Dai PROLEGOMENI DI OGNI METAFISICA FUTURA al confronto con Hume

Breve analisi argomentativa
Beatrice Fratini

Kant nell’ opera del 1783 “Prolegomeni di ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienzasostiene di aver risposto a Hume. Il rapporto tra i due è sempre oggetto di studio della filosofia, lo stesso Hegel nelle lezioni di storia della filosofia afferma che Kant ha lasciato troppo spazio all’empirico. Engels sostenne che Kant e Hume fossero entrambi scettici (agnostici) un giudizio ripreso anche da Lenin e dalla tradizione marxista. La tradizione più scientificamente elevata è quella che ha avuto inizio con gli anni 70 del 1800 attraverso quel fenomeno noto come neo-kantismo in Germania. In molti si occuperanno di questa risposta di Kant a Hume e possiamo individuare tre posizioni:

  • intorno agli anni ‘90 del 1700 Schulz sostenne che la risposta di Kant a Hume sul principio di causalità fosse una petizione di principio. Kant aveva sostenuto di aver dedotto la realtà oggettiva degli oggetti puri dell’intelletto, ma questa era stata portata a termine a partire dal presupposto che l’esperienza sia reale. La posizione di questi primi interpreti è quindi che Kant abbia voluto dimostrare contro Hume che la relazione di causa ha realtà oggettiva ma l’ha fatto affermando a priori la realtà esperienziale rendendo la sua una soluzione solo analitica, data già dalle premesse;
  • Kant non ha risposto a Hume perché i presupposti dei due sistemi filosofici sono troppo diversi;
  • Per Guyer Kant non avrebbe risposto a Hume perché quest’ultimo ha posto due questioni diverse nel Trattato e nella Ricerca Sull’intelletto Umano. Nel primo Hume dubita del principio generale di causalità per cui ogni mutamento ha bisogno di una causa; nella ricerca Hume si limita a dubitare della necessità delle leggi determinate e concrete. Nella Critica della Ragion Pura Kant dimostra soltanto il principio generale di causalità ma non risolve il problema della necessità o contingenza delle leggi empiriche. Kant ammetterebbe nella terza critica la contingenza delle leggi determinate ed empiriche. Il concetto del rapporto di causa ed effetto appare nell’opera di Kant come categoria dell’intelletto, concetti puri, questi sono 12. Ci sono una serie di questioni da porre in merito al rapporto tra questi due filosofi: la prima questione da porre è scoprire cosa il primo ha letto del secondo, in seguito bisogna chiedersi cosa lo abbia colpito di queste (Hume è citato una decina di volte nella seconda edizione della critica della Ragion Pura), quale sia la domanda a cui Kant risponde e come lo faccia, in ultimo dovremmo comprendere quale sia la risposta a tale domanda. Kant nasce nel 1724 a Königsberg, in base a ciò che possibilità aveva Kant di leggere le opere di Hume? Quando sono state pubblicate? nel 39 Hume pubblica il Trattato sulla Natura Umana e nel 49 pubblica la Ricerca sull’Intelletto umano; sempre in quel periodo Kant pubblica il suo primo libro, una disquisizione sui concetti fisici. Tra il 52 e il 54 la Ricerca Sull’intelletto Umano viene tradotta nel contesto di una pubblicazione di diversi scritti di Hume e pubblicata anche in tedesco diffondendosi molto in Germania. La posizione oggi ritenuta più verosimile è che Kant deve aver letto la ricerca in questa traduzione tra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60. Il primo documento che attesti una correlazione tra Kant e Hume lo troviamo in una lettera indirizzata ad Hermann per convincerlo, per mano di terzi, a riabbracciare l’illuminismo. Kant si dimostrò deciso a leggere Hume grazie all’incontro con George Hermann, il padre dello Sturm und Drang: quest’ultimo utilizzerà gli argomenti di Hume per difendere una posizione ribaltata, per salvare uno spazio alla fede.

Nel 1762 e 63 vengono pubblicate da Kant due opere che contengono dei temi di ispirazione humiana: “L’unica Dimostrazione Dell’esistenza Di Dio” e “L’unico Tentativo Per Inserire Nella Filosofia Le Quantità Negative”. Nel primo nega l’esistenza di dimostrazioni di Dio che funzionino e sposta quindi il tema sull’unico argomento che risulta efficace. Quest’ultimo ha origine dalla Monadologia di Leibniz, dove viene sostenuto che il possibile, i concetti di cose, non contengono tra i loro predicati quello di esistenza perché l’esistenza non è un predicato. L’esistere è la posizione assoluta della rappresentazione, dunque il possibile esige che il materiale che si mette in rapporto siano predicati derivanti da altro da sé il principio di non contradizione distingue i possibili dai non possibili, ma non li fornisce. Se non esistesse nulla, nulla sarebbe possibile perché sennò non avremmo nessun materiale da giudicare secondo il principio di non contraddizione. Il non esistere nulla per Kant è contradditorio in senso materiale, non formale: non può non esistere nulla, per quanto non contradditorio, perché non esistendo nulla non ci sarebbero predicato e nulla sarebbe possibile. In “L’unico Tentativo Per Inserire Nella Filosofia Le Quantità Negative” Kant vuole distinguere il concetto di contraddizione reale da quello formale. Kant pensa a due forze in direzione opposta che sommando i vettori diano risultato zero, tenta di introdurre e rappresentare questo tipo di rapporto come contraddizione reale. Nella Annotazione Generale dell’opera fa diretto riferimento a Hume. Nel 1770 Kant pubblica l’opera per la cattedra universitaria, Beattie nello stesso anno scrive un opera di critica al Trattato sulla Natura umana di Hume, questa è un’altra fonte che Kant avrebbe potuto usare per conoscere l’opera di Hume. Karl Groos pubblica un articolo intitolato “Kant ha letto il Trattato?” concludendo negativamente a causa di due ostacoli: Kant non parlava inglese e l’opera non è mai stata tradotta in tedesco; secondo Kant il modello di verità della matematica di Hume è il principio di contraddizione e dunque rientri nei giudizi analitici tutto ciò, una tesi non evidente nel Trattato, quanto nelle Ricerche, opera tradotta in tedesco.

Quali delle due letture ha risvegliato “Kant dal sonno dogmatico”? Ci sono due buoni argomenti in favore del Trattato, che Kant avrebbe conosciuto grazie alle citazioni presenti nella critica di Beattie:

  • tra le citazioni di Beattie troviamo argomenti contro l’unità e la semplicità dell’identità personale dell’io che ritroviamo nella Critica Della Ragion Pura e che sono assenti nelle Ricerche;
  • il principio generale di causalità non viene messo in discussione nelle ricerche mentre nel Trattato è evidente, affermando che il principio generale di causalità non sussiste.

Non risulta tuttavia chiara la necessità di scegliere tra i due testi, nulla esclude che la lettura di Hume sia stata tanto rilevante a fine anni 50 quanto a inizio 70. Kant nell’Annotazione Generale affermava di capire il rapporto tra fondamento e conseguenza quando vi è una parte identica tra i due, ma in caso contrario, se il concetto di conseguenza non è contenuta in quello di fondamento, si esige un principio altro. Nella lettera ad Hermann propone una prima bozza della Critica Della Ragion Pura. Kant afferma di aver colto come il vero problema sia quello del rapporto tra rappresentazione e oggetto, se la prima è prodotta dalla seconda il problema è risolto, ma sorgono dei dubbi nel momento in cui riesco a cogliere questo rapporto anche se è la rappresentazione a produrre l’oggetto. Non è affatto chiaro come agiscano i concetti puri dell’intelletto che devono appartenere alla nostra interiorità e non sono scoperti nell’esperienza. Il principio di causalità non è qualcosa di puramente empirico. Nessuna delle due opzioni sopracitate sembrano funzionare. Kant ha quindi sicuramente letto la Ricerca e una serie di passaggi nel Trattato; chiedersi cosa sia più importante per lui equivale a chiedersi quale sia la domanda a cui Kant risponde. La domanda a cui Kant risponde non può essere cercata nel testo di Hume, ma deve essere Kant a dircela, solo dopo possiamo analizzare se questa sia una effettiva tesi humiana o meno. Quale sia la domanda Kant lo afferma chiaramente nella prefazione dei Prolegomeni pubblicati nel 83 (l’opera serviva a chiarire e correggere alcuni passaggi della prima critica il modo di esprimersi della critica della ragion pura era oscura e usa l’opera come scusa per correggere alcune parti dell’opera). Kant cita nell’opera Hume affermando che questo partì da un unico e importante concetto metafisico, quello della connessione di causa ed effetto,che per Kant non può derivare dal principio di identità. Secondo Kant il punto di Hume è che il rapporto causa-effetto non può essere pensato a priori ed è frutto di un errore empirico. Qui Kant continua sviluppando un altro punto, afferma di aver risolto il problema: Hume pensa che il concetto di causa sia tratto dall’esperienza e Kant ha scoperto che lo stesso problema si pone per le 12 categorie dell’intelletto e nega che questi non possano essere pensati a priori.

La domanda a cui Kant risponde quindi è: qual è l’origine del concetto di causa? Secondo Hume si può pensare e comprendere gli oggetti solo attraverso l’esperienza, per questo un’idea come la relazione di causa ed effetto non può essere tra questi, ma solo teorizzata dall’intelletto; Kant è d’accordo con quanto dice Hume sull’esperienza ma allo stesso tempo sembra trovare un “nuovo” modo d’intendere la realtà e gli oggetti che la costituiscono, ovvero i concetti puri dell’intelletto, le quali sono idee a priori, come ad esempio la relazione causa-effetto.

Kant una volta dedotta la realtà oggettiva delle 12 categorie della tavola dei giudizi, ovvero la loro realtà in quanto concetti dotati di un significato teoretico-conoscitivo, ritiene che si possa formulare una dottrina del pensiero puro, ovvero una che ha come oggetto la connessioni delle categorie al concetto di esperienza possibile. Per Kant la logica generale è una scienza che astrae dal contenuto delle rappresentazioni e riguarda soltanto la loro forma. Kant ritiene che sia possibile parlare di una logica formale pura che riguardi la sola forma del pensiero. Questa viene associata da al principio di contraddizione. Di contro all’eredità che dipendono dal principio di contraddizione, nelle pagine iniziali della Logica generale Kant si chiede se ci sia un principio formale della verità, uno che determini la validità della sintesi questo deve essere generale, applicabile in ogni caso, tenendo comunque in considerazione l’oggetto (particolare) di tali rappresentazioni; per Kant tale principio però è impossibile, questo dovrebbe essere valido in ogni caso tenendo in considerazione la particolarità del singolo oggetto; come può esserci una regola generale ad essere valida per oggetti diversi tra loro e il loro modo di relazionarsi? Il principio di contraddizione è una conditio sine qua non della pensabilità e della verità, tuttavia è una condizione necessaria e non sufficiente; essa inoltre è estremamente generale, il che permette di pensare anche concetti vuoti, privi di ciascun oggetto. Servirebbe un principio che quanto meno garantisca il rapporto della rappresentazione con un oggetto in particolare. L’idea di Kant è che l’insieme dei principi dell’intelletto puro indichino i confini dell’esperienza possibile e che questa sia la condizione necessaria, ma non sufficiente, della verità nei limiti in cui la rappresentazione ha un oggetto anche solo possibile. La rappresentazione deve avere qualche realtà, ergo rivolgersi al possibile. Nella deduzione trascendentale Kant operava un analogia con i giuristi parlando della dimostrazione della legittimità di un diritto su una certa proprietà. Kant chiama i concetti privi di questo diritto, che non dimostrano la legittimità delle loro pretese, concetti usurpati, fa gli es. di fortuna e destino. Se un concetto si riferisce ad un oggetto di cui non possiamo fare esperienza allora è vuoto. L’idea di Kant è che le rappresentazioni che esprimiamo a parole, i concetti: o si riferiscono a oggetti di cui si può fare esperienza o sono illusioni (secondo questo principio la stragrande maggioranza dei concetti sono a rischio). I concetti acquisiscono giustificazione per il fatto che essi rappresentano cose che poi conosciamo meglio con la scienza. Le categorie sono coinvolte in tutti quanti i principi, ciò che caratterizza questi ultimi è il loro essere giudizi, non semplici concetti, e attraverso questi noi possediamo un criterio di verità dell’esperienza ciò che ci occorre è un criterio necessario ma non sufficiente per la verità. In questo modo ci si arma di un criterio negativo ma molto più ristretto di quello di contradizione, perché tanti concetti che esso ammette cadono. Le categorie ci forniscono un criterio di verità dell’esperienza, un criterio necessario e non sufficiente per la verità, così tanti concetti che il principio di contraddizione non ammette cadono e perdono riferimento ad ogni oggetto (Dio, libertà, anima, etc.).Le categorie sono divise in quattro gruppi, ognuno dei quali è formato da tre giudizi: quantità, qualità, relazione e modalità. I principi seguono lo stesso ordine e sono gli assiomi dell’intuizione per la quantità a riguardare la possibilità di concepire tutti gli oggetti di cui facciamo esperienza come matematizzabili. Il principio degli assiomi dell’intuizione è che tutti i fenomeni sono quantità estensive. Gli assiomi ci permettono di produrre la conoscenza che i fenomeni sono matematizzabili per quanto riguarda la loro estensione. Ci sono due tipi di categorie: matematiche e dinamiche, i primi costitutivi e i secondi regolativi. Gli assiomi sono un principio matematico e costitutivo, questi presiedono alla matematizzazione di un altro aspetto della realtà, quale la possibilità di rappresentare l’intensità o grado della sensazione. Es. per misurare il grado di realtà del calore lo immaginiamo attraverso l’estensione. L’idea di Kant nella Critica della ragion Pura è che non ci siano problemi nella matematizzazione della realtà perché lo spazio geometrico e quello fisico sono la stessa cosa, non si pone il problema della divisibilità all’infinito, sono sempre forme pure dello spazio. Seguono le analogie dell’esperienza, queste sono tre: relazione ovvero sostanza o accidente, causa ed effetto e comunanza. Nella prima analogia Kant dice che tutti i fenomeni nella successione temporale sono solo mutamenti della sostanza, che di per sé è permanente per rappresentare il mutamento serve un sostrato permanente (stesso problema di Aristotele). Le successioni temporali sono modificazioni di accidenti, ergo determinazioni della sostanza, quindi i modi in cui questa (la sostanza) esiste.La seconda parte della Logica Trascendentale è la Dialettica dove discute il terzo dei fatti premessi nella Critica della Ragion pura, ovvero che abbiamo un predisposizione a voler conoscere oggetti metafisici, oggetti che esulano dall’esperienza.L’idea di Kant è che la nostra facoltà razionale, la ragione, nella misura in cui si riferisce agli oggetti dell’esperienza produce concetti e la chiamiamo intelletto; laddove non riesce essa è ragione e si riferisce alle idee (intelletto–> concetti =/= ragione–> idee). Le categorie altro non sono che concetti puri, queste non sono limitate dalle forme della sensibilità, quindi potremmo usarle per conoscere oggetti fuori dallo spazio-tempo (spazio-tempo sono intuizioni aprioripassive; le 12 categorie sono concetti puri dell’intelletto attive). L’idea di Kant è che essendo questi concetti puri ed essendo la facoltà razionale una che cerca i massimi principi per stabilire una spiegazione sistematica del tutto, allora nostra facoltà razionale è una che tenta di stabilire i primi principi delle nostre rappresentazioni, quindi di procedere verso l’incondizionato. Avendo noi questi concetti puri e apriori la tentazione è quella di sfociare in una dialettica trascendentale e, di conseguenza, l’illuderci che questa possa “discutere” (quando la ragione esula dall’esperienza entriamo in una dialettica tra tesi ed antitesi senza che si possa raggiungere una sintesi, questa è trascendentale perché apriori); perché? L’idea di Kant è che questi concetti che rappresentavano i fondamenti della metafisica siano senza alcun oggetto, ergo nell’uso teoretico della ragione non conosciamo nulla da ciò si conclude che non c’è un uso teoretico della ragione.Le idee di Dio, mondo ed Anima per Kant svolgono un ruolo sul piano pratico e morale: la ragione pura è di per sé pratica, non c’è un suo uso teoretico il concetto di incondizionato non ha alcun valore teoretico; tuttavia lo ha sul piano pratico. Kant nell’introduzione della Critica della Ragion Pura afferma che il prodotto della sua disanima della ragione è un organon dello strumento conoscitivo (quanto da lui effettuato è quindi una terapeutica per il processo teoretico-pratico) e tale analisi può portare solo a due conclusioni: affermare la possibilità di uso della ragione a livello teoretico o, in caso contrario, concludere con l’esposizione dei limiti della ragione, tutto ciò che non può fare. In questo secondo caso ci fornirà una disciplina di utilizzo a livello pratico della ragione ed esporrà questa disciplina nel suo uso polemico. Secondo Kant non è vero che non sappiamo se Dio esista o meno: la posizione del soggetto kantiano rispetto a una proposizione di questo tipo non è di incertezza, ma di assoluta certezza dell’inconsistenza dell’oggetto della contesa. La contesa viene meno perché non possiamo rappresentarci l’oggetto di questa ( gli oggetti della metafisica, es. Dio, verranno recuperati sul piano pratico, una volta negati su quello conoscitivo, attraverso la seconda critica).

Kant nella discussione sull’uso polemico della ragione torna a Hume e dice che quest’ultimo è stato uno scettico, un promotore delle antitesi nello scontro tra proposizioni dogmatiche, ergo a negare le richieste e pretese della ragione (di raggiungere il soprasensibile). Hume ha confuso:

  • dalla contingenza della nostra determinazione secondo la legge alla contingenza della legge stessa;
  • e ha confuso il passaggio dalla conoscenza della cosa all’esperienza possibile, un passaggio che accade a priori, con la sintesi della conoscenza delle cose reali.

Non è affatto ovvio che ci sia qualcosa di disponibile simile all’esperienza possibile, questa è più del mero possibile in quanto oggettivo, ma meno dell’esperienza reale, quella attuale. L’idea di Kant è che i concetti dell’intelletto siano deducibili sulla base della possibilità dell’esperienza, ma quest’ultima è inferiore alla realtà dell’esperienza in mezzo a queste due c’è una pluralità di sintesi empiriche. A parte questi principi puri dell’intelletto e le sintesi regolate da questi, tutto il resto è semplicemente contingente? Kant nel suo argomentare mostra che queste idee della ragione, queste rappresentazioni di una totalità, a qualcosa servono: hanno un uso regolativo, perché dirigono l’intelletto ad un certo scopo in vista di cui le linee direttive delle sue regole coincidono verso un unico fine, il quale pur essendo solo un idea focus imaginarius. Fungono da punto, da cui i concetti puri dell’intelletto non provengono realmente, ma forniscono ai concetti dell’intelletto massima unità ed estensione, ovvero permettono di usare le regole che l’intelletto fornisce a priori nella quantità maggiore possibile di casi. Questa fa nascere in noi l’illusione che le linee partano da un oggetto che si trova al di fuori del campo di una possibile conoscenza empirica, tuttavia è a sua volta necessaria se oltre gli oggetti che abbiamo di fronte vogliamo spingere l’intelletto oltre ogni oggetto dato. L’idea di Kant è che il concetto della totalità e unità sistematica di tutte le nostre rappresentazioni non è un concetto ma un idea utile a raggiungere il massimo grado di estensione ai concetti puri dell’intelletto. Kant in queste pagine oscilla tra l’ammissione della natura meramente ipotetica e soggettiva di questa rappresentazione e l’ammissione della necessità che questa idea postuli l’unità completa della conoscenza dell’intelletto, ergo che postuli la realtà del suo oggetto. Siamo di fronte all’idea dell’unità sistematica della natura della quale: non si può dare deduzione; e d’altra parte la possibilità di conoscere la natura vera non c’è. La ragione ha l’abilità di dedurre il particolare dall’universale, dal concetto gli oggetti, ovvero una rappresentazione di un intuizione (es. dal concetto di cane in genere i singoli cani particolari che troviamo nella realtà). Qui ad essere in gioco è il rapporto tra intelletto e intuizione che nel caso dei principi dell’intelletto puro è necessario e in tutti gli altri casi no. Se l’universale è già dato si ritiene che il giudizio sussuma il particolare al primo, ovvero porre il particolare come uno degli oggetto sotto l’universale. L’universale potrebbe anche non essere già dato, ma solo ipotizzato ed è dunque una semplice idea in questo caso il particolare è certo e l’universalità della regola resta in dubbio e si pone il problema dell’induzione, ovvero quello di inventarsi un universale che spieghi un insieme di cose; Es. La nostra classificazione del vivente, una collezione di singoli oggetti sotto a generi sempre più grandi, questo è un caso di applicazione di questo uso problematico della ragione. Ho dei particolari ma non dei concetti a priori, sono nel mondo reale ed ho bisogno di sintetizzare le note sensibili per rappresentare questo mondo. La nostra esperienza è oggettiva, è di oggetti, ciò significa che l’esperienza che noi facciamo è tutta frutto dell’accordo di una facoltà spontanea e una recettiva, intelletto e intuizione, un incontro contingente il più delle volte; vi sono due usi possibili della ragione:

  • un uso apodittico della ragione dove l’universale è dato e non serve altro che un giudizio che sussuma;
  • e un uso ipotetico quando l’universale non è dato va inventato.

L’idea dell’unità sistematica della natura non è destinata come problema solo all’uso ipotetico ma pretende una realtà oggettiva, “non si capisce come possa esserci un principio logico dell’unità razionale delle regole se non si presuppone un principio trascendentale tramite cui venga ammessa a priori una si fatta unità sistematica come inerente agli oggetti stessi”. Il problema è quello del pane che mi dà nutrimento e ho bisogno di un criterio per dire che lo farà anche domani, il problema quindi dell’uniformità non formale ma materiale della natura. Io posso avere infinite funzioni per fare sintesi ma nulla mi spiegherà perché le cose sono fatte così e non in un altro modo Il darsi di un esperienza non è affatto garantito, se non si presuppone una unità delle leggi e una sistematicità delle leggi della natura. Senza una sua uniformità reale non si riesce a fare un passaggio come quello di affermare che mi aspetto quanto accaduto fin’ ora. Se non si presuppone una unità delle leggi, della sistematicità delle leggi della natura, reale allora non si riesce a svolgere un passaggio quale “ciò che ho visto fin’ ora può ripetersi”: viene meno il medio per fare induzione e analogie. Se non avessimo un principio oggettivo, e quindi non solo logico, verrebbe meno il suo essere il principio della ragione. Questo principio è quello operativo della ragione, ma non se ne possono dare ragioni e rimane solo affermare che sia un ipotesi.

La critica della facoltà di Giudizio. Introduzione.

L’introduzione della terza critica venne scritta dopo aver completato l’opera. L’idea originale di Kant era che la critica fosse un’unica opera comprensiva dei primi due libri, Kant decise però di scrivere in contemporanea una seconda versione della prima e la seconda in cui l’oggetto in esame è l’uso pratico della ragione. Una volta conclusa la seconda opera scrive un opera sui Principi Metafisici Della Scienza Della Natura dove i principi puri dell’intelletto vengono determinati ulteriormente attraverso alcune determinazioni empiriche molto generali. In seguito pubblica nel 1797 “La metafisica dei costumi” che consta di due parti: i primi principi metafisici della dottrina del diritto e della dottrina della virtù entrambe hanno una parte critica e una metafisica. Nel 1790 viene però pubblicata una terza critica che affronta una serie di problemi tra cui quello della terza facoltà, quella del giudizio, di cui è necessario darne una critica. La facoltà di giudizio è la possibilità di pensare il particolare come compreso nell’universale, in tal caso il giudizio è determinante(anche nel caso delle categorie apriori); ma se è dato solo il particolare allora la forza di giudizio è riflettente. Ci sono così tante forme della natura è modificazioni del concetto di legge, ovvero di connessione necessaria tra precedente e successivo, che vengono lasciate indeterminate da quelle leggi che l’intelletto puro dà apriori, tanto che permettono una natura solo come concetto possibile in generale. La successiva determinazione dell’indeterminato dopo la sintesi pura lascia ciò che è indeterminato come contingente; tuttavia, se le si debbono chiamare leggi, come richiede il concetto di natura, devono venire considerate necessarie a partire da un principio dell’unità del molteplice della natura. La forza riflettente del giudizio, che risale dal particolare all’universale, ha bisogno di un principio non ricavabile dall’esperienza,dovendo raccogliere principi empirici sotto altri ma superiori e quindi inaugurare la subordinazione sistematica tra di loro questo universale non deve essere già dato e non deve essere prescritto. La facoltà di giudizio per Kant dispone di un principio trascendentale attraverso il quale diventa lecito assumere la sistematicità della natura senza che questo (che è trascendentale ergo condizione di possibilità dell’esperienza) sia oggettivo e quindi determini la natura. Secondo Kant è il soggetto che dà la legge alla natura” è una formula fuorviante, va inteso come: spazio e tempo condizione di possibilità del darsi degli oggetti e le categorie del darsi coscienza degli oggetti allora la natura a quelle leggi lì deve starci perché il concetto stesso di natura le implica, non si può pensare una natura senza riconoscergli queste determinazioni (spazio e tempo). L’oggetto natura è determinato da queste rappresentazioni, ma nonostante l’unità della natura serva per determinare quest’ultima, questa rappresentazione non la determina in sé: secondo Kant dato che la totalità della natura non la intuiamo mai questa non è parte dell’esperienza sensibile ma deve essere “focus immaginario”, ergo come un fine che si deve aggiungere permettendo di dare sintesi fornendoci un criterio di coerenza sulla nostra analisi della natura questa è la conseguenza della natura riflettente e quindi soggettiva del giudizio.Questo principio viene trattato nei giudizi di gusto ma non interessa a Kant per questo ambito specifico, quanto nella misura in cui copre un vuoto enorme, lo stesso che porterà Hegel a dire che Kant ha lasciato un regno enorme all’a-posteriori, perché al di là delle categorie tutto il resto va provato empiricamente, il che non stabilisce nulla sulla validità dell’oggetto nei confronti dei nostri scopi. Tutto ciò ci permette di dire che tra Kant e Spinoza, il quale afferma che questo principio di unità è del tutto ideale, c’è concordanza con un’unica differenza: per Kant il principio di finalità della natura consiste in una differenza modale e logica tra il soggettivo contingente e il trascendentale, che è comunque contingente. La questione riguarda la nostra possibilità di pensare un altro intelletto possibile a cui non serve il principio di causalità; nonostante ciò per noi esseri razionali finiti non è possibile non usare questo principio in merito all’esperienza un intelletto infinito lo possiamo soltanto pensare, è un concetto senza oggetto. Il punto di Kant è che l’intelletto finito ha bisogno del principio di causalità, un principio che abbiamo per puro caso. Il principio della finalità si chiama così perché il nostro intelletto è finito e quindi ha quindi bisogno di intuire il particolare e poi individuare una legge universale, per sussumere sotto di esso il particolare tutto ciò è contingente, tutte le nostre connessioni empiriche lo sono, quindi ci immaginiamo un intelletto diverso dal nostro in cui la differenza tra intuizione e individuazione non c’è, questo è il famoso intervento divino. Noi pensiamo questo intelletto come uno che proceda dal tutto alle parti. Questo può essere pensato solo negativamente ed è completamente esaurito dal concetto di intelletto non discorsivo che implica un procedimento libero dalle costrizioni che gli uomini hanno come finiti. L’idea di Kant è che noi ci facciamo questa rappresentazioni per pensare la totalità della natura come a fondamento del rapporto tra le nostre parti. Noi però la natura non lo vediamo mai, il tutto è solo rapporto delle parti, questo è il modo di procedere dell’intelletto; invece possiamo pensare un intelletto dove il rapporto delle parti si poggia sul tutto, questo tutto non è dato quindi ciò che abbiamo fatto è porre una rappresentazione a fondamento della realtà di un oggetto, questo tipo di causalità è la causa finale; Kant fa così due cose:

  • dà così la sua interpretazione di causa formale, la finale qua non è quella pratica della tecnica che nulla ha a che fare con l’arte della natura;
  • denuncia la natura finalistica di questo principio che non spiega la natura ma regola la nostra riflessione su di essa nel nostro tentativo di determinarla. Ma quando la conosciamo non la spieghiamo finalisticamente la natura ma meccanicamente.

L’unica conoscenza adeguata della natura è secondo cause efficienti, ma noi siamo obbligati a fare uso di un principio finalistico (che non ha rapporti con la produzione umana) simile alla causa formale e per questo presuppone il riferimento ad un intelletto diverso dal nostro, il quale, però, non c’entra nulla con Dio; perché? L’intelletto della quale ho bisogno non è nulla di più che un intelletto che ordini la materia, non serva che la crei, quindi il riferimento ad un intelletto demiurgico. Kant correggerà la sua teologia affermando che deriva l’esistenza da Dio dalla finalità della natura non è efficace perché permette al massimo di pensare un intelletto demiurgico.

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