Etica e scienze del vivente

Amelia Forte

“Biologizzare l’etica”, è una locuzione che è stata coniata da uno scienziato che si chiamava Wilson, fondatore della sociobiologia, come disciplina scientifica, in quanto ramo della biologia evoluzionistica, che studia le interazioni sociali tra gli esseri viventi alla luce dei principi della biologia evoluzionistica e che colloca la socialità umana ma anche non umana, all’interno del contesto evoluzionistico.

Wilson quando comincia ad occuparsi di socialità umana dice che forse è arrivato il momento di biologizzare l’etica, ovvero di far passare lo studio dell’etica e della morale dalle mani degli umanisti a quelle degli scienziati.

L’affermazione di Wilson generò un grande clamore, poiché l’idea che l’umanità non possa occuparsi di un fenomeno umano senza conoscere prima le ragioni biologiche dimostrerebbe che senza di esse i principi morali, etici, e culturali non potrebbero essere spiegati.

Quindi quello che fa Wilson è avanzare l’idea della necessità di quella che lui chiama una forma di naturalizzazione, ossia l’idea che i problemi classici della filosofia non possano essere affrontati se non all’interno di un orizzonte di spiegazione di tipo empirico, cioè che le spiegazioni filosofiche dell’etica debbano fare ricorso unicamente ad un orizzonte che è quello dei fatti empirici, tagliando fuori tutta quella dimensione fisica, del trascendente, del sovrannaturale che caratterizza buona parte della filosofia, come il ricorso a entità, oggetti nozioni, che non hanno nessuna possibilità di riscontro empirico. Più in particolare Wilson era uno di quelli che intendeva la naturalizzazione come qualcosa di più stringete, ossia il fatto che le nostre spiegazioni di fenomeni non debbano solo far riferimento ad un orizzonte empirico, perché questi fatti sono quelli di cui si occupa anche la scienza, sono il risultato di informazioni scientifiche e non come fatti della nostra esperienza ordinaria. Quindi egli pensava che la biologia, fosse l’unico orizzonte legittimo per la spiegazione dei fenomeni della moralità.

In realtà la locuzione di Wilson è uno spunto per fare un lavoro che va più ad ampio raggio. Ossia l’idea è quella di mostrare intrecci non solo all’interno dell’approccio sociobiologico di Wilson, tra biologia ed etica. La premessa è quella di adottare un approccio naturalizzato all’etica e esplorare i modi in cui in un contesto naturalizzato, come all’interno di questo orizzonte empirico la biologia contribuisca alla spiegazione della morale, e a partire non da Wilson ma da Darwin

Infatti la biologia di Darwin è una delle più importanti rivoluzioni scientifiche della civiltà umana. Tutto ciò che è venuto sulla sua scia è la migliore spiegazione dell’evoluzione. Darwin infatti fornisce un orizzonte di spiegazione della vita, del vivente, e specificamente della natura umana che da un lato fa piazza pulita di tutta una serie di idee che la filosofia aveva coltivato nel corso della sua storia, anche nello spiegare il fenomeno della moralità, proponendo una idea di una natura umana che ha una serie di caratteristiche discontinue rispetto a quelle della tradizione filosofica, come l’idea di specialità di essere umano, ossia l’idea secondo cui ciò che appartiene all’essere umano deve essere spiegato all’interno di una natura, che è quella umana, e che per le quali l’essere umano ha caratteristiche che gli sono uniche. Un altro degli elementi è la idea che la natura umana ha una dimensione storica e contingente, ovvero che la natura umana, e non anche l’esperienza degli esseri umani, sia stabile. Infatti mentre le caratteristiche stabili degli esseri umani in Darwin sono storiche, quindi variano, la natura umana non è data una volta per sempre, ma cambia in termini biologici; in quanto l’umanità muta, e si trasforma, non essendo più ritenuta “specie eccezionale”, ma solo come parte di una rete di viventi, che condivide un antenato comune, il quale non è separabile dagli altri animali viventi in quanto prodotto di un’evoluzione contingente. Il termine “antropocene” fu coniato anni fa ma usato molto in tempi recenti, ed indica l’età geologica in cui attualmente si posiziona l’uomo. Esso designa un’era geologica caratterizzata dal fatto che gli esseri umani hanno la capacità di modificare la geografia, o ambiente circostante ed il clima. Tuttavia l’homo sapiens non è un’eccezione, ma è un animale storico, contingente, imprevisto, come tutta la vita, e questo cambia radicalmente lo scenario, perché se pensiamo al fatto che l’homo sapiens sia un dato contingente, si evince che l’uomo non è determinato a scopi. Se ci concentriamo solo sulla funzione delle nostre capacità ci perdiamo la storia evolutiva. Il fatto che abbiamo un cervello che ci permette di pensare, di inventare artefatti, non è che il punto di arrivo di un percorso di stratificazione, perché i primi ominidi non avevano la mano come la nostra, avevano degli arti che sono mutati per una serie di mutazioni casuali.

William dice che il mondo in cui sono gli esseri viventi è l’opera di uno Dio creatore che ha fatto un disegno intelligente. Il modo in cui sono fatti gli esseri umani sembrano fatti apposta per fare qualcosa, tutto questo ci porta per induzione all’esistenza di un Dio creatore. Prima di Darwin non c’erano certe spiegazioni, perché lui spiega come con lo stratificarsi dell’evoluzione biologica in modo del tutto casuale si giunga ad un certo risultato. Per prove ed errori causali arrivammo all’essere umano. Quindi da una spiegazione alternativa alla teoria del disegno: l’essere umano non è il prodotto di un disegno ma di eventi contingenti. Il fatto di essere noi degli orologi senza orologiaio ha una serie di conseguenze perché pensiamo ai contenuti dell’etica. La moralità avanza una pretesa di oggettività, se io dico rubare è sbagliato sto pronunciando un enunciato che non è la stessa cosa della torta al cioccolato è il migliore dolce del mondo, perché laddove dico rubare è sbagliato sto sostenendo che quella affermazione è oggettiva.

Quelli che sono i giudizi fondamentali della morale avanzano questa pretesa, però poi c’è sempre il rischio del relativismo

questa oggettività in molte spiegazioni filosofiche è legata a dei fatti, dei dati, che si ritengono oggettivi e permanenti.

Quello che fa Darwin è dare una spiegazione così potente della natura umana che taglia fuori le alternative perché rende conto di come ci siano orologi senza orologiai.

L’osservazione empirica che fa Hume non ha quel supporto, quella base scientifica che ha la biologia darwiniana e che dice: come puoi sostenere la creazione speciale di un essere umano da parte di un dio quando hai una spiegazione empirica?

Perché devi spiegare la moralità una a con questa stravagante funzione quando hai un meccanismo di spiegazione evolutiva che si accorda con i fatti disponibili?

L’idea è che la novità dell’etica con Darwin non è solo che propone una spiegazione su una scia storica, evolutiva, ma che lo fa a partire da una cornice scientificamente storica. Ti da una base scientifica che rende le altre strade implausibili.

Quindi biologizzare l’etica significa vedere come la biologa, la biologia darwiniana contribuisce alla nostra spiegazione dell’etica intesa come una pratica, una forma di vita umana che usa una serie di idee, di concetti, di problemi, che nella cornice evoluzionistica trovano un certo tipo di orizzonte di spiegazione e di come non solo dare una spiegazione della natura umana, e del fenomeno della moralità umana, ma contribuisce anche, in un senso che non è solo strettamente descrittivo, alla ridefinizione di determinate idee morali.

Sono due i lavori che egli descrive: Parte descrittiva: ossia offrire un modello di spiegazione di come noi homo sapiens siamo animali cooperativi, sociali, altruistici, empatici e abbiamo una serie di comportamenti che noi classifichiamo come morali. Parte normativa: ossia se si ragiona all’interno della biologia evoluzionista, ebbene una serie di idee tradizionali verranno ridefinite o demolite.

Alla base c’è l’idea di una natura umana speciale, l’essere umano è qualcosa di speciale che gli altri esseri viventi non condividono, e questo qualcosa di speciale può essere l’anima per Tommaso e la ragione per Kant. Ma se si entra nell’orizzonte darwiniano questa idea di una natura umana separata salta perché salta la sua base empirica.

Tu non puoi fare una discriminazione morale sulla base dell’idea che gli esseri umani sono speciali. Ma se salta questa barriera poi lo spazio per un’altra riflessione etica che considera che alcune cose che hanno valore morale. Si è visto lo sfondo generale su cui ci muoviamo, l’idea di una relazione tra l’analisi filosofica dell’etica e biologia evoluzionistica, come sfondo che ci consente di esaminare questa relazione lungo due linee:

  • Descrittiva
  • Normativa

Inizialmente cercheremo di dare un quadro di comprensione della definizione del campo dell’etica, perché l’etica filosofica cerca anche di definire i confini della forma di vita che definiamo come morale. Quindi questo primo lavoro consiste in una definizione dell’ambito dell’etica filosofica e dei suoi compiti.

Successivamente per avvicinarci alla biologia evoluzionistica approfondiremo quell’approccio metodologico che è quello del naturalismo, della naturalizzazione, e ci sono diversi modi di intendere cosa è la naturalizzazione.

Dopo questa prima parte dedicata all’etica, i suoi, scopi, i suoi metodi, approfondiremo la biologia darwiniana tanto dal punto di vista storico tanto sul punto di vista teorico.

Questo approccio ci consentirà di affrontare la questione dell’etica in un quadro evoluzionistico andando ad approfondire gli studi sull’evoluzione della società, ad esempio vedendo quello che è il contributo dell’etologia in ciò.

Dopo questa parte faremo un approfondimento che sposta il fuoco dall’evoluzione e il fenomeno della moralità sulla questione della biologia del soggetto morale, ovvero sul modo in cui le scienze del vivente oggi spiegano il soggetto morale, occupandoci del contributo delle neuroscienze su condizioni classiche dell’etica come quelle di libero arbitrio, di carattere, etc. Vedremo come lo studio dei cervelli cerca di chiarire alcune questioni classiche della filosofia tramite metodologie che mettono insieme una questione filosofica con una ricerca di tipo empirico.

Fatti questi due approfondimenti la questione della relazione tra etica e neuroscienze, genetica e etica, questa relazione dà vita ad un’ulteriore disciplina dell’etica filosofica che è la neuroetica, che è un campo di ricerca dell’etica filosofica che si occupa di due questioni:

  • La biologizzazione del soggetto morale e la sua comprensione del soggetto biologico
  • Discutere le ricadute applicative di questo studio scientifico del cervello morale perché laddove non siamo in grado di capire come funziona il nostro cervello quando siamo impegnati in valutazioni di tipo morale.

 Questo potrebbe essere lo stesso discorso che fa Parfit nel saggio “le generazioni future”, quando fa gli esempi del tecnico nucleare e della scelta politica rischiosa:

Tecnico nucleare: un tecnico sceglie per pigrizia di non controllare un contenitore di scorie nucleari. Conseguenza di tale negligenza è una catastrofe che ha luogo due secoli più tardi. La fuga radioattiva uccide e danneggia migliaia di persone.

La scelta del tecnico è peggio per le persone colpite dalla catastrofe perché se avesse controllato il contenitore queste stesse persone in futuro avrebbero continuato a vivere, e sarebbero sfuggite alla catastrofe; mentre nei prossimi due secoli sarebbero nate le stesse persone particolari, quindi alle persone del futuro la situazione non cambia, a rimetterci sono quelle del presente. La scelta politica rischiosa: come comunità, dobbiamo scegliere tra due politiche energetiche. Entrambe sono completamente sicure per almeno due secoli, ma una di esse comporta certi rischi nel futuro più lontano. Se scegliamo questa politica rischiosa, nei prossimi due secoli avremo uno standard di vita un po’ più elevato. La scegliamo. In conseguenza della nostra scelta due secoli dopo avviene una catastrofe simile a quella dell’esempio del tecnico nucleare; con la morte e il ferimento di migliaia di persone.

In questo caso, invece, la nostra scelta influirà su chi verrà al mondo nel futuro: se optiamo per la scelta rischiosa migliaia di persone vengono uccise o danneggiate; Parfit fa un lavoro concettuale, si muove su un livello analitico. No problematicità. Oggi dobbiamo valutare le nostre azioni su due livelli come azioni individuali: singole, nulle. Per aver contributo devono essere cumulate con le azioni di una massa critica di persone. Incapacità di connettere effetti alle nostre azioni. Secondo tipo di difficoltà: dimensione temporale, anche laddove siamo in grado di collocarci in una dimensione temporale. Limiti della simpatia: difficile instaurare una relazione simpatetica con qualcuno così distante temporalmente e che non esiste. La questione ambientale si interroga sulle capacità cognitive degli agenti morali enancement. Invece Parfit si muove più su un livello concettuale. Questa ricomprensione del vivente porta un allargamento della considerazione morale anche a animali non umani e l’allargamento della questione morale all’intero ambiente naturale, agli ecosistemi arrivando all’etica ambientale, ossia una riflessione che si occupa dei nostri doveri verso il mondo non umano intendendo non solo gli animali non umani ma gli ambienti naturali. Infine analizzeremo la questione relativa al posto che ha la scienza non solo nella questione filosofica ma anche il posto della scienza in genere e della scienza del vivente in una società democratica. Iniziamo ad analizzare quella che è la definizione dell’etica e scienze del vivente. Intanto vediamo che cos’è l’etica. L’etica è qualcosa che caratterizza la nostra esperienza, tutti noi abbiamo un’esperienza morale, perché tutti abbiamo una condotta morale (es, se qualcuno si astiene dal rubare possiamo identificare la sua condotta come aderente a dei principi morali, anche se identifichiamo la condotta morale con l’astenersi, se dovessimo invece identificare una condotta morale in senso positivo quella che si conforma ad un comportamento altruistico, sosia quello di chi sacrifica la propria fitness, ossia capacità di essere adatti alla sopravvivenza in determinati ambienti, quindi l’altruismo si definisce come il sacrificio della propria fitness a favore della fitness di qualcun altro). Noi riteniamo che la condotta morale ha due caratteristiche: un comportamento di un certo tipo che ci porta ad agire non solo in nostro interesse ma per quello di qualcun altro, e che le motivazioni per le quali facciamo questo non sono solo di tipo auto interessato, cioè nella comprensione ordinaria della condotta morale noi mettiamo insieme queste due cose: ciò che le persone fanno e le motivazioni per cui lo fanno. Quindi questioni morali sono quelle, ad esempio, del:

  • Altruismo
  • Valore

Se analizziamo queste caratteristiche della condotta abbiamo un’idea di quello che è il mondo dell’etica, cioè una forma di esperienza umana, e rispetto a ciò non abbiamo molti dubbi perché sappiamo bene o male ciò che appartiene all’ambito dell’esperienza morale. Ma aldilà di questo abbiamo la capacità di trovarci d’accordo su queste cose, e questo è segno del fatto che l’esperienza morale è un’esperienza ordinaria, che facciamo tutti, che ci caratterizza come esseri umani. L’esperienza morale è qualcosa di comune, noi non incontriamo mai quella figura che è quella che Williams chiama la moralista: Williams i interroga sulla possibilità che esista la moralista, ossia qualcuno che in tutta la sua condotta non manifesta mai nessun tipo di quei comportamenti che definiremmo morali; la figura di colui che è estrano all’esperienza della moralità è una figura di fantasia, e noi non la incontriamo; questo per dire che l’esperienza morale è qualcosa che ci caratterizza come esseri umani. Il fatto di avere un’esperienza di qualcosa che riconosciamo come parte della moralità ci caratterizza come esseri umani. Sarebbe assurdo incontrare la moralista.

Una volta riconosciuto ciò ci possiamo chiedere quale è il contenuto filosofico di questa esperienza umana. Una prima grande distinzione che possiamo fare tra i compiti dell’etica filosofica è quello tra:

  • Compito fondativo
  • Compito esplicativo

Se l’etica è qualcosa che riconosciamo come parte fondate dell’essere umano, difficilmente possiamo pensare all’etica filosofica come qualcosa di fondazionale, perché l’etica non convince le persone ad essere morali, perché la filosofia arriva dopo un’esperienza che già c’è. Se il compito fondazionale è un compito insensato, che cosa fa l’etica filosofica? Ha un compito di spiegazione, di chiarificazione di quella che è l’esperienza morale, di quelle che sono le strutture fondamentali dell’esperienza morale

Quindi abbiamo innanzi tutto un compito di spiegazione, ma poi c’è anche un compito normativo, perché un altro elemento dell’esperienza umana, una delle caratteristiche dell’esperienza morale umana è il fatto che noi intendiamo l’ambito della moralità come un ambito in cui se diamo dei giudizi dovremmo essere pronti a giustificarli. L’etica è un ambito in cui non accettiamo giustificazioni idiosincratiche, ritendiamo che le motivazioni di una condotta abbiano una giustificazione, che l’etica, esperienza amorale sia un campo in cui si presentano ragioni e si argomentano.

Ma se è cosi allora possiamo riconoscere un altro compito all’etica filosofica che è quello di lavorare sulle ragioni e sulle argomentazioni in modi che sono più sofisticati di come fa un linguaggio ordinario, ma non in discontinuità.

Se allora pensiamo che i compiti dell’etica filosofica sono questi possiamo costruire un’articolazione dell’etica filosofica, dei modi in cui l’etica filosofica lavora.

All’interno di questa cultura filosofica, cioè quello dell’etica filosofica di natura analitica, possiamo riconoscere tre campi di lavoro:

  • Metaetica

campo dell’etica filosofica che si occupa di dare spiegazioni sulla natura dell’etica, su che cos’è il fenomeno della moralità, su cosa caratterista l’esperienza morale. Esamina il fenomeno della morale: il linguaggio, i contenuti, le forme del ragionamento

  • Etica normativa

campo dell’etica che riguarda la procedura decisionale del pensiero morale che usiamo per scegliere come agire, e che ci fornisce i criteri in base a cui giudichiamo come giusta un’azione; oppure ci aiuta a formulare la giustificazione per un’azione (es: modello utilitarista)

  • Etica applicata

impiega le teorie normative e le chiarificazioni concettuali della metaetica in relazione a questioni concrete (es: bioetica, etica ambientale)

Questi tre campi si compenetrano tra loro, ma da un punto di vista di contestualizzazione ci consente di fare un lavoro di canottaggio (andare più nello specifico) dei sotto problemi dell’etica. Quindi fare questa distinzione ci consente di fare una sgranatura dei problemi per capire di cosa ci occupiamo quando la filosofia morale si occupa di dare spiegazioni del fenomeno morale

L’etica analitica nella sua fase di sviluppo fa un lavoro di analisi del linguaggio morale, cioè su quelle che sono le caratteristiche del linguaggio quando esprimiamo enunciati morali, giudizi morali: quando diciamo uccidere è sbagliato, che significato ha sbagliato? che caratteristiche ha quel termine che abbiamo usato?

In qualche modo l’etica analitica che si occupava del linguaggio è stata molto utile nella definizione di alcune caratteristiche dell’esperienza morale, ma nel momento in cui noi andiamo avanti sulla strada della naturalizzazione dell’etica, cioè l’incontro del lavoro dell’etica filosofica con le scienze del viene, pensare che il lavoro dell’etica filosofica possa orientarsi al linguaggio risulta inadeguato perché non riesce a cogliere la dimensione evolutiva del fenomeno.

Quello che fa l’etica nella prima fase, che si occupa del linguaggio morale, è aiutarci a definire in modo più preciso il campo e una serie di problemi che tornano in una prospettiva naturalizzata dell’etica.

La definizione del campo la troviamo in Hare, che si chiede quali sono le caratteristiche degli enunciati morali e ne identifica tre (pag. 23 Donatelli):

  • L’universalità o universalizzabilità

ossia il fatto che un enunciato morale non è qualcosa che consideriamo idiosincratico, ma riteniamo che pronunciando una frase con valore morale stiamo pensando che questo enunciato vale per tutti, gli enunciati morali sono universali e non idiosincratici.

  • La prescrittività

cioè un enunciato morale, un giudizio morale ci dice di fare qualcosa, prescrive qualcosa; e qui si apre una grossa questione che è quella della distinzione fra il linguaggio ed enunciati prescrittivi e descrittivi, perché se io dico il pc è sul tavolo sto descrivendo qualcosa, ma se dico il pc deve essere sul tavolo sto formando un enunciato diverso, che vuol dire che se il pc non è sul tavolo è da un’altra parte e qualcuno lo deve mettere sul tavolo.

Ci sono molti modi per intendere la prescrittività ma un modo è dire che il linguaggio prescrittivo non si limita a dire come sono i fatti ma come devono essere, e la grossa questione è: che ce ne facciamo da un punto di vista normativo della descrizione del mondo? Possiamo dedurre, fondare, derivare un qualche enunciato, giudizio prescrittivo da questo, dal fatto che descriviamo la natura umana in un certo modo?

  • La soverchianza

cioè quella caratteristica che fa sì che i giudizi morali, di valutazione morale, abbiano la meglio su altri giudizi di valore, che siano soverchianti rispetto ad altre considerazioni. (es: in Apocalips Now ci sono delle scene fatte bene, belle da un punto di vista cinematografico, che raffigurano massacri, ma la bellezza di questa riproduzione supera il suo contenuto?) Quindi la questione della soverchianza ci dice che i giudizi morali hanno la meglio sui giudizi di valore, hanno un primato. I giudizi morali predominano sempre su quelli non morali.

Queste tre caratteristiche del linguaggio morale identificano un campo, possiamo riconoscere che ci sono una serie di questioni morali che riconosciamo perché hanno queste caratteristiche, e in realtà parte degli studi normativi si giocano sull’identificazione di alcune questioni come quelle morali, pensiamo ad alcune questioni sulla condotta sessuale, questa questione può essere universalizzabile o no? Es: la condotta eterosessuale è l’unica accettabile?

L’argomentazione normativa morale mostra in alcuni casi come alcune questioni non appartengono al dominio della morale, come quello della condotta sessuale. Ma possiamo anche includere questioni che invece prima sembravano irrilevanti nella questione morale.

Ci si è soffermati sul tentativo di dare una definizione generale dell’etica, individuando 3 caratteristiche per descrivere il fenomeno dell’esperienza morale, che ci consentono di avere una definizione dell’esperienza morale degli esseri umani (universalizzabilità, prescrittività, soverchianza).

Ci sono un’altra serie di questioni che emergono nel campo della metaetica, da cui acquisiamo un lessico, delle griglie concettuali, con cui descrivere una possibilità di posizioni, di articolazioni di tesi sulla natura dell’etica, una delle quali è la natura dei fatti morali, e sulla stesa esistenza dei fatti morali, ad esempio abbiamo un’articolazione di tesi sulla natura dell’etica che sostengono l’idea che esistono proprietà morali nel mondo che sono reali, che sono o sui generis, o riducibili ad altre proprietà del mondo fisico o metafisico, ritengono che ci sia una realtà morale oltre l’esperienza sensibile, aldilà di queste distinzioni possiamo distinguere due gradi approcci:

  1. L’idea che la nostra condotta morale sia guidata dall’esistenza di una vera e propria realtà morale, ci sono fatti che hanno una caratterizzazione morale che questi fatti esistono nel mondo così come lo conosciamo. Generalmente posizioni di realismo morale si associano a posizioni di positivismo, ossia l’idea che principi morali, la guida della condotta sia qualcosa a cui giungiamo tramite la conoscenza. In genere forme di realismo morale tendono ad avere concezioni permanenti, stabili, assolutiste, ovvero l’idea che se esistono dei fatti morali questi sono stabili, non cambiano: gli esseri umani sono il prodotto di fatti contingenti, cosa che è ben poco compatibile con l’idea che esista una realtà morale che le nostre capacità morali sono in grado di cogliere, perché come è possibile che una realtà contingente sia andata nella direzione di essere in grado di comprendere questi fatti morali? O non esistono realtà morali oppure l’evoluzione è qualcosa di governato da qualche tipo di finalismo.
  2. Un altro tipo di articolazione all’interno del quadro presentato dalla matetica è quello che ha a che fare con la motivazione: la dimensione della motivazione è essenziale per una comprensione della natura dell’etica: quando noi agiamo sulla base di motivazioni di tipo morale, i motivi sono motivi che possono avere a che fare con:
    1. fattori interni, come ad esempio dei sentimenti e qui abbiamo una posizione internalista
    2. ragioni esterne, posizione esternalista

La questione della motivazione chiama in causa l’idea di psicologia morale, perché la metaetica nasce come un’analisi del linguaggio morale, ma nel momento in cui questa analisi arriva a questioni come quelle della motivazione, della fonte del giudizio morale, della motivazione. Nel momento in cui entrano in campo questioni come quelle della motivazione e delle capacità che presiedono alla produzione di giudizi morali noi siamo sempre nel campo della metaetica, ma intesa in senso più ampio rispetto all’analisi del linguaggio morale perché si interroga si sulla natura dell’etica ma lo fa nei termini della psicologia morale, ossia quello che è il funzionamento della mente umana nel momento in cui è impegnata in valutazioni morali, nell’attribuzione o riconoscimento dei valori e principi morali. La metaetica si è evoluta nel corso del tempo fino a diventare una indagine sulla psicologia morale. In questa metaetica in senso più ampio abbiamo quel luogo di incontro fra etica filosofica e scienze del vivente perché laddove l’armamentario del filosofo morale analitico tradizionale che fa metaetica con l’analisi del linguaggio morale, l’analisi non riesce perché se ci poniamo questioni sul funzionamento della mente umana non possiamo fare a meno di entrare in dialogo con quelle discipline che della mente umana si occupa da prospettive diverse che sono quelle scientifiche; quando Wilson dice che è tempo di biologizzare l’etica aveva in mente anche l’idea che le scienze umane, la filosofia, fossero lavori intellettuali che non avevano alcun interesse verso le scienze empiriche, del vivente, che potessero produrre teorie che non erano informate dalle scienze. Quindi così è avvenuto l’intreccio tra etica e scienze del vivente tanto che oggi qualcuno parla di articolare la filosofia come una disciplina sperimentale tanto da parlare di filosofia sperimentare, intendendo un portare la filosofia morale all’interno dei contesti scientifici attraverso esperimenti, a che cosa servono gli esperimenti per la filosofia? Servono per testare intuizioni e teorie, noi possiamo aver delle idee, delle teorie, sulla natura dell’etica, sulle capacità morali e sulla psicologia morale, ma è necessario confrontarci con studi che analizzano cosa è la mente; quindi il requisito che dobbiamo avere in psicologia morale è che questa corrisponde, è sovrapponibile con il funzionamento del nostro cervello. Allora se noi siamo interessati alla psicologia morale in un orizzonte evoluzionistico possiamo pensare che le evoluzioni classiche della metaetica possono essere testati in modi propri delle scienze vedendo se le ipotesi siano convalidate, confermate, o falsificate da uno studio dell’evoluzione delle capacità cognitive umane e dal modo in cui queste capacità cognitive funzionano. Un ottimo esempio per vedere come c’è stata un’evoluzione del lavoro della filosofia e dell’analisi filosofica sull’etica andando in contro al lavoro delle scienze, delle scienze del vivente, delle neuroscienze, è quello del caso del trolley problem, che nasce come un esperimento mentale, ossia quelli che fanno i filosofi che non vogliono confrontarsi con le scienze, strumento che è quello di immaginare, creare situazioni, contesti in cui si possano testare con ragionamento le nostre intuizioni, le nostre teorie, uno sperimento mentale è una situazione che ha molte gradazioni, può essere una situazione imprevista, rara nel mondo reale ma che è rispedente ai modi di funzionamento della realtà, e l’esperimento del carrello è di questo tipo perché è realistica ma è improbabile. Altre situazioni sono veri e propri modi di fare la scienza, perché se prendiamo la letteratura della identità personale ce ne sono, ad esempio il teletrasporto di Parfit. Il caso del carrello è un esperimento mentale che si inventò una filosofia morale, Foot, che si presenta in questo modo, e la sua prima versione è un modo di testare le nostre intuizioni su alcune distinzioni che troviamo in etica, fra metaetica e etica normativa, la questione relativa ad azioni ed omissioni. Tutto questo dipende anche dalla cornice che abbiamo intorno, se pensiamo alle conseguenze. Questo tipo di esperimento mentale diventa una risorsa sia per la psicologia sociale che per le neuroscienze, e da questi esprimenti emerge è che c’è sempre una differenza tra il numero di quelli che spingerebbero la leva e quelli che spingerebbero l’uomo con lo zaino pesante, c’è sempre una differenza tra le due opzioni. La questione è perché noi rispondiamo in due modi diversi, perché i due casi sono diversi.

Alla fine questi esperimenti di filosofia morale sono diventati esprimenti di neuroscienze. Quello che fa la filosofia sperimentale è indagare tramite metodi empirici il funzionamento del cervello di fronte a casi del genere, e quello che è emerso in questa situazione è che i nostri cervelli reagiscono diversamente nei due contesi:

  • Nel caso della leva sono attive aree frontali più collegate al ragionamento astratto
  • Nel caso della spinta della persona si attivano aree più antiche dal punto di vista dell’evoluzione del cervello che hanno a che fare con l’affetto. Un’ipotesi che è stata fatta per spiegare questi due meccanismi è che l’azione di spingere la persona è un’azione che richiede un contato fisico con un altro essere umano, cioè un’azione per la quale la nostra evoluzione biologica ha prodotto una serie di meccanismi inibitori: il contatto fisico viene affettivamente connotato nel nostro cervello come qualcosa che ha un valore negativo, qualcosa da evitare, e la ragione evolutiva di questo fenomeno sembrerebbe questa, la possibilità di cooperazione sociale viene massimizzata da individui che hanno un’inibizione dal conflitto fisico e violento, cioè se noi immaginiamo una storia evolutiva in cui i nostri antenati cominciavano a vivere in gruppi c’erano quelli più pacifici che avevano questo meccanismo di inibizione, probabilmente i primi hanno avuto un vantaggio, quelli che sapevano modulare le loro azioni riuscivano a rimanere in gruppo, quindi il tratto della moderazione è un tratto che si è stabilizzato come uno di quei tratti che ha consentito l’evoluzione dell’homo sapiens come una specie sociale. Quindi quello che è in gioco nei due casi sono risorse biologiche differenti con percorsi evolutivi differenti. Questo ci dice che laddove l’analisi concettuale di una mente concettuale poteva tendere a far collassare i due tipi di espiamento mentale uno sull’altro e mostrare come identici dal punto di vista delle conseguenze, quei due contesti diversi sono per i nostri cervelli molto più diversi di come ci appaiono in un’analisi concettuale, mettono in moto risorse cognitive differenti, e questo significa che noi facciamo incontrare la fisiologia morale con l’attività scientifica di ricerca empirica abbiamo quantomeno un arricchimento delle nostre capacità di conoscenza e di progredire nella nostra definizione di che cos’è la psicologia morale. Poi c’è la questione di che cosa ce ne facciamo una vota che abbiamo questa conoscenza, ad esempio un filosofo morale, ossia Singer, conseguenzialista, dice che cosa ci importa da un punto di vista normativo del fatto che nel nostro cervello in casi come questi succedono cose diverse’ l’etica normativa ha a che fare con il ragionamento, con la produzione di argomenti per la condotta che sono da un alto non strettamente vincolati a quelli che sono i nostri limiti biologici, dall’altro possiamo noi far condizionare il nostro avanzamento morale, cioè il fatto di fare cose moralmente giuste, a meccanismi cognitivi che si sono prodotti migliaia di anni fa in condizioni in cui noi non eravamo sottoposti a certe questioni, a certi contesti? Possiamo utilizzare risorse cognitive così obsolete per rispondere a problemi contemporanei? È lo stesso punto che sollevano i fautori del potenziamento morale, che dicono che oggi abbiamo problemi riguardo alla questione climatica che sono moto più grandi rispetto alle nostre capacità cognitive, se possiamo potenziare quindi facciamolo, l’etica normativa che non sottostà alle nostre capacità biologiche ci deve aiutare a superarle.

Al contrario non ce ne facciamo molto di un’argomentazione normativa che ignora completamente quella che è la conoscenza empirica della natura umana, perché se ci sono dei vincoli biologici, cognitivi, che noi abbiamo che rappresentano la natura dell’essere umano, la questione è che cosa ce ne facciamo di un’etica normativa che pretende dall’agente morale qualcosa che va aldilà delle sue capacità? la questione non è di pensare l’etica normativa come qualcosa che modella a suo piacimento la natura umana, ma pensare quali sono gli spazi d’azione in questi confini. Hume ad esempio sostiene l’idea di una natura umana che ha una sua struttura, una sua plasticità che si rileva sia da un punto di vista ontogenetico che filogenetico, ad esempio le risorse della simpatia sono risorse che possiamo trasformare nella nostra ontogenesi, possiamo trasformare i limiti della simpatia, per andare quindi su un piano filogenetico, e quindi su un processo di civilizzazione che trasforma la simpatia.

Quindi da un lato abbiamo:

  • Psicologia morale che può essere considerata come contigua, strettamente intrecciata con le scienze del vivente e le neuroscienze. La questione che si pone è chiedersi: in questo intreccio di filosofia e di scienza, di ricerca empirica scientifica che ruolo ha la filosofia? Il lavoro dell’analisi filosofica è un qualche tipo di sapere residuale, destinato ad essere mano mano eroso dall’avanzamento della scienza o ha una sua peculiarità che rimane sempre valida e non è puramente residuale?

L’alternativa razionalismo/sentimentalismo in metatetica, è qualcosa che possiamo aspettarci che risolverà in modo definitivo un giorno dandoci un modello della mente morale scientifico in cui la filosofia non ha da dire, ci diranno come funziona la mente morale senza che la filosofia si debba occupare di queste idee;

o forse supererà la concettualizzazione filosofica e l’opposizione razionalismo sentimentalismo è un’opposizione non valida perché non c’è possibilità di distinguere tra capacità razionali e sentimentali, e queste distinzioni concettuali diventeranno un concetto che è superato. Quindi la questione è questa: Se possiamo riservare una qualche peculiarità al lavoro filosofico in un orizzonte di naturalizzazione oppure se la filosofia è destinata ad essere un sapere residuale, eroso dalle scienze.

Se forse possiamo pensare a una erosione del dominio del lavoro filosofico sul campo della metaetica probabilmente la scienza tenderà ad erodere molto, ma la questione è che almeno in questa fase le ricerche scientifiche sul che cos’è il fenomeno della moralità non possono fare a meno delle analisi dell’etica. Così facendo approdiamo alla dimensione normativa dell’etica filosofica che resiste ad una naturalizzazione radicale che rende il lavoro dell’analisi filosofica obsoleta, resiste nella misura in cui assegniamo ancora un qualche tipo di autodeterminazione, in modo non completamente deterministico.

Le neuroscienze forse possono mettere in discussione l’esistenza, l’utilizzabilità, di nozioni tradizionali dell’etica come quella di carattere, infatti alcune posizioni affermano che la nozione di carattere sia precaria in quanto ognuno di noi in quanto soggetto morale ha predisposizioni, tratti sulla base dei quali agire, che vanno a costituire appunto il carattere.

Questa idea che in noi ci siano delle predisposizioni stabili ad agire è messa in discussione da quelle posizioni che hanno fatto alcuni esperimenti, e che hanno dimostrato che non ci sono dei tratti stabili nel nostro carattere che ci portano ad agire in una certa maniera (es. esperimento: le persone sentono profumo di cornetti e sono più predisposte ad aiutare il prossimo)

Quindi abbiamo due grossi capitoli da esaminare: quello della spiegazione del percorso evolutivo che ha portato l’homo sapiens a sviluppare una forma di socialità e quelle forme di comportamento sociale.

Quello di una spiegazione di quelle che sono le capacità morali che si sono evolute intese come capacità della psicologia morale, questi tipi di lavoro potrebbero non solo aggiornare, dare una nuova forma a concetti, idee dell’etica tradizionale come quella di carattere, ma in alcuni casi potrebbero spingere nella direzione di una loro eliminazione.

È una posizione eliminativista, posizione che ritiene che le nostre conoscenze scientifiche possano arrivare ad un punto tale di dettaglio di comprensione di un fenomeno in modo che questo fenomeno non possa essere più spiegato con i concetti usuali. Si può parlare di eliminativismo delle emozioni.

Quando parliamo di dimensione normativa ci stiamo riferendo a quell’ambito, a quella sotto branca dell’etica filosofica che va sotto il nome di etica normativa, ossia un’impresa filosofica che produce argomentazioni e giustificazioni per dare un contenuto a quelle nozioni come quelle di bene, buono, giusto.

Quindi laddove la metatetica si occupa di questioni formali, l’etica normativa gli vuole dare un contenuto: quindi da contenuto alle nozioni morali fondamentali, dando ragioni, argomenti a questi contenuti. Nel fare questo l’etica normativa che si pone nella forma di argomentazioni a sostegno di conclusioni che ci dicono cosa è buono giusto; questa impresa dell’etica filosofica. L’etica normativa è in continuità con l’esperienza morale ordinaria: quando pronunciamo un enunciato morale dobbiamo essere pronti a fornire delle giustificazioni, delle ragioni, e il fatto di dare giustificazioni, argomentare è un qualcosa proprio della vita ordinaria, ecco perché c’è questa continuità. L’etica filosofica produce idee di buono e giusto sostenendole con argomenti L’idea che l’esperienza morale, l’etica sia formalizzabile in forma teorica è stato oggetto di discussione. Williams, ad esempio, è stato un grande critico della pretesa teorica in etica: ossia l’idea che c’è qualcuno che elabora teoria normative e poi le trascrive in libri, e quindi le questioni fondamentali della nostra esperienza morale, e possano essere affrontate con questo approccio teorico. Questa critica può andare da una posizione anti-teorica (ossia la critica all’idea che si possa sistematizzare l’esperienza morale in pochi principi, ridurre l’esperienza morale a elementi fondamentali.

Un’altra critica è ad una pretesa ingegneristica, ossia l’idea che possiamo formalizzare la concezione del bene, del giusto, astraendo i pochi principi, modo astratto che dovrebbe essere applicato alla vita quotidiana in modo deduttivo: dai principi deduci norme per la condotta.

Quindi una critica anti-teorica dice che non si può ridurre l’esperienza morale a questo tipo di procedura.

Alcune idee dell’etica normativa sono ancora utili per descrivere l’esperienza morale degli esseri umani e i modi con cui possiamo giustificare le nostre idee morali e i modi in cui lavora la riflessività morale. Quindi per esempio la tripartizione classica dell’etica normativa (etica deontologica, delle virtù, conseguenzialista) mostra che c’è una mappatura, la quale ci dice che laddove parliamo di approcci dell’etica parliamo di concezioni che ritengono che le valutazioni della condotta morale riguardino l’adesione a principi.

L’approccio deontologico sostiene che la vita morale riguardi l’adesione a principi.

Questo tipo di etiche hanno un aggancio metafisico, hanno una natura assolutista in quanto ritengono che u principi della condotta morale sono dati una volta per tutte e sono stabiliti in modo inderogabile, perché una condotta o aderisce a un principio o non descrive (se il principio è non uccidere o lo fai o non lo fai)

Le etiche conseguenzialiste, tra cui c’è l’utilitarismo, è l’idea che la condotta morale abbia a che fare col valutare le conseguenze della propria condotta, ovvero che la condotta morale debba rivolgersi alle conseguenze che la condotta produce.

Laddove parliamo di conseguenze manca la definizione di che cos’è una conseguenza; il conseguenzialismo, aldilà di questa sua definizione generale, deve avere una teoria del valore, cioè un’idea di che cosa conta conseguenza, come conseguenza moralmente apprezzabile o non apprezzabile. Di fatto l’utilitarismo è una declinazione del conseguenzialismo con una migliore articolazione di come valutare le conseguenze e una teoria del valore, perché stabilisce l’idea che la condotta sociale moralmente apprezzabile è quella produce la maggiore utilità per il maggior numero di persone. Questa è una formulazione del guardare alle conseguenze, ma ancora manca la teoria del valore: che cos’è l’utilità? Bentham sosteneva che l’utilità coincideva col piacere e l’inutilità con la sofferenza. Quindi bisognava produrre il maggiore piacere per il maggior numero di persone.

Mill, allievo di Bentham, cambia un po’ la sua teoria facendo la distinzione tra piaceri qualitativi e quantitativi, che per Bentham erano intercambiali.

Quindi nel caso dell’utilitarismo abbiamo la definizione di che cos’è la conseguenza del valutare. Queste prospettive hanno delle grandi conseguenze sulla nostra condotta morale: se approcciamo al trolley problem con una prospettiva deontologica faremmo una distinzione tra azione e omissione, se invece lo approcciamo con una prospettiva consequenzialista non consideriamo azioni o omissioni in quanto dobbiamo valutare le conseguenze della nostra condotta, quindi non fa differenza se queste conseguenze siano frutto di un’azione o di un’omissione. Un filosofo utilitarista contemporaneo, Singer, sostiene il fatto che il fatto che in alcuni paesi non ci sono soldi, risorse, e noi li sperperiamo contribuiamo a quella povertà. Quindi vedendo alle conseguenze delle nostre azioni dovremmo comportarci in una certa maniera Williams e Rawls invece, critici dell’utilitarismo, Williams gli rimprovera di essere troppo esigente (lo fa con un esperimento, quello in cui c’è un turista che arriva in un villaggio in cui sono tenuti in ostaggio da una banda locale di 20 nativi, sembra che stia per fucilare gli ostaggi, ma arriva il turista e il capo della banda affascinato dal turista decide di fargli un omaggio ossia o spari a una di queste 20 persone le altre 19 siano libere, allora il turista si chiede se deve salvare le 19 persone e essere il responsabile dell’uccisione di un uomo oppure non fare niente e lasciare gli tutti e 20 vengano uccisi). Williams dice che una prospettiva utilitarista direbbe sicuramente di sparare perché non c’è paragone tra i due esiti, invece Williams dice che questa cosa non tiene conto di come siamo fatti noi essere umani, della realtà, e che la nostra vita morale non è solo dare seguito alle domande della moralità ma è fatta anche da una tensione a noi stessi, al fatto che non potremmo convivere con l’idea di aver ucciso qualcuno, per il fatto che è un’azione che non si integra con il nostro piano di vista, con il carattere che vogliamo sviluppare. Questo è il tipo di critica che muove Williams alle concezioni normative dell’etica e in particolare all’utilitarismo. La prospettiva di Williams potrebbe essere ricondotta al terzo modo di concettualizzare l’etica nel campo dell’etica normativa. Etica delle virtù: è il modello più antico di pensare la moralità, ossia pensare che l’etica non ha a che fare con regole criteri della condotta, ma ha a che fare con chi noi siamo, ha a che fare con il carattere che abbiamo. Ha a che fare con lo sviluppo e l’articolazione di una serie di tratti del carattere che sono disposizioni ad agire in un certo modo laddove si presentino determinate circostanze. Il punto è che il fuoco non è sulla condotta e sulle azioni ma su ciò che precede queste due cose, e quindi l’idea è non come faccio ad agire in modo giusto, ma come faccio ad essere una persona giusta, e in questo caso la differenza ha a che fare col fatto che un’etica della virtù non può prendere una forma teorica, ma la differenza ha che a che fare col fatto che il modo in cui si mette in atto una condotta virtuosa in virtù della formazione del carattere che si fonda nell’esperienza e non nell’apprendimento. Quindi io creo il mio carattere virtuoso, giusto attraverso l’esperienza, l’esercizio, vedendo la condotta di persone virtuose. È una concezione dell’agire non formalizzabile come le altre prospettive. Una questione fondamentale è quella del naturalismo, inteso come approccio metodologico alla filosofia che sarà la cornice metodologica a partire dalla quale verranno discusse le implicazioni del dialogo tra scienze del vivente e etica filosofica. De Caro mette in luce il naturalismo filosofico e etico analizzato con un approccio caratteristico della filosofia contemporanea perché è vero sì che ci sono forme di naturalismo nella filosofia classica, ma quello che intendiamo noi oggi per naturalismo è qualcosa di molto specifico che a che fare con l’evoluzione della filosofia e come esito di un modo di concepire la scienza. Per quanto riguarda il modo di intendere la scienza, noi la intendiamo in modo tale da creare una discontinuità tra naturalismo classico e contemporaneo; infatti, il naturalismo di Aristotele non è in diretta continuità con il naturalismo contemporaneo perché c’è una diversa idea di cosa è la natura, la scienza. Se c’è una continuità che possiamo rintracciare tra naturalismo contemporaneo e passato possiamo riscontrarla nelle forme di empirismo proprie della filosofia moderna, ad esempio nell’empirismo di Locke o Hume; quindi l’empirismo della filosofia moderna può essere concepito come un antecedente del naturalismo contemporaneo. In Hume possiamo ritrovare un antecedente importante anche in una concezione non limitata di un naturalismo strettamente scientifico ma liberalizzato, ossia che ritiene che la scienza non sia l’unico referente legittimo; questa cosa è evidente nel trattato sulla natura umana in cui descrive il suo lavoro sulla natura umana una cauta osservazione sulla natura umana, a dire che noi non possiamo importare i metodi delle scienze newtoniane nella natura umana perché non possiamo fare esperimenti sugli esseri umani ma solo osservarli, quindi lui da una importanza nel lavoro filosofico all’osservazione, aprendo alla possibilità che ci sia una rilevanza di termini, esperienze, comuni degli esseri umani nella loro vita. Una concezione di naturalismo liberalizzato non riduce le sue fonti alle scienze esatte ma ritiene che ci siano una serie di concetti che caratterizzano la nostra vita ordinaria e che non possono essere espunto solo in virtù del fatto che non sono trattabili dalle scienze, quindi c’è una rilevanza della vita ordinaria. Prima di tutto bisogna riconoscere il naturalismo nella sua natura di tesi meta-filosofica, ma cosa vuol dire? Che il naturalismo è una tesi meta-filosofica nella misura in cui ci dice come deve lavorare la filosofia e quali sono i suoi scopi. Questo ci aiuta a definire la questione del naturalismo differenziandola da un altro modo in cui si parla di naturalismo intendendolo come una posizione sostantiva sull’etica; forma di naturalismo etico sono posizioni che hanno un carattere di tipo descrittivistico, che ritengono che il bene, le proprietà morali sono qualcosa di naturale, che appartiene alla natura delle cose. In questo senso ci sono tentativi di elaborare il naturalismo etico in questo senso, pensare che ciò che ci dice l’evoluzione della natura umana ci porti ad elaborale una forma di naturalismo etico, ad esempio, di stampo aristotelico; queste forme di naturalismo etico cercano di radicarsi nella cornice darwiniana ma non appartengono al naturalismo metafilosofico .La tesi metafilosofica può essere caratterizzata come una tesi che esclude dall’orizzonte dell’indagine filosofica qualsiasi appello a forme di relata che non sono realtà. Il naturalismo contemporaneo ha una relazione privilegiata con una determinato tipo di esperienza che è quella scientifica. Seguendo l’articolazione di De Caro possiamo articolare il naturalismo scientifico come caratterizzato da tesi fondamentali, e questo e quello liberalizzato coincidono sulle prime due tesi ma sono in disaccordo sull’ultima: la tesi costitutiva è una tesi sul dominio della filosofica che non riterrà legittimo. Cosa fa questa tesi rispetto a queste entità? Può o eliminarle del tutto o tradurle. (es: anima). una questione riguarda il dominio del naturale, perché ci sono delle positoni di naturalismo scientifico che accettano come oggetto proprio della filosofia solo entità che sono sotto la lente della scienza, cioè se la scienza non è in rado di occuparsene non sono oggetto dell’impresa filosofica, e qui si apre una questione, quella di distinguere il naturalismo scientifico da quello liberalizzato perché se definiamo natura solo come ciò che viene studiato dalla scienza dovremmo escludere una serie di entità, ad esempio la nozione di mente: se siamo dei naturalisti scientifici radicali potrebbe essere qualcosa che può essere ridotto a qualcos’altro, come al cervello, un’entità materiale, osservabile, laddove la nozione di mente designa un’entità più ambigua perché la possiamo concepire in maniera naturalizzata, ossia ritenere che si potrebbe anche usare un altro termine invece di quello mente perché hai un elemento analizzabile che è il cervello e quindi si può escludere questo termine di mente. Nella tesi costitutiva del naturalismo c’è la questione aperta di cosa si intenda per natura, se è qualcosa solo osservabile dalle scienze, li possiamo aprire il campo a ulteriore ridefinizione di come denominare le entità che sono oggetto della ricerca scientifica, e quindi potremmo pensare che le scienze della mente vadano ridotte a quelle del cervello. La tesi anti-fondazionale: questa tesi richiama l’idea che noi non dobbiamo più pensare al ruolo della filosofica come quello di una filosofia prima, cioè l’idea che la filosofia ha un punto di vista esterno, specifico, e prioritario rispetto alla sincera naturale, cioè che la filosofa ha un campo dui osservazione degli scopi che sono non solo differenti da quelli delle scienze ma sono anche prioritari. (es: una filosofia che si interroghi sull’essere è una filosofia che ambisce ad essere una filosofia prima). Una posizione di naturalismo meta filosofico rifiuta questa idea di una filosofia che si occupa di cose che sono al di fuori della scienza. La tesi della continuità è la tesi su cui divergono naturalismo scientifico e attualismo liberalizzato. Questa tesi dice che la filosofia sarebbe una parte della scienza. Secondo i sostenitori del naturalismo scientifico in realtà la filosofia non ha nessuno spazio di autonomia rispetto alla scienza ma tutto ciò di cui parla la filosofia è qualcosa che è trattato o trattabile dalla scienza, quindi non c’è nessuno spazio libero per il lavoro dell’analisi della scienza filosofica perché per il naturalista scientifico tutto ciò di cui si occupa la filosofia è tutto ciò di cui si occupa la scienza e viceversa; al limite la filosofia può sistematizzare, dare un resoconto organico di ciò che le diverse pratiche scientifiche ci dicono, ma non ha un suo spazio di autonomia, il che non significa che laddove noi siamo dalla parte di un naturalismo liberalizzato allora la filosofia può crearsi spazi autonomi del tutto indipendenti dalla scienza. Anche nel naturalismo liberalizzato le scienze danno una serie di vincoli al lavoro filosofico, anche se viene concepito con una sua autonomia. Quindi la tesi del naturalismo liberalizzato è quella che non è accettabile una continuità radicale tra filosofia e scienza, si può mantenere una autonomia dell’analisi filosofica laddove noi imbocchiamo la strada del filosofo che parla per esperienze umane di seconda natura; nozioni come quelle di autonomia, normatività, non sono nozioni necessariamente soprannaturali, ma appartengono alla natura dell’essere umano che è un essere culturale. Abbiamo la possibilità di avere oggetti che sono analisi della ricerca filosofica rimanendo indipendenti dalle scienze ma soddisfacendo comunque qualche criterio di empiricità. Torniamo all’osservazione humiana, che è un’idea del modo di trattare l’esperienza umana vedendo gli esseri umani dal vivo, nel loro modo di vivere, ed è qualcosa che non è direttamente riducibile alla scienza, ma gli si affianca. Quindi se noi vogliamo avere una lettura di tipo evoluzionistico del fenomenico della moralità non significa, se adottiamo un approccio di naturalismo naturalizzato, che possiamo pensare che la cornice dell’evoluzionismo spieghi interamente il fenomeno della moralità, quello che può ambire a fare il dialogo fra analisi filosofica e evoluzionismo è fornire la spiegazione di alcuni fenomeni fondamentali, ad esempio la spiegazione del percorso evolutivo che ha portato a determinate condizioni di vita degli esseri umani, come si sono formati parte costitutive della mente morale, ma questo non esclude che a questa spiegazione si affianchi un lavoro dell’analisi filosofica che in modo autonomo, non direttamente riducibile alle scienze del vivente lavora sulle forme dell’esperienza morale umana. Quello che fa la collocazione dell’etica all’interno della cornice evoluzionista è stabile una serie di vincoli alle nostre spiegazioni filosofiche sull’etica, vincoli che ad esempio avranno delle ricadute sulle nozioni sulle quali la filosofia ha iniziato a lavorare in modo autonomo ma che non possono contraddire le informazioni sugli esseri umani. Quindi dovremmo tagliare fuori qualsiasi idea forte, assolutistica di oggettività in etica nella cornice dell’evoluzionismo darwiniano perché se ricostruiamo il fenomeno della moralità all’interno della cornice evoluzionista dalla cornice evoluzionista non possiamo scappare in virtù di caratteristiche fondamentali dell’evoluzione biologica, in primis la dimensione di storicità e contingenza che impone dei vincoli alle nozioni dell’etica. Non riusciamo a rendere compatibile l’idea che la moralità sia fatta di verità assolute con l’idea che chi quelle verità dovrebbe conoscerle e agire conseguentemente, cioè l’uomo, sia il prodotto di un’evoluzione storica contingente che non abbia una meta pre-determinata, o pensiamo che l’evoluzione sia stata una fortuna, perché è andata come doveva andare. Collocare l’etica in una Cornice evoluzionistica non significa ridurre l’etica all’evoluzionismo Quando si è letto Darwin in chiave etico-politica si è fatto l’errore di pensare che la spiegazione evoluzionistica potesse essere una bussola per costruire nozioni normative. Anche se la frase biologizzare l’etica è forte, in realtà nella cornice del naturalismo liberalizzato non esaurisce lo spazio proprio della riflessione filosofica. Qui dobbiamo problematizzare la questione perché il legame tra etica e scienze del vivente non è solo di tipo teorico, ma è anche di tipo teorico, ovvero l’intreccio tra etica e scienze del vivente è qualcosa che nasce con Darwin stesso e un minimo di approfondimento delle vicende di questo intreccio è di aiuto per un lavoro di tipo teorico che faremo perché alcuni modi in cui si è determinata, già da Darwin stesso, discutere questi modi ci dicono qualcosa sul modo in cui oggi possiamo mettere in relazione etica e scienza del vivente. Prima di fare questo bisogna richiamare alcune idee darwiniane, anche perché la rivoluzione scientifica darwiniana è una rivoluzione che Darwin produce non solo come esito di una devozione incondizionata alla scienza, ma è qualcosa che si produce anche da fattori extra scientifici, cioè quello che fa Darwin, lo sguardo di Darwin sul vivente non è solo il prodotto di un’applicazione rigorosissima e brillante di un metodo scientifico puro e incontaminato, ama è l’esito anche di chi Darwin era, e di quale fossero i suoi interessi, al sua idea del mondo anche in termini extra scientifici. L’idea che nella scienza non ci siano elementi extra scientifici, che non ci sia altro che un incondizionato lavorare e desiderare una concezione oggettiva del mondo, questa idea convive con l’idea che la scienza ha una dimensione sociale, valoriale. Una delle acquisizioni della filosofia e delle scienze sociale è una ricostruzione della dimensione sociale della scienza, che significa riconoscere la dimensione sociale e valoriale di quello che la scienza fa concretamente. In realtà in Darwin questo intreccio c’è, e rende anche conto del perché in qualche modo la rivoluzione scientifica darwiniana è immediatamente esondata al di fuori dell’ambito scientifico. Per capire questo intreccio può essere utile richiamare alcuni elementi della biografia di Darwin. Egli inizia la sua carriera di scienziato viaggiando. Nasce come destinato agli studi di medicina, quindi va a studiarla ad Edimburgo e non riesce a farsi piacere questi studi, primo perché sin da bambino coltivava una passione naturalistica, amava stare nella natura, guardare piante, animali, classificarli, collezionava coleotteri. Alla fine convince il padre a abbandonare medicina, quindi lo manda a Cambridge per diventare un religioso, fa studi teologici, ma anche qui affianca a questi studi quelli naturalistici, geologici; quando si laurea gli si presenta l’occasione della vita perché una amico viene a sapere che il brigantino, una tipologia di nave, stava per salpare per ka sua seconda crociera intorno al mondo, era una nave in cui fare rilevamenti cartografici, quindi il suo programma era vare il viaggio, circumnavigare l’America, toccare le indie, le Mauritius, sud africa e tornare in sud America per risalire fino nel regno unito. Il capitano della nave cerva qualcuno che lo accompagnasse, quindi Darwin fa un colloquio con lui, e il capitano era molto indeciso, era un seguace delle teorie fisiognomiche e quindi secondo cui la conformazione del cranio, del viso fossero caratteristiche del carattere delle persone, e vede in Darwin qualcosa che non gli piace, il suo naso che era indicativo di una debolezza del carattere, poco adatto alla durezza della vita in mare, alla fine però lo accetta. Darwin però deve convincere il padre, che alla fine cede e lo lascia partire per il suo viaggio intorno al mondo con la speranza che poi rinsavisca. Darwin in questo viaggio non era ufficialmente il naturalista, ma lo diventa perché comincia a raccogliere informazioni e a mandarle in patria, comincia ad essere accreditato come scienziato. Nel suo viaggio osserva molte cose, ad esempio specie e conformazioni geologiche che non erano visibili in Inghilterra. Darwin è l’erede di una famiglia di anti-schiavisti. Erasmus Darwin, nonno di Charles Darwin, era uno che aveva ottenuto l’abolizione della schiavitù. Quindi cresce una cultura anti schiavista e quindi porta con sé in questo viaggio uno sguardo diverso da quello di molti naturalisti, scienziati, cioè uno sguardo che più che guardare alle differenze guarda alle somiglianze. L’intuizione di Darwin nasce da un’attenzione delle somigliane anatomiche tra i viventi che introducono in cui l’idea dell’origine comune, l’idea che tutti i diventi si differenzino a partire dall’origine. Quindi in Darwin c’è uno sguardo particolare alle differenze che non è solo il frutto di un interesse scientifico, ma di principi extra scientifici che hanno a che fare con un modo di vedere il mondo; queste questioni si intrecciano perché Darwin stesso si impegna nella configurazione di quello che era uno degli argomenti a sostengo della pratica della schiavitù, ossia il razzismo scientifico che sosteneva differenze fondamentali tra umano bianco europeo e umano nero africano, differenze che arrivavano a sostenere l’appartenenza a due specie differenti che legittimavano le priorità., la legittimità della schiavitù. Darwin usa parte della sua vita scientifica anche per la confutazione del razzismo scientifico. Quindi il viaggio di Darwin è un viaggio scientifico ma anche di formazione, di esperienza morale che fa Darwin. Ad esempio lui non conosceva la schiavitù in prima persona, ma la vede in sud America e ne rimane inorridito. Darwin fa conosce con esseri umani che vivevano in condizioni che erano agli antipodi della condizione di vita dell’Inghilterra che aveva sperimentato fino a qual momento. Fa esperienza della varietà delle forme della vita umana. Quindi il viaggio di Darwin non è un viaggio in cui fa solo osservazioni scientifiche, ma in cui si intrecciano questioni morali e scientifiche, e un modo esemplare testimonia che è difficile pensare alla scienza come una pratica stratta, neutrale, che quindi l’immagine che costruisce della scienza è un’immagine eccessivamente astratta, non compatibile con la realtà di che cos’è la scienza nelle sue pratiche. Rientra dal viaggio, sbarca in Inghilterra, e qui ha già una fama come scienziato, quindi la carriera di religiosa tramonta e si può dedicare alla scienza, e si dedica alla scienza interrogandosi su quello che è il problema centrale delle scienze del vivente della sua epoca, che poi da il titolo alla sua opera fondamentale: “l’origine delle specie”. Le specie viventi nella loro varietà, da dove derivano? sono sempre state cosi o cambiano? La questione della trasformazione delle specie si pone prima di Darwin, si pone nel momento in cui si osserva grazie alla scoperta dei fossili che si trovano negli stati geologici della terra forme di vita simili a quelle oggi esistenti ma non identiche, e che non si trovano più in vita, da dove venivano? Perché non ci sono più? Se Dio ha creato il modo una volta per tutte, che è la tesi creazionista, come rendiamo conto di quei fossili? Scoperta dei fossili che affianca un’altra scienza che fiorisce ai tempi di Darwin, la geologia, che mostra strati della superficie terrestre, c’è una dimensione storica che emerge empiricamente nella vita della terra e nella storia. Qualcuno ci prova e dice che i fossili sono la prova del diluvio, ma qualcuno nota che ci sono più strati di fossili, quindi ci sarebbero dovuti essere più diluvi. Qualcuno ha avuto poi un’intuizione, ossia il fatto che quelle cose li ce le ha messi Dio per metterci alla prova. Aldilà di queste spiegazioni si inizia a discutere sulle origini delle specie e inizia ad affacciarsi la nozione di evoluzione, ossia l’idea che le specie cambino nel corso del tempo e che quindi non ci sia stata una creazione una volta per tutte, ma quale che ne sia l’origine i viventi cambiano, mutano. L’evoluzionismo comincia a raccogliere dei sostenitori che devono affrontare un problema: se le specie mutano, che cos’è che ne causa la trasformazione? Lamarck sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti (es: la giraffa per cercare di arrivare alle foglie alte trasmette questa caratteristica alla prole) quindi per Lamarck le specie cambiano per un’esperienza di vita e queste trasformazioni vengono tramandate alle specie successive. Darwin interrogandosi sulla questione delle origini delle specie legge Malthus che dice che c’è un problema di compatibilità fra la crescita della popolazione che cresce in modo esponenziale, con la crescita delle risorse disponili; quindi le risorse disponili per sfamare la popolazione non possono crescere in modo omogeneo come ci si aspetta che cresca la popolazione. Darwin legge Malthus e ha un’intuizione: la popolazione non accede alle risorse in modo uguale, ma ci sono delle differenze nelle capacità di sopravvivenza degli individui determinate dalle caratteristiche fisiche, comportamentali. Che cosa significa la differenza nella capacità di sopravvivenza? Significa la capacità di riprodursi di più, il carattere vantaggioso viene trasmesso alla generazione successiva e stabilizzato e così via le specie si differenziano perché individui che discendono da un antenato comune diventano così diversi da non poter più riprodursi (es. isolamento territoriale). Darwin non conosceva la genetica, però arrivò a dire che le variazioni erano frutto del caso: la variazione è il prodotto di due meccanismi, la variazione casuale che produce caratteristiche che portano a risultati diversi per la sopravvivenza; quindi, danno luogo a differenti risultati riproduttivi. La teoria di Darwin secondo Mail è un insieme di 5 teorie: L’affermazione dell’evoluzione di per sé cioè l’essere umano si trasforma. La selezione naturale come quel meccanismo che chi è più adatto nelle circostanze ambientali ha una capacità di sopravvivenza maggiore e quindi una possibilità maggiore di tramettere i caratteri. Anche la differenziazione è un meccanismo contingente perché le circostanze ambientali sono casuali. Moltiplicazione delle specie ossia le specie tendono a moltiplicarsi. Origine comune: tutte queste specie provengono da un unico antenato che differenziandosi ha prodotto tutte le specie. Il gradualismo : questi mutamenti avvengono in modo graduale, non per cambianti improvvisi, per un lento accumulo. Queste idee che sviluppa nel corso di molti anni. Un giorno riceve una lettera di un giovane scienziato, Wallace, che durante un soggiorno di esplorazione ha un’intuizione che mette in un manoscritto, e questa intuizione è identica a quella di Darwin, ossia quella della selezione naturale, ma Darwin ha esitato molti anni a pubblicare l’origine della specie, quindi ci mette tanto a convincersi per divulgare le sue idee. Quindi quando arriva la lettera di Wallace gli amici gli dicono che bisognava trovare una soluzione, alla fine trovano un accordo e Wallace fa una dichiarazione pubblica, ossia riconosce il primato di queste idee a Darwin. Quando esce “l’origine delle specie” è una cosa ben fatta perché l’immagine del vivente che esce dalla teoria di Darwin non è solo incompatibile con le idee presenti nel senso comune, nella scienza, nella filosofia, ma è una spiegazione incompatibile con il creazionismo, è una spiegazione, cioè spiega in modo alternativo e supportato da prove qualcosa che solo il creazionismo sembrava poter spiegare, perché il creazionismo si sostiene in base all’argomento del disegno, che dice: immaginiamo di camminare in un deserto, se incontriamo un sasso non ci chiediamo chi l’ha messo lì, ma se dovessimo incontrare un orologio penseremmo che qualcuno l’abbia lasciato li, che qualcuno l’abbia costruito, cioè per induzione partiremo da un orologio per concludere che c’è un orologiaio, e come per l’orologio possiamo fare lo stesso per il vivente: guardate quanto siamo ben funzionanti, siamo come ingranaggi di un orologio, ci deve essere qualcuno che li ha fatti; quindi dal vivente, dalle sue funzioni, concludiamo l’esistenza di un autore della natura, di qualcuno che ha fatto la natura e l’ha fatta con un progetto.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 24. Contrassegna il permalink.