motivo, tale seconda espressione introduce meglio della prima quanto segue, cioè il passaggio dal Nulla alla Positività o alla coincidenza con sé dell’Essere.

In effetti, come l’Essere puro era il Nulla, inversamente, il puro Nulla, in quanto Nulla immediato, uguale a se stesso, è la stessa cosa che l’Essere. Esso è innanzitutto e formalmente – se la distinzione tra forma e materia ha un senso qui – la stessa immediatezza e la stessa uguaglianza con sé proprie dell’Essere: il Nulla è, infatti, assolutamente immediato e uguale a sé come lo è l’Essere o, piuttosto, esso è, come l’Essere, l’assolutamente immediato e assolutamente identico a sé. Da ciò segue che esso è, materialmente – ma materia e forma coincidono qui ancora completamente – la stessa cosa che l’Essere; il Nulla ha lo stesso contenuto o meglio, la stessa assenza di contenuto dell’Essere; è la stessa astrazione pura, lo stesso immediato, indeterminato e semplice. “Il Nulla è così la stessa determinazione o piuttosto la stessa indeterminazione e di qua, assolutamente parlando, la stessa cosa che l’Essere puro”.

Il Nulla è dunque la stessa cosa che l’Essere. “La stessa cosa” (dasselbe) non è una categoria esplicitamente definita della Logica e tuttavia ha il suo posto nella dottrina dell’Essenza il suo significato si apparenta a quello di uguaglianza, del quale è precisamente detto, in quel paragrafo, che “è un’identità soltanto tra termini tali da non essere affatto gli stessi”: l’uguaglianza non ha cioè senso se non tra due termini che differiscono tra loro. Allo stesso modo, “la stessa cosa” implica dunque una non identità o, più esattamente, una diversità tra i termini che compara. Pertanto è corretto affermare – come ci ricorda la Nota 1) ad finem – che l’Essere e il Nulla sono assolutamente diversi e dunque che l’uno non è ciò che l’altro è. In effetti, l’Essere mira a una positività assoluta mentre il Nulla mira a una negatività assoluta. Ma, precisamente, non si tratta che di un semplice riferimento o intenzione (Meinung) e, similmente, la differenza tra loro non è che una semplice intenzione anch’essa in quanto, essendo entrambi, sia l’essere che il Nulla, ancora e null’altro che l’immediato assolutamente indeterminato, non è possibile assegnare loro concettualmente qualsivoglia caratteristica atta a distinguerli. Sebbene vi sia dunque una differenza tra loro, in quanto però essa non è determinabile qui e non può esserlo in questi stessi termini, questa differenza è propriamente indicibile, una semplice opinione soggettiva.

Essendo l’Essere la stessa cosa che il Nulla e viceversa, – e questo nel senso preciso dell’espressione “la stessa cosa” che è stato appena definito – è possibile affermare che la verità dell’Essere, così come quella del Nulla, è l’unità dei due.

Quest’espressione “la verità di…” è tipica del linguaggio hegeliano. Essa implica ogni volta che l’entità designata dal genitivo che segue non ha un’esistenza vera in se stessa ma in un’entità più grande che la contiene come uno dei suoi momenti. All’occorrenza dunque, quest’espressione significa che l’Essere e il Nulla non esistono veramente e concretamente se non nella loro unità e non quindi, nella loro separazione o nel loro essere isolati. Ne è una prova il fatto che l’Essere puro, preso in se stesso, coincide e fa tutt’uno col Nulla e che, dal canto suo, il Nulla, preso in se stesso, è la stessa cosa che l’Essere. La verità dei due è pertanto la loro unità.

Logica della Quantità, ossia in quella sfera dell’Essere in cui, come vedremo, la determinazione di quest’ultimo gli è esteriore e indifferente. L’unità” è gravata della stessa superficialità della sfera in cui appare. Essa designa la continuità che collega le componenti discontinue del “Discreto” per il fatto che l’elemento costitutivo della molteplicità di quest’ultimo è sempre lo stesso “Uno”. Similmente, al, l’”unità” designa uno dei due aspetti qualitativi del nome, quello che, a differenza dell’aspetto discreto o discontinuo del suo “ammontare” o “ valore numerico”, lo costituisce seguendo il suo momento di continuità, come un certo numero, un tutto numerico o, precisamente, un’“unità” numerica. L’unità designa dunque, propriamente, un’unione abbastanza debole, alquanto esteriore, simile a quella che fa si che i dieci “uni” riuniti nel numero dieci, per esempio, formino una decina, un insieme dotato di una certa “unità”. È in questo senso debole e relativamente indeterminato che questa categoria appare nella Logica, a meno che un aggettivo non ne venga a precisare la portata (“unità assoluta”, “unità negativa” ecc.). Per questo Hegel, nelle note, mette più volte in guardia il lettore rispetto a ciò che una tale espressione ha di unilaterale, zoppicante e indeterminato, a ciò che essa ha perciò di inesatto, se non addirittura falso.

Noi ci torneremo commentando il punto 4) della Nota al nostro paragrafo.

Espressa in termini ancora vaghi e imprecisi, la verità dell’Essere, così come del Nulla, è quindi l’unità dei due. Espressa correttamente, secondo la sua specifica verità, questa unità è il Divenire. In questa sede, quel che importa è cogliere il Divenire nella sua indeterminazione e dunque 1) di non identificarlo col cambiamento, il quale non apparirà che successivamente né, ancor meno, col movimento, che è piuttosto un concetto della Filosofia della Natura e 2) di non ridurlo a una sola delle sue due specie o direzioni o, a uno solo dei suoi due momenti, il NASCERE (Entstehen, generatio), con l’esclusione dell’altro, il MORIRE (Vergehen, corruptio). Noi non ci occuperemo qui del movimento in quanto esso è una realtà della natura e non del pensiero logico. Quanto al cambiamento o all’alterazione (Veränderung), qui si tratta già di un divenire concreto i cui due termini non sono più l’Essere e il Nulla, ma piuttosto due “Qualcosa” (Etwas) di cui uno è l’altro dell’altro e viceversa. Conviene, infine, non cedere alle suggestioni della rappresentazione che ci portano a identificare il Divenire col solo “nascere”. L’Essere e il Nulla sono, in effetti, lo abbiamo detto, distinti l’uno dall’altro nonostante l’unità per cui e secondo la quale essi sono la stessa cosa. Se si tiene conto di questa distinzione, bisognerà dire che, in essa, è ognuno dei due che è unità con l’altro. Il Divenire contiene dunque una doppia unità dell’Essere e del Nulla: a) quella che, partendo dal Nulla, è costituita dal passaggio dal Nulla all’Essere: è il “Nascere” e b) quella che, partendo dall’Essere, è costituita dal passaggio dell’Essere nel Nulla: è lo “scomparire”, il “venir meno”, il “perire”. Il Pensiero o l’Assoluto è contemporaneamente Divenire in queste due direzioni distinte, due direzioni che si penetrano e paralizzano reciprocamente perché il Nulla passa nell’Essere, l’Essere passa nel Nulla e questo, inversamente, nell’Essere, ecc.. Lungo tutta la Logica e ovunque nelle altre sfere dell’Idea avverrà quindi – ma questa è una delle definizioni più povere del Pensiero –, che l’Assoluto, se colto nella sua immediatezza, è Divenire, puro Divenire, l’apparire e l’oscurarsi.

E questo è ciò che si è già verificato nell’apparire e nell’ oscurarsi delle due prime categorie della Logica: l’Essere e il Nulla.

Essere e Nulla sono opposizione. In effetti, come si è visto, l’uno non è ciò che l’altro è, ciascuno è piuttosto l’opposto in senso stretto dell’altro, in quanto il primo mira a una positività assoluta e il secondo a una negatività assoluta. Essere e Nulla sono in tal senso l’opposizione in tutta la sua immediatezza. Di fatto, una mediazione qualunque di questa opposizione presupporrebbe che, in uno dei due o in entrambi, una determinazione che contenga la loro reciproca relazione sia posta esplicitamente. E questo tuttavia non può essere il caso in questione poiché Essere e Nulla sono, tutti e due, la pura astrazione dell’immediatezza assoluta. Essi sono dunque, per definizione, senza rapporto, senza riferimento l’uno all’altro nonostante essi siano essenzialmente la stessa cosa l’uno e l’altro. La determinazione comune che li fa trapassare l’uno nell’altro e, in questo senso, li mette in rapporto è però e a pieno titolo contenuta in essi: è la determinazione che consiste nel non averne alcuna. Ma il rapporto o la relazione o, più esattamente, il passaggio dall’uno all’altro non può essere reso manifesto o posto esplicitamente in nessuno dei due in quanto entrambi non sono altro che il puro immediato denudato di ogni rapporto. È per questo motivo che, se la deduzione della loro unità è in un senso interamente analitica e necessaria, in quanto necessita, per ottenerla, di porre esplicitamente nell’uno l’astrazione o l’immediatezza già contenuta nell’altro, questa deduzione è ugualmente e interamente sintetica poiché, in ragione dell’assenza di ogni rapporto esplicito tra i due, c’è, dall’uno all’altro, a dispetto della loro identità, una totale discontinuità. Così è in questi primi paragrafi della Logica che si verifica al massimo l’affermazione del § 84 secondo cui, nella sfera dell’Essere in generale, la determinazione ulteriore e progressiva delle categorie è un Über-gehen in Anderes, un trapassare in altro, un passaggio discontinuo, sebbene necessario, di una categoria in un’altra.

Ad finem. Qualora si cerchi, al fine di rappresentarsi l’unità di Essere e Nulla, un esempio in grado di aiutare l’immaginazione, ci si potrebbe appoggiare non soltanto sulla rappresentazione che ciascuno si fa spontaneamente del Divenire, ma anche su quella del Cominciamento. In effetti, quando una cosa comincia, essa non è ancora e, in questo senso, essa è Nulla; eppure, proprio in quanto essa comincia, essa non è puramente e semplicemente nulla ma essa è anche e già Essere. Il cominciamento è dunque, come il Divenire, unità nella distinzione, dell’Essere e del Nulla e si potrebbe quindi, a scopo pedagogico, cominciare la Logica con la rappresentazione del puro cominciamento (del pensiero), anche a costo di analizzare solo in seguito da un punto di vista concettuale, e questo al fine di estrarne le due categorie più originali dell’Essere e del Nulla insieme alla loro unità, accettando così quest’ultima più agevolmente. Ciò nondimeno, il Divenire resta la sola espressione davvero appropriata dell’unità originaria dell’Essere e del Nulla. La rappresentazione del Cominciamento suggerisce, in effetti, nel contempo troppo e troppo poco. Suggerisce troppo poiché essa esprime già il riferimento esplicito alla progressione ulteriore e di là sorpassa l’immediatezza che deve ancora caratterizzare il puro Divenire. Suggerisce, invece, troppo poco, giacché, sebbene permetta di apprendere con l’immaginazione il momento della nascita all’interno del Divenire, essa distoglie nondimeno l’attenzione dall’altro momento indissociabile del Divenire, il morire.

  1. Come è stato già detto nel commento, espressioni come “Essere e Nulla sono la stessa cosa” o “l’unità dell’Essere e del Nulla” sono soggette a cauzione: la prima perché non dice insieme che l’Essere e il Nulla sono diversi, la seconda perché, in ragione del carattere superficiale e indeterminato della categoria di unità, rischia anch’essa di essere unilaterale e di far risultare esclusivamente l’unità di Essere e Nulla a discapito della diversità, la quale però è presente ugualmente perché è dell’Essere e del Nulla e dunque è solo rispetto a due categorie distinte che l’unità è posta in quest’espressione. Anche Hegel conclude affermando che una determinazione speculativa del pensiero non può essere espressa correttamente nella forma di una proposizione come quella del § 88: “la verità dell’Essere, così come quella del Nulla è l’unità dei due”, giacché ciò che deve essere colto è sì l’unità, ma l’unità nella diversità e questo fatto implica che quest’ultima sia nello stesso tempo esistente e posta. Ora, non è questo il caso allorché si usa un’espressione come “l’unità dei due” dove la distinzione non è presente che sussidiariamente nel genitivo “dei due”.

Solo il Divenire è la corretta espressione dell’unità che risulta dalla dialettica tra Essere e Nulla. Il Divenire, in effetti, evoca un movimento incessante, una pura mobilità dei suoi momenti. Non c’è nulla in esso che sia stabile, fisso o statico. Questo avviene in quanto il Divenire non è solo l’unità dell’Essere e del Nulla, con ciò che questo termine “unità” implica volentieri di fisso e di non processuale: esso è piuttosto l’irrequietezza in sé, la pura inquietudine, l’assoluto non riposo; l’unificazione in atto più che l’unità perfetta. Esso è unità certo, ma l’unità che non è tale solo in quanto relazione-a-sé priva di movimento – come se il Divenire fosse una cosa che riposa nella calma di se stesso: esso è piuttosto qualcosa che si rinnega costantemente esso stesso, che si rivolge polemicamente contro se stesso in ragione della distinzione, presente nel Divenire, tra l’Essere e il Nulla.

Per contro, la categoria che segue, ovvero quella dell’Essere Determinato sarà la stessa unità dell’Essere e il Nulla, ma stavolta precisamente nella forma unilaterale dell’unità fissa e statica. L’Essere determinato è perciò unilaterale e finito. L’opposizione è come se fosse sparita essendo contenuta nell’unità solo implicitamente, senza cioè essere posta in essa.– Riserviamo alla Nota del paragrafo successivo il commento dettagliato di qualche riga che Hegel consacra in quella sede a questa nuova categoria.

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Alienazione e sfruttamento nel primo Marx

Amelia Forte

Marx lavora contemporaneamente sui tre libri del Capitale, scrivendoli tutti insieme poiché essi fanno parte di un unico piano; insiste anche testardamente fino alla fine che non vuole pubblicare nulla fin quando non ha realizzato tutto il suo progetto (come scrive anche ad Engels in una lettera del 1865). Il Capitale è un’opera il cui disegno cambia continuamente in questi anni; il Capitale che noi possediamo non è il Capitale che Marx aveva pensato inizialmente, e bisogna perciò cercare di capire cosa Marx avesse in testa e volesse fare.

Marx scrive che ha in mente un’opera in sei libri; nella lettera a Lassalle del 22 Febbraio del 1858 scrive che i sei libri sarebbero stati rispettivamente “Del Capitale, Della proprietà fondiaria, Del salario, Dello Stato, Del commercio internazionale, Del mercato mondiale”. Questo programma è molto importante da tener presente, poiché nel progetto iniziale ci sarebbero stati anche libri sullo stato, sulla politica ed il 6° libro sarebbe stato una descrizione e una spiegazione del mercato mondiale, l’economia unificata del mondo moderno. -Questo piano non si realizzò e l’opera si ridusse a soli tre libri:

  • Il 1° è dedicato al processo di produzione del capitale
  • Il 2° è dedicato al processo di circolazione del capitale
  • Il 3° è dedicato al processo complessivo della produzione capitalistica (dove spicca soprattutto la sezione dedicata alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto)

Nei primi 8 capitoli del 1° libro si trova “l’alfabeto della scienza economica” di Marx; Marx inizia con la definizione della merce, e per Marx è così importante iniziare la scienza dall’analisi della merce e non dal lavoro, dal valore o dallo scambio, perché la merce è la cellula economica fondamentale, essa ha dentro di sé tutto lo sviluppo del capitale. La merce è sintesi, unità e opposizione di due termini, che Marx chiama valore d’uso e valore di scambio:

Il valore d’uso è la capacità che un bene ha di soddisfare un bisogno dell’uomo, a prescindere dalla forma sociale in cui ciò avviene e si verifica; l’uomo ha comunque bisogni elementari, e la vita per Marx non è mai un dato ma l’uomo è anzitutto impegnato nella produzione della vita e deve rispondere a dei bisogni elementari (mangiare, abitare, vestirsi ecc…) Il valore d’uso appartiene ad ogni forma sociale e ad ogni stato della vita umana. Ma la merce non è solo contenuto, è anche forma, essa è la forma che il valore d’uso assume nella società capitalistica. – Qui si entra nel vivo del capitalismo: il valore di scambio è il valore di un bene in relazione ad altri beni, e presuppone la divisione del lavoro, il mercato, una relazione fra il compratore e il venditore etc.Marx poi passa allo studio della circolazione delle merci, quello che propriamente si chiama il mercato, e qui si trova la prima definizione del capitale attraverso il plusvalore, che costituisce il problema più autentico dell’opera, quello della valorizzazione (come un bene si valorizzi attraverso lo scambio) La tesi di Marx si può riassumere in due punti principali: La valorizzazione appare nella sfera della circolazione, ma non trova una spiegazione in essa, ma la sua spiegazione sta alle spalle della circolazione e ci rinvia alla sfera della produzione. La fonte della valorizzazione non è il lavoro come tale, ma il lavoro salariato e determinato socialmente nella società capitalistica come una merce, e che può sorgere solo nella società borghese nel presupposto della modernità della separazione del lavoro dai mezzi della produzione e dell’eguaglianza delle condizioni. –> Il problema diventa la determinazione analitica del capitale, cioè la distinzione fra capitale costante e capitale variabile e la definizione del saggio di plusvalore, dove appare un’altra parola fondamentale dell’opera, lo sfruttamento. Per capire il Capitale la cosa fondamentale è che quest’opera non va isolata dal pensiero di Marx, e non va letta come la leggono spesso gli economisti; Antonio Labriola, primo grande teorico del Marxismo in Italia, scrive che in quest’opera per la prima volta la mente di Marx “fa uno”, ossia che essa non è solo un’opera di economia ma è anche una grande opera di filosofia, sul pensiero politico. Il Capitale è una grande opera sulla storia, è una filosofia che si esprime col vocabolario dell’economia politica: i più grandi filosofi ora non usano più il linguaggio della metafisica classica, ma usano il linguaggio dell’economia (Marx), quello della teologia (Nietzsche) o quello della scienza (positivismo).

Per comprendere il senso del Capitale si deve fare qualche osservazione sul pensiero di Marx, che si può trovare nella maniera più nitida nel Manifesto del Partito Comunista, che Marx ed Engels scrivono nel Dicembre del ’47 su commissione della Lega dei Comunisti e che viene diffuso a partire dal Gennaio del ’48. — Qui c’è il 1° punto fermo del pensiero di Marx, che è il principio di tutto il pensiero di Marx: la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classe.

Marx così afferma una cosa inaudita, mai detta, ossia che la storia non è puramente lineare o progressiva, ma è attraversata dal conflitto: la storia umana è una storia “spezzata” fin dal suo inizio.

A prima vista sembra chiaro che Marx dica una cosa univoca, ma in realtà la sua affermazione è attraversata da notevoli dubbi, poiché Marx non offre una visione della storia umana, ma ne offre due:

La 1° è quella di una lotta tra oppressori e oppressi, perciò la storia è unificata sotto un unico carattere, ossia l’oppressione, che è il segno caratteristico di tutta la storia umana.Nella Prefazione del ’59 Marx dirà che con il comunismo si chiude la Preistoria della società umana e comincia la Storia.

Ma cosa significa oppressione?

Nel linguaggio del Capitale, oppressione significa sfruttamento: tutta la storia umana avviene nel segno dello sfruttamento, ma qual è il significato più elementare dello sfruttamento? Esso è la divisione tra la produzione e il consumo, tra la prassi e la teoria: fin dall’inizio della storia, l’umanità si separa in due tronconi, ossia quelli che producono e quelli che consumano. Quelli che consumano sono liberi dalla condizione del lavoro, ed il puro consumo è concepito come la vera libertà.

Ma la questione è complessa per almeno due ragioni:

  • Il concetto di sfruttamento e oppressione presuppone una visione, ossia la concezione del lavoro come negatività, cioè l’idea che fin dalle origini l’uomo si fa che il lavoro sia pena e non sia la propria oggettivazione, o prassi razionale, ma sia qualcosa di servile: libero è chi non lavora (motivo per cui il signore delega al servo l’operazione del lavoro, questo è il suo ideale). È su questo segno di valore del lavoro che si giocherà tanta della considerazione giovanile di Marx della prassi lavorativa.
  • L’oppressione è un male, o ha in sé un elemento di positività? Attraverso l’oppressione e lo sfruttamento l’uomo conosce la libertà, esce dalla condizione animale e fonda la civiltà: lo sfruttamento è anche condizione della civiltà. Marx è completamente consapevole della positività contenuta nel fatto dello sfruttamento: il comunismo supera ma è figlio ed erede di questa storia e lo è più dell’oppressore che non dell’oppresso.

  • Marx ed Engels non si limitano a dire che la storia è antagonismo tra oppressori ed oppressi, ma specificano la lotta di classe in forme e sistemi diversi: la storia è strutturata in sistemi, e ciascuno di essi è dominata da una classe dominante che ha una propria visione del mondo ed è portatrice di una civiltà. La rivoluzione non è solo dalla preistoria alla storia, ma è anche quella che avviene da sistema a sistema: la rivoluzione è passaggio da un sistema all’altro.

Marx fonda il rapporto tra sistema e rivoluzione, e questo è il punto più complesso dell’eredità di Marx, in cui si stringe tutto il suo pensiero: la storia è strutturata in sistemi, cioè forme economico-sociali, e ciascuno dei sistemi è concepito dialetticamente ed è cioè attraversato dalla negazione. –> Ogni sistema è destinato ad andare incontro alla sua morte, cioè alla rivoluzione e al passaggio ad un altro sistema.

Tutto il pensiero di Marx è costituito intorno a questo nesso tra sistema e rivoluzione, nesso che nella storia del Marxismo è stato anche sciolto, pensando i termini come solubili:

  • Si è pensato il sistema senza la rivoluzione, pensando la società borghese ma non la società comunista (come ad esempio ciò che si chiama “sociologia”)
  • Si è anche pensata la rivoluzione senza il sistema, cioè senza la filosofia della storia e la lotta di classe, pensando la rivoluzione come operazione degli emarginati o come rivolta (e non come rivoluzione della classe che produce la ricchezza).

Nella visione di Marx la rivoluzione chiede che la storia sia concepita sia come lotta tra oppressori ed oppressi (oppressione come regola di tutta la storia umana), ma anche come successione di sistemi, sistemi che vengono concepiti dialetticamente (ossia ogni sistema è attraversato dalla negazione)

Nella storia, la rivoluzione borghese fa due cose che sembrano contraddittorie ma che sono funzionali tra loro: da un lato unifica l’umanità sotto il profilo del mercato, e dall’altro deve spezzare l’umanità nella forma politica, con la costruzione degli stati nazionali . La rivoluzione borghese costruisce questa contraddizione, e deve far crescere insieme la divisione politica del mondo e l’unificazione economica del mondo. Quando si parla di Materialismo Storico ci si riferisce al rapporto che Marx ha con la filosofia, e bisogna cercare di rispondere alla domanda su cosa Marx veramente aggiunge nella storia della filosofia. È solo qui dentro che nasce il problema del lessico economico che Marx utilizza per costruire la sua filosofia; senza il materialismo storico anche la stesura del Capitale diventa incomprensibile. Marx incontra il discorso filosofico e diventa filosofo nel 1836, quando Marx arriva a Berlino, e nell’estate del 1837 (dopo aver iniziato i suoi studi a Berlino) legge tutte le opere disponibili di Hegel e diventa hegeliano. Questo è il punto di partenza della filosofia di Marx. Hegel era morto nel 1831, per cui Marx non poté incontrarlo, ed essere hegeliani nel 1837 era diverso rispetto ad esserlo nel ’29 o nel ’30: significa per Marx far parte di un circolo di giovani hegeliani. Erano sì seguaci di Hegel, ma già erano critici degli aspetti fondamentali del pensiero di Hegel. Marx continua i suoi studi filosofici quando si trasferisce a Parigi dal ’43 al ’45 e scopre Ludwig Feuerbach, che fornisce alla sinistra hegeliana gli strumenti teorici fondamentali per una prima critica alla filosofia hegeliana; qui compare una parola fondamentale che segna tutta la filosofia post hegeliana, ossia il rovesciamento. Rovesciare la filosofia di Hegel, nel lessico di questi autori, significa che secondo la lettura data allora di Hegel, nell’Idealismo il soggetto, cioè l’elemento attivo e produttivo della realtà, è l’idea, l’infinito o l’essenza, che produce il finito. Per Feuerbach non è più Dio che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea Dio; per il Marx della Kritik non è lo Stato che genera la società civile, ma è la società civile (Bürgerlichen Gesellschaft). Il tema del rovesciamento è fondamentale per tutta la filosofia post-hegeliana fino alle correnti filosofiche del ‘900, dove il soggetto diventa l’elemento attivo del discorso filosofico.

In questo contesto nascono gli scritti filosofici del Giovane Marx: la Kritik, la Questione Ebraica, i Manoscritti e la Sacra Famiglia (primo testo scritto con Engels). –> All’arrivo a Bruxelles accade qualcosa di importante, poiché ora Marx non si limita più a criticare Hegel e l’Idealismo sul fondamento delle categorie fornitegli da Feuerbach, ma comincia a criticare anche Feuerbach e il Materialismo.

La critica di Marx si rivolge ora in due direzioni, e queste due direzioni sono le due grandi linee di tutta la metafisica e la filosofia europea; Marx critica entrambe queste posizioni, ed oltre l’Idealismo ed il Materialismo cerca una nuova filosofia, mai sperimentata nella storia del pensiero, quella definibile una filosofia della praxis (Gramsci). Molti anni dopo la morte di Marx vengono pubblicati due testi, scritti tra il ’45 e il ’46, che sono l’inizio di quella filosofia che sta anche alla radice del Capitale: le tesi su Feuerbach e l’Ideologia Tedesca. La Miseria della Filosofia del ’47 aggiungerà altri elementi sul piano filosofico, ma è in questi due testi che nasce la nuova filosofia di Marx, il Materialismo Storico. Nelle Tesi è già presente il nucleo generativo del Materialismo Storico, e sono un appunto che Marx scrive su un foglio appena arriva a Bruxelles:

1) Nella 1° tesi Marx inizia con una critica perentoria del materialismo, tutto il materialismo precedente incluso quello di Feuerbach (mentre nella Sacra Famiglia scrisse che il comunismo si fondava sul Materialismo); il materialismo ora non è più l’orizzonte filosofico del comunismo, perciò Feuerbach è incluso nella critica al materialismo europeo.

Il torto del Materialismo è quello di aver concepito l’oggettività, la realtà e la sensibilità solo nella forma dell’oggetto o dell’intuizione: il Materialismo concepisce l’oggetto come trascendente rispetto al soggetto e come presupposto rispetto al soggetto, e non invece come posto e prodotto dal soggetto stesso. –> Per il Materialismo ci sono solo res, oggetti che si danno già a prescindere dall’attività formatrice, la praxis dell’uomo: per il materialismo il presupposto è la differenza, all’origine della filosofia vi è la differenza tra l’intellectus e la res che gli sta di fronte, ed il problema della filosofia è di apprendere la res che gli si pone di fronte, mentre non è l’attività dell’uomo che forma la res. Marx parla anche della forma dell’intuizione per dire che nel Materialismo è assente la mediazione, ma all’origine c’è l’immediatezza dell’oggetto, che si dà in quanto tale; il Materialismo per Marx non arriva a concepire soggettivamente l’oggetto, cioè non arriva a concepire nell’atto di produzione della soggettività, nella mediazione. La soggettività che sta all’origine della stessa produzione dell’oggetto è specificata da Marx con due parole fondamentali, ossia l’attività sensibile umana e la praxis: il materialismo non concepisce la soggettività come praxis, come azione. Nella prima tesi arriva quindi l’elogio dell’Idealismo, che ha il merito di concepire l’oggetto soggettivamente, capendo che la materia è mediazione, è prodotto dell’uomo, ma compie un errore nel concepire questa mediazione astrattamente, ossia l’Idealismo non arriva a concepire la mediazione come attività sensibile umana, ma come attività propria dell’Idea e dell’Infinito verso il Finito.

La conclusione è quindi il superamento delle due grandi correnti della metafisica europea, quella del Materialismo che presuppone la differenza e considera l’oggetto come rappresentazione, come ciò che sta di fronte al soggetto, e l’Idealismo che non coglie la radice della mediazione nell’attività sensibile del soggetto ma la colloca nel processo di movimento dell’Idea.

  • Marx nella 2° tesi ci dice cosa è la verità, che per lui è una questione pratica, ossia risiede nell’attività formatrice e sensibile dell’oggetto, è in essa che l’uomo prova e costruisce la verità. Nell’ Ideologia Tedesca Marx scrive che la verità cammina con le gambe sulla potenza della classe dominante, per cui ogni verità è prodotto e costruzione dell’azione rivoluzionaria dell’uomo; l’uomo prova la verità nell’immanenza del suo pensiero: la mondanità del suo pensiero si esprime nella realtà e nella potenza .

 

  • Nell’ultima tesi su Feuerbach, Marx non compie solo un invito a fare le rivoluzioni, ma scrive che si comprende il mondo nella prassi e nell’azione: questa è la grande critica che Marx compie alla definizione della filosofia di Hegel (nottola di Minerva), per Marx la filosofia deve ormai essere dentro la storia dell’uomo, e non arrivare dopo ad interpretarla.

In Marx la filosofia acquista diversi significati, e nel suo pensiero la filosofia, intesa in termini tradizionali, è finita, e Marx ne dichiara la morte pronunciando l’elogio funebre; ma il compito della filosofia ed il suo senso persiste in almeno tre sensi fondamentali: Da un lato la filosofia diventa più precisamente teoria e scienza, che in questo caso significa consapevolezza piena del percorso che l’umanità ha fatto lungo il suo cammino: grazie alla filosofia il proletariato acquisisce consapevolezza della sua posizione nella storia umana e diventa consapevole dello sfruttamento. Labriola nell’opera “In memoria del Manifesto dei Comunisti” espresse perfettamente questo senso della filosofia come teoria e come scienza, scrivendo che il compito del Marxismo e del Materialismo Storico non è quello di preparare i leader e progettare la rivoluzione, ma illuminare la posizione che la classe del proletariato ha nella storia. La teoria è quindi in primo luogo coscienza e si distingue dall’azione, spiegandone però la necessità. Ma per Marx la filosofia non è solo teoria o scienza, ma c’è anche una 2° visione della filosofia, che si rivela anche nella 2° tesi su Feuerbach, per cui la filosofia è anche produzione della verità e non solo coscienza della necessità della storia; la filosofia è anche produzione della visione del mondo della classe che si afferma nella storia con il suo dominio.

Quando la borghesia compie la sua rivoluzione essa afferma il suo sistema di valori come un sistema universale, ed in maniera simile il proletariato quando fa la sua rivoluzione afferma i suoi valori e realizza la propria visione su tutta l’umanità. La filosofia non si limita a comprendere la necessità storica, ma è anche costruttrice di una visione del mondo che si fa verità universale. Si pensi al caso del signore antico, che inaugura il fatto dello sfruttamento e inaugura la storia come storia di oppressione, emergendo dalla comunità degli uomini uguali come puro consumatore; ma non è solo uno sfruttatore il signore antico, ma è anche colui che attraverso lo sfruttamento genera un intero sistema, cioè afferma la sua filosofia come la filosofia di un mondo. C’è sempre un nesso tra sfruttamento e civiltà, lo sfruttamento è una negazione che produce e genera civiltà. La filosofia è perciò teoria e scienza, che illumina la necessità della storia, ma è anche visione del mondo, per cui chi fa la rivoluzione costruisce la propria visione del mondo e la afferma con la potenza della propria azione. Marx poi definisce la filosofia anche come il sapere reale, cioè la conoscenza della filosofia nella sua genesi dalla non-filosofia: in questo modo la filosofia diventa decostruzione delle stesse idee filosofiche dell’uomo e rivelazione della loro origine, ricostruzione del rapporto tra filosofia e non-filosofia come suo terreno di nascita. Qui si consuma la sua critica alle Ideologie: l’Ideologia è quella forma di pensiero che prende un prodotto storico e lo indica come fatto di natura, ed il compito della filosofia è quello di svelare l’inganno.

Il 1° capitolo dell’Ideologia Tedesca è un poderoso sviluppo delle Tesi su Feuerbach, ed è in essa contenuta l’enunciazione più compiuta del Materialismo Storico:

1) Marx assegna grande importanza al saper reale, in opposizione a tutta la tradizione filosofica, dicendo che la colpa della filosofia tedesca è quello di non aver abbandonato il terreno della filosofia: questo non significa negare la filosofia come sapere, ma significa che per fare filosofia bisogna saper uscire dal suo terreno, saper ricostruire la relazione tra la filosofia e la sua genesi non filosofica, illuminando la filosofia mettendola in relazione con la sua genesi.

Marx scrive con una celebre metafora che i filosofi sono finora scesi dal cielo alla terra, mentre ora bisogna invertire questo rapporto: ora si tratta di salire dalla terra al cielo, ed è la terra che produce il cielo, ossia il terreno materiale di produzione della vita che produce le idee della filosofia.

Marx col termine sublimazione si riferisce al termine della chimica del suo tempo, ossia il passaggio dallo stato solido a quello aeriforme senza passare da quello liquido. Sublimazione significa che la non-filosofia passa nella filosofia senza nessuna mediazione possibile, e riflette la sua immagine nell’Idea; bisogna perciò entrare nella dimensione del sapere reale, che non è chiuso nel terreno della filosofia, ed il compito della filosofia riguarda il mostrare la genesi dell’Idea e il suo processo verticale di formazione, per cui è l’uomo che nella sua vita materiale produce le sue idee e i suoi valori.

Marx poi nell’Ideologia Tedesca introduce un’altra nozione fondamentale, parlando di classe dominante, e affermando che la classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone in pari tempo dei mezzi della produzione intellettuale. Non è solo sfruttamento quello posto dalla borghesia nei confronti del proletariato, ma è dominio: per compiere lo sfruttamento non basta la forza e ridurre lo schiavo alla schiavitù, ma occorre che la classe dominante ottenga il consenso dell’oppresso e che le sue idee diventino la cultura dello schiavo, affinché egli riconosca le idee della classe dominante come valori universali e razionali. Qual è il rapporto tra Marx e la filosofia? Marx ha aggiunto qualcosa alla storia della filosofia e le ha dato un contributo? La risposta che abbiamo dato è affermativa: Marx è un filosofo ed aggiunge qualcosa di fondamentale al nostro modo di praticare la filosofia; questo tema filosofico lo abbiamo definito filosofia della praxis (espressione che compare con Labriola e con cui Gramsci sostituisce nei suoi quaderni quella di Materialismo Storico). Nelle Tesi su Feuerbach, che Marx scrive a Bruxelles nella primavera del ’45, si scopre che Marx non considera più il Materialismo come la base filosofica per la teoria del comunismo (1° tesi), e svolge una critica di tutte le correnti fondamentali della filosofia e metafisica europea, cioè dell’Idealismo e del Materialismo: nessuna di queste due filosofie può essere utile come base per la teoria del Comunismo. Il torto del Materialismo, compreso Feuerbach, per Marx è preciso: il suo torto è quello di presupporre l’oggetto, la res, come trascendente rispetto al soggetto, come presupposto e come qualcosa che non è il risultato di una praxis umana e della storia umana. L’Idealismo invece sa cogliere la mediazione originaria tra soggetto ed oggetto, questo è il suo merito, ma esso coglie la mediazione solo in forma astratta, ossia come mediazione delle idee. Marx nella 1° tesi scrive invece che la realtà è attività umana, qualcosa che pertiene specificamente al genere umano, ossia a quell’animale che costruisce una storia, ed essa è sensibile, per cui la mediazione non è astratta nelle idee ma è qualcosa di sensibile, riguarda la praxis effettiva dell’uomo. Nella 2° Tesi, Marx chiarisce che la verità non è una questione teorica, ma è una questione pratica, e dev’essere provata non nel puro pensiero (sillogismi, forme logiche ecc…) ma essa dev’essere provata nella realtà, e cammina sulle gambe della potenza. Nella 1° Tesi si parlava di oggetto e di realtà in senso materiale, mentre qui si parla della verità (ossia del grande problema che la filosofia si trova di fronte sin dal pensiero antico, quid est veritas?): la verità è il valore che conferisce valore ad ogni valore, per cui ogni valore di una civiltà è valido perché sono validi valori come l’uguaglianza, il bene, il bello etc, a cui si attribuisce verità.

La verità è per Marx non qualcosa di innato e di inscritto nel cuore dell’uomo, non sta nel grande libro nella natura ed essa viene poi letta (come affermava invece Galileo, ad esempio), ma ogni verità (anche quella di un sillogismo) è prodotta dall’uomo e riguarda la prassi, non si prova sul terreno della teoria.

Nell’11° Tesi si trova una delle formule più celebri di Marx: questa Tesi non dev’essere letta come se Marx facesse l’invito a prendere le armi e fare la rivoluzione, ma ha una grande profondità e segna una trasformazione nel discorso filosofico.

Nella prefazione ai Lineamenti della filosofia del diritto, Hegel dice tre cose fondamentali:

  • La filosofia è il proprio tempo appreso e compreso nella forma del pensiero”: Il dialogo del pensiero non è con sé stesso, ma esso presuppone che ci sia un mondo ed un tempo, e che il filosofo trovi il contenuto del proprio pensiero nel mondo e nel tempo e sappia metterlo nelle forme proprie della comprensione logica.
  • Il reale è razionale, ed il razionale è reale”: La realtà non è caos come appare e come sembra, ma al fondo di essa c’è una ragione ed una razionalità che viene letta e scoperta dal filosofo.
  • La filosofia è la nottola di Minerva che si leva in volo sul calare della sera”: Hegel ha in mente che la storia cammina sulle gambe delle passioni e degli interessi degli uomini, passioni prive di ragione, mentre la filosofia viene dopo a scoprirne il senso e la razionalità.

Marx però è dell’idea che la filosofia si occupi sì del proprio tempo e del mondo, ma la nuova filosofia (la filosofia della praxis) non arriva dopo che la storia si è svolta con le sue regole, ma è dentro la storia, essa è la prassi stessa: nella visione Hegeliana della filosofia si dividono la teoria e la prassi, mentre nel pensiero di Marx questi due momenti si riunificano, con la teoria che nasce dentro la prassi.

Marx mette fine a tutto un modo di concepire la filosofia e ne trasforma il significato, e nell’Ideologia Tedesca si trovano tre diversi significati che la parola filosofia acquista nel pensiero di Marx:

  • La filosofia è teoria, e quindi anche scienza, e così restituisce all’uomo (e in particolare al proletariato) la coscienza e la consapevolezza: all’uomo restituisce la consapevolezza del processo che l’umanità ha percorso nel suo cammino e la coscienza della posizione che il proletariato come classe occupa come classe. È grazie alla filosofia così concepita che l’uomo acquista coscienza che la storia è governata dalla regola dell’oppressione, e così il proletario diventa consapevole del fatto dello sfruttamento (e perciò di essere sfruttato).

Labriola, ne “In memoria del Manifesto dei Comunisti”, dà una definizione molto nitida della filosofia in Marx intesa in questo 1° senso: la filosofia in 1° luogo non è formazione di classi dirigenti o preparazione della rivoluzione, ma essa dà alla teoria la forma del processo, essendo coscienza della storia e non essendo invece un contenuto specifico.

Ne “La miseria della filosofia” si comprende cosa significhi davvero per Marx fare filosofia: come l’Economia politica classica è l’ideologia della classe borghese, così il Materialismo Storico è l’ideologia del proletariato. La filosofia è utopia, sistema e semplice scienza (e non invece coscienza) quando il proletariato non arriva a costituirsi come classe; la teoria per Marx si ha invece quando la filosofia non costruisce un sistema di uguaglianza e di giustizia, ma quando essa illumina il movimento oggettivo della storia, mostrando cosa sono le classi e qual è la loro posizione nella storia.

La teoria è dialettica, e cioè coglie la negazione comprendendo la negatività del sistema, e perciò comprendendo il germe rivoluzionario del sistema sociale: solo così il proletariato si fa classe e diventa perciò consapevole della sua posizione e delle sue potenzialità all’interno della società borghese.

Ma la filosofia per Marx non è solo teoria, essa fa anche dischiudere una visione del mondo di una classe rivoluzionaria; così non c’è più solo sfruttamento e oppressione in senso materiale, ma c’è anche dominio (un dominio anche spirituale): c’è una classe dominante e ci sono classi subalterne, ed il dominio è la capacità di una classe di non poter esercitare solo la sua potenza materiale senza una potenza spirituale, essa ha bisogno di un livello di consenso dell’oppresso. Ogni classe dominante costruisce un sistema di valori, ed i valori della classe dominante diventano anche i valori dei dominati: anche il subalterno riconosce valore alla verità affermata dalla classe al potere. “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”: il subalterno è assoggettato e cioè pensa con gli stessi valori affermati dalla classe dominante, un’intera civiltà è costituita dalle idee della classe dominante, altrimenti il potere e l’oppressione non si potrebbero costituire. Il dominio è perciò civiltà, visione del mondo ed è il senso della rivoluzione borghese; ma anche il proletariato è portatore di una propria visione del mondo e di una filosofia che si rende universale con il proprio sistema di valori e con la sua civiltà.

  • La filosofia è poi definita da Marx come il sapere reale: in tutta la storia della filosofia per Marx si discende dal cielo alla terra, mentre nel sapere reale si sale dalla terra al cielo; questo significa che le idee filosofiche non nascono in sé stesse e che non si è mai filosofi se si resta solo nel terreno della filosofia, ma per comprendere la filosofia bisogna entrare nella non-filosofia, la “terra”. È necessario ricostruire il nesso tra la filosofia e la non-filosofia, e perciò avere un modello genetico di comprensione delle idee: la filosofia della praxis è un metodo genetico, nel senso che spiega le idee a partire dalla vita materiale degli uomini come un prodotto storico della vita degli uomini. Le idee nella visione di Marx non sono mai trascendentali, ossia delle forme che costituiscono la realtà (come le intuizioni kantiane, che costituiscono i fenomeni), ma esse sono sempre figlie e costituite dalla realtà. –> Questo è il significato più profondo e radicale della formula “dalla terra al cielo”, e segna un 3° significato della filosofia della praxis, che nella storia del Marxismo si chiama critica delle ideologie, ossia lo smascheramento del loro trucco: nella visione di Marx le Ideologie scambiano la storia con la natura e rendono natura ciò che è storia, rendendo un prodotto storico come qualcosa di scritto nel grande libro della natura e non vedendo come siano invece prodotto della storia umana. Nell’ Ideologia Tedesca, Marx ed Engels svolgono una vera e propria antropologia fondamentale, e distinguono cinque aspetti dell’esistenza fondamentale dell’uomo il cui risultato è proprio la produzione delle idee, l’ideologia:
  • Marx ci dà una visione basilare ed elementare della vita umana: nel suo punto 0, la vita umana è produzione dell’esistenza, produzione che soddisfa alcuni bisogni elementari o animali. –> In base a questa considerazione di Marx, la vita umana comincia con la conservazione della vita, che coincide con la produzione della vita: la vita è un bene che dev’essere prodotto. Qui entrano in gioco tutte le categorie costitutive del pensiero di Marx, e all’origine del discorso di Marx vi è il fatto che lui gioca su due termini, da un lato il bisogno, qui considerato come negatività e cioè come un bisogno dettato dalla natura, senza la cui soddisfazione l’uomo muore; dall’altro lato vi è ciò che Marx chiama la creazione dei mezzi (che nel Capitale chiamerà valori d’uso), cioè quei beni utili che permettono all’uomo di rispondere al bisogno e di sviluppare la sua vita. Il bisogno e la creazione dei mezzi sono due termini fondamentali nel pensiero di Marx, soprattutto per il fatto che essi si trovano in un nesso inestricabile, per cui nessuno di questi due termini si potrebbe mai considerare da solo: quello che sta all’inizio della vita umana è questa mediazione tra bisogno e creazione dei mezzi per rispondere al bisogno.

Qui Marx però dice due cose che non stanno insieme: Da un lato dice che questa è un’azione storica, e dall’altro lato dice che essa è la condizione fondamentale di qualsiasi storia, per cui non si capisce se si è già all’interno della storia o se ne è al di fuori. Marx poi scrive che la soddisfazione del bisogno implica immediatamente la creazione di nuovi bisogni e la moltiplicazione dei bisogni, che è indotta dalla produzione stessa: questa è la prima azione storica, si esce dal terreno della conservazione e si entra in quello dell’artificio. Qui non si ha più di fronte un bisogno come negatività, cioè dettato dalla natura, ma un bisogno creato e prodotto dall’uomo e dalla sua formazione sociale. Cambia la natura del bisogno, ma il passaggio è immediato: la creazione dei mezzi per la soddisfazione del primo bisogno è già produzione di civiltà, storia e artificio. –> Si scioglie il dubbio tra storia e condizione della storia, poiché si entra nella storia quando il bisogno è il fine, esso è fissato e prodotto dall’uomo stesso nella sua attività produttiva.

  • L’uomo poi riproduce sé stesso: il rapporto tra uomo e donna, la generazione dei figli e ciò che Marx chiama la “famiglia” (gli uomini cominciano a fare altri uomini e a riprodursi).

Questi tre elementi non vanno concepiti in successione, ma vanno concepiti in modo organico come tre aspetti e momenti di un processo che avviene tutto insieme: alla base della vita sociale c’è l’insieme simultaneo e immediato di questi tre momenti fondamentali.

  • Il quarto aspetto è quello decisivo: tutto questo processo che si svolge è sempre, e senza possibilità di eccezione, un rapporto sociale. –> Fin dall’inizio,

se vuole vivere e produrre la sua vita , l’uomo costruisce una forma sociale determinata: al principio non c’è mai l’individuo, il lavoro o l’Uomo, ma c’è la forma sociale e cioè l’uomo e il lavoro come socialmente determinati. L’uomo può conservare sé stesso solo in una forma sociale: tra riproduzione della vita e socialità non c’è differenza, e perciò l’uomo è da sempre un animale sociale che non si presenta mai nella forma dell’Individuo. Marx scrive che la cooperazione è essa stessa una forza produttiva, e che forse è la più importante delle forze produttive.

  • Se i primi quattro momenti non vanno letti come facenti parte di una successione cronologica, il 5° viene dopo e va letto secondo la categoria della successione, poiché esso essendo la coscienza presuppone tutti gli altri gradi e viene dopo e appare anzitutto, nella lettura di Marx, come linguaggio: nella filosofia di Marx il linguaggio è la metafora iniziale di tutta la sfera ideologia, la superstruttura elementare che ha il carattere di tutte le superstrutture.

La coscienza è perciò successiva ed è conforme alla produzione e alla riproduzione della vita; per produrre e riprodurre sé stessa, l’umanità ha bisogno del linguaggio solo tecnicamente, in quanto forma della comunicazione, ed è solo nell’Ideologia che esso perde la coscienza della sua genesi dalla vita reale: il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno e dalla necessità di rapporti con altri uomini. Marx così pone il problema del fatto che il sistema sociale si costituisce a prescindere dall’apparato ideologico che lo attraversa, e proietta i suoi rapporti di forza nella sfera ideologica: l’Ideologia non è costitutiva del sistema sociale e non determina la riproduzione del sistema ma è il riflesso delle condizioni e dei rapporti sociali (tesi che sarà sostenuta soprattutto nel Marxismo sovietico, da Lenin a Stalin). Ma così nasce il problema di come la sfera ideologica possa essere così concepita nella contemporaneità; bisogna precisare che Marx è spinto da un’esigenza polemica e di radicalizzazione, affermando il principio che le idee non costituiscono né la realtà e né l’oggettività, ma ne sono costituite. Nel 1844 Marx scopre il linguaggio ed i classici dell’economia politica; negli annali Franco-Tedeschi che escono nel Febbraio 1844, Marx aveva già usato alcune parole chiave del suo pensiero:

  • Nella Questione Ebraica aveva parlato di emancipazione umana, che non è il comunismo ma ne anticipa i caratteri
  • Nell’Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del diritto Marx invece riconosce il soggetto artefice della rivoluzione, chiamandolo col suo proprio nome ossia proletariato.

Ma è nei quaderni parigini che nasce il lemma “comunismo” in Marx (che fino ad allora si era invece mostrato molto diffidente nei confronti delle teorie e della prospettiva del comunismo), ma soprattutto nasce anche il concetto e perciò Marx inizia ad elaborare una teoria del comunismo.

I “Manoscritti Economico-Filosofici” sono la prima vera espressione della teoria comunista di Marx e la prima espressione dei suoi studi economici; sono tre quaderni “tirati fuori” ed isolati da un gruppo di nove quaderni che fra il 1843 e il ’45 Marx compone a Parigi, formati da estratti e da annotazioni dei testi classici dell’economia politica. –> Questi tre quaderni vengono scritti da Marx tra il maggio e l’agosto del ’44, prima della pubblicazione dell’opera che scrive nel Febbraio ’45 con Engels, “La sacra famiglia”.

Come gran parte delle opere giovanili di Marx, i Manoscritti vengono abbandonati e lasciati da Marx alla “critica roditrice dei topi”, e vengono pubblicati solo molto tempo dopo la morte di Marx: Le prime edizioni risalgono al periodo tra il 1927 e il ’29, ma solo nel 1932 nella Prima Mega l’allora curatore Adoratskij cura una pubblicazione dei Manoscritti e per la prima volta gli attribuisce un titolo, “Manoscritti Economico Filosofici del 1844”; solo nel 1998 si arriva ad un’edizione completa di tutti i nove quaderni parigini di Marx.

Certamente la pubblicazione dei Manoscritti segna e divide la storia del marxismo, segnando due linee precise nella storia delle interpretazioni di Marx:

– Da un lato ci sono le edizioni sovietiche, la cui impronta è data da Riazanov, edizioni che tendono ad una netta svalutazione del significato dei Manoscritti: fin dall’Introduzione di Riazanov ai Manoscritti, essi sono visti come un testo giovanile di Marx, ancora influenzati dall’Idealismo e che vengono pubblicati come semplici appunti e come materiale preparatorio alla Sacra Famiglia. Secondo questa interpretazione non bisogna pensare che nei Manoscritti sia contenuta la filosofia di Marx e non bisogna perciò dargli troppa importanza.

A questa interpretazione si richiamerà anche la lettura di Althusser, la cui tesi principale è che c’è una rottura epistemologica nel percorso di Marx (nei Manoscritti c’è un “Marx prima di Marx”) e per il quale i Manoscritti sono l’ultima espressione di una giovanile metafisica di Marx che verrà poi completamente superata da Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach e dall’ Ideologia Tedesca.

– I Manoscritti diventeranno invece il testo fondamentale di quello che è stato definito “marxismo occidentale” (Fromm E, Marcuse, la Scuola di Francoforte ecc…): in questa corrente interpretativa si ritiene che in quest’opera si trovi la teoria dell’alienazione e che essa rimanga la base filosofica permanente in tutta l’opera di Marx, anche se Marx poi non userà mai più questa espressione. — La teoria dell’alienazione dell’uomo è la base filosofica di Marx, da cui deriva ogni altra conseguenza del suo pensiero.

Se c’è continuità o discontinuità nel percorso di Marx, è questa la questione interpretativa in ballo nella storia del Marxismo.

In questi tre quaderni si trovano tre novità fondamentali del pensiero di Marx:

  • La prima analisi dell’economia politica, ossia Marx ci dà un’interpretazione delle principali categorie dell’economia politica (capitale, rendita fondiaria, salario ecc…).
  • La teoria dell’alienazione, ossia quella del lavoro alienato.
  • La prima teoria del comunismo, che si lega in maniera strettissima al concetto di alienazione.

Quali problemi pone la lettura dei Manoscritti e in modo particolare la teoria dell’Alienazione? Un 1° problema riguarda il fatto che Marx opera una distinzione fondamentale tra quella che lui chiama la storia dell’industria, l’industrialismo, e la forma sociale determinata del capitalismo: Marx finora ci si è presentato come un autore che attribuisce un valore alla storia dell’industria, che viene vista come la storia delle capacità dell’uomo, fino a considerare la rivoluzione borghese ed il suo pieno compimento come una condizione necessaria per la rivoluzione comunista. Marx perciò non vuole riportare l’uomo nell’ idiotismo della vita contadina: il grande problema del comunismo è quello di un governo razionale dello sviluppo industriale.

La teoria dell’alienazione sembra invece non solo costituire una critica della forma sociale del capitalismo, ma una critica dell’industrialismo stesso e della tecnica, per cui il comunismo metterebbe in discussione non solo il capitalismo ma lo sviluppo industriale stesso. Nella teoria dell’alienazione Marx non parla dello schiavo, dell’operaio o dell’oppresso, ma parla dell’uomo: si parla dell’uomo in tutto lo sviluppo della storia dell’industria, e Marx usa la categoria di uomo che poi sarà largamente criticato da Marx stesso negli scritti successivi.

Il 1° problema che i Manoscritti pongono è quello di capire se Marx è un critico del capitalismo o è un critico dell’intero sviluppo dell’industria.

Il 2° problema riguarda il rapporto tra le categorie critiche fondamentali di Marx, e Marx dispone di tre principali risorse per compiere la critica della civiltà: l’alienazione, l’oppressione (come regola della storia) e lo sfruttamento (come forma specifica del capitale). Queste parole sono le tre grandi risorse critiche di cui Marx dispone, e Marx si deve sempre interrogare su cosa sia il loro rapporto, quale termine fondi l’altro o se i termini siano distinguibili fra loro.

Nel Manifesto si parla di una regola della storia umana e di una sua deformazione iniziale, presente in ogni forma sociale: tutta la storia è segnata dalla regola dell’oppressione perché questa regola dice che fin dall’inizio la specie umana si divide in due generi di uomini, e perciò l’umanità è spezzata fin dal suo inizio.

Il signore antico si limita a consumare ciò che lo schiavo produce e considera il lavoro come una funzione animale: nella filosofia antica (Aristotele parla dello schiavo come di un animale domestico) c’è la ricerca di ciò in cui l’uomo eccede la funzione animale, e il lavoro non eccede la dimensione animale ma fa parte dell’animalità, non consentendo la libertà. Il signore antico fonda così l’idea di libertà sulla possibilità di occuparsi della pura vita teoretica o della vita civile; bisogna però ricordare che il signore antico scopre la libertà e fonda la civiltà umana, uscendo dalla vita animale (Marx è consapevole che la civiltà greca è una grande civiltà, segnata dal carattere dell’oppressione).

Lo sfruttamento è una seconda risorsa critica di cui Marx dispone; non ha lo stesso significato del concetto di oppressione, e può essere definito come una specificazione storica e decisiva dell’oppressione, perché nella società borghese l’oppressione cambia forma: non c’è più il signore e lo schiavo, ma l’oppressore (il borghese) non può definirsi come un puro consumatore, esso non ha come suo fine la vita teoretica o la vita civile e politica, ma esso è un uomo d’azione ed il fine dello sfruttamento è l’accumulazione e l’arricchimento. Il borghese esercita l’oppressione come regola della storia umana, ma la esercita secondo la forma dello sfruttamento, ovvero estraendo plusvalore dal lavoro dell’operaio salariato sulla base delle condizioni moderne della libertà personale (sarà necessaria l’uguaglianza delle condizioni affinché sia possibile lo sfruttamento).

Quello dell’Alienazione è invece il problema che sorge coi Manoscritti: che rapporto c’è tra essa e sfruttamento o tra essa e oppressione? Bisogna abbandonare l’alienazione considerandola una forma giovanile e presto superata da Marx? –> La teoria dell’alienazione che si trova all’inizio del percorso del Marx economista e comunista cerca di spiegare perché l’uomo è entrato nella vicenda dell’oppressione (mentre il Manifesto ed il Capitale si muovono più sul territorio del “comune”, spiegando come si muove la storia e sulla base di quale regola o come funzioni lo sfruttamento).

I Manoscritti vogliono invece rispondere alla domanda sul perché, portandoci indietro al rapporto originario tra uomo e natura e tra uomo e uomo: per Marx c’è una continuità fondamentale, l’uomo è rapporto con la natura (la natura è il corpo inorganico dell’uomo) e ha un rapporto organico con gli altri uomini. Accade però che questa continuità si spezza e che l’uomo appare frammentato, e questa continuità dà luogo ad una disgregazione che a sua volta apre la strada alla storia dell’uomo come storia dell’oppressione.

È l’alienazione che cerca di spiegare l’oppressione e lo sfruttamento (e non è invece il contrario), ma è anche vero che non si può semplicemente concludere che questa è la filosofia di Marx, poiché questa filosofia la si indica nella filosofia della praxis, mentre la teoria dell’alienazione è una spiegazione radicale della regola della storia umana, ossia del fatto dell’oppressione.

La storia umana presuppone anzitutto il segno negativo, ossia la negatività del bisogno e la negatività del lavoro: Marx nell’Ideologia Tedesca comincia con la negatività del bisogno, per cui l’uomo è attraversato da questa mancanza ed è costretto dalla natura a produrre la sua vita: i bisogni negativi sono quelli dettati dalla natura e non ordinati dall’uomo stesso. Nella stessa Ideologia Tedesca Marx scrive che la soddisfazione del 1° bisogno (ossia il bisogno naturale) trasforma la natura stessa del bisogno, il bisogno si moltiplica e da naturale diventa umano: nel comunismo l’uomo pone a sé stesso i suoi fini ed i suoi bisogni non sono più ordinati dalla natura, ma da sé.

Nei Manoscritti il bisogno da negatività si converte in fatto umano: l’uomo non usa più il “grido della natura” per salvarsi dalla morte (come indicava Rousseau), ma cresce le sue possibilità di comunicazione: da un bisogno naturale iniziale nasce un bisogno ed un fine umano. La stessa cosa accade per il lavoro: nella storia dell’oppressione il lavoro è negatività, è un prezzo che viene pagato, tanto che il signore antico fonda una civiltà e l’idea di libertà emancipandosi dalla pena del lavoro, lasciandolo al servo e allo schiavo.

Come nel caso del bisogno, Marx opera la conversione della negatività del lavoro nella positività del lavoro, che nella sua visione diventa realizzazione dell’essenza dell’uomo, cambiando segno rispetto al modo con cui il signore lo aveva considerato: la negazione del lavoro spiega l’origine dell’oppressione ed essa stessa è la radice dell’alienazione. L’alienazione è il motivo per cui l’umanità si spezza e si divide in due generi opposti, poiché il signore ha la necessità di delegare ad altri questa funzione animale.

Marx arriva a questa tesi soprattutto grazie a Hegel e a Locke (col suo 2° Trattato sul Governo e la sua teoria sul diritto di proprietà), e arriva a leggere il lavoro come oggettivazione e come realizzazione dell’essenza umana: l’alienazione si fonda su questa conversione deformata della positività (che Marx chiama oggettivazione) in negatività, ovvero la negazione del valore del lavoro e della praxis, e quindi espropriazione del prodotto del lavoro, ossia espropriazione di quella che Marx chiama essenza generica (Gattungswesen) dell’uomo.

La critica che Arendt rivolge a Marx su questo punto, correggendolo con la distinzione tra ciò che è lavoro e ciò che è opera: per Marx il lavoro è sempre opera, è sempre oggettivazione della prassi, è l’uomo che pone a sé stesso i suoi fini e si oggettiva nel prodotto della sua oggettivazione. In Marx nella società borghese l’uomo è alienato è espropriato del prodotto, ma non perde la capacità di oggettivazione di sé poiché altrimenti non sarebbe il soggetto della rivoluzione, anche il capitalista è alienato ma egli è solo alienato poiché non oggettiva sé stesso.

Il proletario è oggettivazione di sé e al tempo stesso alienazione, e per questo il proletario liberando sé stesso paradossalmente libera l’intera società ed anche il capitalista, poiché il lavoro positivamente considerato è oggettivazione, espressione di sé.

L’alienazione non è invenzione di Marx, ma è un grande e importante concetto della storia della filosofia:

  • Ne parla Tommaso Campanella nella Metafisica, parlando di quando l’oggetto perde valore
  • Rousseau nel Contratto Sociale, nel 6° capitolo del 1° libro, ne parla nei termini dell’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: è l’alienazione di ciascun associato alla volontà generale che fonda la volontà generale.
  • Nella lingua tedesca ci sono due espressioni che si possono più o meno tradurre con alienazione, Entoisserung ed Entfremdung: Entoisserung ha dentro di sé l’alterità, l’altro, mentre Entfremdung ha dentro di sé l’estraneità, l’estraneo.

L’alienazione ha dentro di sé questi due significati, ed in Hegel compare prevalentemente come Entoisserung: il farsi altro è un’esperienza di arricchimento, un farsi altro che arricchisce la natura del soggetto (ad esempio, il farsi altro dello Spirito nella Natura per diventare più compiutamente Idea).

In Feuerbach invece l’alienazione è prevalentemente Entfremdung poiché ha il carattere della perdita di sé, nella proiezione della sua essenza di vita che l’uomo fa nella figura di Dio: l’uomo si aliena nel senso di una perdita secca, poiché senza l’elemento della coscienza di ciò che succede (ossia la consapevolezza) toglie a sé stesso e proietta nell’immagine di Dio, di cui dimentica la genesi e che crede indipendente da sé.

In Marx è presente l’alienazione in entrambe le accezioni:

  • Essa è presente sia come Entoisserung, ed essa intesa come oggettivazione (ciò che Arendt chiama opera): l’uomo essenzialmente realizza la sua essenza alienandosi nel prodotto, cioè oggettivandosi.
  • Ma è anche presente come Entfremdung, ossia l’alienazione dell’operaio nella fabbrica moderna: Marx, riprendendo quasi letteralmente un’espressione di Feuerbach, scrive che più l’operaio trasferisce nel prodotto, nella società capitalistica, più toglie a sé stessa, e diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce.

La teoria dell’alienazione presente nei Manoscritti si presenta come una sorta di crescendo musicale di tre diversi tipi e accezioni di alienazione, in cui dall’aspetto economico (che consiste nell’alienazione del prodotto) si arriva progressivamente all’aspetto più propriamente filosofico (l’alienazione della propria essenza generica di uomo):

  • La prima figura la si comprende solo se si tiene presente cosa significhi per Marx lavoro e prassi umana: l’operaio mette sé stesso nel prodotto, si oggettiva e attraverso questa oggettivazione abbandona la dimensione animale (la sua umanità è nell’opera che ha compiuto, nel suo prodotto). –Con questo determinarsi nell’opera l’operaio crea un mondo artificiale e abbandona la ripetitività della natura, fondando una storia, che ha una base naturale ma che la oltrepassa continuamente.

L’uomo si oggettiva in una storia e in una civiltà, realizza sé stesso secondo fini razionali (ossia posti da lui stesso, l’uomo diventa sostanzialmente prassi razionale); nella società capitalistica l’uomo, nella figura dell’operaio, continua a oggettivarsi e a conferire valore alla natura, fondando una storia, ma la merce è espropriata al lavoratore: questo può rendersi come l’immagine di una vera e propria rapina, dove però bisogna capire cosa venga derubato.

Viene derubato qualcosa di fondamentale dell’essere umano, e si pone di fronte all’operaio come una potenza indipendente e come qualcosa che gli è estraneo; la sua oggettivazione diventa estraniazione, l’uomo si realizza nell’oggetto ma il suo oggetto gli viene sottratto. Con questa prima figura dell’alienazione avviene quindi la conversione del positivo nel negativo.

  • Vi è poi una seconda figura, che è quella decisiva, ma che è anche una conseguenza della prima figura (ossia dell’espropriazione del prodotto); nella società borghese l’operaio non è espropriato solo della cosa, cioè della merce che lui produce, ma dentro il suo prodotto c’è qualcosa di più: quello che viene sottratto all’operaio è l’atto della produzione, la praxis stessa. –> Espropriare l’atto della produzione significa espropriare l’umanità e la capacità di oggettivazione dell’operaio, la sua creatività.

In questa seconda figura appare un concetto fondamentale dei Manoscritti, quello dell’animale: essere ridotti all’animale significa essere ridotti ad un essere e ad un’esistenza che è separata dal lavoro, un’esistenza che si limita a consumare l’oggetto per la sua sopravvivenza e opera un semplice scambio organico, non elaborando l’oggetto e dunque non entrando nell’artificio.

La differenza tra l’uomo e l’animale è tutta in questa prassi razionale, cioè in questa capacità di oggettivazione dell’uomo: l’uomo lavora non solo per rispondere al bisogno dettato dalla natura, ma per creare un mondo artificiale e dunque per rispondere a bisogni e a fini che lui stesso si pone.

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La Logica di Hegel secondo Georges Noël

Carlo Furzi, Massimiliano Polselli

Questo lavoro deve servirci a posizionare la logica nell’insieme delle scienze filosofiche. Compito arduo perché, per far ciò, si deve poter dare una divisione (Einteilung) generale della filosofia nelle sue diverse branche. E questa divisione presuppone una comprensione del tutto che, per definizione, fa ancora difetto all’inizio dell’esposizione sistematica. Di nessuna filosofia, d’altronde, si può dare una rappresentazione preliminare e generale che sia soddisfacente, perché il contenuto e l’articolazione di questa rappresentazione anticipata non si giustifica, in fin dei conti, che attraverso la genesi sistematica, progressiva e necessaria della stessa esposizione scientifica.

La filosofia è, infatti, la scienza dell’Idea, come vedremo immediatamente, e solo il tutto della scienza è la vera rappresentazione (Darstellung) dell’Idea in sé stessa e non soltanto la sua presentazione (Vorstellung) schematica, atta cioè a soddisfare i bisogni della nostra intuizione o della nostra immaginazione. Pertanto la suddivisione della filosofia in scienze particolari non può essere realmente “concepita” o “compresa” (begriffen) – e dunque non soltanto “rappresentata” – che a partire dall’Idea stessa nel suo sviluppo totale. Pertanto, come noi la presentiamo ora, questa divisione non è ancora il prodotto dell’auto-partizione dell’Idea – come sarà invece nei §§ 244 e 376 -, ma soltanto un qualcosa di anticipato, una classificazione astratta dei diversi momenti dell’Idea. Quanto al concetto proprio dell’Idea, anch’esso è soltanto anticipato, esattamente come la divisione che ne deriva, perché sarà proprio e solo nel corso della Logica, e precisamente al § 212, che si produrrà il concetto dell’Idea. Da ciò segue che, qualora si voglia offrire una classificazione delle scienze filosofiche e collocarvi all’interno la scienza della logica, si deve necessariamente iniziare con il chiarire questo termine “Idea”, “Idea assoluta”, per quanto ovviamente sia possibile fare al di fuori di una stretta genesi sistematica.

Per prima cosa, per cogliere la portata speculativa dell’“Idea” hegeliana, ci si può riferire al Nοῦσ di Anassagora o all’Idea platonica o, ancora, al Logos stoico. Si può anche pensare alla terza Idea kantiana, l’Idea teologica della Ragion pura, ma a condizione di notare che, in Hegel, il fossato tra l’Idea noumenale e il fenomeno è livellato al punto che l’Idea, contrariamente a ciò che accade in Kant, è per il filosofo di Stoccarda sovranamente oggettiva ed è anche, come in Cartesio e soprattutto in Spinoza, l’oggetto proprio del Cogito, per quanto esso si espanda alle dimensioni del pensiero puro o dell’intelletto divino. L’Idea è, dunque, l’intelligibilità di ogni cosa, il pensiero che anima tutto e di cui tutto è un riflesso, una partecipazione. È il tutto nella sua intelligibilità. L’Idea, è ogni cosa in quanto forma intelligibile trasparente per il pensiero, ed è questa stessa trasparenza. Essa è l’Eἶδος, l’Iδέα, la “Visione” nel triplo senso soggettivo, oggettivo e assoluto di ciò che vede, di ciò che è visto e dell’atto stesso del vedere. Per meglio dire, l’Idea, come suggerisce lo stesso Hegel, è la Nόησις νοήσεως di Aristotele, il pensiero che si pensa e che, pensandosi, pensa tutto ciò che è pensabile, vale a dire ogni cosa. È ad essa che sono sospesi i cieli e la terra, perché al fondo di ogni cosa c’è il pensiero e fuori di esso (ma non esiste un fuori) tutto il resto (ma non esiste un resto) è “errore, confusione, opinione vana, agitazione, volontà arbitraria e apparenza passeggera: solo l’Idea assoluta è Essere, vita imperitura, verità che si sa essa stessa e ogni verità”. Ora, se anticipiamo i §§ che vanno dal 213 al 215 e il § 236, vediamo come l’Idea si rivela essere il pensiero puramente e semplicemente identico a se stesso, e ciò, nello stesso tempo, sia in quanto attività che consiste, al fine di essere per sé, nel porre se stessa davanti a sé (sich gegenüber) sia, d’altro canto, nel non essere che presso se stessa. In altri termini, l’Idea è prima di tutto un universale, una Totalità dalla quale, in poche parole, non si esce mai. È il Pensiero che, qualunque cosa sia e qualunque cosa pensi, s’afferma e si conferma sempre come Pensiero e così rimane identico a se stesso. L’Idea, colta in quella purezza e in quella astrazione attraverso le quali è pura intelligibilità che si coglie come intelligibilità pura, è l’oggetto della Scienza della Logica, che è pertanto la scienza dell’Idea come Logos universale o, come dice Hegel, dell’Idea in e per sé, con la duplice sfumatura di astrazione e di purezza ma anche di totalità e di assenza di unilateralità, implicita nell’espressione “in-e-per-sé”. Ma, a ben guardare, in questa definizione dell’Idea considerata come il pensare identico a se stesso, c’è ben più della semplice universalità logica del Pensiero. Infatti, come verrà verificato più di una volta in seguito, non c’è in Hegel una vera affermazione se non attraverso la prospettiva della negazione della negazione. Allo stesso modo in cui l’Infinito hegeliano, per esempio, non è nient’altro che la negazione di quel nulla che è il Finito, così l’identità con sé che è il Pensiero, altro non è se non la negazione della sua differenza con sé.

Nell’espressione “identico con sé” (e specialmente nella preposizione “con”) si trova così descritto un simile processo di identificazione con sé: il Pensiero è identico a sé perché differisce da sé e nega questa differenza. La distanza da sé a sé implicata da questa identificazione con sé costituisce l’Idea come Natura e, per questo, fonda la Filosofia della Natura, che è, nella terminologia hegeliana, la scienza dell’Idea nel suo essere-altro, cioè dell’Idea nella sua alterità, nella sua differenza con sé, nel suo allontanamento da sé, nella sua particolarità nel senso etimologico di “partizione”, “separazione”. Quanto all’atto stesso dell’identificazione con sé proprio del Pensiero, atto implicato dal “sé” dell’espressione “identico con ”, quanto cioè al processo di ritorno a sé fuori dalla differenza e dalla coincidenza attiva con sé, esso è, invece, costitutivo dell’Idea come Spirito e fonda la Filosofia dello Spirito, vale a dire la scienza dell’Idea che, dal suo essere-altro, ritorna in sé. È la scienza dell’Idea non più nella sua universalità logica né nella sua particolarità naturale, ma nella sua singolarità spirituale di atto che dispone sovranamente di sé.

Tali sono dunque, a livello di una rappresentazione anticipatrice, le grandi divisioni della scienza filosofica. Il risultato che ci interessa in primo luogo in questa classificazione è che la Logica può essere definita provvisoriamente come la scienza dell’Idea “in e per sé”. Questo modo di vedere ci richiede, però, qualche nota.

Come indicato nel corpo del paragrafo, le differenze fra le diverse scienze filosofiche particolari non sono che determinazioni dell’Idea stessa: esse corrispondono ai differenti momenti dell’Idea. È dunque l’Idea stessa e soltanto l’Idea che si rappresenta (sich darstellt) in quei differenti elementi. In effetti l’unica Idea della filosofia si rivela essere il pensiero puramente e semplicemente identico con sé (è l’Idea-Logos) e questo, nello stesso tempo, – e qui si trova esplicitato ciò che è contenuto nell’espressione “pensiero identico con ” – come l’attività che consiste, al fine di essere per sé (è l’Idea-Spirito), nel porre se stessa di fronte a sé e, in questo altro (è l’Idea-Natura), a non essere che presso di (è l’Idea logica posta dallo Spirito nella sua identità e nella sua continuità assolute con sé).

Pertanto, il Logos, la Natura e lo Spirito non sono che tre momenti parziali e passeggeri dell’unica Idea assoluta la cui totalità si riflette in ciascuna di queste tre Idee determinate, Idee che, evidentemente, riprendono le Idee del primo Schelling e, oltre Schelling, le tre Idee kantiane della ragione: Dio, il mondo e l’anima (cfr. § 15). Da allora, non c’è nella natura qualcosa d’altro dall’Idea che potrebbe essere conosciuto ma unicamente l’Idea – la stessa Idea del Logos -; esclusivamente, nella natura, l’Idea è nella forma del suo essere-altro o, più precisamente, della sua esteriorizzazione o della sua alienazione (Entäusserung). Ugualmente, nello Spirito, non c’è nient’altro che l’Idea e neppure un’altra Idea che si presenti; è la stessa Idea, ma la stessa Idea in quanto essente per sé e diveniente in e per sé. Che significa tutto ciò?

Abbiamo visto che il Logos è l’Idea in e per sé e che così la Logica è la scienza dell’Idea in e per sé, cioè la scienza dell’Idea pura, della pura intelligibilità nell’astrazione del suo solo pensiero di sé, la scienza dell’Idea che non ha ancora né la parzialità di un in sé-naturale, né quella di un per sé spirituale, ma che dimora nell’imparzialità del suo in-e-per-sé logico e così non ha altra parzialità che la sua stessa imparzialità. Il culmine di questa scienza della logica, è, dunque, l’Idea assoluta in quanto Idea logica, vale a dire in quanto Idea che si pensa essa stessa come Idea pura al di fuori del tempo e dello spazio, dell’uomo e della storia. In questo movimento e attuazione di sé si trovano certamente già iscritti in filigrana il momento naturale dell’opposizione di sé a sé e il momento spirituale del ritorno attivo a sé. Invero, in quanto Pensiero che si pensa, esso è, allo stesso tempo, il soggetto (il Pensiero), l’oggetto (si) e l’avvenimento assoluto (pensa) di quest’atto del pensare. Ma nella Logica, questi due altri momenti dell’Idea, il momento naturale e quello spirituale, non sono pensati che, precisamente, nella loro universalità logica, nella loro idealità pura: il primo in quanto oggettività e il secondo in quanto soggettività o concetto dell’Idea assoluta. Il Concetto, l’Oggetto e l’Idea sono di fatto i tre momenti logici dell’Idea assoluta. La Natura e lo Spirito non sono allora nient’altro che l’esistenza reale (real), autonoma e, in certo modo, separata di questi due aspetti, soggettivo e oggettivo, dell’Idea assoluta, ai quali si rende così piena giustizia. Come l’Idea logica è l’Idea assoluta esistente liberamente, o meglio allo stato libero, nel suo momento universale di pura intelligibilità che comprende essa stessa in e per sé, la Natura è la stessa Idea assoluta che esiste liberamente nel momento particolare e contraddittorio della sua oggettività o del suo in-sé, cioè nella coincidenza immediata e statica con sé in cui si aliena la pura mobilità dell’Idea, e lo Spirito è la stessa Idea assoluta che esiste liberamente nel momento singolo del suo per-sé, ovvero nella sua attiva liberazione da sé e nel suo ritorno soggettivo a sé grazie alla posizione di sé per sé.

Ciò nondimeno, al culmine del suo sviluppo, lo Spirito, in quanto Spirito assoluto, coglie ancora una volta e in modo nuovo la sua pura intelligibilità ideale attraverso l’arte, la religione e la filosofia e torna così, percorse le vicissitudini della libertà umana e della storia universale, all’apprendimento dell’Idea assoluta nell’in-e-per-sé e della sua trasparenza logica a se stessa. È per questo che lo Spirito non è soltanto l’Idea in quanto essente per sé, ma anche l’Idea in quanto diveniente in sé e per sé. Ecco che allora il sistema enciclopedico delle scienze filosofiche si chiude con il ritorno al suo punto di partenza, cioè alla scienza della logica come scienza dell’Idea pura in e per sé, con la differenza, tuttavia, che quell’Idea logica che all’inizio non era ancora che la possibilità di ogni cosa, si avvera essere, al termine del cammino, la realtà sostanziale di ogni cosa, la fine ultima nella quale si cancella, a profitto dell’in-e-per-sé dell’Idea logica assolutamente universale, la doppia unilateralità, oggettiva e soggettiva, della Natura (Idea in sé) e dello Spirito finito (Idea essente per sé e diveniente in e per sé).

Il fatto che né il Logos, né la Natura, né lo Spirito siano altra cosa rispetto all’Idea assoluta si traduce nella fluidità e nella continuità del loro passaggio gli uni negli altri. La verità del sistema è, in effetti, l’unica Idea assoluta. Certo, essa non esiste astrattamente al di fuori delle tre sfere del Logos, della Natura e dello Spirito, ma nondimeno essa trascende ognuna di queste come un momento astratto di sé. Questa trascendenza dell’Idea assoluta in rapporto alle tre Idee particolari nelle quali pure si presenta, si manifesta proprio nel passaggio necessario da una sfera all’altra. Sia che si tratti del Logos, della Natura o dello Spirito, tale determinazione, nella quale l’Idea si mostra, è dunque e nello stesso tempo, malgrado l’alterità o la distinzione dell’elemento particolare che essa costituisce, un momento fluido (fliessendes), ossia un momento transitivo che, man mano che si compie e si totalizza, scorre e passa nel successivo. È per questo che ogni singola scienza (la Logica, la Filosofia della Natura o la Filosofia dello Spirito) non ha per vocazione esclusivamente la conoscenza del suo proprio contenuto (il Logos, la Natura o lo Spirito) come un oggetto che è (seienden), ossia come un oggetto marcato dall’immediatezza, l’immobilità e l’identità astratte dell’Essere: invero, essa consiste anche nella conoscenza di come, immediatamente, avvenga in ciascuno di questi contenuti il passaggio a una sfera superiore. La Logica non conosce quindi soltanto il Logos in quanto Logos, ma anche il Logos come passaggio dal Logos alla Natura (§ 244); analogamente, la Filosofia della Natura non conosce soltanto la Natura in quanto Natura, ma anche la Natura come passaggio dalla Natura allo Spirito (§ 376) e, ancora, la Filosofia dello Spirito non conosce soltanto lo Spirito in quanto Spirito, ma anche lo Spirito come ritorno dello Spirito assoluto al pensiero puro del suo principio logico originale (§ 574).

In conseguenza a quanto appena detto, la rappresentazione che suddivide in tre parti distinte la totalità della scienza ha questo di non corretto: che pone le parti o scienze particolari le une giustapposte alle altre, senza indicare la loro fluidità in seno all’unica Idea totale, come cioè se si trattasse soltanto di parti immobili che poggiano sostanzialmente su se stesse, allo stesso modo in cui, in un genere, le specie diverse hanno la loro sostanzialità propria e autosufficiente.

La Logica è la scienza dell’Idea in e per sé. Abbiamo visto che l’espressione “in e per sé” designa allo stesso tempo l’assenza di unilateralità e, attraverso questa, l’astrazione dell’Idea logica come intelligibilità che comprende se stessa. È questo aspetto di astrazione che è messo per primo in evidenza quando si dice che la Logica è la scienza dell’Idea pura. È la scienza dell’Idea in quanto questa è il Pensiero di sé e soltanto di sé e non la scienza dell’Idea in quanto essa si realizza nelle forme più concrete della Natura e dello Spirito. La “purezza” che qui è in questione ha, pertanto, un significato originariamente privativo, nel senso che la Logica viene a indicare la scienza dell’Idea nell’elemento astratto del pensiero o, meglio, del pensare (des Denkens): non riguarda che la pura forma della verità in quanto tale, o il pensare del pensare. Tuttavia, se la Logica è sicuramente la scienza dell’Idea pura, cioè dell’Idea che si muove nell’elemento o nell’ambiente astratto del pensare come tale, resta il fatto che è l’Idea che è presente in questo elemento, che è essa che ci si mette, e solo così si dispiega effettivamente in essa la ricchezza del pensare. Quindi, per quanto possa apparire vera, la definizione secondo cui la Logica è la scienza del pensare, delle sue determinazioni e delle sue leggi rischia nondimeno di velarne la ricchezza se, in questa definizione, non si presta attenzione che a un solo pensiero il quale, considerato astrattamente in quanto tale, è soltanto l’elemento o la determinazione generale nella quale è l’Idea in quanto logica. Ma, ripetiamolo, in questo elemento astratto, è l’Idea che si trova e che si mette. Questo è vero perché l’Idea logica, sebbene abiti nell’elemento astratto del pensare, rimane comunque e sempre sovranamente concreta. Essa è il pensare, non in quanto pensare formale – come nella logica formale tradizionale – ma in quanto totalità in sviluppo di determinazioni e di leggi proprie che il pensare dà a se stesso dispiegando, determinazioni e leggi che esso non ha e che quindi non trova in se stesso come cosa nota, ma che genera lasciando dispiegare in sé la ricchezza in movimento e vitale dell’Idea. Benché sia la forma assoluta della verità e anche la pura verità, il Logos non è dunque, nonostante la sua astrazione e la sua purezza, una entità puramente e semplicemente formale, sprovvista di contenuto. Non solamente il Logos è la verità in e per sé e quindi la forma assoluta della verità, ma esso dispiega anche, secondo la totalità del suo sviluppo, la ricchezza di tutte le determinazioni che formano il contenuto del pensiero e la cui logica speculativa è la scienza sistematica. Se dunque il Logos è astratto in rapporto alle realtà naturali e spirituali di cui è pur sempre essenza intelligibile, esso è nondimeno sovranamente concreto, non solo perché è il fondamento intelligibile di queste realtà, ma anche e soprattutto perché è in se stesso la vita e il movimento del Pensiero che si pensa.

Dovremo tenere bene in mente tutto questo all’inizio della logica propriamente detta, ovvero al § 86.

L’Essere puro, che è la prima categoria della logica, vi sarà infatti presentato come “puro pensiero” (reiner Gedanke). A questo stadio iniziale è evidentemente la purezza o l’astrazione del pensare immediato e originale ad essere sottolineata e non già il fatto che questa immediatezza incoativa sia quella del pensare. Per questo Hegel si serve, nel § 86, del termine Gedanke (“Pensiero”), che designa il prodotto del pensare – e dunque l’oggetto della logica – in ciò che esso ha di più formale e di più indeterminato. Non sarà che in seguito, nel corso progressivo e soprattutto finale della logica, che si rivelerà la ricchezza concreta di questo pensiero e che il Logos si manifesterà non più soltanto come

“puro pensiero” ma anche come totalità pensata e pensante dell’Idea assoluta, come universo concreto del Pensiero che pensa se stesso. A dispetto della sua importanza, la bella Nota di questo § 19 non necessita di un commento dettagliato, pertanto ne abbiamo riportato i passaggi più significativi, secondo il nostro punto di vista, nel commento del corpo del paragrafo.

La Logica è la scienza della logica, ossia del Logos o dell’Idea pura in e per sé. Vedremo nel § 83 che, dal punto di vista del contenuto, la logica si divide in tre parti nelle quali si espone la totalità delle determinazioni del pensiero. Ma, in ogni momento della logica, la logicità stessa ha, secondo la forma, tre lati o aspetti: α) l’aspetto astratto o rilevante per l’intelletto (verständige); β) l’aspetto dialettico o negativamente-razionale; γ) l’aspetto speculativo o positivamente- razionale. Questi tre aspetti della logica saranno studiati nei tre paragrafi seguenti. Prima di iniziare la loro lettura, ci si soffermerà qualche istante sulla Nota del § 79.

I tre lati o aspetti formali della logica non costituiscono tre parti nelle quali si suddivide il contenuto totale dell’Idea logica. Sono piuttosto momenti di completa realtà logica (jedes Logisch-Reellen), cioè di ogni concetto logico e di tutto ciò che è vero in generale. Essendo il primo di questi momenti, il momento dell’intelletto astratto, ovvero quello della separazione delle determinazioni del pensiero – come vedremo tra breve – è possibile, afferma Hegel, porre anche tutti questi tre momenti formali sotto il segno di un tale isolamento astratto e tentare allora di far corrispondere ciascuno di questi momenti a una parte determinata della logica, ma, così facendo, essi non verrebbero più considerati nella loro verità, come cioè aspetti formali onnipresenti, risultando, al contrario, privi del loro significato proprio.

Notiamo infine che l’indicazione qui fornita delle determinazioni formali della Logicità (§§ da 79 a 82), esattamente come quella circa la divisione del contenuto della logica (§ 83), è soltanto anticipata e storica, allo stesso titolo della classificazione delle scienze filosofiche offerta nel § 18. Detto altrimenti, si fa qui soltanto inventario (ίστορία) del pensiero senza mostrarne ancora la necessità processuale e immanente.

α) In quanto INTELLETTO astratto, il pensare (o il pensiero) si attiene alle determinazioni isolate e fisse del Logos. Esso poggia sulla determinazione rigida e rigidamente separata, e dunque sul suo carattere differenziato (Unterschiedenheit) in rapporto ad altre determinazioni; ed è una tale entità astratta, una tale astrazione delimitata (beschränktes Abstraktes) che vale per l’intelletto come avente per sé consistenza e quindi come essente per sé. É cosi, per esempio, che nella triade dell’Essere, del Nulla e del Divenire, l’intelletto si aggrappa a ciascuna categoria presa isolatamente, come se avesse una verità in se stessa e per sé sola e si sforza di preservarla dalla contaminazione derivante dal rapporto con le altre categorie. Non si dovrebbe, pertanto – malgrado le espressioni hegeliane che ci invitano a farlo – considerare questo “intelletto” da un punto di vista soltanto soggettivo ed esteriore. L’intelletto è, invero, un momento formale del pensiero logico come tale e non soltanto un aspetto della nostra riflessione soggettiva. Il pensare logico è dunque esso stesso oggettivamente intelletto, nella misura in cui comincia a dispiegare discorsivamente le determinazioni del pensiero sotto forma di categorie rigide, separate astrattamente le une dalle altre.

β)        Il secondo aspetto formale della Logicità è il MOMENTO DIALETTICO o NEGATIVAMENTE-RAZIONALE. È il momento, presente ovunque nella logica, nel quale le determinazioni finite dell’intelletto, cioè le categorie logiche isolate le une dalle altre e astrattamente opposte le une alle altre, si sopprimono da sole, per il loro movimento proprio, e passano nelle loro determinazioni o categorie opposte. É così, per esempio, che il positivo, determinazione finita che l’intelletto mantiene astrattamente in disparte dal negativo, si rinnega esso stesso con il suo movimento immanente e passa nel suo opposto, il negativo.

Questo aspetto della Logicità è chiamato “dialettico” perché in esso è messo in evidenza il momento intermediario o transitivo (διά), quello attraverso il quale il Logos (λόγος) passa da una categoria all’altra e le attraversa tutte. La Nota precisa ancora il senso propriamente hegeliano di tale vocabolo. Il momento dialettico è chiamato anche “negativamente-razionale” perché nella misura in cui, all’opposto dell’intelletto separatore, la ragione qui si presenta come capacità di cogliere l’unità concreta dei contrari, il suo lavoro comincia negativamente con la dissoluzione delle determinazioni fisse e la loro transizione nei loro opposti.

  • Se l’intelletto si impadronisce esso stesso del momento dialettico e, separandolo dall’intelletto stesso (primo momento) e dalla ragione (terzo momento), lo considera separatamente per sé, vale a dire come un momento isolato, allora il dialettico (das Dialektische) costituisce, soprattutto se lo si applica a concetti scientifici, lo scetticismo coltivato nell’Antichità. Diviso dall’intelletto che esso presuppone e dalla ragione positiva nella quale sfocia, il momento dialettico non è più, in effetti, che la negazione astratta di ogni determinazione di pensiero. Lo scetticismo, che contiene così la negazione pura e semplice come risultato del dialettico astratto, è quindi quel momento del pensiero razionale nel quale la dialettica è invocata per contestare ogni posizione chiusa e rimettere in questione il potere abituale del conoscere stesso. Esso richiama, ancora vuota, una conoscenza superiore – e questo è il suo merito – senza però contenerla in modo positivo.
  • La dialettica – ed è questa una delle sue accezioni più ricorrenti – è considerata da coloro che la praticano abusivamente alla stregua di un’arte estrinseca e sofistica che, in modo arbitrario, genera confusione nei concetti determinati producendo in essi una semplice apparenza di contraddizioni tale che, agli occhi del buon senso popolare, non sono affatto queste determinazioni concettuali a essere screditate, ma piuttosto quel certo scetticismo superficiale e soggettivo che si diverte a trastullarsi con presunte contraddizioni. In questo contesto, è dunque l’apparenza (ingannatrice) di contraddizioni che appartiene al Niente e non i concetti determinati nei quali la sofistica pretende di scoprire queste contraddizioni e, invece di essere la dialettica, così intesa, a fornire la verità, è piuttosto l’intelletto ad essere nel vero, poiché conserva fermamente i suoi concetti determinati. Inoltre – ed è questo il suo peggior decadimento – spesso la dialettica non è stimata essere nulla più che un sistema soggettivo di bilanciamento: un’altalena di razionalizzazioni sprovviste di qualsiasi contenuto consistente e costretta, per questo, a dissimulare il proprio vuoto sotto la maschera di uno spirito acuto che genera tali ragionamenti. Nell’epoca moderna, il grande merito di Kant consiste nell’aver restaurato la dialettica in un senso oggettivo. Kant ha infatti mostrato che certe determinazioni di pensiero sono, per la loro stessa natura, necessariamente contraddittorie e capaci, qualora la ragione le applichi alle cose in sé, di inchiodare per questo a invincibili illusioni; disgraziatamente egli ne ha tratto però la conclusione che è la Ragion pura che è inferma e impotente e non già queste stesse determinazioni finite. – Nella sua determinazione propria e autentica, la dialettica è piuttosto, contro ogni dialettica soggettiva e contro la dialettica kantiana, la natura propria e vera delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale, natura immanente attraverso la quale queste determinazioni, queste cose e il finito in generale sopprimono essi stessi la loro non-verità e passano nel loro contrario al fine di formare, con esso, una unità concreta e vera. La dialettica si coniuga, così, alla riflessione, e tuttavia, al contempo, se ne distingue. La riflessione, infatti, non è nient’altro che un mettere in rapporto, in maniera esteriore ed estrinseca, le determinazioni, le quali rimangono così astrattamente ripiegate su se stesse; essa è cioè, per prima cosa, soltanto il semplice superamento (Hinausgehen) della determinazione isolata e una messa in relazione di quest’ultima per mezzo della quale essa è posta in rapporto a un’altra pur essendo mantenuta nel suo isolamento. È così, per esempio, che la riflessione mette in rapporto il positivo con il negativo, senza cioè contestare che il positivo sia in se stesso e per se stesso puramente e semplicemente il positivo. La dialettica, al contrario, è quel superamento immanente in cui la natura unilaterale e limitata delle determinazioni finite dell’intelletto si presenta per ciò che essa è, ossia come loro negazione. Ogni determinazione finita e limitata è pertanto, proprio perché finita e limitata, una negazione. L’unilateralità delle determinazioni dell’intelletto e il loro carattere limitato sono dunque ciò che, dall’interno, le nega e le spinge all’annientamento. Tutto ciò che è finito ha così, per propria natura, quella di esibire la negazione attraverso la quale esso è soltanto finito, limitato, determinato e quindi negato; la sua natura propria di finito è, pertanto, di avere una fine, di finire e, infine, di esprimersi da solo. Così intesa, la dialettica è quel movimento immanente attraverso il quale le determinazioni finite si sopprimono e passano nei loro opposti: il positivo nel negativo, il Finito nell’Infinito, ecc. In quanto assicura il superamento di ogni categoria finita, il dialettico costituisce, allo stesso tempo, l’anima motrice (die bewegende Seele) della progressione scientifica e il solo principio attraverso il quale una connessione e una necessità imminente si introducono nel contenuto della scienza: è infatti solo per mezzo di un superamento esso stesso immanente, e non già mediante una riflessione estrinseca, che una transizione da una determinazione ad un’altra è assicurata; alla dialettica immanente della Cosa stessa corrisponde così la dialettica, pur sempre immanente, dello sviluppo della scienza.

Infine, a livello più generale, è nella dialettica come auto-soppressione e trasgressione immanenti alle determinazioni finite che risiede la vera elevazione, l’elevazione non esteriore, al di sopra del finito. Troppo spesso il pensiero metafisico si è elevato al di sopra del finito in modo arbitrario o esteriore; nella vera dialettica, invece, il finito si eleva da solo, si potrebbe dire, al di sopra di se stesso e passa così alla sua più alta verità.

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Analisi della Metafisica di Aristotele

Scritti in memoria di Enrico Berti
Prof. Klaus von Agris, Ph.D. Massimiliano Polselli

Das Wesen Gottes, konstituiert durch reine Wirklichkeit Die Substanz, die handelt bewegt sich, ohne bewegt zu werden. Die intrinsische Gleichmäßigkeit der ersten Bewegung in der Antriebsmaschine. Die Bewegung erfolgt einheitlich, d. h. entsprechend der örtlichen Kreisbewegung, die keine Alterität im Hinblick auf die intrinsischen Bestimmungen des Möbelstücks (Substanz, Quantität, Qualität), sondern ausschließlich im Hinblick auf die extrinsische Bestimmung des Ortes impliziert . Der erste Beweger weist eine absolute Gleichmäßigkeit (sowohl intrinsisch als auch extrinsisch) in seiner aktiven Bewegung auf; es ist daher absolut bewegungslos. Tatsächlich würde sich der erste Beweger an der Grenze mit der möglichst gleichmäßigen Bewegung bewegen, d. h. der lokalen Kreisbewegung, aber er kann sich nicht danach bewegen, weil er sich aktiv danach bewegt. Tatsächlich bewegt sich der First Mover nicht mit der Bewegung, mit der er aktiv die anderen Möbelstücke bewegt. Die Existenz des ersten unbeweglichen Bewegers wurde bereits zuvor nachgewiesen und im Beweis wurden zusätzlich zu seiner Existenz bereits einige seiner wesentlichen Eigenschaften erhalten, vor allem seine Substantialität, Immaterialität und reine Aktualität. Nun ist es notwendig, die wesentlichen Eigenschaften der Antriebsmaschine im Hinblick auf ihre Funktionsweise zu analysieren. Die auftretende Schwierigkeit liegt auf der Hand: Einerseits muss sich der bewegungslose Motor, wie er ist, bewegen, Adererseits darf es, da es unbeweglich (rein aktuell) ist, nicht bewegt werden. Es geht also darum, eine Art von Bewegung zu finden, bei der die aktive Bewegung des Handelnden nicht bedeutet, dass er bewegt wird oder vielmehr von der Potenz zur Handlung übergeht. Natürliche Bewegung erfolgt mit Notwendigkeit und durch den Übergang von der Potenz zur Handlung. Gott hingegen unterliegt keiner Notwendigkeit und ist reine Tat, weshalb er einem Übergang von der Potenz zur Tat nicht unterworfen ist. Die freiwillige Bewegung hat eine gewisse Herrschaft über ihre eigene Realität, da sie das Ende zumindest irgendwie kennt und sich daher diesem anordnet (saltem „quodammodo“). Wenn das Wissen um das Ende vollkommen, also formal, ist, ist die Bewegung zum Ende vollkommen freiwillig, also frei. Die Bewegung des Intellekts und des Willens hängt jedoch ab von: vom Objekt e subjektiv durch das Wirkvermögen (und entsprechende Gewohnheiten), durch die Natur der Seele (bzw. der gesonderten intellektuellen Substanz) und letztlich durch das erste Motiv selbst. Der First Mover ist also kein natürlicher Handelnder, sondern ein freiwilliger Handelnder. Und er ist ein freiwilliger Handelnder, nicht subjektiv, das heißt als vom Objekt und von höheren Handelnden abhängiges Subjekt (Natur, Fähigkeit, Gewohnheit und vor allem vom ersten Handelnden), sondern als das höchste Objekt selbst des Intellektuellen und Freiwilligen Bewegung. ARISTOTELES beginnt mit der Aussage, dass der erste Akteur als verständlich und begehrenswert handelt und sagt dann einfach, dass er sich als das geliebte Gut bewege. Und in der Tat setzt der Wille Wissen voraus, aber die Analogie mit der Bewegung sensu stricto (das heißt mit der transitiven, prädicamentalen, eindeutigen Bewegung) ist im Willen deutlicher als im Intellekt, auch wenn sich beide Fähigkeiten mit einer Bewegung sensu lato bewegen (immanent, transzendental, analog gesagt). Der Intellekt ähnelt eher der formalen Kausalität, da seine Handlung in der einfachen Präsenz des Objekts im Subjekt besteht, weshalb er eine komplexe Schichtstruktur aufweist (Vielzahl von Gewohnheiten in Bezug auf verschiedene intellektuelle Handlungen). Z. B. der Intellekt der Prinzipien und die Wissenschaft der Schlussfolgerungen); Der Wille hingegen ähnelt insofern einer wirksameren endgültigen Kausalität, als sein Akt in der Tendenz des Subjekts zum Objekt besteht, einer Bewegung, die vollständig durch den Willen mittels derselben gewohnheitsmäßigen Disposition ausgeführt wird. Der erste unbewegliche Beweger fungiert dann als Ende der beweglichen und unteren Beweger und somit: I. Im Gegensatz zu einem natürlichen Handelnden unterliegt es keiner Notwendigkeit, sondern ist dem gleichen Maß an Notwendigkeit unterworfen, das es minderwertigen Dingen durch seine eigene Natur auferlegt. Es liegt in der Natur der treibenden Kraft, dass sie das höchste Gut ist (und folglich das ultimative objektive Ziel). und in diesem Sinne übt es eine notwendige Anziehungskraft auf minderwertige Entitäten aus, ohne jedoch ihr selbst unterworfen zu sein. Es ist anzumerken, dass dies das korrekte Verständnis des dionysischen Prinzips „bonum est diffusivum sui est: Das göttliche Gute breitet sich mit natürlicher Notwendigkeit über das gesamte Universum aus, jedoch nicht auf der Linie der effizienten Kausalität, wie die Emanationisten behaupten, sondern vielmehr auf der Linie der effizienten Kausalität Linie der Kausalität das Finale. Es ist von derselben Natur wie das höchste Gut, dass es der Zweck aller Dinge ist, doch der letzte Zweck selbst ist von dieser Zweckabhängigkeit ausgenommen, weil er selbst das Prinzip und die Ursache der gesamten zweckmäßigen (teleologischen) Ordnung ist, so dass Absichtlich hängen alle Dinge von ihr ab, aber sie selbst hängt von nichts ab (und ist daher vollkommen „frei“), nicht einmal von sich selbst, selbst wenn sie in sich selbst den hinreichenden Grund für ihr Sein und Sein hat.

  1. Im Gegensatz zu einem subjektiven freiwilligen Handelnden ist das erste Motiv kein Wille, der von einem anderen Gut wie von seinem Objekt abhängig ist, sondern ist selbst das höchste Gut, von dem jeder freiwillige Handelnde und auch natürliche Handelnde abhängig sind, die ebenfalls bis zum Ende geordnet sind, auch wenn, Im Gegensatz zu den freiwilligen sind sie rein passiv und in keiner Weise aktiv. Gott ist der unendliche und ungeschaffene Wille, der jedoch nicht durch den Zweck spezifiziert wird, sondern selbst sein Zweck ist, ohne jeden Grund zur Abhängigkeit (nicht einmal von sich selbst), sondern durch einfache Identität.Gott will daher nichts anderes als sich selbst als Ziel, auch wenn andere Dinge Gott als das ultimative Ziel jedes ihrer Begierden und jeder Handlung anstreben. Angesichts dieser Unabhängigkeit des göttlichen Willens von jedem bestimmenden Objekt stellt sich das Problem der subjektiven Bewegung des göttlichen Willens als fortschreitende Betätigung einer Macht gar nicht. Tatsächlich geht der Wille von der Potenz zur Tat über, sofern das Subjekt noch nicht das Ziel hat, sondern es durch seine Handlung erreicht.Bei Gott hingegen stimmen Thema, Handlung und Ziel vollkommen überein.Indem Aristoteles die Frage stellt, wie Gott, der erste unbewegliche Beweger, alle Dinge bewegt, warnt er davor, dass die Voraussetzung, die sich aus der reinen Aktualität der Ursubstanz ergibt, die ihrer absoluten Unbeweglichkeit ist.Es ist daher notwendig, eine Bewegung zu finden, die vom ersten Akteur so ausgeht, dass sie die unteren bewegt, aber so, dass der Akteur selbst völlig unverändert bleibt, was bedeutet: seine Handlung darf seinen Inhalt nicht umsetzen. Die Handlung selbst darf nicht von einem fehlenden Objekt (Ende) abhängen, das sie durch fortschreitende Umsetzung erhält. Was die Lösung betrifft.Aristoteles glaubt, eine Bewegung finden zu können, die andere bewegte und sich bewegende Wesen bewegt, ohne das eigentliche Thema der Bewegung in der teleologischen Anziehungskraft zu verändern, die ein höheres (in der Tat höchstes) Gut auf minderwertige Güter ausübt.Und tatsächlich sind die oben als Bestimmungen der Bewegung des Urhebers angegebenen Bedingungen in der finalistischen Bewegung ex parte ipsius finis (und nicht bereits, wie offensichtlich, ex parte eius quod movetur ad finis) vollkommen erfüllt. Die Anziehungskraft, die der Zweck auf die Dinge ausübt, die sich auf ihn zubewegen, ist nicht etwas, was ihm in der Art einer Handlung zur Ausübung einer Macht hinzugefügt wird, sondern sie ist die eigentliche Natur des Zwecks, der Entität, die, sofern sie Entität ist , ist gut.Zumindest auf den ersten Blick scheint es, dass das Gute die teleologische Anziehungskraft für sich selbst ausübt, ohne dass es zu einer zufälligen Neuaktivierung kommt. Tatsächlich haben bestimmte Güter jedoch keinen Grund für den Endzweck, noch entsprechen sie dem gemeinsamen formalen Gegenstand des Willens (bonum in communi) und wirken nur als Teilhabe am höchsten Gut und am Endzweck und wirken daher nicht durch ihr eigentliches Wesen, sondern als Anteile an einer höheren Natur.Allerdings ist die teleologische Handlung des Zwecks, selbst des besonderen Zwecks, keine Handlung im engeren Sinne, also eine zufällige Veränderung des Subjekts in der prädikationalen Gattung der Handlung, sondern etwas, das dem Zweck innewohnt Die Natur des Guten selbst, zu der es als Zweck konstituiert ist, selbst wenn es sich auf eine andere Natur als sich selbst bezieht, an der es Teilhabe ist. Die kausale Abhängigkeit des Partikularguts vom Universalgut vollzieht sich nicht im Sinne einer extrinsischen Kausalität (effizient/endgültig oder exemplarisch), sondern im Sinne einer intrinsischen (formalen) Kausalität, die jedoch wiederum auf effiziente Kausalität verweist (so dass a Partikulargut: Um eine Teilhabe am Universalgut darzustellen, ist es notwendig, dass das Universalgut seine formale Teilhabe am Partikulargut effizient bewirkt. Dieser Aspekt kann jedoch nur im Rahmen der Metaphysik des Seienden herausgearbeitet werden, nicht im Sinne einer einfachen Metaphysik der Form). Es bleibt jedoch absolut wahr, dass der Zweck, wie die formalste Ursache überhaupt, den Handelnden bestimmt, ohne von ihm bestimmt zu werden, und sich daher bewegt, ohne bewegt zu werden.Die Endgültigkeit bestimmter Ziele erinnert jedoch an die Abhängigkeit vom letzten Ziel, eine Abhängigkeit, die sich tatsächlich nicht nur auf die endgültige oder formale Kausalität beschränkt, sondern auch die wirksame Kausalität betrifft, da das, was durch Teilnahme ist, wirksam durch das, was für sich selbst ist, verursacht wird. Die zielgerichtete Handlung des ersten Motivs ist dann die eines bereits gegenwärtig und wirklich existierenden Gutes und nicht die eines Gutes, das nur in der Absicht eines effizienten Handelnden existiert, durch dessen Handeln es dann schrittweise verwirklicht . Mit anderen Worten: Der Urheber kann die Absicht der minderwertigen Akteure als ein Ziel betrachten, von dem sie abhängen, aber in Bezug auf sich selbst ist es kein spezifizierendes absichtliches Objekt, sondern eine reale und tatsächliche Natur. Gott handelt, indem er die Dinge zu einem Zweck und letztendlich zu sich selbst als dem universellen Endzweck aller Dinge ordnet, ohne jedoch in seinem Handeln von einem Zweck (oder gar von sich selbst) abhängig zu sein.Beachten Sie daher: – Dass Gott nicht handelt, um ein Ziel zu erreichen, das er noch nicht erreicht hat, sondern nur, um den Untergeordneten seine unendliche Vollkommenheit detailliert10 (teilnehmend) mitzuteilen, ohne dadurch seine intrinsische Vollkommenheit zu steigern.Durch die Erschaffung von Dingen vermehrt Gott nicht die Entitäten, sondern nur die Anzahl der Entitäten (plura entia, non plus entis).Gottes Absicht führt nicht zu einem Ende, sondern ist selbst das Ende aller Dinge, die sind und Ziele sind durch Teilhabe am höchsten göttlichen Gut: „primo agenten, qui est agens tantum, non convenit agere propter Acquisitionem alicuius finis, sed intendit solum.“ communicare suam perfectionem, quae est eius bonitas“ (I, 44,4 ca.a.). – Dass Gott nicht eine Sache für eine andere als Zweck seines eigenen Willens will, sondern nur will, dass eine Sache einer anderen als deren Zweck zugeordnet wird.Mit anderen Worten: Gott ist die Ursache der zielgerichteten (teleologischen) Ordnung und gerade weil er ihre Ursache ist, ist er nicht von ihr abhängig: „Vult ergo (Deus) hoc esse propter hoc, sed non propter hoc vult hoc (I, 19, 5 ca.). Die These des Aristoteles ist wahr, aber nur teilweise.Tatsächlich ist es mehr als fair zu sagen, dass sich das erste Motiv als das Ende aller Dinge bewegt, aber seine Bewegung ist nicht darauf beschränkt. Daher ist es notwendig, dass Gott nicht nur als Zweck, sondern auch als wirksamer Akteur handelt.Tatsächlich setzt die endgültige Kausalität ein auf ein Ziel hin geordnetes Subjekt voraus, ebenso wie die formale Kausalität ein konkretes Subjekt voraussetzt, das an der Form teilnimmt.Die endgültige Kausalität folgt den Bedingungen der formalen Kausalität insofern, als ein Subjekt nur deshalb gut ist, weil es gut (perfekt) ist, und nur gut ist, weil es formale Vollkommenheit aufweist. Nun ist ein bestimmtes Gut nur durch die Teilnahme am höchsten Gut gut (und daher gut) und nur durch die Teilnahme an der absolut ersten beispielhaften Sache formal perfekt.Partizipation wiederum setzt das Subjekt der Partizipation und das, woran sie teilnimmt, voraus.Die Dinge haben also ihre formale Vollkommenheit und ihre Güte (Endgültigkeit) nur durch die Teilhabe am göttlichen Wesen und an der göttlichen Güte, indem sie ihr wirkliches Sein annehmen, denn wenn sie nicht wirklich existierten, könnten sie an nichts teilhaben. Nun ist das Sein der endlichen Dinge selbst ein teilhabendes Sein, aber um am Sein teilhaben zu können, müssen die Dinge sein, und andererseits müssen sie, um zu sein, am Sein teilhaben.Dies bedeutet, dass endliche Dinge nicht nur die Teilnahme des ersten Motivs erhalten, sondern von ihm auch ihr Mitwirken selbst mit demselben Subjekt der Teilnahme erhalten.In der Konstitution der endlichen Einheit verleiht das erste Motiv, indem es dem Wesen Teilhabe verleiht, ihm auch das gleiche Subjekt der Teilhabe (konkrete existierende Einheit) und das gleiche Maß der Teilhabe (identifiziertes spezifisches Wesen). Wäre es nicht so, d. h. wenn die Dinge nur Anteil am Sein hätten, ohne dass sie durch das erste Motiv ganz in sich selbst verursacht wären, gäbe es einen Widerspruch, denn dann: Zu.Dinge wären bereits vorhanden, denn nur so können sie an etwas teilhaben, z B.Sie wären noch nicht da, denn da ihr Wesen ein teilhabendes Wesen ist, sind die Dinge noch nicht da, bevor sie die Teilhabe des Seins erhalten. Auf diese Weise ist Gott die Ursache aller Wesen der Dinge im Einklang mit der wirksamen Kausalität, und indem er die Dinge entsprechend ihrem gesamten Sein wirksam verursacht, macht Gott sie zu Teilhabern sowohl am Sein, an der Wahrheit (formale Vollkommenheit) als auch an der Güte (Ordnung zum Ende). , Ende sein) und das alles transzendental und nicht nur dilemmatisch. Das bedeutet, dass endliche Dinge nicht nur an der göttlichen Wahrheit teilhaben, sondern durch ihre Teilhabe an der göttlichen Wahrheit wahr sind;Sie sind auch nicht nur Teilnehmer der göttlichen Güte, sondern sind gut durch die Teilnahme an der göttlichen Güte.Es gibt keine intrinsische Wahrheit der Dinge, zu der eine partizipatorische Wahrheit prädikatisch hinzugefügt wird;Es gibt auch keine intrinsische Güte der Dinge, zu der eine zwangsläufig beteiligte Güte hinzukommt, sondern die Wahrheit und Güte der Dinge in ihrer Gesamtheit, das heißt transzendental, sind eine beteiligte Wahrheit und Güte und daher als Ganzes bedingt (Subjekt, Maß und Teilnahme) ausgehend vom ersten Motiv, das die Entität per se ist, die gemäß allen Gründen der Entität existiert.Den Grund für diese Beschränkung bei ARISTOTELES gibt der heilige Thomas in I, 44, 2 c.a. in seiner kurzen Darstellung der Geschichte des philosophischen Denkens an. Die Metaphysik entdeckte nach und nach die verschiedenen Dimensionen des Seienden, bevor sie zum Seienden als Seiendem gelangte (ratione ipsius entis).Aus diesem Grund wurde auch die Kausalität zunehmend vertieft: ¶ Zu Beginn wurden sinnliche Körperwirklichkeiten und Bewegung als Entitäten betrachtet, und daher war das Feld der Kausalität auf zufällige Wirklichkeiten beschränkt;Körpersubstanz hingegen galt zumindest in der Form als unverursacht, in der sie mit dem Urprinzip (arche) identifiziert wurde. ¶ Ein zweites Mal kamen wir zu einer intellektuellen Analyse derselben sinnlichen Substanz und zur Unterscheidung zwischen Rohmaterial und substantieller Form.Materie und Form werden als unverursacht angesehen, nur ihre Verbindung wird verursacht, und zwar nicht nur durch zufällige, sondern auch durch wesentliche Formen. So wie Zufälle die Substanz einer bestimmten Art des Seins bestimmen, so bestimmt auch die Form die Materie dieses Wesens und die Materie die Form dieses (individuellen) Wesens.Unabhängig davon, ob es sich um ein zufälliges oder ein wesentliches Wesen handelte, handelte es sich immer nur um ein bestimmtes Wesen, dem eine bestimmte Ursache zugeordnet wurde. ¶ Schließlich hat sich die Metaphysik auf die Betrachtung des Seienden, sofern es ein Wesen ist, und damit auf die Suche nicht mehr nach diesem Wesen, sondern einfach nach dem Wesen in absoluten Maßstäben konzentriert.Die Ursache der Dinge in ihrem Aspekt des Seienden kann einfach keine besondere Ursache hinsichtlich ihrer zufälligen (so sein) oder substantiellen (dieses Sein sein) Bestimmungen sein, sondern muss eine universelle Ursache sein, die alles in irgendeiner Weise verursacht, die zum Sein gehört ein Ding. In dieser Perspektive erscheinen dieselben Prinzipien des substantiellen Seins (Rohmaterial und substantielle Form) als durch die universelle Ursache des Seins verursacht, sofern es Sein ist.Die Prinzipien endlicher Wesen sind also keine unverursachten Realitäten, die erst ihr zweckorientiertes Werden aus dem ersten Motiv erhalten, sondern da auch sie Teil des endlichen Wesens sind, werden sie mit diesem durch die allgemeine Ursache des Wesens, das das Unverursachte ist, verursacht Entität, die per se existierende Entität, Gott. Es reicht nicht aus, bei der exemplarischen formalen Unterordnung der Entität durch Partizipation gegenüber der Entität an sich stehen zu bleiben, noch bei der Abhängigkeit einer endlichen Entität von dem Endziel, im Hinblick auf das sie notwendigerweise handelt, sondern es ist notwendig, darüber nachzudenken die eigentliche Struktur der endlichen Entität, soweit sie eine Entität ist, und so erkennen wir, dass sie nicht nur eine teilweise kausale Abhängigkeit hat, z.B.die Vollkommenheit, an der die erste ontologische Wahrheit beteiligt ist, oder die Ordnung, die letztendlich vom höchsten Gut abhängt;Überlegungen, die zwar im Bereich des Transzendentalen, wie es das Wahre und Gute gerade ist, stattfinden, das endliche Wesen jedoch nicht transzendental durchdringen, sondern einige Dimensionen davon als bereits gegeben voraussetzen, andere dagegen als Hinzufügungen durch Teilhabe und als solche verursacht und abhängig von einem ersten Prinzip an sich und unverursacht unter engen Aspekten der Kausalität. Wenn man zum Beispiel die endliche Entität als Subjekt annimmt, wird betont, dass ihre wesentliche Form eine beispielhafte Beteiligung des ersten Exemplars ist, oder wenn man die endliche Entität als wirkendes Subjekt und Natur annimmt, beobachtet man, dass ihr Handeln darauf ausgerichtet ist höchstes Gut bis zum letzten Ende.Eine so eingeschränkte Partizipation scheint keine wirksame Ursache zu haben, auch wenn sie eine formale (im Hinblick auf die formale Vollkommenheit) oder endgültige (im Hinblick auf das Gute) kausale Abhängigkeit impliziert.Die Ordnung der Entitäten wird daher durch die absolut erste Entität verursacht, jedoch nur im Sinne einer exemplarischen/endgültigen (objektiven) Kausalität, ohne effiziente Kausalität in Anspruch zu nehmen. Wird das endliche Seiende nicht schon unter einem bestimmten Aspekt (Wesensform, Subjekt einer abgeschlossenen Handlung etc.) betrachtet, sondern einfach als Seiendes, dann erscheint seine kausale Abhängigkeit nicht nur marginal, sondern total, also transzendental (gemeint ist transzendental). in Bezug auf die endliche Entität als Entität, nicht in Bezug auf die Entität als Entität).Alle endlichen Wesen an sich sind Seiende durch Teilnahme und das bedeutet, dass sie an sich selbst verursachtes Seiendes sind: „licet habitudo ad causam non intret definitionem entis quod est causatum, tamen consequitur ad ea quae sunt de eius ratione: quia ex hoc quod aliquid per.“ Die Teilnahme ist eine Folge dessen, was aus irgendeinem Grund geschieht.Unde huiusmodi ens non potest esse, quin sit causatum: sicut nec homo quin sit risibilis.„Sed quia esse causatum non est de ratione entis simpliciter, propter hoc invenitur aliquod ens non causatum“ (I, 44, 1 a.1).

L’essenza di Dio costituita dall’attualità pura

La sostanza che è atto (usia kai energheia usa) muove senza essere mossa (kinèi uk kinùmena).

L’uniformità intrinseca del primo moto nel primo mobile. E’ mosso in maniera uniforme, cioè secondo il moto locale circolare che non implica alterità riguardo alle determinazioni intrinseche del mobile (sostanza, quantità, qualità), ma esclusivamente riguardo alla determinazione estrinseca del luogo.

Il primo movente ha un’uniformità assoluta (sia intrinseca che estrinseca) nel suo muovere attivo; è perciò immobile in assoluto. Infatti, il primo movente al limite si muoverebbe col moto più uniforme possibile, cioè quello locale circolare, ma non può muoversi secondo esso, perchè appunto muove attivamente secondo esso. Il primo movente infatti non si muove con quel moto con il quale muove attivamente gli altri mobili.

ARISTOTELE esordisce dicendo che il primo agente agisce come intelligibile e desiderabile per poi dire semplicemente che muove come il bene amato. E infatti la volontà suppone la conoscenza, ma l’analogia col moto sensu stricto (cioè col moto transitivo[1], predicamentale, univocamente detto) è più esplicita nella volontà che nell’intelletto, anche se entrambe queste facoltà si muovono con un moto sensu lato (immanente, trascendentale, analogicamente detto). L’intelletto ha più somiglianza con la causalità formale, in quanto il suo atto consiste nella semplice presenza dell’oggetto nel soggetto, ragion per cui presenta una struttura stratificata complessa (pluralità di abiti riguardo ad atti intellettivi diversi. Ad es. l’intelletto dei principi e la scienza delle conclusioni); la volontà al contrario assomiglia più alla causalità efficiente-finale in quanto il suo atto consiste nella tendenza del soggetto all’oggetto, un moto che si compie interamente dalla volontà per mezzo della stessa disposizione abituale.

Il primo movente immobile agisce quindi come fine dei mobili e moventi inferiori e in tal modo: A differenza di un agente naturale non è sottomesso alla necessità, ma è la stessa misura di necessità che impone alle cose inferiori per mezzo della sua stessa natura. La natura del primo movente è quella di essere il sommo bene (e di conseguenza l’ultimo fine oggettivo) e in questo senso esercita un’attrattiva necessaria sugli enti inferiori senza essere però esso stesso soggetto ad essa. Si noti che è questa la retta comprensione del principio dionisiano[2] “bonum est diffusivum sui”: il bene divino si diffonde con naturale necessità su tutto l’universo, non però in linea di causalità efficiente come sostengono gli emanazionisti, bensì piuttosto in linea di causalità finale. E’ della stessa natura del sommo bene il fatto di essere fine di tutte le cose, eppure lo stesso ultimo fine è esente da questa dipendenza finalistica perchè è esso stesso il principio e la causa di tutto l’ordine finalistico (teleologico), cosicchè finalisticamente tutte le cose dipendono da esso, esso stesso però non dipende da nulla (e così è perfettamente “libero”), nemmeno da se stesso, anche se ha in se stesso la ragione sufficiente del suo essere e della sua bontà.

  1. A differenza di un agente volontario soggettivo, il primo movente non è una volontà dipendente da un altro bene come dal suo oggetto, ma è esso stesso il sommo bene, da cui dipende ogni agente volontario e anche gli agenti naturali che pure sono ordinati al fine, anche se, a differenza di quelli volontari, lo sono in maniera puramente passiva e in nessun modo attiva.

Dio è la volontà infinita e increata che però non è specificata dal fine, ma è essa stessa il suo fine senza alcuna ragione di dipendenza (nemmeno da se stessa), ma per semplice identità. Dio non vuole quindi nulla di diverso da sé come fine, anche se le altre cose tendono a Dio come fine ultimo di ogni loro appetito e di ogni loro atto.

Data questa indipendenza della volontà divina da un qualsiasi oggetto specificante, non si pone nemmeno il problema del moto soggettivo della volontà divina come attuazione progressiva di una potenza. Infatti la volontà passa dalla potenza all’atto in quanto il soggetto non ha7 ancora il fine, ma lo ottiene per mezzo della sua azione. In Dio invece coincidono perfettamente il soggetto, l’azione e il fine. Nel porre la questione del modo in cui Dio, il primo motore immobile, muove tutte le cose, Aristotele avverte che la condizione preliminare risultante dall’attualità pura della prima sostanza è quella della sua assoluta immobilità. Bisogna perciò trovare un moto che proceda dal primo agente in maniera tale da muovere gli inferiori, così però che l’agente stesso rimane perfettamente immutato, il che vuol dire che: la sua azione non deve attuare la sua sostanza e l’azione stessa non deve dipendere da un oggetto (fine) assente, che acquista per progressiva attuazione. Quanto alla soluzione. Aristotele pensa di trovare un moto che muove gli altri enti mossi e moventi senza alterare il soggetto stesso del moto nell’attrattiva teleologica esercitata da un bene superiore (anzi, supremo) sui beni inferiori. E, infatti, le condizioni sopra indicate come determinazioni del moto del primo motore sono perfettamente adempiute nel moto finalistico ex parte ipsius finis[3] (e non già, come è ovvio, ex parte eius quod movetur ad finem[4]). L’attrattiva che il fine esercita sulle cose che si muovono verso di esso non è qualcosa di aggiunto ad esso a modo di un atto attuante una potenza, ma è la stessa natura del fine, dell’ente che in quanto è ente, è un bene. Almeno a prima vista sembra che il bene eserciti l’attrattiva teleologica per se stesso, senza una nuova attuazione accidentale.

L’azione finalistica del primo movente poi è quella di un bene già attualmente e realmente esistente e non quella di un bene che esiste solo nell’intenzione di un agente efficiente per mezzo della cui azione poi viene progressivamente realizzato. In altre parole il primo movente può entrare nell’intenzione degli agenti inferiori come fine da cui essi dipendono, ma rispetto a se stesso esso non è un oggetto intenzionale specificante, bensì una natura reale ed attuale. Dio agisce ordinando le cose al fine e ultimamente a se stesso come fine ultimo universale di tutte le cose, ma senza dipendere nel suo agire da un fine (e nemmeno da se stesso). Di conseguenza si noti: Che Dio non agisce per realizzare un fine che non ha ancora, bensì solo per comunicare la sua perfezione infinita in maniera particolareggiata10 (partecipata) agli inferiori senza accrescere con questo la sua perfezione intrinseca. Creando le cose Dio non accresce l’ente, ma solamente il numero degli enti (plura entia, non plus entis). L’intenzione di Dio non si porta ad un fine, ma è essa stessa il fine di tutte le cose che sono e sono fini per partecipazione al sommo bene divino: “primo agenti, qui est agens tantum, non convenit agere propter acquisitionem alicuius finis, sed intendit solum communicare suam perfectionem, quae est eius bonitas” (I, 44,4 c.a.). Che Dio non vuole una cosa per un’altra come fine della sua stessa volontà, ma vuole unicamente che una cosa sia ordinata ad un’altra come al suo fine. In altre parole, Dio è la causa dell’ordine finalistico (teleologico) e proprio perchè ne è la causa, non dipende da esso: “Vult ergo (Deus) hoc esse propter hoc, sed non propter hoc vult hoc (I, 19,5 c.a.). La tesi di Aristotele è vera, ma solo parzialmente. Infatti, è più che giusto dire che il primo movente muove come fine di tutte le cose, ma il suo muovere non si limita a questo.

E’ necessario quindi che Dio muova non solo come fine, ma anche come agente efficiente. La causalità finale suppone, infatti, un soggetto ordinato al fine come la causalità formale suppone un soggetto concreto partecipe della forma. La causalità finale segue le condizioni di quella formale in quanto un soggetto è fine solo perchè è buono (perfetto) ed è buono solo perchè ha una perfezione formale.

Ora, un bene particolare è buono (e quindi fine) solo per partecipazione del sommo bene ed è formalmente perfetto solo per partecipazione alla causa esemplare assolutamente prima. La partecipazione a sua volta suppone il soggetto della partecipazione e ciò a cui partecipa. Le cose hanno quindi la loro perfezione formale e la loro bontà (finalità) solo per partecipazione all’essenza divina e alla bontà divina, supponendo il loro essere reale, perché, se non esistessero realmente, non potrebbero essere partecipi di nulla.

Ora lo stesso essere delle cose finite è un essere partecipato, ma per partecipare all’essere le cose devono essere e d’altra parte per essere devono partecipare all’essere. Ciò vuol dire che le cose finite non solo ricevono la partecipazione del primo movente, ma ricevono da esso anche il loro stesso essere partecipato con lo stesso soggetto della partecipazione. Nella costituzione dell’ente finito il primo movente, conferendo la partecipazione all’essere conferisce[5] insieme con essa anche lo stesso soggetto della partecipazione (ente sussistente concreto) e la misura della partecipazione (essenza specifica individuata).

Se non fosse così, cioè se le cose ricevessero solo la partecipazione all’essere senza che esse stesse fossero causate di per sè tutte dal primo movente, si avrebbe una contraddizione, perchè allora:

  1. le cose ci sarebbero già, perchè solo così possono essere partecipi di qualcosa e
  2. non ci sarebbero ancora, perchè essendo il loro essere un essere partecipato, prima di ricevere la partecipazione dell’essere le cose non sono ancora.

In tal modo Dio è la causa di tutto l’ente delle cose in linea di causalità efficiente e causando le cose efficientemente secondo tutto il loro essere Dio le rende partecipi sia dell’essere, sia della verità (perfezione formale), sia della bontà (ordine al fine, l’essere fine) e tutto ciò trascendentalmente e non solo predicamentalmente.

Ciò vuol dire che le cose finite non solo sono partecipi della verità divina, ma sono vere per la loro partecipazione alla verità divina; né sono solo partecipi della bontà divina, ma sono buone per partecipazione alla bontà divina. Non c’è una verità intrinseca delle cose a cui si aggiunge predicamentalmente una verità partecipata; né c’è una bontà intrinseca delle cose a cui si aggiunge una bontà predicamentalmente partecipata, ma la verità e la bontà delle cose secondo sè[6] tutte, cioè trascendentalmente, sono una verità e una bontà partecipata e quindi causata nel suo insieme (soggetto, misura e partecipazione) dal primo movente, che è ente per se sussistente secondo tutte le ragioni di ente.

Anche il finalismo soggettivo (essere ordinati al fine) e non solo quello oggettivo (essere un bene e quindi un fine) suppone il soggetto ordinato al fine come già esistente; allo stesso tempo però le cose finite non possono esistere se non come ordinate al fine (e in ultima analisi a Dio come fine ultimo), ragion per cui Dio non solo produce nelle cose (supposte come già esistenti) l’ordine a sé come al fine, ma producendo l’ordine finalistico delle cose, produce le cose stesse e il loro ordine al fine.

Il motivo di questo limite in ARISTOTELE è indicato da S.Tommaso, in I, 44, 2 c.a., nella sua breve esposizione della storia del pensiero filosofico. La metafisica ha scoperto poco a poco le diverse dimensioni dell’ente prima di arrivare all’ente in quanto ente (ratione ipsius entis). Per questo anche la causalità è stata progressivamente approfondita:

  • All’inizio si consideravano come enti le realtà corporee sensibili e il moto, e quindi il campo della causalità era limitato alle realtà accidentali; la sostanza corporea invece era considerata come incausata almeno in quella forma in cui essa era identificata con il principio primordiale (archè).
  • In un secondo tempo si è arrivati ad un’analisi intellettiva della stessa sostanza sensibile e alla distinzione tra materia prima e forma sostanziale. La materia e la forma sono considerate come incausate, solo il loro composto è causato ed è causato non solo secondo le forme accidentali, ma anche secondo quelle essenziali.

Come gli accidenti determinano la sostanza ad un determinato modo di essere, così anche la forma determina la materia all’essere tale e la materia determina la forma a questo essere (individuale). Perciò, sia che si trattasse dell’ente accidentale o sostanziale, sempre si trattava solo dell’ente particolare a cui si assegnava una causa particolare.

  • Infine la metafisica si è elevata alla considerazione dell’ente in quanto è ente e quindi alla ricerca non più di tale ente, ma dell’ente semplicemente, in assoluto. La causa delle cose sotto il loro aspetto di essere enti semplicemente non può essere una causa particolare riguardante le loro determinazioni accidentali (essere tale) o sostanziali (essere questo ente sussistente), ma dev’essere una causa universale che causa tutto ciò che in un modo qualsiasi appartiene all’essere di una cosa.

In questa prospettiva gli stessi principi dell’ente sostanziale (materia prima e forma sostanziale) appaiono come causati dalla causa universale dell’ente in quanto è ente. I principi dell’ente finito non sono quindi delle realtà incausate che ricevono dal primo movente solo il loro divenire finalisticamente orientato, ma in quanto anch’essi fanno parte dell’ente finito sono causati insieme con esso dalla causa universale dell’ente che è l’ente incausato, l’ente per sè sussistente, Dio.

Non basta fermarsi alla subordinazione formale esemplare dell’ente per partecipazione rispetto all’ente per se, né alla dipendenza di un ente finito dal fine ultimo in vista del quale esso necessariamente agisce, ma occorre considerare la stessa struttura dell’ente finito in quanto è ente e così ci si accorge che esso non ha solo dipendenza causale parziale, ad es. la perfezione partecipata dalla prima verità ontologica oppure l’ordine al fine ultimamente dipendente dal sommo bene; considerazioni che, pur avendo luogo nell’ambito dei trascendentali, come sono appunto il vero e il bene, tuttavia non pervadono l’ente finito trascendentalmente, ma ne suppongono alcune dimensioni come già date, altre invece come aggiunte per partecipazione e come tali causate e dipendenti da un primo principio per se e incausato sotto aspetti ristretti di causalità.

Ad es., supponendo l’ente finito dato come un soggetto, si mette in risalto che la sua forma essenziale è partecipazione esemplata del primo esemplare, oppure supponendo l’ente finito come un soggetto e una natura operanti, si constata che il suo agire è orientato al sommo bene come al fine ultimo. La partecipazione così ristretta non sembra avere una causa efficiente, anche se implica una dipendenza causale formale (sotto l’aspetto della perfezione formale) o finale (sotto l’aspetto del bene). L’ordine degli enti è quindi causato dall’ente assolutamente primo, ma solo in linea di causalità esemplare/finale (oggettiva) senza impegnare la causalità efficiente.

Se l’ente finito viene considerato non già sotto un aspetto particolare (forma essenziale, soggetto di un’azione finalizzata, ecc.), ma semplicemente in quanto ente, allora appare la sua dipendenza causale non solo marginale, ma totale, ossia trascendentale (trascendentale si intende rispetto all’ente finito come ente non rispetto all’ente come ente). L’ente finito di per sé tutto è ente per partecipazione e questo vuol dire che è di per sé tutto un ente causato: “licet habitudo ad causam non intret definitionem entis quod est causatum, tamen consequitur ad ea quae sunt de eius ratione: quia ex hoc quod aliquid per participationem est ens, sequitur quod sit causatum ab alio. Unde huiusmodi ens non potest esse, quin sit causatum: sicut nec homo quin sit risibilis. Sed quia esse causatum non est de ratione entis simpliciter, propter hoc invenitur aliquod ens non causatum” (I, 44, 1 a.1).

L’ente finito non solo partecipa qualche perfezione della prima sostanza, ma esso stesso è tutto solo per partecipazione della prima sostanza. Si tratta quindi di una partecipazione che coinvolge in sé non solo la perfezione partecipata, ma anche lo stesso soggetto e la misura della partecipazione. La costituzione dell’essenza e del soggetto avviene quindi non al di fuori, ma dentro alla partecipazione dell’essere. L’essere partecipato ossia l’esistenza si aggiunge per così dire all’essenza di cui è l’atto; l’essere però di cui l’esistenza è una partecipazione commisurata all’essenza di un tale ente, non si aggiunge all’essenza e al soggetto (ente concreto sussistente), ma pervade tutte le dimensioni dell’ente finito – esistenza, essenza e soggetto – che ne sono altrettanto partecipazioni.

Ciò che partecipa (quod) è il soggetto, ciò per mezzo di cui partecipa (quo) è l’essenza, ciò che è il risultato della partecipazione (quid) è l’esistenza e infine ciò che è partecipato e quindi la causa della stessa partecipazione (id quod participatur) è l’ipsum esse, l’essere sussistente ed incausato, Dio.

Il costitutivo dell’ente non è però la relazione di dipendenza causale, bensì il nesso contingente (in ogni ente finito) tra l’essere e l’essenza. L’ente incausato è quindi metafisicamente costituito dalla necessità assoluta (semplice identità) di questo nesso; l’essere finito (e quindi causato) è invece metafisicamente costituito dalla reale differenza tra queste due componenti entitative e quindi dalla contingenza del loro nesso. Dalla contingenza del legame tra essere ed essenza segue, non più come costitutivo metafisico, bensì come proprietà essenziale, la dipendenza causale dell’ente per partecipazione dall’ente per se sussistente.

Das endliche Wesen hat nicht nur Anteil an einer gewissen Vollkommenheit der ersten Substanz, sondern es ist alles nur durch die Teilnahme an der ersten Substanz. Es handelt sich also um eine Partizipation, die nicht nur die partizipierte Vollkommenheit in sich birgt, sondern auch das Subjekt selbst und den Umfang der Partizipation. Die Konstitution des Wesens und des Subjekts vollzieht sich also nicht außerhalb, sondern innerhalb der Beteiligung des Seins. Das beteiligte Sein oder Dasein wird sozusagen zu dem Wesen hinzugefügt, dessen Akt es ist; Allerdings wird das Wesen, dessen Existenz eine dem Wesen einer solchen Entität entsprechende Beteiligung darstellt, nicht zum Wesen und Subjekt (konkrete existierende Entität) hinzugefügt, sondern durchdringt alle Dimensionen der endlichen Entität – Existenz, Wesen und Subjekt – die es sind gleichermaßen Beteiligungen. Was teilnimmt (quod), ist das Subjekt, was, wodurch es teilnimmt (quo), ist das Wesen, was das Ergebnis der Teilnahme ist (quid), ist Existenz und schließlich ist das, was teilnimmt, und daher die Ursache derselben Teilnahme (id quod participatur). ist das ipsum esse, das existierende und unverursachte Wesen, Gott. Das Konstitutiv der Entität ist jedoch nicht das kausale Abhängigkeitsverhältnis, sondern der kontingente Zusammenhang (in jeder endlichen Entität) zwischen Sein und Wesen. Das unverursachte Wesen wird daher metaphysisch durch die absolute Notwendigkeit (einfache Identität) dieses Zusammenhangs konstituiert; Das endliche (und daher verursachte) Sein wird stattdessen metaphysisch durch den realen Unterschied zwischen diesen beiden entitativen Komponenten und damit durch die Kontingenz ihrer Verbindung konstituiert. Aus der Kontingenz des Zusammenhangs von Sein und Wesen folgt, nicht mehr als metaphysisches Konstitutiv, sondern als wesentliche Eigenschaft, die kausale Abhängigkeit des Seienden durch Partizipation vom per se existierenden Seienden.

Le parti del costitutivo metafisico sono tra loro in dipendenza trascendentale (ad es. il genere e la specie nell’essenza di una determinata specie: l’animalità dell’uomo in quanto è uomo richiama trascendentalmente la razionalità), mentre le parti integranti l’essenza fisica di un ente (le proprietà essenziali) sono in un rapporto predicamentale riguardo all’essenza stessa di cui sono altrettanto accidenti-predicamenti (così la risibilità dell’uomo non è per l’essenza umana un punto di riferimento trascendentale, bensì soltanto predicamentale: la risibilità non costituisce l’essenza, ma si aggiunge ad essa). Lo stesso d’altronde si può dire anche delle parti costitutive dell’essenza considerate però formalmente non già come parti costitutive dell’essenza stessa, bensì come proprietà dell’essenza già costituita.

Il costitutivo metafisico dell’ente finito sono le sue parti entitative legate con un nesso contingente che implica dipendenza trascendentale dell’essenza dall’essere. L’essere causato invece non è metafisicamente costitutivo dell’ente finito, ma è una “essenza fisica”, ragion per cui l’essere causato si aggiunge all’ente già costituito e pertanto l’ente finito ha solo una relazione predicamentale reale alla causa da cui deriva.

Se l’ente finito fosse solo partecipazione dell’ente infinito, ossia dell’ipsum esse, se fosse cioè puro e semplice essere partecipato o esistenza (come vuole l’interpretazione esistenzialistica del tomismo), allora l’essere causato entrerebbe nella sua costituzione metafisica data da un lato dall’essere stesso e dall’altro dalla sua limitazione esistenziale per causalità. Siccome però l’ente come ente è sempre essere ed essenza e l’ente finito è metafisicamente costituito dall’essere e dall’essenza composti tra loro[7], ne segue che l’essere causato non entra nella costituzione metafisica dell’ente finito già sufficientemente contratto al suo status di “finito” dall’essenza distinta dall’essere al quale partecipa e quindi la relazione di dipendenza causale segue solo l’ente finito già costituito, rivelandosi così di essere soltanto una relazione predicamentale (I, 45, 3 ad 3m).

Die Teile des metaphysischen Konstitutivs stehen in transzendentaler Abhängigkeit voneinander (z. B. die Gattung und die Art im Wesen einer gegebenen Art: Die tierische Natur des Menschen, sofern er Mensch ist, erinnert transzendental an die Rationalität), während die integralen Teile des Physischen Das Wesen einer Entität (die wesentlichen Eigenschaften) stehen in einer Zwangsbeziehung in Bezug auf die Essenz selbst, von der sie gleichermaßen Zufälle und Zwangslagen sind (somit ist die Gefährlichkeit des Menschen kein transzendentaler Bezugspunkt für das menschliche Wesen, sondern nur eine Zwangslage: (Lächerlichkeit ist nicht das Wesentliche, sondern kommt hinzu.) Andererseits lässt sich das Gleiche auch von den Bestandteilen des Wesens sagen, allerdings formal nicht schon als konstitutive Teile des Wesens selbst, sondern als Eigenschaften des bereits konstituierten Wesens. Der metaphysische Bestandteil des endlichen Wesens sind seine entitativen Teile, die mit einem kontingenten Nexus verbunden sind, der die transzendentale Abhängigkeit des Wesens vom Sein impliziert. Das verursachte Sein ist vielmehr nicht metaphysisch konstitutiv für das endliche Wesen, sondern es ist ein „physisches Wesen“, weshalb das verursachte Sein dem bereits konstituierten Sein hinzugefügt wird und das endliche Wesen daher nur eine reale prädikatielle Beziehung zur Ursache hat was es ableitet. Wäre die endliche Entität nur eine Beteiligung der unendlichen Entität, d. h. des Ipsum esse, also reines und einfach beteiligtes Sein oder Dasein (wie es die existentialistische Interpretation des Thomismus will), dann würde das verursachte Sein in seine metaphysische Konstitution eingehen einerseits durch das Sein selbst und andererseits durch seine existentielle Begrenzung durch die Kausalität gegeben. Da jedoch das Seiende als Wesen immer Sein und Wesen ist und das endliche Wesen metaphysisch dadurch konstituiert ist, dass Sein und Wesen auseinander zusammengesetzt sind, folgt daraus, dass das verursachte Sein nicht in die metaphysische Konstitution des endlichen Wesens eingeht, das bereits hinreichend auf sich selbst kontrahiert ist Status von „endlich“ von der Essenz, die sich von dem Wesen unterscheidet, an dem sie teilnimmt, und daher folgt die Beziehung der kausalen Abhängigkeit nur der bereits konstituierten endlichen Entität und erweist sich somit nur als eine Zwangsbeziehung (I, 45, 3 ad 3m).

La causa prima dell’ente finito in quanto ente

Die erste Ursache des endlichen Seins als Sein stellt das endliche Sein dar, das sein Wesen als Teilnahme des Ipsum Esse an der Linie der formalen Kausalität bestimmt und es mit dem Sein in der Linie der wirksamen Kausalität verbindet, die die Existenz als Akt des Wesens und damit der Entität hervorbringt als das existierende Wesen, dessen transzendentale Aktualität (d. h. alle Dimensionen des Wesens durchdringend – Existenz und subsistentes Wesen) dasselbe Wesen ist (das am endlichen Wesen entsprechend dem Maß seines Wesens beteiligt ist). Hier liegt der tiefe Grund für die Legitimität der in der Scholastik weit verbreiteten Redeweise von esse essentiae und esse existentiae: Die Komponenten im endlichen Seienden sind beides Beteiligungen des Seins an unterschiedlichen Kausalitätslinien. Das reale Wesen, d. h. die existierende Annahme, wird vollständig durch die erste Ursache in der Linie der effizienten Kausalität verursacht, denn indem Gott die Existenz im Wesentlichen verursacht (d. h. die Beteiligung des endlichen Wesens am Sein), verursacht er damit effektiv auch das Wesen sich selbst bereits formal als Maß der Teilhabe bestimmt und das Subjekt als das, was letztlich am Sein teilnimmt. Somit ist das endliche Wesen in all seinen Dimensionen das im Sinne der effizienten Kausalität verursachte Wesen, auch wenn sein Verursachtsein es nicht metaphysisch konstituiert, sondern ihm als wesentliche Eigenschaft folgt. Das endliche Wesen ist also durch sein „Wesen“ selbst (also nach den Anforderungen seines eigenen „Wesens“) und in diesem transzendental bedingt, auch wenn das verursachte Seiende nicht sein „metaphysisches Wesen“ ausmacht, sondern diesem folgt reale Zwangsbeziehung des Verursachtens zu seiner Ursache

Nella costituzione dell’ente finito reale non bastano perciò le dipendenze causali parziali (di ordine causale finale o formale estrinseco), ma si richiede la causalità efficiente che fonda gli aspetti causali parziali delle dimensioni particolari dell’ente finito (ad es. la sua perfezione formale o il suo indirizzo finalistico). Nel plesso causale, infatti, l’aspetto efficiente è quello più fondamentale (anche se non quello più formale), perchè è presupposto alle altre dimensioni causali in particolare a quella finale e formale nell’effetto. L’agente, infatti, produce la forma nell’effetto e la orienta al fine. Nella causa stessa invece l’agente suppone il fine per il quale agisce e la forma per mezzo della quale agisce (una considerazione che però non ha luogo in Dio, causa prima e puramente attuale che non agisce per mezzo di una forma distinta dal soggetto né in vista di un fine distinto dall’azione).

Questa è la ragione per cui la dipendenza dell’ente finito dalla causa prima è tutta imbevuta dalla causalità efficiente che racchiude in sé anche quella formale e finale.

Nell’ascesa dimostrativa dall’ente finito all’Ente per sé sussistente secondo la sua esistenza reale nella natura delle cose si procede perciò sempre in linea di causalità efficiente (sotto aspetti ovviamente diversi) (cf. I,2,3.c.a.):

Tatsächlich ist im Kausalplexus der wirksame Aspekt der grundlegendste (wenn auch nicht der formalste), weil er von den anderen kausalen Dimensionen, insbesondere von der endgültigen und formalen Wirkungsdimension, vorausgesetzt wird. Tatsächlich erzeugt der Handelnde die Form in der Wirkung und richtet sie auf das Ziel aus. In der Ursache selbst hingegen vermutet der Handelnde den Zweck, für den er handelt, und die Form, durch die er handelt (eine Überlegung, die jedoch in Gott, der primären und rein tatsächlichen Ursache, die nicht durch a wirkt, nicht stattfindet Form, die sich vom Subjekt unterscheidet, noch im Hinblick auf ein Ziel, das sich von der Handlung unterscheidet). Dies ist der Grund, warum die Abhängigkeit des endlichen Wesens von der ersten Ursache vollständig von der wirksamen Kausalität durchdrungen ist, die auch die formale und endgültige einschließt. Im demonstrativen Aufstieg von der endlichen Entität zur in sich selbst existierenden Entität entsprechend ihrer realen Existenz in der Natur der Dinge geht man daher immer im Sinne der effizienten Kausalität (unter offensichtlich unterschiedlichen Aspekten) vor (vgl. I,2,3.c.a. ):

Solo Dio, ente per se sussistente, può causare l’ente in quanto è ente. Causare l’ente finito,

Das endliche Sein, d. h. das So-Sein, hervorzurufen, bedeutet nicht nur, seine Soheit in einem vorausgesetzten Subjekt hervorzurufen, sondern es bedeutet, eine Beteiligung des Seienden zu verursachen, sofern es Sein ist; was beinhaltet: ¶ die Neuvorstellung der Entität als Entität (a) ¶ und seine Beschränkung auf einen solchen Unterschied des Seins (b). Tatsächlich enthalten Wesen in sich alle ihre Unterschiede, und zwar so, dass das Hervorrufen eines bestimmten Unterschieds von Wesen (die Wesen als solche) gleichbedeutend mit dem Hervorrufen des Wesens als Seienden und in ihnen dem Unterschied ist, der seine Soheit bestimmt. Nun die Entität ratione ipsius entis zu veranlassen bedeutet, die Entität in ihrer gesamten Ausdehnung (Universalität) und ihrem Verständnis (intrinsischer ontologischer Reichtum) neu vorzustellen. Beachten Sie, dass die Entität nicht das Ergebnis einer totalen und logischen Abstraktion ist, sondern immer nur das Ergebnis der formalen und ontologischen Abstraktion (es sei denn, es handelt sich um die erste Auffassung der Entität als ein einfaches „Etwas“), in der sie sich von der logischen Gattung unterscheidet , die Untergeordneten sind im Oberen enthalten, so dass mit zunehmender Ausdehnung auch das Verständnis in direktem Verhältnis zunimmt, im Gegensatz zu dem, was im logischen Allgemeinen geschieht, wo die Beziehung zwischen Ausdehnung und Verständnis des Begriffs in indirektem oder umgekehrtem Verhältnis steht. Aber die Ursache muss im Verhältnis zur Wirkung stehen, so dass eine unendliche Wirkung eine Ursache unendlicher aktiver Tugend erfordert. Daher kann die Kausalität der Entität, sofern sie Entität ist, nur einem Akteur von unendlichem ontologischen Reichtum zustehen, also einem Akteur, der nur Entität und in keiner Weise Macht ist, einem Akteur, in dem Soheit (Wesen) mit der Entität zusammenfällt (Wesen), also auf einen Handelnden, der eine reine Handlung ist, ein eigenständiges (unverursachtes) Wesen, das für sich selbst existiert, d. h. für Gott

Der Dur kündigt ein universelles Prinzip an, das Partizipation und Kausalität verbindet: Der Teilnehmer hängt kausal von dem ab, was beteiligt ist, und die partizipierte Vollkommenheit hängt von der per se bestehenden Vollkommenheit ab. 1) Wenn Partizipation die Existenz der Vollkommenheit selbst voraussetzt und diese nur mit einem universelleren Prinzip verbindet (z. B. Weißheit mit dem universellen Grund der Farbe), dann ist die kausale Abhängigkeit nur äußerlich formal. 2) Wenn Partizipation die durch Vollkommenheit bedingte Existenz des Subjekts voraussetzt und das Subjekt mit seiner Vollkommenheit verbindet (z. B. die weiße Fläche mit ihrer Weißheit), dann ist die kausale Abhängigkeit intrinsisch formal (Weiß macht die formal weiße Fläche intrinsisch) und effizient (die Oberfläche wird durch einen äußeren Einfluss, der durch den Weißgrad wirkt, weiß). 3) Wenn Partizipation nicht einmal die Existenz des Subjekts voraussetzt, da das Subjekt selbst nicht existiert, außer durch seine Teilnahme am Sein (und dies ist der transzendentalen Partizipation eigen), dann verbindet Partizipation das Subjekt und all seine Vollkommenheiten mit dem Teilgenommensein und dem Die kausale Abhängigkeit bewirkt eine effiziente Kausalität ratione totius entis (die endliche Entität wird durch die per se existierende unendliche Entität verursacht, an der sie beteiligt ist).

Der Minor legt die Art der Teilnahme fest. Es geht um eine umfassende Beteiligung des Rechtsträgers für die Beteiligung an dem als solchen bestehenden Rechtsträger. Die Schlussfolgerung macht die kausale Abhängigkeit der endlichen Entität von Gott deutlich. Es ist effiziente Kausalität, die alle Beteiligungen der Entität verursacht, ohne dass etwas als Bestehendes vorausgesetzt wird, da die bloße Existenz einer Entität nichts anderes ist als die Beteiligung dieser Entität an der „ sein. Gott, der an sich existiert, verursacht also die ratio entis selbst im endlichen Sein und seine Teilhabe, das heißt seine Soheit, an der ratio entis. Gott erzeugt in all seinen Handlungen an den Geschöpfen die Wirkung ratione totius entis. Da die eigentliche Wirkung einer Ursache darin besteht, dass sie ihrer wirksamen Form entspricht und die wirksame Form Gottes sein Wesen selbst ist, ist es notwendig, dass die eigentliche Wirkung göttlichen Handelns immer die ratio entis in ihrer gesamten Ausdehnung ist, also auch im Handeln über die Soheit der Wirkung erreicht Gott die Soheit durch das Wesen, das seine eigene Wirkung ist. Bei der Erschaffung und Bewahrung aller Dinge erreicht Gott durch seine Entität das endliche Sein und verursacht in der Entität Soheit, so dass sowohl Entität als auch Soheit aus der ersten Ursache und aus ihr allein hervorgehen. Im vorangegangenen und gleichzeitigen Wettbewerb werden das Subjekt und die operative Form der zweiten Ursache im ersten Akt angenommen, in der Gott die Anwendung auf den zweiten Akt bewirkt (physische Voremotion) und die Entität der Handlung und ihre Laufzeit ( gleichzeitiger Wettbewerb). Gott bewirkt nun das Fortschreiten des zweiten Aktes aus dem ersten Akt (actio ut ab agent) gemäß seiner gesamten Wesenheit, und in der Wesenheit erreicht er seine Soheit (entsprechend der Natur und den Wirkkräften der zweiten Ursache) und verursacht ebenfalls die gleiche Form des zweiten Aktes und seines Begriffs (actio ut in patiente) verursacht sein gesamtes Wesen und erreicht in dem Wesen seine Soheit (entsprechend dem Wesen der Handlung und ihrer Wirkung, die durch eindeutige formale Ähnlichkeit aus der zweiten Ursache hervorgeht).

Perciò, anche supponendo l’essenza sussistente dell’agente secondo, l’essere sia della sua causalità che del suo effetto (azione e termine) richiede la causalità divina, la quale, causando l’essere partecipato (esistenza), causa l’essere simpliciter (la ratio entis) e in esso la sua partecipazione, così da raggiungere con il suo agire non solo le esistenze (l’essere partecipato nell’ente finito), ma anche l’essenza (che è la misura della partecipazione) e il soggetto (che è quella realtà che partecipa l’essere), anche se il soggetto e l’essenza preesistono già nella causa seconda e trovano in essa (dalla parte dell’effetto) la loro causa univoca sufficiente.

Causare l’esistenza significa causare la partecipazione dell’essere in un’essenza e questo a sua volta significa causare lo stesso essere con tutte le sue partecipazioni (compresa la

stessa essenza sussistente, anche se essa è allo stesso tempo causata dall’azione della causa seconda univoca)20.

L’ente per se sussistente (causa prima) causa la ratio entis univocamente o quasi univocamente e nella ratio entis la taleità adeguatamente, ma analogicamente. Invece, l’ente finito (causa seconda) causando un altro ente causa adeguatamente univocamente la sua taleità e solo inadeguatamente (strumentalmente) la sua entità.

Siccome l’essere e la ratio entis coinvolgono tutte le loro differenze intrinsecamente, ne segue che Dio raggiunge l’ente tale immediatamente in tutte le sue sfumature, non solo con immediatezza di virtù, ma anche di supposito. Nel causare l’essere della causalità seconda (premozione fisica) Dio ne concausa immediatamente anche l’essenza.

Daher erfordert das Sein sowohl seiner Kausalität als auch seiner Wirkung (Handlung und Begriff), selbst wenn man das subsistente Wesen des zweiten Agenten annimmt, eine göttliche Kausalität, die, indem sie das beteiligte Sein (Existenz) hervorruft, das Sein simpliciter (die Ratio entis) verursacht darin seine Teilnahme, um mit seinem Handeln nicht nur Existenzen (Teilnahme an endlichen Wesen) zu erreichen, sondern auch das Wesen (das das Maß der Teilhabe ist) und das Subjekt (das die Realität ist, an der das Seiende teilnimmt), selbst wenn Das Subjekt und das Wesen existieren bereits in der zweiten Ursache und finden in ihr (auf der Seite der Wirkung) ihre eindeutig zureichende Ursache. Existenz verursachen bedeutet, die Beteiligung des Seins an einem Wesen zu bewirken, und dies wiederum bedeutet, dasselbe Wesen mit all seinen Beteiligungen (einschließlich) zu bewirken das existierende Wesen selbst, auch wenn es gleichzeitig durch die Wirkung der zweiten eindeutigen Ursache verursacht wird). Das an sich existierende Wesen (erste Ursache) bewirkt die Ratio entis eindeutig oder nahezu eindeutig und in der Ratio entis die Soheit adäquat, aber analog. Andererseits verursacht die endliche Entität (sekundäre Ursache), indem sie eine andere Entität verursacht, deren Soheit adäquat und eindeutig und ihre Entität nur unzureichend (instrumentell). Da das Sein und die ratio entis alle ihre Unterschiede in sich in sich bergen, folgt daraus, dass Gott das Sein als solches in all seinen Nuancen unmittelbar erreicht, nicht nur mit der Unmittelbarkeit der Tugend, sondern auch der Annahme. Indem Gott das Wesen der zweiten Kausalität (physische Voremotion) hervorruft, verursacht Gott auch unmittelbar dessen Wesen.

L’agire immanente non implica il passaggio dalla potenza all’atto (atto dell’imperfetto)

Wenn die sekundären Ursachen komplex in der Art einer an sich untergeordneten Kausalreihe sind, werden die niedrigeren Kausalitäten durch die höheren ratione essentiae vermittelt; Allerdings durchdringt das Sein die sekundäre Kausalität nicht durch die Essenz, sondern darüber hinaus und darüber hinaus (die Essenz ist im Sein als Maß für seine Beteiligung involviert), so dass Gott die Essenz der Kausalität selbst niedrigerer sekundärer Ursachen mit der Unmittelbarkeit der Annahme hervorruft, während er sie als solche verursacht genau (im Wesentlichen) von ihren höheren Ursachen abhängig. c) Das kausale Handeln Gottes in Bezug auf den göttlichen Akteur selbst. Immanente Handlung bedeutet nicht den Übergang von der Potenz zur Handlung (Akt des Unvollkommenen), sondern die einfache Aktualität des Subjekts (Akt des Vollkommenen). Eine Handlung dieser Art impliziert in keiner Weise die Potentialität des Subjekts und ist daher in einer Entität, die eine reine und vollkommen unveränderliche Handlung ist, nicht ausgeschlossen. Es ist daher legitim zu sagen, dass die Antriebskraft sich selbst und durch ihre Bewegung auch äußere Dinge bewegt, nicht im Sinne eines Übergangs von der Potenz zur Handlung, sondern im Sinne einer einfachen absichtlichen tatsächlichen Präsenz.

Die göttliche Gottheit ist formell immanent, auch wenn sie virtuell ist (das heißt, sie kommt nicht zur Welt, sondern wirkt erst später), sie wird transitiv sein. Auf die eine oder andere Weise ist es so, dass ich alle dazu beitrage, alle anderen Dinge zu tun, die nicht mit einem Ziel zusammenhängt, das nicht bedeutet, dass ich meine ganze Kraft verloren habe, aber mit dem, was ich meine, perfekt übereinstimmt Das war es, was ich brauchte, um es zu tun Der heilige Thomas erkennt die Gültigkeit der platonischen These secondo cui il primo movente si muove offenbar nicht mit einer transitiven Bewegung, sondern mit einer rein immanenten Bewegung an: Benennung der Operation als Bewegung, wonach bestimmte Bewegungen auch Verstehen und Wollen genannt werden und liebend. Weil Gott sich selbst versteht und liebt, sagten sie dementsprechend, dass Gott sich selbst bewegt; aber nicht entsprechend der Tatsache, dass es Bewegung und Veränderung des Seienden in der Potentialität gibt, wie wir jetzt von Veränderung und Bewegung sprechen“ (1,9,1 bis 1). Die immanente Zeit scheint dem Bewusstsein entgegenzuwirken (und die Folge des Appetits im nächsten Jahr), da die Fähigkeit des Empfängers in der Form einer anderen Person in seiner Alterität liegt, ohne dass es sich dabei um einen Arzt handelt ( Es ist notwendig, dass die gesamte Kraft und die vorübergehende Wirkung verloren gehen. Mit anderen Worten: Immanente Aktivität fällt mit Intentionalität zusammen. Es ist sicher, dass die gesamte Absichtserklärung zu einem sehr schlechten Leben führt. Negli stessi viventi (campo di azioni absolute transitive) ist eine Tendenz zu einer Perfektionierung des Bodens, die eine zweite stereotype Struktur aufweist, und sie sind alle für eine reine Verzweiflung gedacht (weil sie in der Mitte des Kristalls liegen).

Sensibles Wissen erscheint in Lebewesen eines sensiblen Lebens, das bereits formal immanent ist, zumindest von der Seite des Subjekts, auch wenn von der Seite des Objekts aus ein Übergang von der Potenz zur Handlung stattfindet (denken Sie an die Mutation des Körperorgans – Organe der äußeren Sinne, Gehirnzentren, Nervensystem usw.). Nur im intellektuellen Wissen (das völlig spirituell ist) gibt es eine vollständige Intentionalität und daher eine Immanenz der Aktivität. Der menschliche Intellekt bedient sich des sensiblen Instruments in seiner Erkenntnis (Prozess der Abstraktion, diskursive Vernunft), während der engelhafte Intellekt die Art kennt, die seiner Natur durch reine kognitive Erleuchtung angezeigt wird. Allerdings findet in jedem geschaffenen Intellekt die immanente (absichtliche) Handlung im Rahmen einer vorübergehenden (physischen) Betätigung des Subjekts statt, da der neue Akt des Wissens eine neue zufällige Einheit ist, die sich wirklich von dem Subjekt unterscheidet, zu dem er hinzugefügt wird. Nur in Gott fallen intellektuelles Sein und Wissen zusammen, so dass sein Handeln nur absichtlich und immanent und keineswegs (zumindest in Bezug auf Gott selbst) körperlich und transitiv ist.

Ciò è dovuto all’identità reale tra l’Ente sussistente e l’Intelletto sussistente in Dio.

In primo luogo occorre notare l’affinità tra l’ente e l’intelletto in genere come somme perfezioni in un duplice ordine di perfezione:

Nell’ordine delle perfezioni graduali non c’è perfezione più grande dell’intelletto.

Nell’ordine delle perfezioni trascendentali non c’è dimensione perfettiva più grande dell’essere che è atto di ogni atto.

Come nell’ordine dell’attuazione operativa accidentale e predicamentale il sommo è costituito dall’intelletto, così nell’ordine dell’attuazione entitativa sostanziale e trascendentale il sommo è costituito dall’essere.

Ma la linea della perfettibilità operativa è a sua volta racchiusa nella linea della strutturabilità entitativa. Nell’ente le attuazioni perfettive ed operative trovano il loro luogo proprio tra l’essenza terminata dal soggetto e l’essere, cosicché nella struttura complessiva dell’ente tutte le perfezioni graduali predicamentali sono superate e pervase dall’essere trascendentale. In tal modo però l’ultima e la più alta perfezione dell’ordine perfettivo arriva a contatto-limite con l’ultima e la più alta perfezione dell’ordine trascendentale. Ciò significa che in genere il livello intellettivo è a contatto con la dimensione entitativa suprema (atto di essere, ente in quanto è ente).

Siccome le due linee di attuazione (perfettivo-operativa ed entitativa) sono realmente distinte, ne segue che l’essere può realizzarsi in una maniera parziale anche in enti carenti della perfezione intellettiva o di altre perfezioni.

Zunächst ist die Affinität zwischen dem Wesen und dem Intellekt im Allgemeinen als Summenvollkommenheiten in einer doppelten Vollkommenheitsordnung zu beachten: In der Reihenfolge der allmählichen Vollkommenheit gibt es keine größere Vollkommenheit als den Intellekt. In der Ordnung der transzendentalen Vollkommenheiten gibt es keine größere vollkommene Dimension als das Sein, das der Akt jeder Handlung ist. So wie in der Ordnung der zufälligen und prädikamentalen operativen Betätigung das Höchste durch den Intellekt konstituiert wird, so wird in der Ordnung der substantiellen und transzendentalen entitativen Betätigung das Höchste durch das Sein konstituiert. Aber die Linie der operativen Perfektionierbarkeit ist wiederum in der Linie der entitativen Strukturierbarkeit eingeschlossen. Im Wesen finden die vervollkommnenden und operativen Betätigungen ihren eigenen Platz zwischen dem durch das Subjekt abgeschlossenen Wesen und dem Sein, so dass in der Gesamtstruktur des Wesens alle allmählichen, schwierigen Vollkommenheiten vom transzendentalen Sein überwunden und durchdrungen werden. Auf diese Weise kommt jedoch die letzte und höchste Vollkommenheit der vollkommenen Ordnung in Grenzkontakt mit der letzten und höchsten Vollkommenheit der transzendentalen Ordnung. Dies bedeutet, dass die intellektuelle Ebene im Allgemeinen mit der höchsten Entitätsdimension (Seinsakt, Sein als Sein) in Kontakt steht. Da die beiden Betätigungslinien (perfektiv-operativ und entitativ) wirklich unterschiedlich sind, folgt daraus, dass das Sein auch in Entitäten, denen es an intellektueller Perfektion oder anderen Vollkommenheiten mangelt, teilweise verwirklicht werden kann.

Ne segue però altresì che laddove l’atto entitativo (l’essere) coincide con la stessa essenza sussistente non c’è luogo per un’attuazione perfettivo-operativa intermedia, perché allora sparisce lo spazio intermedio tra essenza e essere che costituiva il campo delle perfezioni accidentali al di sopra dell’essenza o natura, ma al di sotto dell’essere.

Ciò non vuol dire però che nell’Ente sussistente viene a mancare la perfezione operativa, ma vuol dire che essa coincide con la sua stessa essenza, che è atto puro di essere.

L’esercizio dell’esistenza e della vita coincidono ora tra loro e con la perfezione somma che è l’intelletto in atto secondo. In tal modo la stessa essenza di Dio è identica (in linea entitativa) con l’essere e allo stesso tempo (in linea operativa) con l’intelletto sussistente in atto secondo.

La linea operativa però e quella entitativa sono a loro volta identiche in Dio, Ente per se sussistente. Per conseguenza, l’Intelletto sussistente e l’Essere sussistente che costituiscono primariamente, cioè metafisicamente, rispettivamente la natura e l’essenza di Dio, dato che il fondamento di distinzione di ragione tra natura ed essenza, che è la reale distinzione della linea operativa ed entitativa negli enti finiti, non ha luogo in Dio, ma solo nelle cose da lui distinte, vengono a coincidere così da non offrire più all’intelletto un fondamento oggettivo di distinzione, ragion per cui non si distinguono nemmeno secondo una distinzione virtuale minore (di esplicito-implicito), ma solo secondo una distinzione virtuale estrinseca con fondamento non già nella realtà stessa (nemmeno imperfetto), ma solo in altre cose.

Dies bedeutet jedoch nicht, dass es der existierenden Entität an funktioneller Perfektion mangelt, sondern dass sie mit ihrem eigentlichen Wesen, das ein reiner Akt des Seins ist, übereinstimmt. Die Ausübung der Existenz und des Lebens fallen nun miteinander und mit der höchsten Vollkommenheit zusammen, die der zweite Intellekt ist. Auf diese Weise ist das Wesen Gottes selbst (in der entitativen Linie) identisch mit dem Sein und gleichzeitig (in der operativen Linie) mit dem im zweiten Akt existierenden Intellekt. Allerdings sind die operative Linie und die entitative Linie wiederum identisch in Gott, der per se existierenden Entität. Folglich sind der existierende Intellekt und das existierende Sein primär, d. h. metaphysisch, jeweils die Natur und das Wesen Gottes konstituieren, vorausgesetzt, dass der Grund der Unterscheidung zwischen Natur und Wesen der Vernunft ist, die die wirkliche Unterscheidung der operativen Linie und des Entitativen in endlichen Einheiten ist , hat keinen Platz in Gott, sondern nur in den von ihm verschiedenen Dingen, die so zusammenfallen, dass sie dem Intellekt keine objektive Unterscheidungsgrundlage mehr bieten, weshalb sie sich nicht einmal nach einer geringfügigen virtuellen Unterscheidung unterscheiden (von explizit- implizit), aber nur gemäß einer extrinsischen virtuellen Unterscheidung, deren Grundlage nicht bereits in der Realität selbst (nicht einmal unvollkommen) liegt, sondern nur in anderen Dingen.

L’intellettualità divina insieme all’essere sussistente è metafisicamente costitutiva dell’essenza o natura divina; invece gli altri attributi, distinti sia dall’essenza che tra di loro secondo la distinzione virtuale minore[8], sono costitutivi dell’essenza fisica. di Dio nella duplice linea già indicata di attributi entitativi ed operativi, gli uni derivanti dall’essere da sé

(essere sussistente, atto puro), gli altri derivanti dall’Intelletto sussistente in atto secondo.

Questa dottrina non deroga per nulla alla priorità assoluta dell’essere (anche rispetto all’intelletto), ma mette giustamente in risalto come all’infinita attualità ed universalità dell’essere corrisponde l’infinità di intenzionalità e di recettività dell’intelletto.

L’intelletto divino è privo di materia e così è al sommo grado di intellettualità ossia di intenzionalità (I,14,1 c.a.) ed è privo di potenzialità e cosi la sua somma intellettualità coincide con il suo essere sussistente che è la sua stessa essenza. L’azione divina è in tal modo soltanto immanente non solo nell’ordine intenzionale (presenza dell’oggetto al soggetto), ma anche nell’ordine fisico[9] (presenza per semplice identità non per mezzo di una specie intelligibile distinta) (I,14,2 ad 2).

L’azione di Dio coincide quindi formalmente con la sua stessa essenza, agire, che non adeguano la proporzione dell’azione stessa quindi sono perfettamente dominati da essa con somma indifferenza attiva.

Göttliche Intellektualität ist zusammen mit dem existierenden Sein metaphysisch konstitutiv für die göttliche Essenz oder Natur; (ist ein bestehender, reiner Akt), die anderen stammen aus dem Intellekt, der im zweiten Akt existiert. Diese Lehre weicht keineswegs vom absoluten Vorrang des Seins (auch in Bezug auf den Intellekt) ab, sondern hebt zu Recht hervor, wie die unendliche Aktualität und Universalität des Seins der Unendlichkeit der Intentionalität und Rezeptivität des Intellekts entspricht. Der göttliche Intellekt ist materielos und befindet sich daher auf dem höchsten Grad an Intellektualität oder Intentionalität (I,14,1 c.a.) und ist frei von Potentialität, und daher fällt seine höchste Intellektualität mit seinem existenziellen Wesen zusammen, das sein eigentliches Wesen ist. Das göttliche Handeln ist somit nur immanent, nicht nur in der absichtlichen Ordnung (Anwesenheit des Objekts gegenüber dem Subjekt), sondern auch in der physischen Ordnung (Anwesenheit durch bloße Identität, nicht durch eine bestimmte intelligible Art) (I,14, 2 bis 2). Gottes Handeln fällt daher formal mit seinem Wesen selbst zusammen, auch wenn es definitiv (virtuell) Wirkungen erzeugt, die sich vom göttlichen Wesen unterscheiden, und dies nicht nur im Sinne der endgültigen Kausalität, sondern auch im Sinne der wirksamen Kausalität, die das Wesen der Dinge (Materie usw.) ausmacht Form) und ihre Existenz (Entitätsform) finalisieren sie auf Gott selbst als ihr ultimatives Ziel (was jedoch finalisiert wird, ist nicht das Handeln Gottes, das selbst das ultimative Ziel ist, sondern die Auswirkungen, die es bewirkt). In seinem Handeln ist Gott überaus frei und beherrscht nicht sein Handeln, das seine notwendige Natur der absoluten Notwendigkeit darstellt, sondern alle Wirkungen seines Handelns, die die Proportionen des Handelns selbst nicht bestimmen und daher vollständig von ihm vollkommen beherrscht werden Aktive Gleichgültigkeit.

Tra i due ordini vi è una perfetta corrispondenza non solo per analogia, ma per semplice identità.

Infatti, l’ordine delle cause moventi e mosse coincide con l’ordine degli enti in quanto sono soggetto di causalità attiva o passiva e infatti il fatto di essere causa o causato è una proprietà coestensiva con l’ente: più l’ente è attuale, più la sua causalità è attiva (agere sequitur esse), ma non c’è nessun ente reale tanto potenziale da non essere nemmeno passivamente causato. Se invece l’operatività viene ristretta al predicamento dell’azione o della passione, allora non è più un trascendentale, perchè non coincide con l’ente in quanto è ente (vi è un ente che non è soggetto di causalità attiva – la materia prima -; e vi è un ente che non è soggetto di causalità passiva – Dio -).

Vi è perciò una causalità operativa per così dire trascendentale ed un’altra che è predicamentale (distinta in attiva e passiva), accidentale, perfettiva. Se si considera l’operatività trascendentale, essa segue l’ente non per reale distinzione da esso, ma per semplice coincidenza con esso in tutta la sua estensione universalissima e così l’ordine dei moventi e mossi pervade tutto l’ente dal primo movente immobile fino all’ultimo mobile mosso, ma non movente.

L’ordine degli intelligibili è l’ordine della verità ontologica delle cose che coincidono con la loro entità (quidquid est, intelligi potest /in quantum est/). In tal modo anche l’ordine degli intelligibili coincide con l’ordine dell’ente trascendentale.

Tatsächlich stimmt die Grundlage der einen Ordnung mit der der anderen überein, da beide auf transzendentalen Göttern basieren. Tatsächlich stimmt die Reihenfolge der bewegten und bewegten Ursachen mit der Reihenfolge der Entitäten überein, da sie Gegenstand aktiver oder passiver Kausalität sind und tatsächlich die Tatsache, Ursache oder verursacht zu sein, eine koextensive Eigenschaft mit der Entität ist: je aktueller die Entität ist , desto aktiver ist seine Kausalität (agere sequitur esse), aber es gibt keine wirkliche Entität, die so potenziell ist, dass sie nicht einmal passiv verursacht wird. Beschränkt sich stattdessen die Wirksamkeit auf die Prädikation von Handlung oder Leidenschaft, dann ist sie kein Transzendentales mehr, weil sie nicht mit der Entität zusammenfällt, sofern sie Entität ist (es gibt eine Entität, die nicht Gegenstand aktiver Kausalität ist – die Rohstoff -; und es gibt eine Entität, die keiner passiven Kausalität unterliegt – Gott -). Es gibt also eine operative Kausalität, die sozusagen transzendental ist, und eine andere, die prädikational (unterscheidet in aktiv und passiv), zufällig, perfektiv ist. Wenn man die transzendentale Operation betrachtet, folgt sie der Entität nicht durch wirkliche Unterscheidung von ihr, sondern durch einfache Koinzidenz mit ihr in all ihrer universellsten Ausdehnung, und so durchdringt die Ordnung der Motive und Bewegungen die gesamte Entität vom ersten unbeweglichen Motiv bis zum letztes Möbelstück bewegt, aber nicht bewegt. Die Ordnung der Intelligiblen ist die Ordnung der ontologischen Wahrheit der Dinge, die mit ihrer Entität zusammenfallen (quidquid est, intelligi potest /in Quantum est/). Auf diese Weise fällt auch die Ordnung des Intelligiblen mit der Ordnung des transzendentalen Wesens zusammen. Die erste in der Ordnung der Entitäten ist die substantielle Entität und in der Ordnung der Substanzen ist die erste Substanz das, was ihr Akt (des Seins und Handelns) ist, also die rein tatsächliche Substanz. Nun ist die rein wirkliche Substanz die erste in der transzendentalen Kausalordnung, insofern sie den ersten unbeweglichen Beweger darstellt, der sich nur bewegt, ohne bewegt zu werden, und folglich die erste Ursache der passiven Bewegung ist, der jedes Bewegliche unterliegt, sei es der Reihe nach sich bewegt oder sich nur bewegt, ohne sich zu bewegen. Die Substanz selbst, die die Handlung ist, ist die erste, insofern Akzidenzen durch die Substanz und die Kraft durch die Handlung, die sie definiert, erkannt werden. Beachten Sie den Unterschied zwischen: ¶ die Essenz-Sein-Beziehung in der Ordnung der Entitäten e ¶ die Bewegungs-Bewegungs-Beziehung in der Ordnung der transzendentalen Kausalität, die mit der Entität insofern übereinstimmt, als jede Entität entweder der Ursprung anderer Entitäten ist oder von einer anderen Entität abstammt. Tatsächlich handelt es sich in beiden Fällen um die Beziehung einer potenziellen Dimension, die von einer tatsächlichen Dimension abhängt, was das Prinzip der Abhängigkeit darstellt. Während jedoch die Beziehung zwischen Wesen und Sein analeptisch ist (je mehr Sein beteiligt ist, desto tatsächlicher ist die beteiligte Essenz), ist die Beziehung zwischen aktiver und passiver Kausalität im Bereich der einzigen „transzendentalen Kausalität“ dialektisch (je aktiver). es eine Ursache ist, desto unwahrscheinlicher ist es, dass sie verursacht wird; je passiver eine Ursache, desto weniger fähig ist sie, aktiv zu handeln. Dies gilt jedoch nur im Hinblick auf die „Qualität“ der Bewegung (je aktiver sie ist, desto weniger passiv), nicht im Hinblick auf die „Intensität“ der kausalen Beteiligung (je aktiver eine Ursache ist, je mehr es an der primären Ursache und ihrer Wirkung beteiligt ist), in der die Beziehung wieder analeptisch wird.

La distinzione tra l’uno e il semplice è quella che l’uno esclude la molteplicità riguardo ad una misura; la semplicità esclude la composizione delle parti riguardo ad un tutto.

Einfachheit schließt die Zusammensetzung von Teilen im Hinblick auf ein Ganzes aus. Einheit kann verstanden werden: als transzendentale Einheit, die der Entität entspricht und somit jeder Entität zusteht, sofern sie Entität ist (die Entität anzeigt); als numerische Einheit, die dem Individuum in Bezug auf Art und Gattung entspricht (zeigt Individualität an); als prädikamentale Einheit in der Gattung der Quantität, die einer quantifizierbaren materiellen Einheit entspricht (sie gibt die Menge an, die wiederum das materielle Individuum nicht nur angibt, sondern misst). Numerische (individuelle) Einheit führt nicht immer zur Einfachheit, da ein Individuum grundsätzlich auf unterschiedliche Weise zusammengesetzt sein kann. Die göttliche Einheit, die auf der Koinzidenz des Seins mit dem individuellen Subjekt beruht, ist eine Einheit aufgrund der Quasi-Gattung (das existentielle Sein ist weder in einer Gattung noch kann es sich in der Art einer Gattung in Arten vermehren) und beinhaltet daher in Tatsache ist die vollkommene Einfachheit, das heißt das Fehlen einer Komposition, selbst der ersten und grundlegenden, nämlich der Gesamtkomposition. Einheit und Einfachheit fallen daher in Gott zusammen, doch um genau zu sein, muss klargestellt werden, dass das erste Motiv nicht nur eines ist, sondern in höchstem Maße eins und daher in höchstem Maße einfach. Der heilige Thomas denkt hier an eine polemische Klarstellung des Aristoteles zu Platon. Tatsächlich ist in der platonischen Auffassung der Ausgangspunkt das Vielfache, das mittels der Ideentheorie auf die wesentliche formale Einheit zurückgeführt werden soll. Somit entspricht jedem sinnlichen Wesen ein eigenes ideales Wesen, dessen sinnliches Wesen nur eine Teilnahme und Nachahmung ist. So gelangen wir zur idealen Welt, die jedoch wiederum vielfältig ist und daher auch in der Idee des Guten, das das Eine, das absolute Prinzip ist, auf die Einheit reduziert werden muss. Damit ist die numerische Einheit des ersten Prinzips erreicht, über seinen ontologischen Status ist jedoch noch nichts bekannt; es scheint sogar, dass es nur eine Essenz (wenn auch die erste und höchste) unter vielen anderen ist.

Platon achtet darauf, seine Transzendenz über die usia selbst hinaus zu betonen (hier liegt der Grund für die Identifikation mit dem Guten, die universeller erscheint als in der essentialistischen Konzeption). Der Grund für diese Transzendenz wird jedoch nicht angegeben, so dass die Behauptung nicht den Wert einer wissenschaftlichen Schlussfolgerung hat, sondern eines Postulats, dem eine Hypothese entspricht (die Transzendenz des Einen wird postuliert und daher zum Bestand gemacht). Hypothese im Brunnen). Aristoteles geht stattdessen von der Dynamik des Werdens aus, um die Prinzipien des substantiellen Wesens zu entdecken und die Möglichkeit durch die Wirklichkeit zu erklären, die es definiert. Das Prinzip wird daher die rein tatsächliche substanzielle Einheit sein, die den Geliebten als Zweck bewegt (und daher lässt Aristoteles auch das erste Prinzip im höchsten Gut bestehen, das der Zweck ist). Dieses Prinzip ist notwendigerweise einzigartig, weil es alle Genres überschreitet, und es ist auch vollkommen einfach, weil es jegliche Komposition ausschließt (in der Tat setzt Komposition die Möglichkeit voraus, und die Möglichkeit ist vom reinen Akt völlig ausgeschlossen). Auf diese Weise ist die treibende Kraft nicht nur eine Realität unter vielen anderen, auch wenn sie die erste ist, sondern sie ist eine Essenz, die über den anderen steht und alle anderen begründet (nicht nur formal, sondern auch zielgerichtet), gerade weil sie es ist Ein Wesen ist identisch mit dem Sein und daher seine Unterscheidung ratione generis von allen endlichen Entitäten und damit seine absolute Transzendenz.

L’appetito segue la conoscenza e la volontà segue l’intelletto.

L’ordine intelligibile ed appetibile si corrispondono non per semplice identità, bensì per proporzionalità analogica, anche se la verità ontologica (intelligibilità oggettiva, potenziale rispetto all’intelligenza in atto) coincide con lo stesso ente e quindi si identifica semplicemente con il bene che a sua volta è identico all’ente secondo la sua realtà fisica. La verità logica è un trascendentale perché è coestensiva con l’ente, ma non è semplicemente identica all’ente secondo la sua realtà fisica, anche se si identifica con esso come l’intelletto in atto si identifica con l’intelligibile in atto. L’ente conosciuto è lo stesso ente non fisicamente, ma rappresentativamente (intenzionalmente) secondo l’analogia della conoscenza e della realtà.

Der Appetit folgt dem Wissen und der Wille folgt dem Intellekt. Nun ist es dem Intellekt eigen, für jede Form repräsentativ (absichtlich) empfänglich zu sein, was gleichbedeutend ist mit der Aussage von jeder Entität, denn jede Entität ist, sofern sie Entität ist, Form und Handlung. Die Entität, sofern sie Entität ist, ist daher das gemeinsame (analoge) formale Objekt des Intellekts auf jedem Grad der Intellektualität. Der intellektuelle Appetit wiederum schlägt diese absolute Universalität, diese unendliche gehorsame Offenheit gegenüber Wesen als Wesen vor, aber er tut dies auf seinem eigenen Gebiet, das nicht das der Darstellung, sondern das der Tendenz ist. Der Intellekt geht von der Sache aus, um sie im Subjekt kognitiv darzustellen; Der Wille geht von der kognitiven Absicht aus, sich um die äußere Realität zu kümmern, die er repräsentiert. Das Intelligible in der Tat liegt also im Intellekt; Das Appetitliche im Akt liegt in der physischen, objektiven Realität der Dinge. Die intelligible und schmackhafte Ordnung korrespondieren nicht durch einfache Identität, sondern durch analoge Proportionalität, auch wenn die ontologische Wahrheit (objektive Verständlichkeit, Potenzial in Bezug auf die Intelligenz in Aktion) mit der Entität selbst übereinstimmt und daher einfach mit dem Guten identifiziert wird, das wiederum ist es ist seiner physischen Realität nach mit der Entität identisch. Die logische Wahrheit ist eine transzendentale Wahrheit, weil sie mit der Entität koextensiv ist, aber sie ist ihrer physischen Realität nach nicht einfach mit der Entität identisch, selbst wenn sie sich mit ihr identifiziert, wie sich der Intellekt in Aktion mit dem Intelligiblen in Aktion identifiziert. Die bekannte Entität ist dieselbe Entität, nicht physisch, sondern repräsentativ (absichtlich) gemäß der Analogie von Wissen und Realität. Beachten Sie, dass Erkanntsein und Sein in der objektiven Realität bei Gott zusammenfallen, der sowohl die erste logische als auch ontologische Wahrheit ist, dessen Wesen sein Wissen und Erkanntsein ist. In Gott erkannt zu werden, bedeutet, dass er nicht nur absichtlich, formal, sondern auch physisch und objektiv ist.

Mentre l’essere e l’intelletto sussistenti entrano entrambi nella costituzione metafisica dell’essenza (natura) divina, distinguendosi solo secondo una distinzione di ragione ragionante detta virtuale estrinseca (con fondamento non nella stessa, ma in un’altra realtà), l’intelletto e la volontà sussistenti in Dio si distinguono secondo la distinzione di ragione ragionata ossia virtuale minore (con fondamento imperfetto nella realtà),[10] perché anche in Dio queste due realtà mantengono la ragione oggettiva di distinzione (il che appare sopratutto dal loro ordine nel quale l’intelletto precede e la volontà segue), anche se tali ragioni oggettive non possono essere composte tra loro (il che supporrebbe potenzialità), ma una è implicitamente racchiusa nell’altra e viceversa secondo un ordine di priorità e posteriorità che rimane inalterato (la volontà divina è implicita nell’intelletto divino come fondata da esso e l’intelletto divino è implicito nella volontà divina come ciò che la fonda).

L’identità non semplice, ma per lo meno analogica dei due ordini (quello dell’intelligibile in atto – verità logica -, e quello dell’appetibile – bene -) conduce all’identificazione del sommo intelligibile con il sommo bene appetibile.

Während das existierende Sein und der Intellekt beide in die metaphysische Konstitution der göttlichen Essenz (Natur) eingehen und sich nur durch eine Unterscheidung der Argumentation unterscheiden, die extrinsisch virtuell genannt wird (die nicht in sich selbst, sondern in einer anderen Realität begründet ist), existieren der Intellekt und der Wille in Gott werden gemäß der Unterscheidung der begründeten Vernunft unterschieden, d. h. geringfügiger virtueller (mit einer unvollkommenen Grundlage in der Realität), weil diese beiden Realitäten auch in Gott den objektiven Grund für die Unterscheidung beibehalten (der vor allem aus ihrer Reihenfolge hervorgeht, in der der „Intellekt“ vorangeht und). der Wille folgt), auch wenn diese objektiven Gründe nicht kombiniert werden können (was eine Möglichkeit voraussetzen würde), sondern das eine implizit in das andere eingeschlossen ist und umgekehrt gemäß einer Reihenfolge der Priorität und Nachkommenschaft, die unverändert bleibt (der Wille ist im Göttlichen impliziert). der Intellekt als dessen Grundlage, und der göttliche Intellekt ist im göttlichen Willen als das, was ihn begründet, impliziert). Die nicht einfache, aber zumindest analoge Identität der beiden Ordnungen (die des Intelligiblen in der Tat – logische Wahrheit – und die des Schmackhaften – Guten –) führt zur Identifizierung des höchsten Intelligiblen mit dem höchsten schmackhaften Guten.

Il desiderabile (appetibile) però non sempre coincide con l’intelligibile (e di per sè eleggibile). Infatti, l’uomo può desiderare in particolare qualcosa di diverso da ciò che gli appare intellettivamente come un bene in generale. Questo è dovuto all’appetito sensibile che segue la conoscenza sensitiva e può pervertire il giudizio della ragione (conoscenza intellettiva), in quanto fa apparire alla ragione come un bene universale ciò che è un bene solo rispetto all’appetito sensitivo, cioè un bene particolare. Così è giudicato come un bene ciò che è desiderato come un bene; il desiderio precede quindi la conoscenza e influisce in essa, cosa che avviene ovviamente per accidens, perché per se vale il principio nihil volitum nisi praecognitum e se il desiderio sensibile può sovvertire il sillogismo pratico della ragione, esso è a sua volta preceduto da una conoscenza sensitiva che lo fonda). Nell’ordine intellettivo, astraendo dall’influsso accidentale del senso, vale però il contrario e cioè è desiderato come un bene ciò che è giudicato come un bene (la conoscenza precede quindi la tendenza attuale della parte appetitiva). La volontà può scegliere rettamente un bene sensibile, ma solo se è conforme al dettame della ragione. In tal modo le passioni della parte sensitiva dell’anima hanno una loro intrinseca moralità in quanto secondo la loro stessa natura devono obbedire alla ragione.

Tatsächlich kann der Mensch im Besonderen etwas anderes begehren als das, was ihm intellektuell als Gut im Allgemeinen erscheint. Dies ist auf den sinnlichen Appetit zurückzuführen, der der Sinneserkenntnis folgt und das Urteil der Vernunft (intellektuelles Wissen) verfälschen kann, da er die Vernunft als ein universelles Gut erscheinen lässt, das nur in Bezug auf den sensiblen Appetit ein Gut ist, also ein besonderes Gut. So wird das, was als Gut gewünscht wird, als Gut beurteilt; Das Verlangen geht also dem Wissen voraus und beeinflusst es, was offensichtlich zufällig geschieht, weil das Prinzip nihil volitum nisi praecognitum per se gilt und wenn das sinnliche Verlangen den praktischen Syllogismus der Vernunft untergraben kann, geht ihm wiederum ein wissenspsychischer Geist voraus, der es begründet.) . In der intellektuellen Ordnung ist jedoch, wenn man vom zufälligen Einfluss der Sinne abstrahiert, das Gegenteil der Fall, nämlich dass das, was als Gut beurteilt wird, als Gut begehrt wird (Wissen geht daher der aktuellen Tendenz des appetitiven Teils voraus). Der Wille kann mit Recht ein vernünftiges Gut wählen, aber nur, wenn es den Geboten der Vernunft entspricht. Auf diese Weise haben die Leidenschaften des sensiblen Teils der Seele ihre eigene intrinsische Moral, da sie ihrer Natur nach der Vernunft gehorchen müssen. Denn wenn also das Wissen dem Appetit vorausgeht und das heißt: Sinneswissen geht dem Sinnesappetit voraus e Intellektuelles Wissen geht dem intellektuellen Appetit voraus, der der Wille ist. Zufälligerweise kann sensibles Wissen das Urteil der Vernunft beeinflussen: ¶ entweder es ganz zu verhindern (zweiter erster Antrag, Sünde der Sinnlichkeit), ¶ oder es in praktischen Überlegungen zu ändern (Syllogismus des Sünders: Wie man sieht, beeinflusst der Appetit per Zufall und fast dispositiv, also von unten nach oben, und das kann er, weil er von der Vernunft und dem Willen nur politisch und nicht despotisch beherrscht wird, weshalb er in der Lage ist35, aktiv zu empfangen Es ist an sich an der praktischen Urteils-, Entscheidungs- und Befehlsfähigkeit beteiligt und kann diese Handlungen daher auch aktiv beeinflussen, indem es sie entweder verhindert oder verändert. Bei der leidenschaftlichen Veränderung des praktisch-praktischen Urteils ist zu beachten, dass per se das Intelligible die Vernunft und die Vernunft den Willen bewegt, die Vernunft aber per accidens durch das Besondere Schmackhafte bewegt wird, so dass auch der Wille, der der Vernunft folgt, das Gute Besondere wählt im Gegensatz zum universellen Wohl, das von der Vernunft diktiert wird. In diesem Fall fällt das Intelligible (und das abstrakt Wünschenswerte) nicht mit dem konkret Wünschenswerten zusammen

Il finis quo che è l’essere del corpo nel luogo per mezzo del quale il corpo raggiunge il luogo è solo nell’intenzione dell’agente; invece il fine qui che è il luogo stesso è realmente preesistente e poi riconosciuto dall’agente come il fine della sua azione. Materialmente preesiste, formalmente però si costituisce come fine in forza dell’intenzione dell’agente.

Talvolta però il fine preesiste non solo come quella cosa che può essere fine dell’agente, ma come quella cosa che non può essere altro che fine o in assoluto (sommo bene) o rispetto a quel tale agente (beni connaturali dell’agente).

Il fine invece non è attuale, ma solo potenziale (e quindi ancora da realizzare per mezzo di un passaggio dalla potenza all’atto) là dove esso ha un’esistenza solo nell’intenzione dell’agente prima e nella realtà delle cose poi, dopo il compimento della sua esecuzione. Tale fine può essere nell’intenzione dell’agente solo quanto all’opera stessa, senza che la stessa realizzazione dell’opera da parte dell’agente entri nella ragione del fine e allora si tratta di un fine fattibile che è oggetto dell’arte (ad es. il medico causa nel paziente la salute fisica per mezzo della medicina e ciò che intende causare è solo la salute da raggiungere per delle vie già determinate dall’arte, cosicchè l’esercizio attuale della guarigione non entra nella sua finalità sotto l’aspetto formale stretto della medicina).

Se il fine è nell’intenzione dell’agente non solo quanto all’opera stessa, ma anche quanto al suo esercizio da parte dell’agente da porre hic et nunc, allora si tratta di un fine agibile, che è oggetto dell’etica e in particolare della prudenza (ad es. l’uomo virtuoso pone degli atti conformi ai dettami della ragione nelle circostanze particolari nelle quali si trova, cosicché non solo l’opera stessa ha ragione di fine, ma anche il suo esercizio attuale o meno.

Inoltre i mezzi della realizzazione dell’opera non sono in nessun modo prestabiliti o determinati e quindi rientrano anch’essi nella scelta deliberata dell’agente).

Stattdessen existiert hier der Zweck, der der Ort selbst ist, tatsächlich bereits und wird dann vom Handelnden als Zweck seines Handelns erkannt. Materiell existiert es bereits, formal ist es jedoch aufgrund der Absicht des Handelnden als Zweck konstituiert. Manchmal existiert der Zweck jedoch nicht nur als das Ding, das das Ziel des Handelnden sein kann, sondern als das Ding, das nichts anderes als ein Ziel sein kann, entweder in absoluten Begriffen (höchstes Gut) oder in Bezug auf diesen Handelnden (natürlich). Ware des Maklers). Das Ziel hingegen ist nicht wirklich, sondern nur potentiell (und muss daher noch durch einen Übergang von der Potenz zur Handlung verwirklicht werden), wo es zunächst nur in der Absicht des Handelnden und dann in der Realität der Dinge existiert , nach Abschluss seiner Ausführung. Dieses Ziel kann in der Absicht des Handelnden nur in Bezug auf das Werk selbst liegen, ohne dass die bloße Verwirklichung des Werkes durch den Handelnden auf den Grund für das Ende eingeht, und dann ist es ein realisierbares Ziel, das Gegenstand der Kunst ist (z. B. Der Arzt bewirkt durch die Medizin die körperliche Gesundheit des Patienten, und was er bewirken will, ist nur die Gesundheit, die auf durch die Kunst bereits bestimmten Wegen erreicht werden soll, so dass die eigentliche Ausübung der Heilung nicht unter dem streng formalen Aspekt in ihre Endgültigkeit eintritt Medizin). Liegt der Zweck in der Absicht des Handelnden nicht nur hinsichtlich der Arbeit selbst, sondern auch hinsichtlich ihrer Ausübung durch den Handelnden, die hic et nunc gestellt werden soll, dann handelt es sich um einen erreichbaren Zweck, der Gegenstand der Ethik ist und insbesondere der Klugheit (z. B. führt der tugendhafte Mensch unter den besonderen Umständen, in denen er sich befindet, Handlungen aus, die den Geboten der Vernunft entsprechen, so dass nicht nur die Arbeit selbst einen Grund hat, zu enden, sondern auch ihre tatsächliche oder anderweitige Ausübung. Darüber hinaus sind die Mittel zur Ausführung der Arbeiten in keiner Weise im Voraus festgelegt oder festgelegt und fallen daher ebenfalls in die bewusste Wahl des Auftragnehmers.

Wo hingegen die Art und Weise, wie die Arbeit ausgeführt wird, dem Handelnden selbst obliegt (z. B. hic et nunc bestimmen, was zu tun ist), dann gilt nicht nur die Arbeit, sondern auch der Handelnde und seine Handlung unter dem formalen Aspekt ihres Tatsächlichen Übung, sind alle am Ende beteiligt (Ethik, Klugheit), so dass der Handelnde nicht nur zum Ziel geht, sondern für sich selbst zum Ziel wird in Bezug auf die davon abhängige Handlung; Dies ist ein eindeutiges Zeichen der Freiheit (aktive Beherrschung der eigenen Handlung und des Objekts oder, in der eminenten formalen Freiheit Gottes, der Beherrschung der Wirkung, da die Handlung mit dem Wesen zusammenfällt, ohne fortschreitend zwischen Ursache und Wirkung zu vermitteln , damit Gott unbewegt handelt und alle Dinge sofort und ex arupto von ihm ausgehen (ratione totius entis), ohne sein Wesen oder seine Wirkung zu verändern).

Il fine attuale non è né fattibile né agibile, ma semplicemente preesistente e quindi non è suscettibile di un passaggio dalla potenza all’atto in una realizzazione progressiva a modo di un moto o di una mutazione. Ciò che entra nell’intenzione dell’agente non è quindi la realizzazione del fine a modo di un fare o di un agire, bensì il suo raggiungimento da parte dell’agente che aspira alla sua partecipazione.

Il fine esercita allora la sua attrazione teleologica non solo in quanto è nell’intenzione dell’agente, ma secondo la sua stessa bontà oggettiva che è partecipata negli inferiori in modo tale che essi si muovono per amore del sommo Bene, in quanto la loro partecipazione del bene (e dell’agire) dipende dall’attrazione finalistica del sommo Bene a cui partecipano. In questo modo anche gli agenti privi di conoscenza e addirittura di vita e quindi incapaci di avere un’intenzione soggettiva del fine, si muovono nondimeno di fatto al fine ultimo, dal quale ricevono il loro essere, la loro bontà e la loro stessa ordinazione finalistica (sono infatti enti e beni per partecipazione, il che vuol dire che sono o mezzi soltanto per il fine o mezzi e fini allo stesso tempo; ma in quanto sono fini non hanno ragione di fine ultimo, ma soltanto di un fine intermedio, cioè di un fine parziale e ulteriormente ordinato ad un fine superiore. Il che significa che finalisticamente parlando o sono mossi soltanto o sono moventi e mossi, ma se sono moventi, allora lo sono solo in quanto sono mossi, mentre quella realtà divina che è fine soltanto e in nessun modo mezzo per il fine è, sempre nell’ordine finalistico, movente soltanto senza essere mossa).

Il primo movente immobile può muovere come fine mantenendo la sua pura attualità:

  1. perché il fine può preesistere non solo nell’intenzione dell’agente, ma anche nella stessa realtà delle cose;
  2. perché il fine ultimo è solo fine e quindi solo movente senza essere mosso (gli inferiori invece sono sia moventi che mossi o addirittura sono mossi soltanto).

Mentre essere fine di un agente inferiore non altera per nulla quella realtà che è fine, anche se è qualcosa di reale in ciò che si muove verso il fine (relazione di dipendenza dal fine), nell’ordine degli agenti sembra che essere agente in linea di causalità efficiente alteri accidentalmente la natura dell’agente (per aggiunta di un’attuazione accidentale nuova nel predicamento dell’azione, il che suppone d’altra parte un ricevere passivo di tale nuova azione e quindi qualcosa di nuovo anche nel genere della passione); ragion per cui Aristotele ammetteva nel primo movente immobile solo l’azione finalistica, escludendo però quella efficiente; nel primo mobile invece ammetteva sia quella finalistica che quella efficiente.

Das gegenwärtige Ziel ist weder machbar noch realisierbar, sondern existiert lediglich bereits und ist daher nicht anfällig für einen Übergang von der Möglichkeit zu einer fortschreitenden Verwirklichung in der Art einer Bewegung oder einer Mutation. Was in die Absicht des Handelnden eingeht, ist daher nicht die Verwirklichung des Ziels durch die Art und Weise seines Tuns oder Handelns, sondern dessen Erreichen durch den Handelnden, der danach strebt, daran teilzunehmen. Der Zweck übt dann seine teleologische Anziehungskraft nicht nur insofern aus, als er in der Absicht des Handelnden liegt, sondern gemäß seiner eigenen objektiven Güte, die an den Untergeordneten derart teilnimmt, dass sie sich um des höchsten Gutes willen bewegen, insofern Ihre Beteiligung am Guten (und am Handeln) hängt von der endgültigen Anziehungskraft des höchsten Gutes ab, an dem sie beteiligt sind. Auf diese Weise bewegen sich selbst die Akteure, denen das Wissen und sogar das Leben entzogen ist und die daher unfähig sind, eine subjektive Endabsicht zu haben, dennoch de facto auf das ultimative Ziel zu, von dem sie ihr Sein, ihre Güte und ihre eigene endgültige Ordnung erhalten. Sie sind in der Tat Entitäten und Güter durch Beteiligung, was bedeutet, dass sie entweder nur Mittel für den Zweck oder Mittel und Zweck zugleich sind; insofern sie aber Zwecke sind, sind sie nicht der letzte Zweck, sondern nur ein Zwischenzweck ist, von einem partiellen Ende und weiter geordnet zu einem höheren Ende. Das bedeutet, dass sie absichtlich entweder nur bewegt werden oder sie sind Beweger und werden bewegt, aber wenn sie Beweger sind, dann werden sie nur insoweit bewegt, als sie bewegt werden, während das göttliche Wirklichkeit, die nur ein Zweck und keineswegs ein Mittel zum Zweck ist, immer in der zweckgerichteten Reihenfolge, ein Motiv nur ohne Bewegung). Das erste unbewegliche Motiv kann sich als Zweck bewegen und dabei seine reine Aktualität bewahren: a) weil der Zweck nicht nur in der Absicht des Handelnden, sondern auch in der Realität der Dinge selbst vorexistieren kann; b) weil der letzte Zweck nur ein Zweck und daher nur ein Beweger ist, ohne bewegt zu werden (die Untergebenen hingegen sind sowohl Beweger als auch bewegt oder werden sogar nur bewegt). Während die Tatsache, ein Ziel eines minderwertigen Akteurs zu sein, in keiner Weise etwas an der Realität ändert, die ein Zweck ist, selbst wenn es in dem, was sich auf das Ende zubewegt, etwas Reales ist (End-Abhängigkeits-Beziehung), scheint es in der Ordnung der Akteurinnen so zu sein, dass die Tatsache, ein Akteur zu sein, in Die Linie der effizienten Kausalität verändert zufällig die Natur des Handelnden (indem sie eine neue zufällige Betätigung in die missliche Lage der Handlung einfügt, was andererseits ein passives Empfangen dieser neuen Handlung und damit etwas Neues auch in der Gattung der Leidenschaft voraussetzt); weshalb Aristoteles im ersten unbeweglichen Motiv nur die finalistische Handlung zuließ, die wirksame jedoch ausschloss; Im ersten Möbel hingegen ließ es sowohl das Zweckmäßige als auch das Effiziente zu.

La soluzione aristotelica rimane però insufficiente, in quanto l’ordine dei mobili inferiori al movente supremo non è a sua volta un fatto incausato[11] (nemmeno nell’ipotesi della sempiternità del mondo e del suo ordine finalistico), ma deve derivare da una causa efficiente suprema che non può essere null’altro se non lo stesso primo movente immobile. Ciò appare:

  • Con ogni chiarezza nei mobili (agenti) privi di conoscenza e quindi incapaci di ordinare se stessi al fine. In essi, infatti, l’ordine al fine non può venire né da loro stessi, né dal nulla e quindi deve derivare da un agente superiore (in linea di causalità efficiente) e in ultima analisi dall’agente efficiente assolutamente primo.
  • Con minore evidenza ciò appare anche negli agenti dotati di conoscenza e addirittura di conoscenza intellettiva, i quali, se sono di natura finita, ordinano se stessi al fine, ma ciò in dipendenza da una natura a sua volta passivamente ordinata al fine. L’intelletto ordina se stesso al fine solo perché la sua stessa natura consiste nel dominio del fine particolare in dipendenza dal fine universale della natura intellettiva stessa. In altre parole l’intelletto e la volontà (intelletto, infatti, si deve intendere qui nel senso lato che comprende sia la conoscenza che l’appetito) domina i fini particolari che sono dei fini dell’intelletto in quanto è intelletto; non domina però il suo fine universale che è il fine dell’intelletto in quanto è natura. L’ordine naturale dello stesso intelletto al fine universale non deriva dall’intelletto attivamente, ma è presupposto ad ogni suo atto e quindi gli è prestabilito passivamente.

In tal modo l’ordine al fine ultimo nelle creature richiama sempre la causalità efficiente del Creatore, che produce le creature e causa in esse il loro ordine naturale al fine.

Solo partendo dall’ipotesi che l’ordine finalistico sia un dato di fatto incausato, Aristotele poté limitare il suo orizzonte di ricerca filosofica alla sola dipendenza finalistica degli enti, senza essere costretto a ricorrere alla causalità efficiente, fondante lo stesso ordine della causalità finale nelle creature rispetto al Creatore. Il principio dell’ente sostanziale (la forma essenziale e il suo finalismo operativo) appaiono in questa prospettiva come qualcosa di ultimo, mentre di fatto gli stessi principi dell’ente sostanziale finito sono degli enti finiti e quindi causati (sia che si tratti della forma che delle ordinazioni teleologiche).

Bei aller Klarheit in den Möbeln (Agenten) ohne Wissen und daher nicht in der Lage, sich bis zum Ende zu ordnen. Tatsächlich kann bei ihnen die Ordnung letztendlich weder von ihnen selbst noch von nichts ausgehen und muss daher von einem übergeordneten Agenten (im Einklang mit der effizienten Kausalität) und letztendlich vom absolut primären effizienten Agenten abgeleitet werden. ¶ Mit weniger Beweisen tritt dies auch bei mit Wissen und sogar mit intellektuellem Wissen ausgestatteten Akteuren auf, die, wenn sie endlicher Natur sind, sich zum Ende hin ordnen, dies jedoch in Abhängigkeit von einer Natur, die ihrerseits zum Ende hin passiv geordnet ist . Der Intellekt ordnet sich nur deshalb auf den Zweck hin, weil seine eigentliche Natur in der Beherrschung des besonderen Zwecks in Abhängigkeit vom allgemeinen Zweck der intellektuellen Natur selbst besteht. Mit anderen Worten, der Intellekt und der Wille (tatsächlich müssen sie hier in einem weiten Sinne verstanden werden, der sowohl Wissen als auch Appetit umfasst) dominieren die besonderen Ziele, die Ziele des Intellekts sind, da er Intellekt ist; Es dominiert jedoch nicht sein universelles Ziel, das das Ziel des Intellekts als Natur ist. Die natürliche Ordnung des Intellekts selbst für den universellen Zweck ergibt sich nicht aktiv aus dem Intellekt, sondern wird in jedem seiner Akte vorausgesetzt und ist daher passiv im Voraus festgelegt. Auf diese Weise erinnert die Ordnung bis zum letzten Ende in den Geschöpfen immer an die wirksame Kausalität des Schöpfers, der die Geschöpfe hervorbringt und in ihnen ihre natürliche Ordnung bis zum Ende herbeiführt. Nur ausgehend von der Hypothese, dass die finale Ordnung eine unverursachte Tatsache ist, konnte Aristoteles seinen philosophischen Forschungshorizont auf die alleinige finalistische Abhängigkeit von Entitäten beschränken, ohne auf effiziente Kausalität zurückgreifen zu müssen, und so die eigentliche Ordnung der finalen Kausalität in den Geschöpfen begründen in Bezug auf den Schöpfer. Das Prinzip der substantiellen Entität (die wesentliche Form und ihr operativer Finalismus) erscheinen in dieser Perspektive als etwas Letztes, während in Wirklichkeit dieselben Prinzipien der endlichen substantiellen Entität endliche Entitäten sind und daher verursacht werden (sei es die Form oder teleologische Ordnungen). ). Da die Prinzipien des substantiellen Wesens natürlich auch Prinzipien der substantiellen Bewegung sind, sind sie dieser Bewegung vorausgesetzt und daher unveränderlich, jedoch nicht in absoluten Zahlen, sondern immer nur in Bezug auf diese bestimmte Bewegungsart. Somit sind die substantielle Form und ihr konnaturaler Finalismus unvergängliche und unvergängliche Realitäten (da sie Prinzipien des Soseins sind, sind sie nicht Gegenstand der werdenden Endung im Sosein), dennoch sind sie erschaffbare und vernichtbare Realitäten, weil das Sosein in der ratio entis, den Prinzipien, eingeschlossen ist eines solchen Wesens sind Prinzipien der Soheit, aber in Bezug auf das Wesen sind sie keine Prinzipien, sondern Begriffe und daher Gegenstände der Konstitution des Wesens ratione entis). Bei Aristoteles ist die Beschränkung der Kausalität des ersten Akteurs auf die Endgültigkeit jedoch nicht nur eine Hypothese, sondern auch eine Reaktion auf ein Postulat, das die Unveränderlichkeit der ersten tatsächlichen Substanz fordert. Dieses an sich richtige Postulat ist jedoch auch in der Perspektive effizienten Handelns gespeichert, wenn man berücksichtigt, dass die erste Ursache ihre Wirkung nicht auf das Wesen richtet, das ein Subjekt der Mutation annimmt, sondern auf das Wesen als Wesen ohne Es gibt ein Subjekt, das von der Potenz zur Handlung übergeht (tatsächlich ist das Subjekt selbst als Potenz konstituiert, mit all seinen weiteren Betätigungen im Rahmen der Ratio entis). Im göttlichen Handeln konstituiert sich derselbe Gegenstand primär als Wesen (Handlung und Potenz) und erst sekundär als solches (betätigte Potenz). Nun wird eine solche Entität, obwohl sie durch Potenz und Tat konstituiert wird, im Rahmen der ratio entis ut entis nicht durch Zusammensetzung konstituiert, sondern durch einfache Begrenzung (gefolgt von Zusammensetzung). Das göttliche Handeln setzt die Dimensionen des Wesens nicht unmittelbar zusammen, sondern durch ihre vorherige Konstitution durch Begrenzung in der ratio entis, so dass seine primäre Wirkung die Aussage des Wesens ist, wie es Wesenheit (und das ist der einfache Akt) mit sich bringt die ihre Unterschiede (Potenz und Potenzakt) und nur der sekundäre Effekt ist die Zusammensetzung dieser Prinzipien zwischen ihnen (Betätigung der Potenz mit ihrem Akt). Wenn das göttliche Handeln auf der Seite des objektiven Begriffs selbst in erster Linie die einfache Aussage der Entität (wie sie Entität ist) mit der Differenzierung ihrer potentiellen Unterschiede ist (in diesem Sinne sprechen wir von „ontologischen Fall“ oder „Richtung“-Begriffen). häufig verwendet von Cornelio FABRO, letzteres scheint von HEGEL übernommen zu sein) und sekundär nur die Betätigung von Kraft (Bewegung).

Tatsächlich kann das concupiscible Gut ein gutes secundum quid sein (d. h. in Bezug auf den sensiblen Appetit) und es kann es auch per se sein, aber im letzteren Fall ist es nicht so in absoluten Zahlen, sondern abhängig vom Gut der Vernunft ( und des Willens) daran teilnahm. Beachten Sie auch, dass das, was secundum quid ist, auf das reduziert wird, was seiner Ursache nach per se ist, weshalb das höchste Gut (Ursache jedes anderen Gutes) kein gutes secundum quid sein kann, sondern nur ein Gut per se und daher ein Gut von Vernunft, die mit dem Wohl des Willens zusammenfällt, sodass das erste Verständliche auch das erste Schmackhafte ist. Das erste Gut ist ein Gut an sich, das, weil es gut ist, den Appetit anregt, und daher ist es das wahre Gut, das als solches erkannt wird und weil es als solches erkannt wird, zum Gegenstand der Willensbewegung wird. Jede Abweichung des Verständlichen vom Schmackhaften ist daher ausschließlich zufällig; per se bleibt die perfekte Übereinstimmung zwischen der intelligiblen Ordnung und der schmackhaften Ordnung, so dass: ¶ wie die Substanz der Grund für die Verständlichkeit der Akzidentien ist, so ist sie auch der Grund für ihre Güte und ¶ So wie die Tat der Grund für die Verständlichkeit der Macht ist, so ist sie auch der Grund für ihre Güte. Das summum bonum ist also die rein aktuale einfache Substanz, die auch die erste Intelligible ist. Die Verwirklichung eines Zwecks setzt den Übergang vom Sein in der Möglichkeit zum Sein im Handeln voraus, der in Gott, der ein reiner Akt ist, nicht stattfinden kann. Aus dieser Einteilung der Ziele geht hervor, dass nicht jedes Ziel zunächst nur in der Absicht und dann in der Realität existiert, sondern dass es möglich ist, dass ein Akteur mit seinem Handeln versucht, ein Ziel zu erreichen, das bereits in der Realität der Dinge existiert. St. Thomas nennt das Beispiel lokaler Bewegung: Zwischenplätze sind ebenso viele Zwecke für Möbel, aber sie existieren bereits. Das finis quo, also das Sein des Körpers an dem Ort, durch den der Körper den Ort erreicht, liegt nur in der Absicht des Handelnden; Stattdessen existiert hier der Zweck, der der Ort selbst ist, tatsächlich bereits und wird dann vom Handelnden als Zweck seines Handelns erkannt. Materiell existiert es bereits, formal ist es jedoch aufgrund der Absicht des Handelnden als Zweck konstituiert. Manchmal existiert der Zweck jedoch nicht nur als das Ding, das das Ziel des Handelnden sein kann, sondern als das Ding, das nichts anderes als ein Ziel sein kann, entweder in absoluten Begriffen (höchstes Gut) oder in Bezug auf diesen Handelnden (natürlich). Ware des Maklers). Das Ziel hingegen ist nicht wirklich, sondern nur potentiell (und muss daher noch durch einen Übergang von der Potenz zur Handlung verwirklicht werden), wo es zunächst nur in der Absicht des Handelnden und dann in der Realität der Dinge existiert , nach Abschluss seiner Ausführung. Dieses Ziel kann in der Absicht des Handelnden nur in Bezug auf das Werk selbst liegen, ohne dass die bloße Verwirklichung des Werkes durch den Handelnden auf den Grund für das Ende eingeht, und dann ist es ein realisierbares Ziel, das Gegenstand der Kunst ist (z. B. Der Arzt bewirkt durch die Medizin die körperliche Gesundheit des Patienten, und was er bewirken will, ist nur die Gesundheit, die auf durch die Kunst bereits bestimmten Wegen erreicht werden soll, so dass die eigentliche Ausübung der Heilung nicht unter dem streng formalen Aspekt in ihre Endgültigkeit eintritt Medizin). Liegt der Zweck in der Absicht des Handelnden nicht nur hinsichtlich der Arbeit selbst, sondern auch hinsichtlich ihrer Ausübung durch den Handelnden, die hic et nunc gestellt werden soll, dann handelt es sich um einen erreichbaren Zweck, der Gegenstand der Ethik ist und insbesondere der Klugheit (z. B. führt der tugendhafte Mensch unter den besonderen Umständen, in denen er sich befindet, Handlungen aus, die den Geboten der Vernunft entsprechen, so dass nicht nur die Arbeit selbst einen Grund hat, zu enden, sondern auch ihre tatsächliche oder anderweitige Ausübung. Darüber hinaus sind die Mittel zur Ausführung der Arbeiten in keiner Weise im Voraus festgelegt oder festgelegt und fallen daher ebenfalls in die bewusste Wahl des Auftragnehmers. Wo die Art und Weise der Verwirklichung des Werkes auf der Seite des Werkes selbst (der Kunst) liegt, ist der Handelnde (und damit die von ihm abhängige Ausübung seiner Kausalität) nicht an der Endgültigkeit beteiligt; Wo hingegen die Art und Weise, wie die Arbeit ausgeführt wird, dem Handelnden selbst obliegt (z. B. hic et nunc bestimmen, was zu tun ist), dann gilt nicht nur die Arbeit, sondern auch der Handelnde und seine Handlung unter dem formalen Aspekt ihres Tatsächlichen Übung, sind alle am Ende beteiligt (Ethik, Klugheit), so dass der Handelnde nicht nur zum Ziel geht, sondern für sich selbst zum Ziel wird in Bezug auf die davon abhängige Handlung; Dies ist ein eindeutiges Zeichen der Freiheit (aktive Beherrschung der eigenen Handlung und des Objekts oder, in der eminenten formalen Freiheit Gottes, der Beherrschung der Wirkung, da die Handlung mit dem Wesen zusammenfällt, ohne fortschreitend zwischen Ursache und Wirkung zu vermitteln , damit Gott sich nicht bewegt und alle Dinge sofort und sofort von Ihm ausgehen.

[1] C’era scritto “transeunte”.

[2] Dello Pseudo Dionigi. 7 Non lo possiede.

[3] Da parte dello stesso fine.

[4] Da parte di ciò che è mosso verso il fine. 10 Dettagliata.

[5] Costituisce.

[6] Latinismo corrispondente a “di per sé”.

[7] Uniti tra di loro, composti in unità.

[8] La distinzione è reale o di ragione. La distinzione di ragione avviene in quanto la stessa cosa è conosciuta con concetti oggettivamente distinti. Se tali concetti sono distinti intrinsecamente si ha la distinzione di ragione ragionata o con fondamento nella realtà, se invece la loro distinzione è dovuta a una connotazione esterna soltanto si ha la distinzione di ragione ragionante. Il fondamento della distinzione di ragione ragionata è dalla parte dell’oggetto la distinzione virtuale che può essere maggiore se offre il fondamento per una distinzione secondo la precisione oggettiva (perfetta) così che si separi predicato da predicato (in questo modo ad es. si separano i gradi metafisici – genere, specie, individuo) o minore se offre il fondamento per una distinzione secondo l’esplicito e l’implicito soltanto come l’ente racchiude in sè attualmente ma confusamente le determinazioni inferiori contenendole in sè implicitamente. Alla distinzione virtuale maggiore corrisponde quindi un fondamento perfetto nella realtà, a quello minore un fondamento imperfetto nella realtà. (Alla distinzione di ragione ragionante non corrisponde nessun fondamento nella realtà, ma solo nella ragione stessa)”.

[9] Ontologico.

[10] Vedi nota 26.

[11] Si tratta di una osservazione che l’Autore fa ad Aristotele, dicendo che l’ordine dei mobili non è, come pensava Aristotele, incausato, ma è causato.

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Spigolature filosofiche: Deleuze, Lacan, Kafka, Aristotele

Articoli di Franca Sera, Massimiliano Polselli, Marco Compagnone, Giovanni Russo

TRA DELEUZE E BENE
Franca Sera

Gilles Deleuze è stato uno dei filosofi francesi più influenti del XX secolo, noto per il suo lavoro sulla filosofia della differenza e dell’immanenza. Ha insegnato filosofia presso l’Università di Parigi VIII e ha scritto numerosi libri, tra cui “Mille plateaux” e “Cosa può un corpo?”. Deleuze ha avuto un impatto significativo nell’ambito della filosofia, dell’estetica e della politica, ed è stato una figura chiave del pensiero poststrutturalista.

Carmelo Bene è stato un attore, regista, sceneggiatore e scrittore italiano. Attivo principalmente negli anni ’60 e ’70, Bene ha creato una serie di spettacoli innovativi che hanno sfidato le convenzioni teatrali tradizionali e hanno aperto nuove possibilità creative per l’arte della performance. Il suo lavoro è stato caratterizzato da una forte attenzione alla voce e al linguaggio, e ha spesso affrontato temi come la morte, la religione e il potere.

Deleuze e Bene hanno lavorato in contesti differenti e non si sono mai incontrati personalmente, ma entrambi hanno condiviso un interesse per l’innovazione e l’esplorazione delle possibilità artistiche e filosofiche. La loro importanza nell’ambito della filosofia e dell’arte deriva dal fatto che hanno sperimentato nuove modalità di pensiero e di espressione, aprendo nuove strade per la creazione artistica e la riflessione filosofica. Il loro lavoro ha influenzato molti artisti e pensatori contemporanei, e continua a essere oggetto di studio e di dibattito critico.

Le principali idee filosofiche di Deleuze sono l’immanenza, la differenza, la molteplicità e la schizofrenia. Queste idee si relazionano con la teoria dell’arte di Bene in diversi modi, e Bene ha usato queste idee per creare il suo lavoro in modo innovativo e originale.

L’immanenza è un concetto centrale nella filosofia di Deleuze, che si riferisce all’idea che tutto ciò che esiste si trova all’interno del mondo stesso, e non in una realtà trascendente o divina. L’immanenza implica che il mondo è in costante movimento e trasformazione, e che ogni cosa è connessa con ogni altra cosa. Questa idea si relaziona con la teoria dell’arte di Bene nella misura in cui egli ha cercato di creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere l’immanenza del mondo e delle cose.

La differenza è un’altra idea fondamentale di Deleuze, che si riferisce alla distinzione tra le cose. Deleuze sostiene che la differenza è ciò che rende il mondo complesso e diversificato, e che ogni cosa è diversa dalle altre cose in modo unico e irriducibile. Bene ha usato l’idea di differenza per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esplorare la complessità e la diversità del mondo, dando voce a un’ampia gamma di personaggi e di situazioni.

La molteplicità è un’altra idea chiave nella filosofia di Deleuze, che si riferisce alla molteplicità delle cose e delle idee nel mondo. Deleuze sostiene che la molteplicità è ciò che permette alle cose di essere diverse e di evolversi nel tempo, e che ogni cosa è connessa con ogni altra cosa in una rete complessa di relazioni. Bene ha usato l’idea di molteplicità per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere la molteplicità del mondo, dando vita a personaggi e situazioni che erano altamente differenziati e complessi.

La schizofrenia è un’altra idea importante nella filosofia di Deleuze, che si riferisce alla frattura o alla rottura del sé. Deleuze sostiene che la schizofrenia è una condizione naturale del mondo, e che ciò che è considerato “normale” è in realtà solo un’illusione. Bene ha usato l’idea di schizofrenia per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere la frattura e la rottura dell’identità, dando vita a personaggi che erano sconvolti e destabilizzati dalla propria esperienza del mondo.

In sintesi, Deleuze e Bene hanno condiviso un interesse per l’esplorazione delle idee di immanenza, differenza, molteplicità e schizofrenia, e hanno utilizzato queste idee per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere la complessità e la diversità del mondo.

Il lavoro artistico di Carmelo Bene è stato estremamente influenzato dalle idee filosofiche di Gilles Deleuze, che ha utilizzato per creare uno spettacolo teatrale innovativo e originale. Bene era un attore, regista e sceneggiatore italiano che ha lavorato principalmente nel teatro, ma anche nel cinema e nella televisione. Le sue opere sono state caratterizzate da una forte attenzione all’estetica e all’espressione del corpo e della voce.

Bene ha utilizzato l’idea di immanenza di Deleuze per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere l’essenza del mondo, e ha usato la sua tecnica teatrale per rendere visibile l’invisibile. Nel suo lavoro, Bene ha spesso manipolato la voce e il corpo degli attori per creare un effetto di distorsione e di straniamento. Ha utilizzato tecniche come la velocità, la ripetizione e la deformazione per rendere visibili le forze invisibili che agiscono all’interno della realtà.

Bene ha inoltre utilizzato l’idea di differenza per creare personaggi altamente differenziati e complessi, che rappresentano le diverse sfaccettature della realtà. I suoi personaggi sono stati spesso caratterizzati da una forte tensione emotiva e da un senso di inquietudine, che Bene ha utilizzato per esplorare le molteplici sfumature dell’essere umano.

La molteplicità è stata un’altra idea importante nel lavoro di Bene. Ha utilizzato la molteplicità per creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere la molteplicità delle cose nel mondo. Bene ha creato personaggi e situazioni altamente differenziati e complessi, che rappresentano le molteplici sfaccettature della realtà.

Infine, l’idea di schizofrenia è stata un’altra importante fonte d’ispirazione per Bene. Ha utilizzato l’idea di schizofrenia per esplorare la frattura dell’identità e la rottura della realtà.

Ha creato personaggi che erano destabilizzati dalla loro esperienza del mondo, che hanno lottato per trovare una qualche forma di equilibrio e di senso.

In sintesi, il lavoro di Bene è stato altamente influenzato dalle idee filosofiche di Deleuze, che ha utilizzato per creare uno spettacolo teatrale innovativo e originale. Bene ha manipolato la voce e il corpo degli attori per creare un effetto di distorsione e di straniamento, ha creato personaggi altamente differenziati e complessi, e ha esplorato la frattura dell’identità e la rottura della realtà.

L’idea di “pensiero nomade” di Deleuze è stata una delle sue principali idee filosofiche. Questa idea si riferisce all’idea che il pensiero non dovrebbe essere limitato da un’identità fissa o da una posizione stabile, ma dovrebbe invece muoversi liberamente attraverso le idee e le esperienze, creando continuamente nuove connessioni e possibilità.

Nel lavoro di Carmelo Bene, possiamo vedere un’applicazione pratica di questa idea di “pensiero nomade”. La sua estetica è caratterizzata da una natura nomade, in quanto Bene ha sempre cercato di sfidare le convenzioni teatrali e di creare uno spettacolo che fosse libero di muoversi tra i diversi elementi del teatro, tra cui la voce, il corpo, la musica, la luce e il testo.

Bene ha sempre sperimentato e innovato, cercando di creare uno spettacolo teatrale che fosse in grado di esprimere la molteplicità delle cose nel mondo, senza essere limitato dalle convenzioni del teatro tradizionale. Ha spesso utilizzato tecniche di distorsione, di straniamento e di deformazione per creare un effetto di perturbazione e di inquietudine, che ha contribuito a rendere il suo lavoro altamente originale e innovativo.

Inoltre, la natura nomade della sua estetica si è manifestata nella sua capacità di mescolare diversi elementi culturali e artistici, creando una fusione di stili e di generi che era al tempo stesso eclettica e originale. Bene ha spesso utilizzato il testo letterario come fonte d’ispirazione, ma ha sempre cercato di liberare la parola dal suo significato letterale, creando un effetto di straniamento e di distorsione che ha reso il suo lavoro altamente innovativo e originale.

In sintesi, l’idea di “pensiero nomade” di Deleuze si applica perfettamente all’opera di Carmelo Bene. La natura nomade della sua estetica si manifesta nella sua capacità di sperimentare e innovare, di mescolare diversi elementi culturali e artistici e di creare uno spettacolo che fosse libero di muoversi liberamente tra i diversi elementi del teatro. Il risultato è stato uno spettacolo altamente originale e innovativo, che ha influenzato molti artisti successivi

 

 

IL GODIMENTO IN LACAN E FREUD

Massimiliano Polselli

 

Il concetto di “godimento” in Lacan si riferisce all’esperienza del piacere sessuale e alla sua relazione con il desiderio e l’inconscio. Lacan sostiene che il godimento sessuale non è semplicemente una questione di piacere fisico, ma è strettamente legato alla struttura psichica dell’individuo.

Secondo Lacan, il desiderio non può mai essere completamente soddisfatto e il piacere sessuale non può mai essere completamente appagante. Questo perché il desiderio è sempre orientato verso l’oggetto mancante, che rappresenta una perdita primaria (la separazione dalla madre), che si manifesta come un vuoto o un’assenza nel Sé. Il godimento sessuale è quindi associato al tentativo di colmare questo vuoto o di compensare questa perdita.

Tuttavia, Lacan sostiene che il godimento sessuale può diventare eccessivo o “fuori controllo”, in modo che l’individuo diventa “schiavo del proprio godimento”. Questo è ciò che Lacan chiama “jouissance” (letteralmente, “eccesso di piacere”), che rappresenta un’esperienza di piacere che va oltre i limiti del desiderio e diventa un’esperienza di sofferenza o addirittura di tortura.

Il concetto di godimento in Lacan ha importanti implicazioni per la psicoanalisi e la terapia. Lacan sostiene che la comprensione del godimento sessuale è essenziale per comprendere la struttura psichica dell’individuo e le sue relazioni sociali. La terapia può aiutare l’individuo a comprendere il proprio desiderio e il proprio godimento sessuale, in modo da ridurre il rischio di eccesso o di sofferenza.

In sintesi, il concetto di “godimento” in Lacan si riferisce all’esperienza del piacere sessuale e alla sua relazione con il desiderio e l’inconscio. Questo concetto rappresenta un’importante parte della teoria psicoanalitica di Lacan e ha implicazioni importanti per la comprensione della struttura psichica dell’individuo e la sua relazione con la società

In Lacan, l’oggetto piccolo (petit objet) si riferisce ad un concetto psicoanalitico che descrive l’oggetto di desiderio dell’individuo. Questo oggetto è spesso un oggetto parziale, come il seno materno o le feci, che rappresenta una perdita primaria o un’assenza che l’individuo cerca di colmare attraverso il desiderio.

Secondo Lacan, l’oggetto piccolo è un concetto fondamentale per la comprensione della struttura psichica dell’individuo e della sua relazione con il mondo esterno. Lacan sostiene che l’oggetto piccolo è fondamentale per la formazione del Sé e che l’individuo sviluppa un rapporto ambivalente con questo oggetto, in cui lo cerca e lo respinge allo stesso tempo.

Inoltre, Lacan ritiene che l’oggetto piccolo sia associato alla pulsione e al desiderio sessuale. L’oggetto piccolo rappresenta ciò che l’individuo desidera, ma che non può mai ottenere completamente. Questo perché il desiderio è sempre orientato verso un oggetto mancante che rappresenta una perdita primaria, come la separazione dalla madre.

L’oggetto piccolo è anche associato alla dimensione simbolica dell’inconscio. Lacan sostiene che l’oggetto piccolo diventa un simbolo per la perdita primaria e il desiderio dell’individuo, e che il suo significato può essere interpretato attraverso la pratica della psicoanalisi.

In sintesi, l’oggetto piccolo in Lacan è un concetto psicoanalitico che si riferisce all’oggetto di desiderio dell’individuo. Questo oggetto rappresenta una perdita primaria e si associa al desiderio sessuale e alla dimensione simbolica dell’inconscio. L’oggetto piccolo è fondamentale per la formazione del Sé e per la comprensione della struttura psichica dell’individuo.

In psicoanalisi, l’io, l’Es e il super-io sono tre concetti fondamentali proposti da Sigmund Freud per descrivere la struttura della mente umana e il suo funzionamento.

L’Es è la parte più antica e primitiva della mente umana e rappresenta il nostro istinto primordiale, i nostri bisogni e i nostri desideri irrazionali. Secondo Freud, l’Es è completamente inconscio e agisce come una forza motivante che spinge l’individuo a cercare il piacere e a evitare il dolore.

L’io rappresenta la parte razionale e consapevole della mente umana, che cerca di bilanciare i bisogni dell’Es con le richieste del mondo esterno. L’io è la parte della mente che si occupa della razionalità, della pianificazione, del giudizio e della presa di decisioni consapevoli.

Il super-io è una struttura della mente che si sviluppa in seguito alla socializzazione dell’individuo. Il super-io rappresenta l’ideale dell’individuo, i suoi valori e le sue norme morali. In altre parole, è la parte della mente che rappresenta il “deve essere” e le aspettative culturali. Il super-io rappresenta quindi la parte morale della mente che giudica e valuta le azioni dell’individuo in base a un sistema di valori e norme sociali.

In sintesi, l’Es, l’io e il super-io sono tre componenti fondamentali della mente umana descritti da Freud. L’Es rappresenta l’istinto primordiale e i desideri irrazionali, l’io rappresenta la parte razionale e consapevole della mente che cerca di bilanciare i bisogni dell’Es con le richieste del mondo esterno, mentre il super-io rappresenta l’ideale dell’individuo, i suoi valori e le sue norme morali.

La scena primaria è un concetto fondamentale nella teoria psicoanalitica di Sigmund Freud, che si riferisce alla prima esperienza sessuale infantile immaginaria o reale. Secondo Freud, questa esperienza ha luogo durante i primi anni di vita dell’individuo e ha un impatto significativo sulla sua psicologia futura.

Nella teoria freudiana, la scena primaria è rappresentata dalla fantasia sessuale infantile in cui un bambino immagina di assistere a un atto sessuale tra i genitori o tra un adulto e un altro bambino. Questa fantasia sessuale, che può essere reale o solo immaginaria, è caratterizzata da una forte carica emotiva e sessuale, e può influenzare in modo significativo lo sviluppo psicologico dell’individuo.

La scena primaria ha un ruolo importante nell’elaborazione dell’identità sessuale dell’individuo. Secondo Freud, questa esperienza sessuale infantile è in grado di influenzare in modo significativo l’identità sessuale dell’individuo, determinando il tipo di attrazione sessuale che avrà in futuro. Ad esempio, se la scena primaria coinvolge un genitore dello stesso sesso, potrebbe contribuire a formare una preferenza sessuale per il medesimo sesso.

La teoria della scena primaria di Freud è stata criticata da molti psicoanalisti successivi, ma ha comunque avuto un grande impatto sulla teoria psicoanalitica e sulla comprensione della sessualità infantile e dell’identità sessuale.

La sessualità è un concetto centrale nella teoria psicoanalitica di Sigmund Freud. Secondo Freud, la sessualità non si limita alla sfera dell’atto sessuale, ma rappresenta una forza motivante fondamentale per il comportamento umano.

Per Freud, la sessualità è una forza istintuale primaria che si manifesta fin dalla nascita e si sviluppa attraverso diverse fasi durante l’infanzia e l’adolescenza. La sessualità infantile si manifesta attraverso le attività orali, anali e genitali, e il suo sviluppo è influenzato dalle esperienze infantili, come l’interazione con i genitori, l’ambiente circostante e le esperienze traumatiche.

La sessualità infantile viene poi soppressa dall’Io attraverso il processo di sublimazione, che consiste nell’indirizzare l’energia sessuale verso attività socialmente accettabili, come l’arte o la scienza.

Secondo Freud, la sessualità non si limita alla sfera del piacere fisico, ma ha anche una dimensione psicologica e emotiva. La sessualità è legata alla ricerca di piacere e gratificazione, ma anche alla ricerca di intimità e connessione con gli altri.

La sessualità è stata oggetto di critiche e dibattiti nella storia della psicoanalisi, ma il suo ruolo fondamentale nella teoria psicoanalitica di Freud ha avuto un impatto significativo sulla comprensione della psicologia umana e della sessualità umana.

Jacques Lacan è stato un importante teorico della psicoanalisi francese, noto per la sua riformulazione della teoria psicoanalitica di Freud attraverso l’uso del linguaggio e dei concetti psicoanalitici come strumenti critici e teorici.

Secondo Lacan, la fase simbolica della psicoanalisi è quella in cui il bambino impara a comunicare attraverso il linguaggio e ad acquisire le convenzioni sociali e culturali che definiscono la realtà sociale in cui vive. La fase simbolica si verifica intorno ai 18 mesi di

età, quando il bambino comincia a comprendere che gli oggetti e gli eventi hanno significati e simboli associati ad essi.

Lacan ha criticato la teoria freudiana della sessualità infantile, in particolare la sua enfasi sulle fasi orali, anali e genitali, come una comprensione riduttiva e biologizzata della sessualità. Lacan ha invece enfatizzato il ruolo del linguaggio e dei simboli nella costruzione dell’identità e della realtà psichica del soggetto.

Per Lacan, l’individuo è soggetto alla legge del simbolico, che è una dimensione culturale e linguistica che determina le relazioni sociali e l’identità del soggetto. L’Io viene così definito come una costruzione simbolica, che si forma attraverso l’identificazione con i significati e i simboli culturali e sociali.

Tuttavia, alcuni critici hanno sostenuto che la teoria di Lacan è troppo complessa e astratta, e che manca di una comprensione adeguata della relazione tra individuo e realtà esterna. Inoltre, alcuni hanno sottolineato come la teoria di Lacan sia fortemente influenzata dalla filosofia strutturalista e post-strutturalista, e che manchi di una comprensione adeguata delle dinamiche interne della mente umana.

In conclusione, mentre Freud ha posto l’enfasi sulla sessualità come forza motivante primaria nella psicologia umana, Lacan ha invece enfatizzato il ruolo del linguaggio e dei simboli nella costruzione dell’identità e della realtà psichica del soggetto. Sebbene le loro teorie possano differire in alcuni aspetti, entrambi hanno avuto un impatto significativo sulla comprensione della psicologia umana e della pratica psicoanalitica.

Il complesso di Edipo è uno dei concetti chiave della teoria psicoanalitica di Sigmund Freud, che si riferisce alla fase dello sviluppo psicosessuale in cui il bambino sperimenta desideri incestuosi per il genitore del sesso opposto e prova rivalità con il genitore dello stesso sesso.

Secondo la teoria di Freud, durante la fase edipica (che si verifica tra i 3 e i 5 anni di età), il bambino sviluppa un forte legame emotivo con il genitore del sesso opposto, che viene definito come l’oggetto del desiderio edipico. Il bambino vuole essere il partner esclusivo del genitore del sesso opposto e invidia la relazione che il genitore ha con l’altro genitore.

Il bambino percepisce l’altro genitore come un rivale e si identifica con il genitore del suo stesso sesso, cercando di imitarne i comportamenti e le caratteristiche per guadagnare il suo affetto. Questo processo di identificazione diventa la base dell’identità di genere e dell’identità sessuale del bambino.

Il complesso di Edipo rappresenta una fase cruciale dello sviluppo psicosessuale del bambino, in quanto può influenzare il modo in cui il bambino sviluppa le sue relazioni e la sua sessualità nella vita adulta. Secondo la teoria psicoanalitica, se il bambino non riesce a superare con successo questa fase, potrebbe sviluppare disturbi psicologici o sessuali nella vita adulta.

Tuttavia, molti critici hanno messo in discussione la validità del complesso di Edipo come teoria scientifica, in quanto si basa principalmente sulla speculazione e sull’osservazione clinica, e manca di un supporto empirico solido. Inoltre, molti studiosi hanno contestato la visione freudiana del genere e della sessualità, sostenendo che essa è troppo limitata e basata su una visione binaria dei generi.

In sintesi, il complesso di Edipo è un concetto fondamentale della teoria psicoanalitica di Freud, che descrive la fase di sviluppo psicosessuale in cui il bambino sperimenta desideri incestuosi per il genitore del sesso opposto e rivalità con il genitore dello stesso sesso.

Sebbene la teoria abbia suscitato molte controversie e critiche, rimane un punto di riferimento importante per la comprensione della psicologia umana e delle dinamiche familiari.

Il complesso di Elettra è un concetto psicoanalitico che si riferisce alla fase dello sviluppo psicosessuale femminile in cui la bambina sperimenta desideri amorosi per il padre e prova rivalità con la madre.

Il termine deriva dalla figura mitologica di Elettra, figlia di Agamennone e Clitennestra, che vendicò il padre uccidendone l’assassino, la propria madre.

Secondo la teoria psicoanalitica, il complesso di Elettra si sviluppa intorno ai 3-6 anni, in concomitanza con il periodo del complesso di Edipo dei maschi. Durante questa fase, la bambina sviluppa un forte legame emotivo con il padre, che diventa l’oggetto del suo desiderio edipico. La bambina invidia la madre e la percepisce come una rivale per l’attenzione del padre.

La bambina cerca di identificarsi con il padre e di acquisire le sue qualità per attirare la sua attenzione e il suo affetto. Questo processo di identificazione costituisce la base dell’identità di genere e sessuale della bambina.

La teoria del complesso di Elettra è stata oggetto di critiche e dibattiti simili a quelli del complesso di Edipo. Alcuni studiosi hanno contestato la sua validità scientifica, sostenendo che la teoria psicoanalitica sia troppo basata sulla speculazione e sull’osservazione clinica, e manchi di un solido supporto empirico. Inoltre, alcuni hanno messo in discussione la visione freudiana del genere e della sessualità, che viene considerata troppo limitata e binaria.

In sintesi, il complesso di Elettra è un concetto psicoanalitico che si riferisce alla fase dello sviluppo psicosessuale femminile in cui la bambina sperimenta desideri amorosi per il padre e prova rivalità con la madre. Sebbene la teoria sia stata oggetto di critiche e dibattiti, rimane un punto di riferimento importante per la comprensione della psicologia umana e delle dinamiche familiari.

Eros e Thanatos sono due concetti fondamentali della teoria psicoanalitica di Sigmund Freud. Eros rappresenta l’istinto di vita, il desiderio e l’amore, mentre Thanatos rappresenta l’istinto di morte, l’aggressività e l’autodistruzione. Secondo la teoria freudiana, la psiche umana è costantemente sottoposta a conflitti tra questi due istinti opposti, che si manifestano in modi diversi a seconda delle circostanze e dell’ambiente.

La coazione a ripetere è un altro concetto psicoanalitico che si riferisce al desiderio inconsapevole di ripetere eventi dolorosi o traumatici del passato. Secondo Freud, la coazione a ripetere è legata all’istinto di morte e rappresenta un tentativo di elaborare e superare il trauma attraverso la ripetizione.

Il lapsus è invece un errore che si verifica durante la parola, il gesto o la scrittura e che riflette un contenuto inconscio o represso. Freud credeva che i lapsus fossero un modo attraverso cui la mente inconscia potesse esprimersi e rivelare i desideri o le paure che altrimenti rimarrebbero nascosti.

Infine, il principio del piacere è un principio psicologico che guida il comportamento umano e si riferisce al desiderio di evitare il dolore e di cercare il piacere. Secondo Freud, il principio del piacere è alla base di tutti i comportamenti umani e rappresenta il motore dell’istinto di vita (Eros).

In sintesi, Eros e Thanatos sono due concetti che rappresentano rispettivamente l’istinto di vita e quello di morte, mentre la coazione a ripetere e il lapsus riflettono l’influenza dell’inconscio sulla mente umana. Il principio del piacere, infine, rappresenta il desiderio umano di evitare il dolore e di cercare il piacere.

 

 

Kafka: la figura dell’autorità ne LA METAMORFOSI

Marco Compagnone

 

In “La Metamorfosi”, la figura dell’autorità è rappresentata principalmente dal padre di Gregor. Dopo la sua trasformazione, Gregor diventa inutile per la sua famiglia e il padre diventa sempre più autoritario e violento nei suoi confronti. Questo atteggiamento riflette la rigidità della società e la pressione per il successo e la produttività che spesso si traducono in una mancanza di empatia e umanità.

In sintesi, Kafka analizza l’alienazione umana e la pressione sociale attraverso la rappresentazione di personaggi che sono isolati dalla società e oppressi dalle autorità. Questi temi sono particolarmente evidenti in “La Metamorfosi”, dove la trasformazione del personaggio principale rappresenta la perdita dell’umanità e la sua incapacità di interagire con gli altri. La figura dell’autorità rappresentata dal padre di Gregor riflette la rigidità della società e la pressione per il successo e la produttività che spesso si traducono in una mancanza di empatia e umanità

Il Castello è uno dei romanzi più noti di Franz Kafka ed è considerato uno dei suoi capolavori. Come in molti dei suoi scritti, Kafka esplora i temi dell’alienazione e dell’impotenza dell’individuo di fronte alle autorità.

Il protagonista del romanzo è K., un uomo che arriva in un villaggio dove si trova il castello e cerca di entrare in contatto con le autorità locali per ottenere un lavoro. Tuttavia, non riesce mai a incontrare chi può aiutarlo e diventa sempre più frustrato nel tentativo di risolvere la sua situazione.

Kafka utilizza il castello come metafora della società e delle istituzioni, come la burocrazia, che spesso sembrano inaccessibili e ostili all’individuo. In questo modo, il castello rappresenta l’autorità, una forza che esercita il suo potere sugli individui e li fa sentire alienati e impotenti.

Inoltre, il romanzo esplora anche il tema dell’identità e dell’auto-riconoscimento. K. cerca di comprendere la sua posizione nella società e la sua relazione con le autorità, ma non riesce mai a trovare una risposta soddisfacente. Questo tema è presente anche in altri scritti di Kafka, dove i personaggi spesso si sentono confusi e disorientati nel loro tentativo di comprendere il loro posto nel mondo.

In sintesi, Il Castello di Kafka esplora i temi dell’alienazione e dell’impotenza dell’individuo di fronte alle autorità. Il castello rappresenta l’autorità, una forza che esercita il suo potere sugli individui e li fa sentire alienati e impotenti. Inoltre, il romanzo esplora anche il tema dell’identità e dell’auto-riconoscimento, in cui il protagonista cerca di comprendere la sua posizione nella società e la sua relazione con le autorità.

 

 

ARISTOTELE

Giovanni Russo

 

Aristotele è uno dei filosofi più importanti e influenti nella storia della filosofia. Nato in Macedonia nel 384 a.C., fu allievo di Platone all’Academia di Atene, ma si distinse ben presto dal maestro sviluppando una filosofia originale e indipendente.

La sua opera più famosa è l’Etica Nicomachea, in cui analizza la natura della virtù e del bene, ma Aristotele si occupò anche di logica, metafisica, politica, retorica e di molti altri campi della conoscenza.

Una delle sue più grandi contribuzioni alla filosofia è la sua teoria della sostanza, secondo cui le cose sono composte di materia e forma. La materia è ciò che una cosa è fatta, mentre la forma è ciò che la cosa è. Ad esempio, la materia di una scultura è il marmo, mentre la forma è la figura che rappresenta.

Aristotele è anche famoso per la sua dottrina della causa. Secondo questa teoria, ogni cosa ha quattro cause: la causa materiale (ciò di cui una cosa è fatta), la causa efficiente (ciò che ha prodotto la cosa), la causa formale (ciò che la cosa è) e la causa finale (lo scopo o il fine per cui la cosa esiste). Questa teoria ha avuto una grande influenza sulla filosofia medievale e rinascimentale.

Aristotele ha anche sviluppato la sua teoria della sostanza per includere il concetto di potenza ed atto. La materia è in potenza ad una certa forma, mentre la forma è in atto. Ad esempio, un seme è in potenza ad una pianta, mentre la pianta stessa è in atto.

Aristotele ha anche sviluppato una teoria dell’anima, che ha analizzato in dettaglio nella sua opera De Anima. Secondo Aristotele, l’anima è la forma del corpo e viene divisa in tre parti: l’anima vegetativa, l’anima animale e l’anima razionale.

L’influenza di Aristotele sulla filosofia occidentale è stata enorme. La sua opera è stata studiata da molti filosofi successivi, tra cui Tommaso d’Aquino, Immanuel Kant e Martin Heidegger. La sua teoria della sostanza, la sua teoria della causa e la sua dottrina dell’anima sono ancora oggetto di studio e dibattito oggi

L’Etica Nicomachea di Aristotele è un’opera fondamentale della filosofia morale e della filosofia antica in generale. Scritta intorno al 350 a.C., l’Etica Nicomachea esplora la natura della virtù e del bene, cercando di determinare cosa sia la felicità e come si possa raggiungere.

Aristotele inizia l’Etica Nicomachea affermando che tutti gli esseri umani cercano la felicità, ma che esiste una grande varietà di opinioni su ciò che essa sia e su come raggiungerla.

Aristotele cerca quindi di definire la felicità e di determinare le azioni che la promuovono. Secondo Aristotele, la felicità non è un’emozione o un piacere fugace, ma piuttosto uno stato d’animo duraturo e soddisfacente. La felicità, inoltre, non è qualcosa che si possa acquisire con il denaro o con la fama, ma piuttosto qualcosa che deriva dalla virtù e dal comportamento virtuoso.

Aristotele sostiene che la virtù è un’abitudine acquisita attraverso l’esercizio e che la felicità consiste nell’esercitare le virtù in modo coerente e costante. Ciò significa che le virtù sono una sorta di equilibrio tra gli estremi, e che il virtuoso agisce in modo appropriato in ogni situazione. Ad esempio, il coraggio è una virtù che si trova tra la viltà e la temerarietà, mentre la generosità è una virtù che si trova tra l’avarizia e la prodigalità.

Aristotele distingue inoltre tra due tipi di virtù: le virtù morali e le virtù intellettuali. Le virtù morali sono quelle che riguardano l’agire e sono acquisite attraverso l’abitudine, mentre le virtù intellettuali sono quelle che riguardano la conoscenza e sono acquisite attraverso lo studio e la riflessione.

Inoltre, Aristotele discute la natura del bene e sostiene che il bene non è una cosa in sé, ma piuttosto un attributo delle cose. In altre parole, il bene non esiste indipendentemente dalle cose che lo possiedono. Aristotele sostiene anche che ci sono diversi tipi di beni: ci sono beni esterni, come la ricchezza e la fama, e beni interni, come la virtù e la saggezza.

Tuttavia, Aristotele afferma che i beni esterni non sono sufficienti per la felicità e che solo i beni interni possono portare alla vera felicità.

Infine, Aristotele discute il concetto di potenza ed atto, forma e materia, e come queste idee si applicano alla natura dell’anima umana. Secondo Aristotele, l’anima umana è composta di materia e forma, e si trova in uno stato di potenza quando è priva di forma e in uno stato di atto quando ha acquisito la forma adeguata. Inoltre, Aristotele sostiene che l’anima umana ha diverse parti, tra cui l’intelletto, la volont

In Aristotele, l’essere è uno dei concetti fondamentali della sua filosofia. Egli afferma che l’essere è ciò che costituisce la realtà e che ogni cosa esiste in virtù del fatto che ha un proprio essere. L’essere, per Aristotele, è ciò che è comune a tutte le cose che esistono e che ne definisce la loro esistenza.

Per spiegare il concetto di essere, Aristotele elabora la sua teoria delle categorie, che sono dieci in totale. Le categorie rappresentano i modi in cui l’essere si manifesta nella realtà.

Esse sono: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, stato, azione e passione.

La categoria di sostanza è la più importante tra le dieci, in quanto rappresenta l’essenza delle cose. Aristotele distingue tra sostanze prime, ovvero quelle che esistono per loro stesse (come gli animali e le piante) e sostanze seconde, ovvero quelle che esistono in virtù di una sostanza prima (come i colori e le forme).

Le categorie di quantità, qualità e relazione si riferiscono ai modi in cui le sostanze si manifestano nella realtà. La quantità si riferisce alla misura delle cose, la qualità si riferisce alle proprietà delle cose, e la relazione si riferisce ai rapporti tra le cose.

Le categorie di luogo, tempo e posizione si riferiscono alle modalità di esistenza delle cose. Il luogo è dove le cose esistono, il tempo è quando le cose esistono, e la posizione è la posizione che le cose occupano nello spazio.

Le categorie di stato, azione e passione si riferiscono ai modi in cui le cose interagiscono tra loro. Lo stato si riferisce alla condizione in cui si trovano le cose, l’azione si riferisce all’attività delle cose, e la passione si riferisce alle cose che subiscono un’azione.

In sintesi, la teoria delle categorie di Aristotele è un sistema di classificazione che descrive i modi in cui l’essere si manifesta nella realtà. Il concetto di essere è centrale nella filosofia di Aristotele e costituisce la base della sua ontologia. Le categorie sono utili per comprendere come le cose esistono e come interagiscono tra loro, fornendo un modello di pensiero che ha influenzato la filosofia occidentale per molti secoli.

Il De Anima di Aristotele è uno dei testi fondamentali della filosofia antica e rappresenta uno dei primi approcci sistematici all’analisi dell’anima umana. Il testo si concentra sulla natura dell’anima, la sua struttura e le sue funzioni, e costituisce una pietra miliare nella storia della filosofia.

Inizialmente, Aristotele definisce l’anima come il principio di vita, cioè ciò che anima gli esseri viventi. L’anima è quindi l’elemento che conferisce la capacità di vivere e di muoversi, e che distingue gli esseri viventi dagli oggetti inanimati. In seguito, Aristotele approfondisce la sua definizione di anima, distinguendo tre diverse parti o tipi di anima.

Il primo tipo di anima, chiamato anima vegetativa, è presente in tutti gli esseri viventi e si occupa delle funzioni vitali come la crescita, la riproduzione e il nutrimento. Questa parte dell’anima è presente in tutte le piante e negli animali più semplici.

Il secondo tipo di anima, chiamato anima sensitiva, è presente solo negli animali e si occupa delle funzioni sensoriali e percettive, come la vista, l’udito e il tatto. Questa parte dell’anima consente agli animali di percepire il mondo esterno e di reagire ad esso in modo appropriato.

Il terzo tipo di anima, chiamato anima razionale, è presente solo negli esseri umani e si occupa delle funzioni cognitive superiori, come la ragione, la memoria e il pensiero astratto. Questa parte dell’anima consente agli esseri umani di pensare, ragionare e comprendere il mondo in modo complesso.

Un altro concetto importante del De Anima è quello di potenza ed atto. Aristotele sostiene che tutte le cose sono composte da materia e forma, e che la materia è capace di trasformarsi in diverse forme attraverso la sua potenzialità. L’atto, d’altra parte, rappresenta la realizzazione della potenzialità della materia, cioè la sua forma finale. Ad esempio, il

seme di un albero ha la potenzialità di diventare un albero adulto, ma questa potenzialità deve essere attuata attraverso la crescita e lo sviluppo dell’albero.

Questo concetto di potenza ed atto si applica anche all’anima. Aristotele sostiene che l’anima ha una potenzialità naturale per svolgere diverse funzioni, ma che la sua attuazione dipende dallo sviluppo delle facoltà dell’anima stessa. Ad esempio, l’anima umana ha la potenzialità di ragionare, ma questa potenzialità deve essere attuata attraverso la formazione della mente e dell’intelletto.

Infine, il De Anima di Aristotele affronta anche il concetto di sensazione e percezione. Aristotele sostiene che la sensazione è la capacità degli esseri viventi di ricevere informazioni attraverso i sensi, mentre la percezione è la capacità di elaborare e comprendere queste informazioni.

Il concetto di potenza ed atto è fondamentale nella filosofia aristotelica. Secondo Aristotele, l’essere umano è una sostanza composta di materia e forma, dove la materia è potenza e la forma è atto. La materia rappresenta ciò che una sostanza può diventare, mentre la forma rappresenta ciò che la sostanza è attualmente. La potenza è quindi la capacità di diventare qualcosa, mentre l’atto rappresenta il suo stato attuale.

Inoltre, Aristotele sostiene che il movimento e il cambiamento sono possibili solo grazie alla presenza di potenza ed atto. La potenza è ciò che permette la trasformazione e l’attingimento del suo stato attuale, l’atto. Ad esempio, una pietra ha la potenza di muoversi, ma non si muoverà finché non viene applicata una forza esterna, che attiva la sua potenza in atto e la fa muovere.

Aristotele applica questo concetto anche alla vita e all’animazione. L’animazione è la capacità di muoversi spontaneamente, e questa capacità è data dalla presenza di anima. L’anima è quindi la forza vitale che dà la potenza di muoversi e di agire, attivando l’atto. In questo senso, l’anima è vista come un principio di attivazione della potenza.

In sintesi, il concetto di potenza ed atto di Aristotele è fondamentale per la sua filosofia e offre una chiave di lettura per comprendere il cambiamento e la trasformazione del mondo. Esso fornisce anche una spiegazione per l’animazione e la vita, collegando la potenza dell’essere alla sua attualizzazione, l’atto.

Il concetto di forma e materia è fondamentale nella filosofia di Aristotele e si riferisce alla comprensione della sostanza, ovvero ciò che è un’entità esistente e individuabile nel mondo reale. Secondo Aristotele, ogni sostanza è costituita da due elementi: la forma e la materia. La forma si riferisce all’aspetto esteriore e alla struttura dell’oggetto, mentre la materia è ciò che costituisce la sostanza, ma che non ha ancora preso una forma definita.

Aristotele sosteneva che la forma e la materia non possono esistere separatamente l’una dall’altra, ma sono unite in modo indissolubile nella sostanza. Ciò significa che la forma non può esistere senza la materia e la materia non può esistere senza la forma. La materia è passiva e non ha la capacità di creare forme da sola, ma deve essere plasmata dalla forma. La forma, invece, è l’attività creativa che trasforma la materia in sostanza.

Per Aristotele, la forma e la materia sono presenti in ogni cosa, dal più piccolo oggetto alla più grande entità. Ad esempio, in un tavolo, la materia è costituita dal legno, mentre la forma è costituita dalla struttura del tavolo stesso. La comprensione di questa relazione tra forma e materia è importante per comprendere la natura delle cose e il loro funzionamento nel mondo.

Inoltre, Aristotele utilizzava il concetto di forma e materia per spiegare il processo di generazione e di corruzione delle sostanze. La generazione si verifica quando la materia viene plasmata dalla forma per creare una nuova sostanza, mentre la corruzione si verifica quando la forma abbandona la materia e la sostanza smette di esistere.

In conclusione, la comprensione dei concetti di forma e materia nella filosofia di Aristotele è fondamentale per comprendere la natura delle cose e il loro funzionamento nel mondo. Il concetto di forma e materia è presente in tutti gli aspetti della vita e ha una grande influenza sulla filosofia moderna, in particolare nella filosofia della scienza e nella teoria dell’evoluzione.

Il Motore Immobile in Aristotele nella Metafisica. Argomenti trattati nella Metafisica di Aristotele

La Metafisica di Aristotele è una delle sue opere più importanti e influenti. Il suo contenuto si concentra sull’ontologia, la teologia e la filosofia della natura. Uno dei concetti chiave della Metafisica di Aristotele è il Motore Immobile, o primo motore, che è una delle idee fondamentali della sua filosofia. Aristotele afferma che tutto ciò che si muove ha un principio del movimento e che questo principio è il Motore Immobile, un essere divino e immateriale che muove tutto il mondo. Aristotele sostiene che il Motore Immobile è l’essere più perfetto e eterno, che è la fonte del movimento e dell’attività dell’universo. Il Motore Immobile è immateriale e atemporale e, a differenza degli esseri umani, non può cambiare o evolversi. La Metafisica di Aristotele è una raccolta di tredici libri che affrontano vari argomenti. Alcuni dei temi principali della Metafisica includono la sostanza, la forma, la materia, la causa, l’essere, l’universale e il particolare, la teologia, il Motore Immobile e l’essere come tale. Nella Metafisica, Aristotele sviluppa inoltre la sua dottrina della sostanza, affermando che le sostanze sono le entità reali che esistono nel mondo, mentre le altre categorie, come la quantità e la qualità, sono solo attributi delle sostanze. Inoltre, egli sostiene che la sostanza è composta da materia e forma, dove la materia è ciò di cui è fatto qualcosa, mentre la forma è la sua essenza. La Metafisica di Aristotele è stata una fonte di ispirazione per molti filosofi e pensatori successivi, tra cui Tommaso d’Aquino, che l’ha utilizzata come base per la sua teologia.

la Metafisica di Aristotele si occupa anche dell’essere in quanto tale, esplorando la natura dell’essere e del non-essere. Aristotele afferma che l’essere è ciò che esiste in sé stesso, mentre il non-essere è ciò che non esiste affatto. Inoltre, egli sostiene che l’essere può essere analizzato in vari modi, come l’essere in potenza e l’essere in atto. In generale, la Metafisica di Aristotele rappresenta un’importante pietra miliare nella storia della filosofia, che ha influenzato il pensiero filosofico e teologico per secoli.

L’ontologia in Aristotele si occupa dello studio dell’essere in quanto tale e delle sue proprietà. In particolare, Aristotele sostiene che l’ontologia si concentra sulla definizione di ciò che è una sostanza, ossia ciò che ha un essere per sé stesso e non come attributo di un’altra cosa.

Secondo Aristotele, le sostanze sono costituite da materia e forma, dove la materia è ciò di cui è fatto qualcosa, mentre la forma è la sua essenza. L’essenza di una sostanza è ciò che la definisce e la rende ciò che è, e può essere considerata come la sua forma.

Inoltre, Aristotele distingue tra l’essere in potenza e l’essere in atto. L’essere in potenza si riferisce a ciò che ha la capacità di diventare qualcosa, mentre l’essere in atto si riferisce a ciò che ha già raggiunto la sua forma definitiva e ha realizzato il suo pieno potenziale.

Infine, Aristotele sostiene che l’ontologia si occupa anche dell’esistenza degli universali, come le idee e i concetti, che esistono al di là della realtà fisica e sono universali per tutti gli individui.

 

BIBLIOGRAFIA

  1.  Aristotele, “Etica Nicomachea” –
  2. Aristotele, “Politica” –
  3. Aristotele, “Metafisica” –
  4. Aristotele, “Fisica” –
  5. Aristotele, “De Anima” –
  6. Jonathan Barnes, “Aristotele: Una Guida Molto Breve” –
  7. Richard Kraut (ed.), “Aristotele: Politica, Etica Nicomachea” –
  8. Gail Fine, “Aristotele su Conoscenza e Scienza” –
  9. Terence Irwin, “Aristotele: Una Guida per lo Studente” –
  10. Anthony Kenny, “Aristotele: Una Guida per il Lettore Perplesso”
  11. Aristotele, Metafisica
  12. Aristotele, Fisica
  13. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica. Vol. II: Platone e Aristotele, Bompiani, 2014
  14. Carlo Natali, Aristotele, Laterza, 2016
  15. Jonathan Barnes, Aristotle: A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2000
  16. David Bostock, Aristotle’s Metaphysics, Oxford University Press, 1994
  17. Werner Jaeger, Aristoteles: Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Walter de Gruyter, 1957
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Scrittura e pittura, musica e poesia

Pasquale Amato

Vuo’ dar una mentita per la gola
a qualunque uomo ardisca d’affermare
che il Murtola non sa ben poetare,
e c’ha bisogno di tornare a scuola.
[…]

È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente e non del goffo):
chi non sa far stupir, vada alla striglia!
[…]

(Giambattista Marino, Il poeta e la meraviglia)

Da qualche parte ho detto:

Ripensa al suo desiderio di produrre scritti che suonino bene. […] Ecco: vorrebbe scrivere cose che assomiglino a una bella musica, a un Bolero di Ravel eseguito al meglio. È un’ambizione difficile da attuare, lo capisce. Ma del resto, in un’altra vita sarà cocciutamente ed esclusivamente un musicista: l’ha deciso da tempo, e così ha risolto la questione una volta per tutte.[1]

Il mio caro amico Raffaele Iacono[2], artista ischitano che crea avvincenti opere pittoriche – provocatorie, intriganti, stimolanti, belle, … tutti aggettivi inutili che cercano di spiegare la sensazione inebriante e composita che regalano –, mi ha confidato, con voce emozionata, che leggendo quel pezzo si è riconosciuto: anche lui dipinge con dentro la voglia che il quadro “suoni” come una musica appassionata. Colpito e mosso dalla rivelazione, ho cominciato a riflettere su quel nostro sentire.

Credo che tutti saremmo d’accordo nel dire che la musica comunica emozioni e sentimenti. È però comprensibile – anche solo intuitivamente – che per parlare di comunicazione è necessario disporre di un sistema di segni che siano significanti, cioè dotati di un significato condiviso riferito a qualcosa di esterno al sistema stesso. Quello che qui ci interessa vagliare è, ovviamente, il confronto con la comunicazione linguistica, dove per esempio la parola ‘matita’ – che è un elemento (un segno, un significante) del sistema “lingua italiana” – rappresenta (o denota, ossia ha come significato) l’oggetto-matita che appartiene (non alla lingua, ma) al sistema che possiamo chiamare “realtà”[3].

Comparando musica e linguaggio ordinario, però, è evidente che la denotazione, cioè la relazione significante/significato, nella musica è quanto meno “opaca”. L’espressione musicale, a differenza di quella linguistica, è un insieme di significanti che solo in modo criptico e indiretto rappresentano i significati che vogliono veicolare. Parafrasando Jean-Jacques Nattiez[4], l’esecuzione di un brano musicale provoca in chi ascolta emozioni connesse a una percezione sicuramente soggettiva del pezzo, e da tali emozioni l’ascoltatore trae un’interpretazione altrettanto soggettiva, comunque indipendente dal messaggio che l’autore del brano intendeva trasmettere.

L’affermazione di scrivere o di dipingere con l’idea di suscitare emozioni uguali a quelle che le persone proverebbero ascoltando una bellissima musica, dunque, serve a risolvere in suggestiva metafora la voglia mia e di Raffaele di definire il meccanismo creativo, forse indefinibile, che scrive e dipinge per noi.

Ora, almeno in riferimento alla scrittura in prosa, si può tentare di uscir fuori dalla metafora introducendo l’attinenza con il linguaggio poetico. Nella poesia, come nella musica, c’è melodia, c’è ritmo, c’è armonia, e anche la poesia è simbolica, indiretta, implicita, criptica. Però è fatta con le stesse parole del linguaggio ordinario, quindi è interpretabile in una maniera meno soggettiva, e questo rende l’accostamento della scrittura in prosa con la poesia più sensato e logico di quello con la musica.

Quindi, a rigor di logica, se anche per uno scrittore fosse più consona l’aspirazione a ottenere che i suoi racconti in prosa diano al lettore la sensazione di leggere una poesia senza rime e senza versi, piuttosto che quella di ascoltare un bel brano musicale, resta inteso che, al contrario, l’ambito pittorico mostra – specialmente se tende al non figurativo, al concettuale e all’astratto, mancandogli pertanto denotazioni stringenti come quelle linguistiche – una vicinanza maggiore al registro musicale.

Ma “più sensato e logico” – diciamolo – non necessariamente significa migliore, e soprattutto non risponde all’esigenza emotiva (affine alla psicologia e non alla filosofia) mia e di Raffaele di qualificare il nostro approccio operativo.

In conclusione, mi sembra proficuo dare ascolto al nostro intuito e al nostro sentimento e ribadire che io e Raffaele dovremmo continuare ad affidarci al desiderio istintivo che i nostri lavori “suonino come una bella musica”, pur nella maggior consapevolezza del senso metaforico di questa formula, ma tenendo conto, inoltre, del raffronto con la poesia, che probabilmente ci consentirà di attingere a un’ulteriore fonte di stimoli creativi.

[1]  Pasquale Amato, C’è casa e casa, Moretti & Vitali, Bergamo 2022, p. 90.

[2]  «Sono due le principali caratteristiche dell’arte di Raffaele Iacono: il dialogo costante con la natura e la scelta di dipingere su supporti esclusivamente cartacei. Le sfumature dei suoi dipinti testimoniano la caducità del tempo che impressionò da sempre l’artista senza tralasciare però i forti messaggi che ha voluto tramandare insieme alla sua arte. […] Tanti i viaggi in giro per l’Europa visitando gallerie d’arte e musei che contribuirono a formare l’artista. Una delle sue permanenze più lunghe fu a Parigi eletta, ben presto, patria d’elezione. Tra naturalismo ed astrazione proseguì la sua arte pittorica, raccogliendo intorno a sé tanti appassionati d’arte di ogni tempo» (Raffaele Iacono – Isoladischia.com).

[3]  Questo rapporto tra significante e significato (in virtù del quale la parola ‘matita’ rappresenta l’oggetto matita) viene chiamato denotazione, e ha come implicazione il fatto che il significante ‘matita’ “trascenda” il significato oggetto-matita: le parole, infatti, trascendono la realtà, sono cioè su un piano diverso, un piano che sta “oltre”, rispetto al piano della realtà.

[4] Cfr. Jean-Jacques Nattiez, Fondements d’une sémiologie de la musique, Paris, Union générale d’éditions, 1975.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 11

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (V)

3.1. L’uomo fallibile (IV)

3.1.4. Il concetto di fallibilità

Sono così poste le basi di una “ontologia della realtà umana” il cui spessore è dato dall’idea di sproporzione che si offre come concetto immediato di «quella limitazione specifica che consiste per la realtà umana nel non coincidere con se stessa»[1]. È un’ontologia diretta, i cui sviluppi si stagliano sullo sfondo di un’ontologia formale che può soltanto delineare un’idea generica di limitazione. Le adeguate categorie sono risultate reperibili nel disimplicarle «dal rapporto sproporzionato tra finitezza e infinità […]. È questo rapporto che fa della limitazione umana il sinonimo della fallibilità»[2].

L’idea di sproporzione ci rimanda alle nozioni patetiche di mescolanza e intermediario, tratte dalla “grande retorica” dell’uomo miserabile: perché la trasposizione del patetico della miseria nel filosofico sia portata a conclusione, non resta che chiarire la natura della possibilità del male, della possibilità cioè di fallire, che è la limitazione inscritta nella fragilità della costituzione umana.

L’uomo è fallibile perché la sua sproporzione gli conferisce una originaria fragilità che è, insieme, occasione, origine e capacità del male.

Nel primo senso, che lascia ancora possibilità e realtà del male esterne l’una all’altra, la fallibilità è la semplice possibilità del male, l’occasione come «punto di minor resistenza per il quale il male può penetrare nell’uomo»[3].

Sarà la simbolica del male, nel leggere la confessione, a consentire l’accesso ai sensi ulteriori del concetto di fallibilità. Essa sarà il tentativo di introdursi a colmare il vuoto metodologico compreso tra la riflessione antropologica – che si ferma necessariamente al di qua dell’insorgenza del male, prima che avvenga il salto dalla fallibilità alla caduta – e l’etica – che arriva già sempre in ritardo perché presuppone un uomo che ha già fallito, un uomo già colpevole. Il momento di insorgenza del male, di caduta dall’innocenza alla colpa, il salto, sarà dunque il suo centro; passare dalla fenomenologia della fallibilità alla simbolica del male significherà riprodurre «lo iato nell’uomo stesso tra fallibilità e colpa»[4].

Questo nuovo tipo di riflessione si addice alla lettura del mito, della storia fantastica che offre in trasparenza, essenzialmente e simbolicamente, l’originario, una proiezione della «mia innocenza [che] è la mia costituzione originaria»[5]. Poiché «un mito di caduta non è possibile se non nel contesto di un mito di creazione e di innocenza»[6], la confessione mi fornisce l’origine, il paradigma di partenza dal quale tutti i mali derivano per una pseudo-genesi intesa «nel senso in cui la patologia parla dei disturbi premettendo “iper”, “ipo” o “para”»[7]. In altri termini, il mito mi prospetta il male come “malattia” attraverso la quale la costituzione umana traspare originariamente “sana” nell’innocenza.

Questa origine solo percepita, sottolinea Ricœur, è mutuata dai simboli, dal mito, dall’immaginazione dell’innocenza rappresentata come fragilità senza caduta, come fallibilità senza colpa, come «uno stato realizzato “altrove” e “un tempo”, in luoghi e tempi che non trovano posto nella geografia e nella storia dell’uomo razionale»[8]. Ammettere l’immaginazione in filosofia? Non c’è da scandalizzarsi, incalza Ricœur, perché «l’immaginazione è un modo indispensabile d’indagine del possibile»[9]. Attraverso l’immaginario la costituzione originaria dell’uomo mi si mostra come essenza, la sua fallibilità mi appare, non come l’innocenza decaduta che l’ordinario sempre mi porge, ma come pura possibilità.

La figura biblica di Eva serve a Ricœur per esemplificare il terzo senso secondo il quale, in modo ancora più positivo, la sproporzione dell’uomo si rivela come potere, come capacità di fallire. La debolezza cede alla tentazione e cade: non solo, dunque, viene proposta l’insorgenza istantanea del male, ma anche «il sottile slittamento, l’oscura flessione dalla innocenza al male»[10], la vertigine. Nel momento stesso in cui l’uomo confessa di porre il male, il male sembra nascere e procedere, attraverso la vertigine, dalla sproporzione dell’uomo: questo progredire continuo, «questa transizione dall’innocenza alla colpa, scoperta nel porsi stesso del male, […] dà al concetto di fallibilità tutta la sua ambigua profondità»[11]: è in questa ambiguità che la simbolica del male si inoltra.

[1] ivi, p. 227.

[2] ivi, p. 228.

[3] ivi, p. 237.

[4] ivi, p. 239.

[5] ivi, p. 241.

[6] ivi, p. 241.

[7] ivi, p. 239.

[8] ivi, p. 241.

[9] ivi, p. 241.

[10] ivi, p. 242.

[11] ivi, p. 242.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 12

 

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (VI)

3.2. La simbolica del male (I)

Il concetto di fallibilità è risultato l’esito del nostro indagare sull’uomo che porta con sé, nel vivere la sproporzione che lo rende fragile, la possibilità del male. Avventurarsi, ora, nelle rappresentazioni della esperienza originaria della coscienza di colpa significherà porsi alla ricerca degli elementi paradigmatici di quella realtà del male che l’uomo fallibile ci aveva solo indicato.

L’esperienza dello scoprirsi colpevole, ci avverte Ricœur, è cieca, vissuta com’è all’insegna della paura e dell’angoscia; è equivoca, in quanto stratificata in riferimenti ad altre esperienze più fondamentali che pongono l’uomo a confronto con Dio e con gli altri uomini; è scandalosa, perché sconcerta nel rendere l’uomo incomprensibile a se stesso, nell’alienarlo da sé, nel nascondergli Dio e il senso delle cose. Ma sono proprio la cecità, l’equivocità e lo scandalo ad esigere che l’esperienza sia detta. Il linguaggio della confessione, allora, fa sì che l’emozione si esprima e non resti, «come un’impressione dell’anima»[1], rinchiusa su se stessa; esso diventa ausilio «per elucidare le crisi sotterranee della coscienza di colpa»[2]; è interrogativo e, insieme, vuol «rispondere alla minaccia del non-senso»[3].

La confessione è dunque «una parola, che l’uomo pronuncia su se stesso»[4] e, in quanto parola, riguarda la filosofia. Per poterne cogliere il messaggio dovremo “ripeterla” «nella immaginazione e nella simpatia»[5], dice Ricœur, consapevoli che questa ripetizione non è più esperienza religiosa vissuta e non può ancora sostituire una filosofia della colpa. Eppure è questa la strada che conduce alla riconquista di quella dimensione del simbolo che è propria del pensiero moderno.

 

3.2.1. I simboli primari: impurità, peccato, colpevolezza

Ma cosa dice il linguaggio della confessione? Per poterlo comprendere si potrebbe cominciare, più comodamente, dal «sedicente concetto»[6] di peccato originale. La tentazione del riferimento critico a quest’espressione che appartiene al periodo agostiniano della gnosi – caratterizzato cioè dalla «pretesa di “conoscere” i misteri di Dio e del destino dell’uomo»[7] – va evitata perché il concetto di peccato originale è una razionalizzazione conseguente all’esperienza cristiana del peccato, e non ha perciò una connotazione di principio, di originarietà. La filosofia, dice Ricœur, deve rivolgersi ad «espressioni meno elaborate, più balbettanti della confessione»[8], e quindi, prima ancora di riflettere sul mito, di cui la speculazione razionalizzante è una riassunzione, bisogna regredire a ciò che sta al di sotto del mito stesso, a quelle espressioni “spontanee” della confessione dei peccati, a quei simboli che Ricœur definisce “primari”, a quelle parole che compongono il «vocabolario della colpa»[9].

Lo studio dei simboli primari è già un’ermeneutica propedeutica all’ermeneutica dei miti, e consiste nella «comprensione squisitamente semantica che possiamo acquisire»[10] delle espressioni ebraiche e greche che, nel dire la colpa, rivelano una sapienza antica che illumina il percorso verso l’esperienza originaria del peccato.

Riassumendo, questa riflessione si approfondisce nel linguaggio primitivo, non ancora mitico, dei simboli primari della colpa, procedendo a ritroso attraverso la gnosi e il mito, elaborazioni rispettivamente di terzo e secondo grado, di cui però la comprensione dei simboli di primo grado ha a sua volta bisogno per attuarsi. Questo rimando ciclico, sostiene Ricœur, «è il circolo chiuso della confessione, del mito e della speculazione»[11].

I simboli primari costituiscono, prima della gnosi e del mito, «la pietra angolare della concezione giudeo-cristiana del peccato»[12], ma la funzione che Ricœur assegna alla loro identificazione è proprio quella di contribuire ad una migliore comprensione del rapporto tra il mito e l’esplicitazione che esso offre, tanto del legame tra l’uomo e il sacro, quanto della “crisi” instaurata dal male in tale legame.

Prefiggendosi il compito di integrare filosoficamente la confessione, detta nel suo linguaggio simbolico, alla coscienza di sé, Ricœur individua quelle che chiama «zone di emergenza del simbolo»[13], cioè le dimensioni del cosmico, dell’onirico, del poetico, delle quali recuperare la profondità. È in queste aree che si possono leggere i «simbolismi più fondamentali e più stabili dell’umanità»[14], sempre mediati dalla parola, perché – dirà Ricœur – «nulla è simbolico prima che uomo parli»[15]. La loro espressione rimanda, rispettivamente, alle ierofanie, all’emergenza cioè «del sacro in un frammento del cosmo»[16], per cui «cielo, sole e luna, acque e vegetazione»[17] sono cose che attraverso le parole acquistano le prime significazioni simboliche; al sogno come veicolo psichico delle manifestazioni del sacro, leggendo in chiave freudiana o junghiana quelle produzioni oniriche «che, secondo l’ammissione di Freud stesso, superano le proiezioni della storia individuale e affondano […] nel folklore dell’umanità stessa»[18]; all’immaginazione poetica che, «complemento della duplice “espressività” del cosmico e dell’onirico»[19], differisce da essi perché il simbolo poetico – che è, per essenza, verbo – si coglie, già sul nascere, come espressività che insorge nel linguaggio.

Lo studio che consente, nel «distinguere il simbolo da ciò che non lo è»[20], di cogliere il principio unificatore, il nucleo di questa triade simbolica, è un’eidetica, un’analisi intenzionale che procede secondo sei criteri che permettono un progressivo avvicinamento all’idea essenziale di simbolo.

Il criterio di fondo è che «i simboli sono dei segni»[21]. I simboli – cosmici, onirici o poetici che siano – appartengono all’«universo del discorso»[22]: il loro senso viene comunicato con parole, espressioni, segni che ne veicolano l’intenzione di significare.

Ma, per poter delimitare l’ambito propriamente simbolico, è necessario dire che, pur nell’intendere tutti i segni qualcosa che è altro da se stessi, «non ogni segno è simbolo»[23]. Dai segni tecnici traspare, unico, il loro significato; al contrario, i segni simbolici si offrono in una «opacità [che] costituisce la profondità stessa del simbolo, che è inesauribile»[24].

Il senso letterale della parola-simbolo è immediata analogia con un senso ulteriore che è ancora e solo in lei. Di conseguenza, possiamo affermare con Ricœur che «il simbolo “dà”, perché è un’intenzionalità primaria che dà analogicamente il senso secondo»[25], il che vuol dire che l’analogo cui il simbolo allude è costitutivo del senso letterale del segno simbolico, e da esso non può essere separato.

Il quarto criterio è un ulteriore sviluppo del precedente: «simbolo e allegoria non sono […] sullo stesso piano»[26]. Una traduzione può sostituire al senso letterale di un’allegoria il suo senso secondo, simbolico, rendendo subito dopo superfluo il significato letterale. In quanto l’allegoria è modalità interpretativa più che spontanea invenzione di segni, il simbolo la precede, poiché precede l’ermeneutica. Il simbolo, i cui significati letterale e simbolico non sono intercambiabili, dà il suo senso «nella trasparenza opaca dell’enigma, e non per traduzione»[27].

Ricœur afferma che la «struttura della significazione […] è ad un tempo funzione dell’assenza e funzione della presenza»[28]. La prima funzione esplicita il fatto che la significazione dice le cose in loro assenza, “a vuoto”, mediante segni che le sostituiscono; la presenza è invece insita nel considerare che si significa “qualche cosa” e, dunque, il mondo. È per questo che nell’universo del linguaggio sono compresenti i simboli di cui noi ci occupiamo e quelli della logica simbolica, elementi di un formalismo assoluto rispetto ai quali «il simbolo è tutto l’opposto»[29].

Infine, l’ultimo aspetto di questa “criteriologia” ricœuriana definisce il mito come simbolo particolare, elaborato nella forma di un racconto collocato in tempi e luoghi non rintracciabili nella storia e nella geografia che noi conosciamo. La maggiore radicalità che distingue il simbolo dal mito è alla base della definizione con la quale Ricœur intende per simbolo «le significazioni analogiche spontaneamente formate e immediatamente datrici di senso»[30].

Nonostante il mythos sia già logos, integrarlo alla riflessione piena, inserirlo nel discorso filosofico, resta un problema che per ora, ammette Ricœur, non siamo in grado di risolvere. Di certo, la ripetizione nell’immaginazione e in simpatia si presenta nella forma «di una fenomenologia puramente descrittiva che lascia parlare l’anima credente»[31] al cui ascolto il filosofo si pone per “risentirne” motivazioni ed intenzioni nel modo neutralizzato dei simboli, non potendole “sentire” direttamente. Ma questa fenomenologia è solo un esercizio preparatorio che rimane esterno alla riflessione che era sfociata nel concetto di fallibilità.

Tuttavia, pur non avendo pronta una soluzione, Ricœur ci propone un’affermazione che della soluzione sarà il principio: «il simbolo dà a pensare»[32]. Emblematica e suggestiva, questa espressione riassume lo stato d’animo del pensatore che si scopre interpellato da un simbolismo già presente nel mondo di cui egli è parte.

Nel discorso filosofico si introduce «la contingenza della civiltà»[33], della cultura a cui, insieme ai simboli che posso conoscere, appartengo: questa realtà orienta e limita il mio ambito speculativo.

Ma non basta: un particolare universo simbolico ci orienta e ci limita, ma la nostra indagine si innesta in una realtà filosofico-culturale che mostra paradossalmente un suo indirizzo già dato.

«La nostra filosofia è greca per nascita»[34]: questa osservazione, che sembra scontata, consente a Ricœur, da un lato, di sviluppare il nesso innegabile tra il “Che cos’è l’essere?” che la memoria greca ci ha tramandato e tutte le successive questioni filosofiche alle quali si aggiungono quelle che riguardano la finitudine e la colpa, dall’altro di rilevare «il privilegio di “prossimità” della cultura greca e di quella giudaica»[35], il cui incontro è all’origine della civiltà occidentale e ne segna il destino. È per questo, ribadisce Ricœur, che il nostro orizzonte speculativo sarà la «storia della coscienza di colpa in Grecia e in Israele»[36].

Con un accenno a quella «filosofia senza presupposti»[37] che egli sottoporrà ancora, in seguito, a dura critica, Ricœur ci ricorda che la contingenza radicale assegnataci dalla nostra memoria culturale genera il disagio e la difficoltà dell’approccio filosofico a ciò che, come la religione, è “altro” che filosofia; è una contingenza implicita nell’alternarsi dei “pensieri” che si concatenano nella storia della filosofia; è, infine, una contingenza ineluttabile ma necessaria, perché chi voglia eluderla «in nome di una “oggettività” priva di collocazione, al limite conoscerà tutto, ma non comprenderà nulla»[38].

Il più remoto dei simboli primari, sostiene Ricœur, è l’impurità. Dalla sua originaria connotazione oggettiva, che la esprime come «qualcosa […] che infetta attraverso il contatto»[39], essa si evolve in un timore che, nel mescolarsi con la paura fisica della contaminazione, ne rende soggettivo il senso e apre all’uomo l’accesso alla dimensione etica. Il rischio che si profila diventa anch’esso etico in quanto riferito a quello che Ricœur definisce il «legame primordiale della vendetta dell’impurità»[40]: un pericolo – il più primitivo – inteso come la reazione vendicativa dell’impurità stessa offesa dal contatto dell’uomo.

Una tale considerazione precede non solo il riferimento a un Dio vendicatore, ma anche la rappresentazione di un ordine naturale cui fa riferimento anche un frammento di Anassimandro – citato da Ricœur[41] – nel quale è possibile cogliere quel «linguaggio della retribuzione»[42] che esprime un ulteriore sviluppo della misura etica dell’uomo. Siamo in un ambito in cui non si è attuata ancora la separazione tra fisico ed etico, tra sofferenza e colpevolezza: la comprensione di questa dualità indivisa di timore fisico-etico non è accessibile alla nostra civiltà se non attraverso un esercizio indiretto di immaginazione, di irrazionalità. Il mondo dell’impurità è un mondo dove «l’etica si mescola alla fisica del soffrire, mentre la sofferenza si sovraccarica di significazioni etiche»[43].

Questa etica ancora abbozzata progredisce fino a perdere la sua inclinazione retributiva solo quando viene posta in questione la prima forma razionalizzante di relazione tra causa-peccato ed effetto-sofferenza. Il prezzo di questo passaggio, osserva Ricœur, è molto alto, poiché ad una prima spiegazione della sofferenza si deve sostituire l’inspiegabilità, la gratuità scandalosa del dolore, e dunque del male, di cui il Giobbe biblico sarà la drammatica rappresentazione.

La costituzione di un «vocabolario del puro e dell’impuro»[44], per noi Occidentali, è un’eredità dei classici greci, stigmatizzata nel termine  che designa l’assenza di impurità e che, da un generico significato di pulizia fisica, si estende ad esprimere, poi, nell’ambito medico l’evacuazione, nella ritualità le pratiche purificatorie, fino ad intendere prima una purezza esclusivamente morale, poi la purificazione essenziale della sapienza filosofica: un iter di significazioni che rende questa parola, ci informa Ricœur, pronta a sostenere il simbolismo che coincide con il nostro dire la “macchia simbolica” dell’impuro.

La ricchezza di significatività di questo simbolo, d’altronde, si rivela nella forza che lo pone stabilmente a fare da sfondo a tutte le successive, più elaborate rappresentazioni simboliche del male: se ne trova traccia, per esempio, nella concezione ebraica del peccato che conserva la matrice duale della macchia.

La transizione che dal significato di impurità conduce a quello di peccato, afferma Ricœur, è di tipo fenomenologico più che storico, e trova soprattutto riscontro nel linguaggio babilonese della confessione.

Questo successivo simbolo primario presenta come suo senso peculiare il trasgredire all’alleanza, al “Patto” con Dio, e presuppone dunque, oltre alla «costituzione preliminare del Patto»[45], un riferimento “teistico” da ricondurre però – nota Ricœur – a un dio che è «antropotropo prima di essere antropomorfo»[46]. In questo caso, conseguentemente, la prospettiva non è etica, ma di tipo religioso, connotandosi il Patto come un essere “davanti a Dio” e il peccato come il venir meno alla “parola” data.

Non a caso, Ricœur cita il termine ruah dall’Antico Testamento, che indica l’aspetto spirituale, irrazionale del Patto, e che si alterna a davar la cui traduzione, parola, equivale al greco ó., in una corrispondenza che esplicita una tensione anche filosofica, oltre che religiosa, della dimensione del Patto. In tal senso Ricœur sottolinea che la traduzione piuttosto approssimata dall’ebraico davar al greco ó rende però ragione di «una situazione iniziale dell’uomo in balìa di Dio [che] può entrare nell’universo del discorso perché si analizza già in un dire di Dio e in un dire dell’uomo, nella reciprocità di una vocazione e di una invocazione»[47].

Anche la simbolica del peccato – che si concentra sulle espressioni dell’oracolo e della profezia – si mostra in una prospettiva sia oggettiva che soggettiva: da un lato si delinea l’alienazione causata dall’iniquità della trasgressione nei confronti di un Dio perfettamente giusto; dall’altro l’angoscia – per evoluzione del timore dell’impurità – emerge come paura della collera divina. È importante notare come il tipo di soggettività riscontrato sia ancora collettivo e non individuale, poiché il “timor di Dio” si esprime in riferimento al destino del popolo ebraico.

L’impurità suscita un timore che determina il premunirsi da un castigo, con un atteggiamento che denota la sensazione di essere appesantiti da una minaccia. Ricœur rileva «in questa coscienza di essere “carichi” […] di un “peso”»[48] l’anticipazione del nucleo essenziale della colpevolezza.

Il momento ontologico del peccato «designa la situazione reale dell’uomo davanti a Dio»[49], che l’uomo ne prenda coscienza o meno. La colpevolezza, in quanto interiorizzazione di tale realtà, indica per Ricœur «il momento soggettivo della colpa»[50] che si attua nell’assumerne piena consapevolezza.

Nel confrontarsi con Dio, il “davanti a te” passa in second’ordine rispetto al “sono io che…”: è a questo punto che avviene la scissione tra esperienza del peccato e colpevolezza. Tale scissione si riflette nella nascita «di una nuova “misura” della colpa»[51] che implica due caratteri essenziali: il primo è il passaggio dalla soggettività “collettiva” del peccato ad «un giudizio d’imputazione personale del male»[52] che trova, secondo Ricœur, una sua radice storica nella deportazione in Babilonia del popolo giudaico e nell’apertura, attraverso la personalizzazione del peccato, della speranza nella salvezza per l’individuo; la seconda acquisizione è l’idea che, a differenza del peccato che «è una situazione qualitativa – o non è – la colpevolezza indica una grandezza intensiva, capace del più e del meno»[53]. La colpevolezza può essere dunque più o meno grave secondo una gradualità che vede ai due estremi «le immagini opposte dell’“empio” e del “giusto”»[54].

Ricœur percorre «il triplice cammino su cui si manifesta questa nuova esperienza»[55] estraendo spunti interpretativi e di riflessione dalle testimonianze letterarie in cui la dimensione etica si presenta in alterne prospettive – giuridica, religiosa, teologica – rispettivamente legate alla responsabilità penale così come viene razionalizzata nelle città greche, alla «coscienza sottile e scrupolosa»[56] del fariseismo, alla visione paolinica della condizione miserabile dell’uomo sottoposto alla Legge.

La comprensione della colpevolezza implica l’affiorare di una esperienza nuova, che è quella dell’“uomo colpevole”, e la riassunzione del simbolismo precedente riferito all’impurità e al peccato, movimenti che esprimono entrambi «il paradosso verso il quale punta l’idea di colpa»[57], il servo arbitrio, concetto che racchiude la simbolicità paradossale «di un uomo responsabile e prigioniero, o meglio, di un uomo responsabile di essere prigioniero»[58].

 

3.2.2. Il concetto di servo arbitrio

L’impurità, il peccato, la colpevolezza sono, ognuno in una propria prospettiva, il tentativo simbolico di raggiungere l’espressione di un concetto che Ricœur definisce come loro orizzonte: il servo arbitrio. Simbolico anch’esso, non è rappresentabile come si è fatto per la fallibilità poiché, nel paradossale sovrapporsi dell’idea di libero arbitrio e dell’idea di servitù, risulta irragionevole e insopportabile al pensiero diretto. Ricœur annuncia comunque un possibile avvicinamento ad esso mediante la lettura dei miti del male.

In definitiva, il servo arbitrio deve considerarsi come «il telos intenzionale di tutta la simbolica del male»[59]; dalla sua implicazione di prigionia scaturisce la tematica della liberazione come “salvezza”, centrale nella tradizione giudaica e storicizzata nell’avvenimento dell’Esodo. Ma Ricœur ci ricorda che tale simbolismo appare, più o meno centralmente, in tutte le culture, letteralmente espresso in modi diversi, ma sempre conservando lo stesso scopo simbolico.

Il concetto di servo arbitrio porta a compimento, secondo Ricœur, il «rapporto circolare tra tutti i simboli»[60], rivelandosi, da una parte, il limite a cui i simboli primari tendono, e dall’altra la riassunzione di tutta la ricchezza di significatività che essi offrono. In tal senso, il percorso di progressive riassunzioni conduce il simbolo più arcaico del male, l’impurità, al rango di «simbolo puro quando non dice più una macchia reale, ma significa soltanto il servo arbitrio»[61]. Questa equivalenza si esplica, afferma Ricœur, in tre schemi del servo arbitrio che nascono da altrettante intenzioni insite nel simbolo dell’impurità: la positività, che indica il male, essendo “posto”, come qualcosa da “togliere”, come potenza delle tenebre e non come semplice mancanza; l’esteriorità, intesa come «identificazione del male umano con un pathos, con una “passione”»[62] e dunque, seppure interiore, proveniente dall’esterno come una “seduzione”; l’infezione, relativa all’idea che «la seduzione dal di fuori è alla fine un’affezione del sé a causa del sé, un’auto-infezione, per la quale l’atto del legarsi si muta nella condizione dell’essere legati»[63]. Nell’osservare, però, che l’infezione non è una distruzione, Ricœur sottolinea che questo male positivo, seducente e contagioso non può cambiare l’uomo togliendogli la sua responsabilità nella scelta.

Per quanto non sia ancora possibile accedere all’intenzione di fondo del simbolo dell’impurità – che risulterà leggibile soprattutto nel mito della caduta – Ricœur, attraverso la metafora del paese che, occupato dal nemico, è costretto a continuare a produrre e ad esistere, ma a beneficio dell’invasore («è responsabile, ma la sua opera è alienata»[64]), può anticipare l’asimmetria tra male e bene a partire dalla quale si può ben dire che «per quanto radicale il male non potrà mai essere originario come la bontà»[65].

[1] ivi, p. 251.

[2] ivi, p. 252.

[3] ivi, p. 252.

[4] ivi, p. 247.

[5] ivi, p. 247.

[6] ivi, p. 248.

[7] ivi, p. 248.

[8] ivi, p. 248.

[9] ivi, p. 253.

[10] ivi, p. 253.

[11] ivi, p. 254.

[12] ivi, p. 250.

[13] ivi, p. 255.

[14] ivi, p. 257.

[15] Ricœur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p. 25.

[16] Ricœur P., Filosofia della volontà ii. Finitudine e Colpa, op.cit., p. 255.

[17] ivi, p. 255.

[18] ivi, p. 257.

[19] ivi, p. 258.

[20] ivi, p. 259.

[21] ivi, p. 259.

[22] ivi, p. 259.

[23] ivi, p. 260.

[24] ivi, p. 260.

[25] ivi, p. 261.

[26] ivi, p. 261.

[27] ivi, p. 262.

[28] ivi, p. 263.

[29] ivi, p. 262.

[30] ivi, p. 263.

[31] ivi, p. 264.

[32] ivi, p. 265.

[33] ivi, p. 265.

[34] ivi, p. 265.

[35] ivi, p. 266.

[36] ivi, p. 266.

[37] ivi, p. 265.

[38] ivi, p. 270.

[39] ivi, p. 276.

[40] ivi, p. 276.

[41] cfr. ivi, p. 277.

[42] ivi, p. 277.

[43] ivi, p. 278.

[44] ivi, p. 284.

[45] ivi, p. 299.

[46] ivi, p. 299.

[47] ivi, p. 300.

[48] ivi, p. 354.

[49] ivi, p. 354.

[50] ivi, p. 354.

[51] ivi, p. 358.

[52] ivi, p. 358.

[53] ivi, p. 360.

[54] ivi, p. 361.

[55] ivi, p. 362.

[56] ivi, p. 354.

[57] ivi, p. 354.

[58] ivi, p. 354.

[59] ivi, p. 409.

[60] ivi, p. 410.

[61] ivi, p. 413.

[62] ivi, p. 414.

[63] ivi, p. 414.

[64] ivi, p. 415.

[65] ivi, p. 415.

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Genesi e struttura introduttiva a IL CAPITALE

Franca Sera

Ci sono tre testi principali nei quali Marx chiarisce i suoi fondamenti teorici nello studio dell’economia politica; questi tre testi aiutano a comprendere qual è l’orizzonte teorico e filosofico dentro cui anche Il capitale può essere collocato:

  • L’introduzione del 1857, i “Grundrisse
  • La Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” del 1859
  • Il Poscritto alla 2° edizione tedesca del Capitale del 1873

Dopo la stesura, senza la pubblicazione, dei Grundrisse (“Elementi fondamentali della critica dell’economia politica”), Marx pubblicò nel Gennaio del ’59 “Per la critica dell’economia politica”, che può considerarsi come la prima parte della sua opera economica, Il capitale. Il capitale è una ripresa di ciò che è scritto in questo libro ed un tentativo di approfondimento ed ampliamento.

In primo luogo in questo libro c’è una novità fondamentale, che appariva solo nel 4° quaderno dei Grundrisse, e cioè che la critica dell’economia politica inizia con l’analisi della merce. All’altezza del 1859 Marx risolve il problema hegeliano del cominciamento della scienza, trovando il vero inizio della scienza economica nell’elemento della merce, che costituisce il nucleo e lo specchio di tutta la dinamica del Capitale: Marx con la merce trova un elemento che in potenza è tutto lo sviluppo del Capitale.

Nel testo del ’59 Marx aggiunge un’importante Prefazione, capolavoro anche dal punto di vista stilistico, in cui in poche e dense e pagine chiarisce i fondamenti della sua teoria, chiarendo in modo particolare la sua concezione della società civile ed il suo concetto di rivoluzione.

Nella Prefazione il 1° aspetto notevole è il debito riconosciuto verso la filosofia di Hegel, al punto che Marx arriva a retrodatare il nucleo originale del Materialismo Storico al 1843, quando scrive la Kritik (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico), dicendo che la sua filosofia nasce lì.  La conclusione a cui fin da allora era giunto è che le forme dello stato ed i rapporti giuridici non possono essere compresi per sé stessi, così come le forme della coscienza umana, ma devono essere ricondotti ad una radice che li produce e li alimenta.

In termini di filosofia politica, la radice è la società civile: nella visione di Marx, come lui stesso spiega nella Prefazione, il soggetto della storia umana non è più lo Stato o il Diritto, ma è la società civile, concetto chiave della politica moderna. Marx chiarisce subito cosa si deve intendere per società civile, ossia i rapporti materiali dell’esistenza, ed inoltre afferma che questo soggetto della storia moderna ha una sua anatomia, ossia l’economia politica.

Il 1° punto da mettere a fuoco per comprendere il pensiero di Marx è questo, ossia che Marx riprende da Hegel il concetto di società civile (concetto che ha una storia importante nella modernità, che ha la sua origine in Locke e che poi diventa un concetto fondamentale della filosofia politica moderna e contemporanea, come anche nel pensiero di Gramsci). Questa è una grande innovazione di cui Marx si fa espressione piena: rispetto alla prima teoria moderna della sovranità (come Machiavelli o Hobbes), qui cambiano i termini della considerazione politica grazie ad alcuni concetti come quello della società civile.

Il grande problema di Machiavelli era quello della formazione e conservazione dello Stato, perché lo Stato nella visione di Machiavelli è il vero soggetto della politica e della storia umana; per Hobbes invece la sovranità nasce dal patto tra gli individui che escono dallo stato di natura per conservare la propria vita e per fuggire lo spettro di una guerra generale, e vi sfuggono trasferendo la propria sovranità nel Sovrano e nello Stato.  Quello di Machiavelli, Hobbes o di Bodin non è lo Stato Nazionale moderno, ma è lo Stato come soggetto della storia; affinché sorga lo stato moderno dev’essere inventata la figura della nazione.

Nella prima modernità politica c’è lo Stato come soggetto della storia e ci sono i sudditi, sono queste le due grandi categorie della prima modernità politica: la politica diventa totalitaria, la dimensione esclusiva della vita collettiva (tutto si accentra sulla figura del principe o del monarca). Il modello che viene chiamato “Machiavellismo” torna anche nella storia del marxismo, ossia la centralità persino esclusiva dello Stato come soggetto politico.

La modernità fin dagli inizi della rivoluzione borghese comincia a seguire un’altra strada rispetto a Machiavelli o Hobbes, e costruisce due concetti capitali che mancano ai primi teorici della sovranità:

  • Il concetto di nazione, e per avere la nazione occorrono altri riferimenti fondamentali come Rousseau col suo Contratto Sociale, per il quale la nazione è la volontà generale
  • Il concetto di società civile

Nazione e società civile diventano i grandi concetti della politica moderna oltre il concetto di sovrano e sudditi; per Marx la società civile diventa il vero soggetto della storia e il terreno della vita politica collettiva.

Nella visione di Marx l’anatomia della società civile è l’economia politica, ossia qualcosa che può essere scientificamente misurato con gli strumenti della scienza, ed essa diventerà generativa di un livello superiore a sé, di una sua proiezione che è il riflesso della sua dinamica, ossia l’intero edificio che Marx chiamerà “superstrutture”.

Lo Stato è una superstruttura, ma in questo c’è una novità: lo Stato è per Marx una sovrastruttura perché è un prodotto della vita collettiva e non ne è più il produttore, per cui Marx capisce che nella modernità il centro della vita politica sta altrove.  Marx così risolve un problema che Hegel aveva intuito nella Filosofia del Diritto ma che non aveva sciolto, incentrando la dialettica politica nel rapporto tra Società Civile e Stato: Marx scioglie questo nodo e afferma che il centro della vita politica è la società civile, lo Stato è solo una superstruttura.

In Marx scompare la figura del suddito, ma nel suo pensiero ci sono gli sfruttati e gli oppressi; scompare la figura del popolo, vi è invece una società civile articolata in classi e gruppi sociali, che trovano una determinazione dentro il nuovo soggetto della storia, la società civile.

Marx scrive nella Prefazione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi per sé stessi e né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio dei francesi e degli inglesi del 18° secolo, con il termine della società civile, e l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica.

I rapporti hanno una radice che li spiega e li alimenta, la società civile, ma intesa diversamente da Hegel e dalla tradizione francese e inglese, ossia intesa come rapporti materiali dell’esistenza (perciò produzione sociale della vita). C’è una fisiologia della vita umana che è la società civile, ma questa fisiologia ha un’anatomia che le sta sotto e che è scientificamente osservabile.

Marx fornisce un chiarimento molto importante, spiegando qual è il risultato generale di tutta la sua ricerca e il filo conduttore che lo ha guidato e che lo guida: il risultato generale al quale arrivò e che gli servì da filo conduttore fu che “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari e indipendenti dalla loro volontà, ossia entrano in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.” Marx in poche righe ci ha rivelato tutto il suo lessico, ossia forze produttive e rapporti di produzione.

L’oggetto dell’economia politica perciò è la produzione sociale della vita: la produzione della vita per Marx non è mai una “Robinsonata”, ossia qualcosa che si può fare individualmente, ma è fin dall’inizio un fatto sociale che presuppone un sistema e determinati rapporti di produzione. È rovesciata la logica del Contrattualismo Moderno, l’uomo non è artefice del sistema sociale ma è sempre impegnato nella sua produzione.

Marx scrive che i rapporti sono involontari e non sono prodotti dalla volontà individuale (come invece accade nel Giusnaturalismo, dove gli individui dalla natura passano all’artificio attraverso la loro volontà), ma involontari non significa che sono inconsapevoli: originario non significa privo di coscienza.

Marx scrive che i rapporti in cui entrano gli uomini corrispondono a determinati gradi della forza produttiva materiale. Sono rapporti tautologici, per cui se A è il livello della forza produttiva allora A è il livello dei rapporti di produzione. Marx ha così definito la struttura, il sistema, e ha definito la società civile come forma corrispondente (tutto si corrisponde perfettamente, c’è coerenza perfetta) di forze produttive e rapporti di produzione: al servo della gleba corrisponde il rapporto giuridico che lega il servo al suo signore.

Se ci si ferma qui si ha lo strutturalismo, ossia un sistema non dialettico, in cui c’è piena corrispondenza tra le parti e non c’è rivoluzione, dove forze produttive e rapporti di produzione sono coerenti: se ci sono lo stato borghese e i rapporti giuridici che garantiscono il potere della borghesia il sistema è fermo e non dialettico, non c’è negazione.

Ma Marx complica il suo discorso aggiungendo altre categorie, in 1° luogo parlando di superstrutture e distinguendole dal circolo della struttura (ossia la somma delle forze produttive con i rapporti di produzione): Marx scrive che l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la base reale sopra la quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica (il diritto e lo Stato) e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale (filosofia, letteratura ecc…)

Le superstrutture sono subito specificate nel momento giuridico-politico e nelle forme della coscienza sociale; a questo punto Marx chiarisce il rapporto che c’è tra struttura e sovrastruttura, dandoci due risposte nella Prefazione:

  • Nella prima risposta scrive che il modo della produzione materiale condiziona in generale il processo sociale, politico e spirituale della vita.
  • Nella seconda scrive che non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Marx qui non dice più “condiziona”, ma scrive “determina”: la struttura (l’essere) conferisce alla coscienza la sua determinazione.

Se la Prefazione del ’59 finisse qui, Marx ci avrebbe dato la definizione del sistema sociale, descrivendocelo come un sistema che potrebbe proseguire all’infinito, come qualcosa di eterno. Il problema è che tutti questi concetti che ci ha presentato si corrispondono perfettamente e si rispecchiano l’uno con l’altro: i rapporti di produzione corrispondono alle forze produttive, e la relazione tra i rapporti di produzione e le forze produttive determina a sua volta la superstruttura, senza fratture o differenziazioni nel sistema.

Marx subito dopo comincia a parlare di rivoluzione, dicendoci quale sia il destino di questo sistema, scrivendo che ad un certo punto le forze produttive entrano in contraddizione con i rapporti di produzione; questa contraddizione non avviene nell’anatomia o nella superstruttura, ma all’interno della struttura, ossia tra le forze produttive e i rapporti di produzione.

Da un lato ci sono le forze che producono la ricchezza e dall’altro ci sono i rapporti di produzione  che garantiscono e regolano questa produzione e all’interno dei quali essa avviene, e ad un certo punto si genera una differenza fino ad arrivare alla contraddizione, e quando questa rivoluzione cresce subentra un’epoca di rivoluzioni sociali: le forze produttive ad un certo produttivo entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti dentro i quali esse si erano mosse; i rapporti si convertono nelle catene delle forze produttive, e solo allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.

Ecco così come il sistema non è fermo, ma è dialettico e perciò entra nella dinamica della rivoluzione, ed anzitutto lo fa perché i due termini che costituiscono la struttura hanno tempi diversi. Marx è un pensatore del progresso: le forze produttive crescono, la produzione umana è destinata a moltiplicare i suoi prodotti, mentre i rapporti di produzione non crescono nello stesso tempo delle forze produttive ma hanno un tempo più lento.

Perciò anzitutto si differenziano sul piano del tempo i rapporti di produzione e le forze produttive, fino ad arrivare a contraddirsi, e questa contraddizione segna l’epoca della rivoluzione: non è l’antitesi delle classi che genera la rivoluzione, ma è la contraddizione oggettiva tra la capacità produttiva dell’umanità e i rapporti all’interno dei quali avviene la produzione.

A prima vista sembra che in questo discorso non siano presenti le classi, ma è evidente che le forze produttive e i rapporti di produzione siano espressione di classi diverse: nel caso del sistema feudale, la contraddizione non si può concepire come se la forza produttiva sia il servo della gleba e il rapporto di produzione sia il rapporto di signoria tra signore e servo. Se si considerano solo le classi interne al sistema signorile non si ha la contraddizione, ma bisogna ammettere che nel sistema signorile vi è una classe estranea, ossia la borghesia.

Se diciamo quindi forze produttive e rapporti di produzione è come se dicessimo classe borghese e rapporti di produzione feudale, per cui le forze produttive rappresentano la classe in ascesa; la stessa cosa accade nella società borghese poiché è il proletario la forza produttiva che entra in contraddizione con il rapporto produttivo borghese.

Marx sottolinea che chi studia le rivoluzioni deve tenere distinti diversi piani, ed in 1° luogo il mutamento delle superstrutture è una conseguenza del mutamento della struttura: con il mutamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura, e perciò diventa un mondo ideologico, giuridico e politico adeguato alla forza produttiva che spezza le catene del sistema.

Marx aggiunge poi qualcosa di molto rilevante: è indispensabile distinguere sempre tra lo svolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere misurato con la precisione delle scienze naturali, e le forme politiche, giuridiche, religiose e ideologiche che consentono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. La coscienza va spiegata con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione.

Marx ci die che il mutamento della struttura piò essere constatato con la precisione delle scienze naturali: c’è una dimensione misurabile nella rivoluzione, qualcosa di oggettivo; Marx poi però scrive che bisogna distinguere, perché la trasformazione delle superstrutture non può essere misurata.  Se la superstruttura fosse soltanto l’espressione tautologica della struttura, anch’essa potrebbe essere misurata, mentre Marx tende a sottolineare il fatto che esse si differenziano e che lo sconvolgimento della superstruttura è non misurabile (per cui si potrebbe dire che uno è Natura e l’altro è Spirito).

La superstruttura si distingue in primo luogo perché l’uomo si rende cosciente e comprende il conflitto, per cui c’è un momento della coscienza; Marx però poi soprattutto scrive che le forme ideologiche consentono agli uomini di concepire e di combattere il conflitto: gli uomini nel conflitto rivoluzionario combattono perché non sovrappongono in maniera utopistica i loro valori al processo oggettivo della rivoluzione, ma lo combattono.

L’uomo è cosciente e combatte, ma si muove sulla linea della storia: la linea della sua azione è segnata dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, e lui deve muoversi nel senso della storia.

Dalla Prefazione del ’59 Marx trae due conseguenze di importanza capitale, che in maniera geniale Gramsci riprese cogliendone l’effettiva importanza teorica:

  • La prima conseguenza che Marx ne trae è che una rivoluzione non accade mai se il sistema non ha sviluppato tutte le energie interne: Marx scrive che una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso, nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.

Marx qui scandisce i due tempi di una rivoluzione: un 1° tempo riguarda le forze produttive, e perciò perché un sistema perisca esso deve aver sviluppato tutta la sua capacità produttiva fino alla conseguenza estrema; il 2° tempo riguarda l’avvento di nuovi rapporti di produzione. Ad esempio, prima il mercato mondiale e poi l’abolizione del lavoro salariale (ossia il comunismo).

Quando Lenin fa una rivoluzione in Russia e instaura il potere dei Soviet, fa una guerra di movimento: in Lenin la guerra di movimento è necessaria perché la borghesia non porta a compimento il suo dovere, e perciò Lenin non è il teorico della rivoluzione prima del tempo, ma egli tiene tutta la linea della filosofia della storia di Marx cambiando però idea sul fatto che la borghesia non giunge al pieno sviluppo della sua forza produttiva, e perciò la storia che Marx ha indicato dev’essere prodotta dall’azione politica (la storia non si fa da sola).

  • Marx ci dice poi che l’umanità non si pone mai quei problemi che non può effettivamente risolvere: la soluzione deve già essere l’orizzonte del problema (questa in fondo è la dialettica hegeliana) Marx scrive che perciò l’umanità non può porsi se non quei compiti che può risolvere; questa seconda tesi svolge ciò che Marx ci ha detto nella prima tesi: la rivoluzione diventa attuale soltanto quando la rivoluzione è già dentro la sua soluzione, e la rottura è già dentro il nuovo ordine perché la borghesia portando alle estreme conseguenze lo sviluppo delle sue forze produttive ha già costruito le condizioni per la rottura della propria forma sociale.

La conclusione che si comprende meglio è in quella celebre formula per cui l’epoca borghese è l’ultima forma antagonistica, e che con la borghesia finisce quella che in questo testo Marx chiama la “preistoria” della società umana. Il passaggio dal sistema borghese a quello comunista parte come il passaggio da quello feudale a quello borghese, ma al contempo è passaggio da preistoria a storia e perciò da oppressione a non-oppressione: è un passaggio che ha un carattere storico e meta-storico, è un salto oltre la storia.

La rivoluzione borghese avviene dentro la regola della storia umana mentre la rivoluzione proletaria porta l’uomo oltre la regola della storia umana. Questa differenza vi è perché la rivoluzione proletaria può mantenere la promessa della rivoluzione borghese, poiché mentre la borghesia ha mantenuto lo sfruttamento e perciò la divisione tra produzione e consumo, tra teoria e prassi, il proletario è invece la figura che riscatta l’intera umanità poiché consuma ciò che produce e unisce ciò che fin dalle origini l’uomo ha sempre separato.

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