Estetica e dintorni

Giovanni Furzi

Bisogna partire dalla lettura del titolo dell’insegnamento (estetica), il titolo è importante per Genette (estetico del 900). I titoli hanno un carattere sintetico, la sintesi esprime il condensato di qualcosa che appartiene al piano del profondo. I titoli nell’essere sintetici evocano qualcosa che appartiene al piano del profondo. La ripetizione è fondamentale per la filosofia: ripetere significa tornare sui propri passi, ma anche tornare a chiedere, e non è mai cosa banale dunque. La profondità non è qualcosa che sussiste indipendentemente dal termine opposto superficie (punto centrale del corso e dell’estetica e in generale rapporto superficie-profondità). La profondità non va oltre o aldilà della superficie, dove quell’oltre è qualcosa di metafisico. La metafisica ha concepito la profondità esistente autonomamente in sé e per sé, oltre il piano della superficie. Noi ci collochiamo in una prospettiva diversa. La superficie è il modo in cui le cose o i diversi aspetti di ciò che noi chiamiamo cose si offrono alla nostra percezione sensibile, a ciò che la cultura occidentale ha descritto in termini di aestesis. La superficie è l’apparenza fenomenica delle cose, il loro farsi in conto nella forma di un dato, che innanzitutto fa appello alla nostra sensibilità (aestesis). Aestesis-> percezione, in modo più rigoroso di tradurlo è però sensibilità, perché l’aestesis in quanto sensibilità è una percezione che il vivente vive sempre e innanzitutto lo vive nell’immaginazione, la sensibilità non è, come secondo lo schema metafisico, una dicotomia che vede uno stimolo esterno e poi una risposta del soggetto, piuttosto la sensibilità è una percezione sempre connessa al lavoro dell’immaginazione (per adorno è fondamentale), percepire le cose vuol dire cogliere in esse un di più, e questo di più è stato detto “un’eccedenza immaginativa”, qualcosa che fa appello al lavoro della nostra immaginazione.

Rapporto superficie-profondità, dove la superficie è l’apparenza fenomenica. Il punto è che quella superficie è qualcosa che costitutivamente rinvia e rimanda dal suo stesso interno alla profondità, a un fondo che non è apparente, mai totalmente rappresentabile, e dunque quella profondità non è mai totalmente dicibile e visibile. Nell’apparenza c’è sempre un non apparente, che è interno all’apparenza. Nietzsche l’ha chiamato dioniso, la nostra percezione ha sempre a che fare con la coppia apollineo-dionisiaco, logos- pathos. Da questo punto di vista il dionisiaco è quel residuo che si sottrae a ogni sublimazione logico concettuale, sfugge a ogni traduzione nel concetto, il sensibile è sempre carico di questa profondità inapparente, opaca.

L’inapparente così concepito non è mai materialmente separabile dall’apparente. Questi due piano possono essere distinti sul piano logico, ma non sono materialmente divisibili perché l’inapparente è l’altro dell’apparenza. Altro dell’apparenza, non dall’apparenza. Wittgenstein dice in una goccia di grammatica c’è una nube di filosofia, la differenza grammaticale apparentemente banale svela tanti significati profondi. Lo stesso Wittgenstein nelle “ricerche filosofiche” a dire che l’essenza si esprime nella grammatica, l’essenza indica proprio quel fondo inapparente e indescrivibile che le cose custodiscono implicitamente al loro interno. La profondità del senso per lui rimanda al linguaggio, l’unità del senso fa tutt’uno con la determinatezza delle parole che compongono il linguaggio. Per lui (il Wittgenstein delle ricerche filosofiche) il significato di una parola non è l’oggetto designato da quella parola, ma l’uso, la sua modalità di impiego che varia al variare delle circostanze linguistico espressive, che sono sempre storicamente determinate, ma allora il linguaggio. Questo sembra far risolvere il linguaggio a una molteplicità di usi, che annulla l’unità, ma per Wittgenstein non è così: tutto rimanda a un’unità che viene fuori dalle differenze e somiglianze determinabili dai molteplici usi linguistici. Wittgenstein è consapevole che usando il termine essenza usa un linguaggio metafisico, sa che l’essenza è un pregiudizio.

L’essenza per lui è un pregiudizio, perché appartiene al metafisico, ma non è un pregiudizio stupido, dice, non possiamo rimuoverlo. Essenza e apparenza, superficie e profondità, non sono separabili, e questo vale anche al di là del linguaggio.

Vale anche per il nostro rapporto con l’empirico. Il nostro rapporto col sensibile assume sempre una forma duplice è sempre espressione di stare dentro, siamo immersi nell’esperienza, nell’ambiente sensorial percettivo, ma proprio per questa inclusione noi non possiamo non prendere le distanze, cioè tentare di capire il nostro stare dentro, e da qui deriva lo stare fuori del rapporto duplice. Il nostro tentativo di comprensione deve sempre fare conto con il nostro essere totalmente immersi in quel sensibile che tentiamo di comprendere.

Rapporto essenza-apparenza, dunque profondità-superficie sempre in riferimento a Wittgenstein, in “osservazioni sulla filosofia della psicologia” cita Goethe, la morfologia di Goethe: scrive “non cercare nulla dietro i fenomeni già loro sono la teoria”, questo vale per adorno, Nietzsche, Benjamin. I fenomeni sono già teoria vuol dire che il piano dell’ideale, dello spirito, dell’intellegibile è paradossalmente interno alla stessa apparenza delle cose, ed è un paradosso fondante, originario e dunque ineliminabile. Il pensiero si incontra e si scontra con tale paradosso e non può negarlo, deve continuamente farci i conti. Per descrivere l’immanenza del piano teorico, fenomenico, questa presenza dello spirito nei fenomeni, Goethe parla di una “delicata empiria”, delicata perché carica di spirito, di idealità, di concettualità.

I fenomeni già di per sé sono carichi di teoria, e compito della pratica filosofica è portare, nei limiti del possibile, a esplicitezza questa delicata empiria, questa teoria immanente al piano dei fenomeni.

Tornando al titolo, ciò che esso esprime è l’unita del senso immanente all’oggetto che stiamo considerando, o alla pratica di sapere o di vita rispetto alla quale si riferisce quel titolo. Il titolo chiama in causa l’unita di senso implicita, il piano del profondo della cosa di cui è titolo. Nel parlare di senso ci riferiamo a qualcosa che chiama in causa 3 ambiti diversi, che coesistono nella nozione di senso: il piano del sensibile; dunque, il senso è sempre un senso da sentire cioè qualcosa che ci rende affetti e ci coinvolge in prima persona, ci chiama in causa, poi il piano dell’intellegibile cioè dell’ideale, è qualcosa che si pensa, cioè che si lascia intendere o si lascia comprendere, e il senso lo cogliamo nella forma di un atto unitario, lo cogliamo nella sua compiutezza, e ancora chiama in causa l’idea di direzione, il verso che si sta perseguendo con il pensiero in vista di dare un senso al non senso, un ordine al caos. Le cose quando si presentano a noi sono caos, non senso, e noi continuamente dobbiamo dare ordine al caos, non l’ordine, ma un ordine, un possibile ordine tra i molteplici possibili. Quando diciamo che nel titolo c’è l’unità di senso, facciamo riferimento a questi 3 ambiti descritti.

C’è un altro aspetto, cioè che ogni attività didattica implica una connessione tra due ambiti che siamo abituati a scindere, specie nella modernità. La tendenza a separarli è una tendenza acritica, e avviene quando assecondiamo abitudine, movenze, da noi non sufficientemente elaborate in sede riflessiva. Si fa riferimento a quel condizionamento culturale che ci induce a scindere o a contrapporre in modo dicotomico l’idea di teoria e prassi, e questo è sbagliato. Ogni corso, ogni attività didattica, viene sempre a configurarsi come un intreccio di teoria e prassi, che non sono mai scindibili. Questo vuol dire che la teoria non è mai meramente astratta puramente ideale. E. Garroni è il fondatore della scuola romana di estetica, e fa notare che l’astratto è più concreto del concreto, e lo è perché dell’astratto noi parliamo continuamente, le nostre vite sono intrise di astrazione, mentre del concreto non siamo né saremmo mai in grado di dire nulla, né di concreto né di astratto. Basti pensare al dato percettivo: se anche è concreto, già solo dandogli un nome noi stiamo esercitando una pratica teorica. Non c’è mai pura astrazione o pura concretezza, ciascuno rimanda sempre all’altro ed è intriso dell’altro. La teoria è sempre espressione di una prassi, di un particolare modo di abitare il mondo, di un certo modo di articolare la nostra condotta, la teoria è sempre incarnata da una prassi sensibile. La teoria è sempre incarnata da una prassi da noi effettivamente vissuta. Nell’esercitare una qualunque pratica di sapere, noi Siamo soggetti a quella determinata pratica anche prima ancora di teorizzare su di essa. Se esercitiamo quella pratica innanzitutto ne condividiamo la grammatica, che agisce implicitamente in noi, condizionandoci. La filosofia deve risalire proprio a quei presupposti del nostro agire, quelle condizioni di possibilità di ogni nostra pratica di sapere o di vita.

La prassi non è mai neutra, o innocente, essa non è mai priva di presupposti o di implicazioni di ordine propriamente teoretico, e questo al di là della consapevolezza di chi esercita quella prassi. Il nostro fare presuppone sempre un sapere, o un insieme di saperi, che noi non sappiamo di possedere, ma che traduciamo sempre in prassi, e questo che noi ne siamo consapevoli o no. Questo è fondamentale per Gombrik, per il quale non esiste un occhio vergine: la nostra percezione, visione, è sempre carica di una teoria, di un modo di articolazione della prassi.

Questo era chiaro anche a Nietzsche. Per Nietzsche anche non è vero che io so perché vedo, ma io vedo perché so, il mio vedere presuppone già un sapere implicito, che precede il vedere e permette, condizionandolo, il mio vedere cioè il mio percepire il mondo.

Il titolo è espressione dell’unità di senso di ciò cui si riferisce, e dunque quel titolo indica una via da percorrere, un insieme di segni che allusivamente evoca l’idea di un cammino da intraprendere, cammino intorno alla necessità di capire i contenuti del corso, è un cammino nella comprensione, o sotto il segno di un’esigenza di comprensione. Il titolo fa cenno verso un’esigenza di comprensione, il titolo ci colloca nella prospettiva del comprendere.

Ogni corso di studi è un paesaggio grammaticale mondo di senso, un mondo che ha una sensatezza immanente, il senso del paesaggio è immanente al paesaggio, quel senso possiamo coglierlo nello stesso dispiegamento sensibile del mondo che lo incarna, cioè nella concretezza dei segni che vanno a costituire quel mondo. Il nostro comprendere è sempre insieme un non comprendere, e quel non comprendere che abita il comprendere è qualcosa che di volta in volta ci rimanda a qualcosa di nuovo da comprendere. Quando comprendiamo qualcosa comprendiamo anche di non comprendere qualcos’altro. Questo avviene lungo un percorso, un continuo cammino, si comprende a mano a mano. È un cercare di raggiungere qualcosa con la consapevolezza di poterlo raggiungere solo mantenendosi in cammino. C’è l’essere in cammino, non l’arche o il telos. Noi siamo indotti a rintracciare un senso che si costruisce via via, a mano a mano (la pensava così Wittgenstein). Il comprendere è cercare di raggiungere qualcosa con la consapevolezza di poterlo fare solo mantenendosi in cammino, sotto il segno di una necessità di comprensione.

Capire quel mondo di senso tipico di ogni corso di studi vuol dire imparare ad abitarlo, cioè imparare a familiarizzarsi nelle diverse figure di pensiero che quel mondo dal suo stesso interno elabora e struttura.

Cosa dice il titolo del corso? Cioè qual è la via da percorrere cui allude il corso?

“Moda, mimesis, e immaginazione: lo statuto paradossale dell’arte nella riflessione estetica di adorno.”

Ci occupiamo della teoria estetica di adorno, ma anche altro: rapporto arte-realtà, cioè arte e vita, per esprimere questa coppia concettuale adorno dice anche arte e società, e nel mettere in questione questo rapporto adorno interroga il rapporto tra arte e vita, arte e ciò che è altro dall’arte. Sotto questo profilo il tema diventa lo statuto dell’opera d’arte, cioè lo statuto della rappresentazione, dell’immagine. Lo statuto è il modo d’essere e insieme il modo di operare dell’opera d’arte, dell’immagine, il suo modo di relazionarsi con l’altro da sé. Dall’altro lato la questione del rapporto arte-modernità, il problema diventa la modernità, questo con la consapevolezza che per noi e per adorno il problema è la stessa nozione di modernità. Per la filosofia le nozioni sono domande, intreccio di problemi, che se anche sembrano risposte rimandano continuamente alla domanda. Non c’è domanda che si estingua nella risposta. Stando alla lettura adorniana l’idea di modernità non va da intendersi in modo storiografico, cioè qualcosa di esattamente collocabile nell’ordine lineare del tempo, perché non appartiene all’ordine dei fatti, della cronologia. Nel parlare di modernità ci riferiamo, adornianamente, a una categoria di ordine teoretico, speculativo, cioè a una figura di pensiero, dunque un intreccio di problemi. Se per adorno la modernità è questo, essa è un nodo da indagare nella sua non ovvietà, dove la sua non ovvietà è anche la sua ricchezza di senso.

Lettura del programma del corso

Moda, mimesis, rimandano tutte alla questione dell’apparenza. Per Adorno bisogna salvare l’apparenza, infatti nell’opera Teoria estetica ci si pone sotto il segno dell’incompiutezza, che è un tratto che inerisce non solo al piano del come, cioè il modo in cui il testo si articola, ma attiene anche al piano del che cosa, ciò di cui adorno parla nell’opera. È il piano del che cosa che fa venire in primo piano la necessaria incompiutezza del progetto speculativo di adorno, il piano del che cosa cioè il piano della cosa stessa, cioè dell’unità di senso profonda della cosa. È l’oggetto stesso che esclude la possibilità di un compimento.

Un altro elemento è il fatto che in adorno la riflessione estetica è qualcosa che non solo cronologicamente ma anche concettualmente viene dopo rispetto a “dialettica negativa” (metà anni ’60), perché è un’opera che rappresenta “il deserto di ghiaccio dell’astrazione”, espressione ripresa da adorno nelle prime battute di dialettica negativa, e ripresa da Benjamin, suo amico, che aveva usato questa espressione, nella seconda metà degli anni 30, per alludere proprio a un lavoro di adorno, lavoro dedicato a Husserl, lavoro chiamato “metacritica della gnoseologia”, Benjamin ritiene questo lavoro il “deserto di ghiaccio dell’astrazione, che però per Benjamin dobbiamo attraversare in vista del concreto, per immetterci in esso. Ancora una volta, nessuna scissione tra astrazione e concreto, essi sono due polarità che stanno sempre insieme, e certo in alcuni momenti è in primo piano l’una, in altri l’altra, ad esempio dialettica negativa vede una fortissima astrazione.

Concreto e astratto stanno sempre insieme. In dialettica negativa il deserto di ghiaccio dell’astrazione è molto presente, e appunto va attraversato, avendo di vita una ricomprensione del concreto. Del resto, stesso Benjamin ne era consapevole e scrive il saggio “sul dramma barocco tedesco”, saggio complessissimo che si apre con una premessa gnoseologica, a proposito della quale benjamin disse: la premessa è come “l’angelo con la spada fiammeggiante del concetto davanti al paradiso della scrittura”, nell’opera troveremo una serie di temi concreti, dei quali la premessa ha rappresentato il deserto di ghiaccio da attraversare, necessario per ricomprendere il concreto e la nostra relazione con esso.

Teoria estetica viene dopo Dialettica negativa, sia cronologicamente che concettualmente, il che vuol dire anche che il progetto filosofico espresso da teoria estetica presuppone quello espresso da Dialettica negativa. Lo presuppone e insieme ne costituisce la revisione, il ripensamento, teoria estetica è anche una riforma del ruolo e dello statuto che occorre ascrivere all’idea stessa della filosofia.

In teoria estetica vengono in primo piano aspetti nuovi, ulteriori, che danno un aspetto nuovo della filosofia rispetto a quello presente in dialettica negativa. Questo ripensamento consiste in un passaggio dal piano di ciò che era puramente teoretico (il deserto di ghiaccio dell’astrazione), al piano estetico. Questo passaggio non esclude il teoretico, e non implica che nel teoretico di prima non vi fosse l’estetico: stiamo parlando di due gradi diversi di un unico processo di elaborazione concettuale, dove ora a venire in primo piano è il piano estetico. Il piano estetico viene in primo piano, questo vuol dire che assume importanza il nostro incontro e confronto con la materialità delle cose, aestesis – percezione, l’interazione col sensibile. Ad assumere importanza è il nostro confronto con la materialità delle cose e con la fisicità di quell’oggetto che è l’opera d’arte, fondamentale per adorno, che innanzitutto è una res: l’opera d’arte attiene al sensibile. Mettere a tema l’opera d’arte vuol dire mettere a tema la nostra interazione col sensibile. Kantianamente, per adorno, l’opera d’arte è l’esibizione esemplare delle condizioni di senso della nostra esperienza, ciò che vediamo nel nostro rapporto con l’opera d’arte vale sempre, più in generale, nel nostro rapporto col sensibile. L’opera d’arte è ripetizione, raddoppiamento del nostro rapporto col sensibile, ciò che vale lì (nel rapporto con l’opera d’arte) vale anche altrove. L’opera d’arte ci apre gli occhi sul mondo, permette alla nostra esperienza di vedere la propria immagine riflessa in uno specchio. L’opera d’arte è importante, per adorno, per il suo valore riflessivo e auto riflessivo. Passando da teoretico a estetico il pensiero adorniano, dopo aver attraversato il deserto dell’astrazione di dialettica negativa, riscopre e ripensa il concreto, ricomprendendolo come luogo eminente, cruciale del pensare, cioè come quello spazio decisivo nel cui orizzonte si gioca la possibilità del senso, è nel sensibile che si gioca quella partita, in corrispondenza di quella soglia che è il nostro rapporto col sensibile, col concreto. Il pensiero deve porsi a quest’altezza.

In un passaggio contenuto nella “Terminologia filosofica” di adorno si parla della filosofia e del compito che assegna a se stessa. Lì egli mette a tema il modo d’essere e d’operare della filosofia, cosa deve fare per realizzare il suo compito. Adorno ne parla nei termini di “voler dire”, la filosofia vuole dire qualcosa. Questo voler dire deve essere inteso come un tentativo di obbiettivare l’esperienza, cosa che pone molte questioni. Questo, comunque, con la consapevolezza che la filosofia non è e non può essere specchio delle cose, dell’oggettività delle cose. Com’è possibile? Vuole obbiettivare la filosofia con la consapevolezza di non poter rispecchiare le cose, un paradosso. Come si può allora parlare della realtà dal punto di vista della filosofia? Come può avvenire questa obbiettivazione senza concepirla nei termini classici, metafisici di un rispecchiamento?

Che la filosofia non rispecchia la realtà vuol dire che non è una pratica modellata sullo schema classico per il quale la verità deve essere intesa come corrispondenza, cosa che ci è stata trasmessa dalla metafisica. Verità come corrispondenza -> conformità tra proposizione e fatto, tra piano del soggetto e oggetto. Sotto questo profilo la verità è l’esattezza della rappresentazione che ci facciamo della realtà, secondo questa prospettiva, cioè quella della verità classicamente intesa, un giudizio è vero quando afferma la realtà di ciò che nella realtà è congiunto e quando nega ciò che nella realtà è disgiunto, perfetta corrispondenza.

Per adorno la verità non è corrispondenza, non è esattezza o scorrettezza della proposizione. L’idea classica predispone un dualismo: da una parte il soggetto conoscente e dall’altra l’oggetto conosciuto. Adorno sa che la verità non è questo, tuttavia dice che la filosofia è un voler dire, un tentativo di obiettivare l’esperienza. Qui c’è il tipico meccanismo del dire disdicendo, dire e insieme negare ciò che si è detto nel momento stesso in cui lo diciamo, metodo tipicamente adorniano, che per adorno è anche il modo in cui l’opera d’arte funziona: solo a queste condizioni l’opera d’arte svolge una funzione veritativa, solo se si offre a noi come un dire disdicendo.

Stando a adorno la filosofia deve esplorare e insieme costruire nuovi modi di essere e di dire, cioè nuovi modi di articolazione linguistica del “vero”, che per adorno non è uno stato di cose, non appartiene all’ordine dell’empiricamente documentabile, il vero per adorno è ciò che è valido per la sua capacità di aprire uno spazio di comprensione, ciò che rimette in moto il pensiero nella prospettiva di quella soglia apparente-inapparente, rappresentabile-irrappresentabile. Il vero non è un dato per adorno, ma è la distanza che ci separa dal nascosto, non appartiene all’ordine della presenza, ma dell’assenza. Anche quando parla dell’essenza, di un in sé dell’opera d’arte, quell’essenza appartiene in realtà all’ordine dell’assenza, dell’implicitezza. Il vero è ciò che apre sempre nuovi spazi di comprensione, e l’opera d’arte fa questo.

L’opera d’arte è tale perché è infinitamente produttiva di senso, genera sempre significati nuovi e sempre diversi, l’opera d’arte non può essere inchiodata a un unico senso, altrimenti sarebbe un messaggio, e per adorno l’opera d’arte non produce messaggi, quello è il linguaggio dei dominatori, sono gli oppressori a portare messaggi, esprimendo la logica di dominio che vige nel mondo.

Il compito della filosofia consiste nella costruzione di un paesaggio grammaticale, cioè un certo uso del linguaggio che abbia la virtù di far accadere il senso, cioè ciò in cui consiste il voler dire. Far accadere il senso, cioè essere in grado di farlo essere, in quanto espressione di ciò che è e resta non identico, si tratta di far essere non una presenza ma un’assenza -> paradosso. Il voler dire è tentativo di far accadere il senso in quanto espressione di ciò che non si può ridurre a identità.

Tutto questo porta in rilievo un aspetto cruciale, cioè la stessa forma di scrittura filosofica o della parola filosofica, la forma fa problema, tutto si gioca a livello di forma, il come e il che cosa sono congiunti. Non c’è una cosa da dire che può essere riformulata in modi diversi, il modo in cui lo dico è proprio quella cosa lì, posso certo dirlo in modi diversi, ma ogni modo rimanda a una certa cosa.

Per Adorno arte e filosofia convergono, paradossalmente. l’arte ha bisogno della filosofia che la interpreta per dire quello che la filosofia non è in grado di dire e che può dire solo l’arte, la quale però lo dice tacendo.

Arte e filosofia si presuppongono reciprocamente. La forma della scrittura filosofica è la sua stessa configurazione sensibile e questo vale per la filosofia e vale per l’arte.

In adorno la nozione di forma è fondamentale. La forma nell’opera d’arte è contenuto sedimentato, dice adorno.

L’accento viene a battere sulla centralità dell’idea di forma, cioè sul momento retorico della filosofia, su quel voler dire. Il voler dire è un far essere, un far accadere il senso, cosa che significa consegnarlo alla lettera, alla determinatezza di una certa configurazione stilistica, di un certo paesaggio grammaticale. Consegnarlo alla lettera significa consegnarlo alla lettura, si costruisce una forma che abbia la capacità di attivare e rendere virtualmente infinito il lavoro del comprendere. Il far accadere il senso può avvenire solo nel linguaggio, solo grazie alla forza del discorso, alla costruzione di un determinato paesaggio grammaticale.

Per cogliere la cosa stessa bisogna affidare la sua espressione al corpo della scrittura, del tessuto verbale, cioè alla forma della scrittura filosofica.

Ciò che risuona è l’esigenza di dire l’indicibile attraverso il dicibile, e ce lo dice Garroni, e insieme è il tentativo di dire il dicibile attraverso l’indicibile, dicibile e indicibile sono polarità che si appartengono reciprocamente. A profilarsi è un quadro simile a quello kantiano, della critica della facoltà del giudizio, perché proprio nella terza critica è in gioco un ripensamento della filosofia, del trascendentale, e questo con la consapevolezza che a essere in gioco è il risalimento verso quel principio ulteriore, quella condizione di senso più fondamentale dell’esperienza, che Kant chiama principio di finalità, il quale è un senso da sentire, che si caratterizza per la sua non dicibilità. Il principio di finalità è quel senso comune, che precede trascendentalmente la nostra esperienza, e insieme la rende possibile. A delinearsi è una prospettiva secondo la quale le 12 categorie che troviamo nella prima critica, assieme alle 2 di spazio e tempo, sono necessarie ma non sufficienti per una conoscenza dell’esperienza. Serve un qualcosa di ulteriore, quel principio di finalità serve un senso da sentire.

 Nell’orizzonte adorniano la teoria estetica diventa il banco di prova sul quale il pensiero misura non solo la sua tenuta, legittimità ma anche il suo buon funzionamento, produttività, produttività di quella dialettica negativa che è uno dei dispositivi più importanti del pensiero adorniano. Il passaggio fra le due opere, dunque, non vede l’abbandono della dialettica negativa.

 La filosofia è comprensione, non spiegazione, comprendere cioè tentativo di risalire verso le condizioni di senso dell’esperienza, condizioni di possibilità, non è una spiegazione che porta a un dominio sulle cose empiriche da parte di chi conosce. Dialettica negativa è definita così da adorno perché esclude qualunque possibilità di sintesi,; dunque, nel parlare della dialettica negativa parliamo di un modo di articolare il pensiero che esclude ogni sintesi, cioè esclude qualunque possibilità di conciliazione tra gli opposti, insomma si supera la prospettiva hegeliana, non c’è alcun aufhebung. A essere esclusa è ogni conciliazione che aspiri a essere definitiva, per adorno è importante perché la filosofia esclude ogni possibilità di pacificazione nei confronti della realtà, la filosofia è domanda continua, non può acquietarsi con una definizione di qualche tipo. Nessuna pacificazione nei confronti della realtà vuol dire nessuna pacificazione nei confronti dell’empiricamente esistente, l’essente, il mondo così com’è, che è ciò che la filosofia interroga continuamente.

In “minima moralia” dice che la filosofia deve trapassare oltre le cose, deve liberarsi dal peso del puro fatto, cioè mettere in questione l’esistente perseguendo le sue implicite condizioni di senso (senso da intendersi nei 3 significati precedenti), mai interamente oggettivabili. La Dialettica negativa si blocca nella soglia del “tra due”, quella soglia critica, cioè quel luogo di continua interrogazione, che è l’interazione fra gli opposti. La soglia del tra due è un luogo non luogo, non è definibile, è quel paradossale luogo non luogo che nasce proprio per il favore del confronto fra gli opposti, e a istituire di volta in volta quella soglia è la compresenza di quegli opposti, la loro giustapposizione l’uno accanto all’altro.

Questa compresenza fa tutt’uno con la loro interazione, che non smette mai di esserci e questa interazione c’è sempre nella forma dell’opposizione. A questo proposito già Benjamin, nei Passage di Parigi, parla di una dialettica in stato di arresto, una dialettica nell’immobilità. Immobilità non indica una dialettica statica, anzi è una dialettica sempre produttiva di senso, a renderla immobile è la sua produzione di immagine, immagine cioè uno spazio circoscritto del pensiero. Quella dialettica è ciò che il pensiero deve tradurre in un’immagine, uno spazio di pensiero in cui si dispongono gli elementi. È immobilità anche perché si esclude ogni sintesi, ogni definizione definitiva e acquietante.

Ciò che il pensiero deve fare, adornianamente, è promuovere sempre di nuovo la continua attivazione di quella tensione polare che affiora dal confronto degli opposti, e il pensiero deve, in quanto pensiero critico: indugiare, esitare, trattenersi sulla soglia del tra due, senza alcuna pretesa di ridurre la dualità a unità. La tensione tra opposti è dunque non risolvibile.

In teoria estetica la stessa scrittura filosofica diventa l’esibizione in atto (in KANT. è dare significato a concetti mediante intuizioni sensibili) delle potenzialità, delle risorse di senso immanenti al dispositivo della dialettica negativa, e in teoria estetica avviene nel confronto con quel referente che è l’opera d’arte. Qual è il ruolo che attribuisce all’estetica? L’estetica non deve essere intesa in alcun modo come una “filosofia applicata”, dice adorno. L’estetica è filosofica in sé, cioè non è una delle innumerevoli sezioni in cui si articola un presunto sistema teorico. Questa consapevolezza è alla base della stessa riflessione di Garroni, per il quale l’estetica non deve essere intesa né come una filosofia dell’arte, né come una dottrina o teoria della percezione. Garroni ne parla nei termini di una filosofia non speciale, questo indica che l’estetica non è un settore specifico disciplinare, ma estetica e filosofia fanno tutt’uno (anche per Adorno è così).

L’opera d’arte è un referente privilegiato cioè un referente esemplare, nel senso di exemplum, qualcosa che ha la capacità di metterci davanti agli occhi il piano del senso, il piano delle condizioni di possibilità, il piano delle precondizioni di senso della nostra esperienza. L’opera d’arte intesa come libero esercizio delle condizioni di senso della nostra esperienza, libero esercizio perché nell’opera d’arte quelle condizioni di senso non sono finalizzate al raggiungimento di un qualche fine determinato, ad esempio un fine cognitivo. Nell’opera d’arte c’è solo la messa in scena di quelle condizioni di senso, indipendentemente da un loro fine determinato.

Non è un referente esclusivo, cioè l’arte non costituisce non è l’unico referente dell’estetica.

Cos’è l’arte? Difficile a dirsi, specie a partire dal 900, si pensi alla cesura delle avanguardie storiche novecentesche, e proprio a questo proposito lo stesso Adorno parla di una perdita di ovvietà dell’arte.

Di certo l’arte non può essere soggetta a una definizione, non è classificata. Non esiste una classe di opere darti, secondo la quale le opere d’arte hanno tutte almeno una caratteristica comune che le rende parte di una classe.

Estetica -> riflessione che viene condotta dall’interno stesso dell’esperienza, e che proprio a partire dal nostro essere immersi nell’esperienza ha di mira la comprensione delle condizioni di senso, di possibilità dell’esperienza.

Condizioni di senso dell’esperienza presupposti impliciti dell’esperienza, quelli che costituiscono l’orizzonte implicito dell’esperienza, quell’orizzonte sul cui sfondo si iscrive ogni nostra possibile esperienza, tutto ciò che possiamo dire, pensare, provare emozioni, fare, prendere decisioni.

Dialettica negativa / teoria estetica in teoria estetica adorno si avvede del fatto che una dialettica negativa pensata fino in fondo e spinta ai suoi limiti estremi, non può non trasformarsi in una teoria estetica. Dunque, la teoria estetica sgorga dalla dialettica negativa, come una sua radicalizzazione.

Adorno, sempre nei Minima Moralia, dice che alla filosofia perviene un elemento di radicalizzazione, esagerazione, che è proprio la capacità di trapassare oltre le cose, liberarsi dal peso del puro fatto.

Il progetto filosofico espresso da teoria estetica presuppone, o ripensa anche dialettica negativa, lo stesso ruolo che viene dato all’opera d’arte e alla sua funzione conoscitiva e veritativa in teoria estetica vede questo ripensamento di dialettica negativa, di quel deserto di ghiaccio.

Riflettere sull’opera d’arte significa portare in primo piano un’istanza di crisi, crisi che fa tutt’uno con critica, in adorno. L’opera d’arte, indefinibile e non classificabile, è opera d’arte proprio perché induce nella nostra esperienza ordinaria e lineare un’istanza di crisi, che affiora dall’interno stesso delle cose.

L’opera d’arte ci fa vedere il mondo come non lo abbiamo mai visto, e ce lo fa vedere come se lo vedessimo per la prima volta, questo nuovo modo di vedere è proprio il manifestarsi di quella crisi di cui prima, cosa che sconvolge le nostre abitudini di pensiero, ci destabilizza. L’opera d’arte è espressione di una discontinuità, una cesura e interruzione che di colpo affiora nella nostra rappresentazione ovvia, abituale, del mondo. L’opera d’arte quando è davvero tale espropria le cose della loro presunta identità a se stesse, cioè rende le cose estranee a se stesse: il mondo non è più come prima. L’opera d’arte fa irrompere il non identico, cioè questo momento dell’estraneità, nell’identico, mette l’identico in attrito con se stesso, già qui si intravede la dialettica negativa.

La connessione crisi – critica – crisi rimanda al greco crisis, che rimanda al verbo crino, che tra le altre cose vuol dire decidere, giudicare. Crisi allora è qualcosa che fa tutt’uno col riconoscimento del nostro non poterci non ritrovare nella condizione di dover dare il nostro giudizio. La crisi è dunque proprio quella che riguarda Il soggetto che continuamente viene posto al cospetto di se stesso, al cospetto di esercitare ogni volta la sua facoltà di giudizio.

Con la facoltà di giudizio ci riferiamo a un uso particolare, a quello che Kant chiama “un uso riflettente della facoltà di giudizio”, uso della facoltà di giudizio che per lui assume un valore prioritario, fondante. Per Kant ogni giudizio ha una caratteristica: sempre, infatti, il giudizio è la capacità di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Questo è sempre, in quanto tale, il giudizio. Nella terza critica fa una distinzione fra due tipi di giudizio: da una parte il determinante, in questo caso il particolare (materiale empirico, sensibile, dato fenomenico) è qualcosa di dato, di cui possiamo fare esperienza attraverso la nostra percezione della realtà. A essere dato però non è solo il particolare, ma anche l’universale. Nel giudizio determinante particolare e universale sono qualcosa di già dato, il giudizio determinante il modo in cui sia articola il discorso scientifico. In tal caso giudicare significa riportare il concreto all’intelletto, è un uso del giudizio dal carattere esecutivo, meccanico, si tratta di applicare le categorie (universale) alle intuizioni sensibili (particolare), e entrambi sono sempre dati, nel giudizio determinante. Nel giudizio determinante anche l’universale è dato, perché \le categorie sono valide a priori, dunque sempre valide. Nel giudizio riflettente non è così: Kant dice che a essere dato è solo il particolare, mentre l’universale non è dato, deve essere trovato, cioè deve essere inventato, costruito. Però a giocare un ruolo chiave è il fatto che quest’universale si caratterizza per la sua non disponibilità a essere trovato, è un universale inaccessibile: lo vogliamo trovare e non lo troviamo mai, l’universale si caratterizza per la sua indeterminatezza. Da una parte c’è il particolare, dato ma non determinato (non determinato perché dobbiamo trovare l’universale che lo spieghi dal punto di vista logico concettuale), ma indeterminato è anche l’universale, che non è né dato, né determinato, perché anch’esso va trovato: abbiamo il confronto fra due indeterminatezze (particolare e universale sono entrambi indeterminati)

Cosa vuol dire che l’universale deve essere trovato? Che va ricercato, e a caratterizzare questa ricerca è la sua interminabilità. Nel caso del giudizio riflettente l’universale è oggetto di una ricerca infinita, e a motivare quella ricerca è il particolare che continuamente ci spinge a ricercare un universale, che però sempre fugge nonostante i nostri tentativi. a caratterizzare l’universale è il suo farsi comprendere nella forma di un “più”, adornianamente, un oltre. Nell’esercizio di un giudizio riflettente il dato, dunque, non è un risultato, un qualcosa di spiegato, ma viene interpretato come un oltre, un più, un “mer” di cui noi siamo alla ricerca interminabile. Questa ricerca infinita dell’universale è qualcosa che esige l’attivazione del pensiero, certo, ma quella ricerca allo stesso tempo è anche qualcosa che pianta in asso il pensiero, perché mai quell’universale potrà essere identificato con un concetto definito dell’intelletto. In questo caso a essere in gioco non è più la relazione tra la rappresentazione che il soggetto si fa dell’oggetto e l’oggetto, ma quella fra la rappresentazione che il soggetto si fa dell’oggetto e il sentimento, lo stato d’animo nel quale il soggetto si trova nel momento in cui fa esperienza del giudizio riflettente, e il soggetto incontra se stesso, si riflette allo specchio.

In lui è proprio l’arte a farsi esponente di quella connessione crisi-critica (questa connessione rimanda ovviamente alla facoltà di giudizio di cui abbiamo parlato), perché nell’opera d’arte a occupare una posizione di rilievo è l’incontro col sensibile. Fare esperienza dell’opera d’arte implica fare esperienza col concreto, il sensibile, e proprio questo sensibile motiva la ricerca dell’universale, che sempre sfugge -> ricerca infinita che l’opera d’arte mette in primo piano e lo fa mostrandosi a noi come qualcosa di concreto, sensibile, fenomenico. il sensibile custodisce in sé un’istanza di crisi, la crisi appartiene al mostrarsi del sensibile, se si dà quel sensibile si dà crisi, e dalla crisi dunque si attiva la critica. Il sensibile di per sé dà una crisi, l’apparenza è crisi, è enigma che porta a una necessità di comprendere.

Il piano dell’estetico è quel piano in cui il senso si dà come un senso da sentire, per cui è un senso che si può cogliere solo in virtù del sentire, del mostrarsi del sensibile, che si offre a noi sempre innanzitutto in termini qualitativi: gustare, tastare, ascoltare, appartengono tutti all’ordine qualitativo, cioè non si possono spiegare in termini logico-esplicativo, né possono essere tradotti in termini quantitativi.

L’impresa di teoria estetica è strutturalmente arrischiata perché esclude ogni rassicurazione metafisica, non possiamo fare appello a nessun punto di ancoraggio: il sensibile è sempre interrogato, si vuole comprendere non spiegare quindi non c’è mai certezza, anche le categorie non sono un porto sicuro, vengono addirittura messe in discussione. È un’impresa però necessaria, è lì che si gioca la possibilità del senso. Il comprendere esige quell’impresa, ma a quell’impresa è tolto ogni possibile ancoraggio epistemico, nessuna garanzia. È proprio in questo quadro che assume un’importanza decisiva il tema della scrittura filosofica, importante per dare forma a quest’impresa. Lo stile, il momento espressivo dell’indagine filosofica, quello che Adorno, in “Terminologia filosofica” Adorno lo chiama “il momento retorico” della filosofia. Anche per l’uomo antico, d’altronde, la retorica chiama in causa la conoscenza del vero, pertiene al piano della conoscenza.

Lo stile non è traducibile in termini logico concettuali unici e validi per tutti, esso è caratteristico per la sua unicità.

Quello di adorno è uno stile paratattico, il che ha molto a che fare con la costitutiva incompiutezza di cui abbiamo parlato, dovuta non solo alla morte, ma quell’incompiutezza pertiene all’oggetto stesso di cui si parla. Se c’è paratassi c’è incompiutezza. La riflessione estetica deve necessariamente essere paratattica,contrario di ipotassi, il modello classico dell’ipotassi è la concinnitascicerioniana, l’ordine, la gerarchizzazione delle cose. La paratassi è invece giustapposizione: porre le cose l’una a fianco all’altra la dialettica negativa è proprio questo, compresenza di opposti e insieme la loro relazione nell’attrito, nell’urto. La paratassi traduce in termini espressivi la dialettica negativa.

Il testo adorniano in quanto paratattico non si presenta come una struttura sillogistica, non procede da premesse a conclusioni, non c’è una concatenazione necessaria tra premesse e conclusioni, non c’è necessariamente uno svolgimento logico deduttivo, non è un sistema (sistema o totalità organica, intero che riposa saldamente in se stesso, cioè nella sua coerenza, coesione, compattezza, continuità logico deduttiva). La paratassi è lo scardinamento del sistema. Un sistema è tale perché in esso ogni elemento trae il suo senso solo dall’intero, dall’inclusione nell’intero, la parte trae il suo senso dall’intero (sistema hegeliano, dove il vero è l’intero, l’inizio coincide con la conclusione). Per Adorno il tutto è il falso, come scrive in dialettica negativa (opposto a hegel che dice che il vero è l’intero).

Adorno dice che il tutto, la totalità, è il feticcio, è un idolo (in dialettica negativa scrive che “totus est totem”), a porsi sotto il segno dell’idolatria o del feticcio è l’innalzamento del concetto inteso come unica spiegazione possibile della realtà, la riduzione dell’essere al concetto. Per Adorno tra piano del pensiero e della realtà, tra concetto e essere c’è una frattura che non si può sanare, è quella soglia del “tra due” che il pensiero critico deve abitare, deve indagare e sempre interrogare, e da qui c’è l’esigenza di uno stile paratattico.

L’idea di sistema implica proprio l’idea di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra ordine delle idee e ordine delle cose. La forma saggistica, cioè quella dove c’è la scrittura paratattica, è il contrario del sistema, e alla forma saggistica adorno dedica un saggio: “il saggio come forma”. La fine del sistema è la fine della prospettiva secondo la quale c’è un rispecchiamento tra pensiero e realtà. Adorno indaga la nozione di concetto, la mette in questione, tenta di risalire alla genesi del concetto, ma adorno non vi rinuncia mai, di qui ancora una volta il tenore paradossale della sua riflessione, tenore paradossale che anima il pensiero di adorno e di ogni possibile filosofia. Non si può rinunciare al concetto perché si rinuncerebbe al pensiero, e in tal caso alla riflessione critica, se si rinuncia alla riflessione critica si cade nella barbarie, ma al contempo il concetto porta alla visione sistematica di corrispondenza tra pensiero e realtà (hegel) che per adorno è la barbarie. Se rinuncio al concetto cado nella barbarie, se lo uso cado nella possibilità di cadere nella barbarie, dunque bisogna cercare di abitare differentemente il concetto.

L’idea di paratassi è fondamentale per la riflessione adorniana -> fine del sistema, cioè adesso (nella modernità) la parola filosofica sa di non poter più essere un’asserzione univoca, chiara, ontologicamente fondata, non può più assumere questa forma e avanzare la pretesa di articolarsi secondo quello schema classico, si pensi ad Aristotele, che si esprime nella forma (ti kata tinos) “dire qualcosa intorno a qualcos’altro”, il soggetto che descrive la realtà e lo fa dando asserzioni univoche. Secondo lo schema classico il giudizio è attribuzione di un predicato al soggetto mediante la funzione di collegamento o di mediazione svolta dalla copula, dal verbo essere. Se ci muoviamo in quest’orizzonte come unica modalità legittima di funzionamento della ragione, il vero cos’è?

Un giudizio è ritenuto vero quando afferma la congiunzione di ciò che nella realtà è congiunto e la disgiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto: perfetta corrispondenza tra pensiero (e linguaggio) e realtà. Corrispondenza fra un modo di articolare il linguaggio e il piano delle cose. La verità si dà quindi come corrispondenza, come correttezza o scorrettezza della coordinazione tra pensiero e realtà, concepita come un insieme di fatti e di enti: tutti dati, determinati e suscettibili di una categorizzazione, di una classificazione, quello che adorno chiama il linguaggio protocollare, e che in Benjamin è il linguaggio dei vincitori, degli oppressori, dei dominatori, quello che in Adorno riguarda l’uso della ragione strumentale, cioè l’uso calcolante della ragione improntato al primato assegnato al principio di identità.

Adesso la parola filosofica non è più questa, non è ontologicamente fondata, cioè non si fonda sulla determinatezza di un significato unico e univoco, significato ultimo che metafisicamente corrisponderebbe all’essenza immutabile delle cose, alla forma logica delle cose. Il pensiero adorniano esclude proprio all’impossibilità di ridurre la realtà a un unico principio formale. La parola filosofica non vuole più funzionare come sintesi predicativa, cioè come quel “ti kata tinos”.

Sullo sfondo del discorso adorniano c’è certamente la grande cesura costituita dal gesto filosofico di nietzche, in primis la nozione della morte di Dio, della trasvalutazione di tutti i valori: la morte di dio è la morte del senso, Senso da intendersi come significato supremo, come senso ultimo e unico delle cose, quella forma logica che pretendeva spiegare l’essenza delle cose e che si credeva dato una volta per tutte. Quel senso diceva che le cose stanno in quel modo e non può essere altrimenti, è la logica della metafisica che fa corrispondere alla realtà solo quell’unico significato formale.

Il gesto di Nietzsche, con la morte di un senso così inteso, apre alla modernità, sia filosofica che artistica: l’intero 900 è marcato da quella critica radicale che Nietzsche rivolge alla grande tradizione metafisica, quella che Nietzsche, nella Nascita della tragedia, chiama “il geniale edificio della cultura apollinea” -> edificio geniale perché non riguarda solo l’arte apollinea, ma anche l’episteme, la scienza -> scienza da intendersi non solo come scienza sperimentale, ma come in generale quel tentativo di ridurre la realtà a delle strutture logico concettuali (questo tentativo è il gesto epistemico di cui prima).

Critica che rivolge alla grande tradizione metafisica critica l’intera storia della tradizione metafisica che procede da platone a hegel, passando per il cristianesimo, in particolare parliamo del cristianesimo paolino: per Nietzsche il nemico è San Paolo di Tarso, non tanto la figura del cristo.

Morte di dio morte del Senso, dissoluzione di ogni valore che pretenda di porsi come qualcosa di immutabile e necessario, un non poter essere altrimenti da ciò che si è. Dissoluzione di ogni fissazione del divenire. Quando l’edificio della metafisica viene messo in discussione accade che i valori fondamentali sui quali la metafisica fondava la sua lettura della realtà, in primis la triade platonica: idea del Vero, idea del Bello, idea del Bene. Questi valori, con la critica di Nietzsche mostrano la loro infondatezza, il loro poggiare sul nulla, nulla da intendersi come nulla di dicibile, nulla di rappresentabili. Tutti questi valori vengono allora riconsegnati alla loro dimensione più propria, cioè vengono riconosciuti da Nietzsche non come espressione dell’essenza della realtà, ma come un divenuto, cioè sono un costrutto finzionale, sono il prodotto di un’intera cultura, il prodotto di una vita, quei valori sono qualcosa di storicamente determinato e culturalmente condizionato, a quei valori non può essere ascritta nessuna purezza o necessità logica, essi sono un divenuto. Il debito di adorno per Nietzsche emerge sin dalle prime pagine di teoria estetica, dove chiamando in causa il tema della verità dice che non si può non proseguire lungo la linea tratteggiata da Nietzsche, e dunque verità intesa come divenuto e insieme diveniente.

I valori di cui prima sono il risultato di una prassi, di un certo modo di abitare il mondo.

La critica della metafisica è essenziale per il pensiero adorniano. In un’opera scritta insieme ad Horkheimer, “la dialettica dell’illuminismo”, nel fondamentale volume del ‘47, viene affermato: “unità rimane la parola d’ordine da Parmenide a Russell”, cioè la pretesa di ridurre la realtà a un’unità, unica e definitiva: dare un’unità logico deduttiva al molteplice reale, la pretesa di dare ragione dell’esistente in modo definitivo e in termini logico esplicativi. Da qui nasce l’esigenza di criticare un’intera tradizione di pensiero. Per Adorno però quel modo di articolare il pensiero che critica non è assolutamente l’unico modo possibile di articolazione del pensiero: molteplici sono gli usi che possiamo fare della concettualità. Certo è che anche adorno deve confrontarsi con la tradizione metafisica, vuole decostruire quella tradizione, e questo è il gesto del filosofo genealogista, infatti, come Nietzsche, adorno vuole risalire genealogicamente alle condizioni di senso, di un’intera civiltà, dell’idea stessa di cultura, vuole risalire alle origini dell’idea stessa di concetto.

Metafisica parlando di metafisica nel senso delineato, stiamo designando una logica della necessità, una logica dell’incontrovertibile, un non poter essere altrimenti delle cose, che perciò sono già da sempre vincolate a quell’unica forma logica che le descrive, quel significato che definisce e circoscrive l’ambito di pertinenza, il ruolo delle cose nella realtà. Adorno scardina questa visione del mondo, e dunque anche il rapporto pensiero-essere. Adorno vuole enfatizzare l’impossibilità di superare la scissione essere-pensiero. L’essere è irriducibile al piano del pensiero, del concetto, e sotto questo aspetto la paratassi è quella forma del discorso filosofico nel momento in cui si riconosce la caduta del Senso, cioè il tramonto dell’idea di verità intesa come corrispondenza essere-pensiero, come il tramonto di un’idea di verità che sveli il nascosto, una verità che tolga il velo (quella rivelazione del profondo di cui parla Hegel parlando della verità). La verità non può mai essere totalmente disvelata (Nietzsche, prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza), non c’è dunque nessuna pretesa di una verità che tenti di svelare il nascosto -> non per questo Adorno è un irrazionalista, la verità per lui è ciò che noi sentiamo di dover sempre nuovamente comprendere, con la piena consapevolezza della sua continua irriducibilità al piano del concetto, a qualcosa che la fissi in una definizione univoca, determinata e definitiva: non può mai essere qualcosa che ci spieghi del tutto il nascosto, anzi, la verità è proprio quella distanza che ci separa dal nascosto, e che dobbiamo abitare in una continua esigenza di comprensione. Questo emerge particolarmente nell’incipit dell’ultimo capitolo di dialettica negativa, cioè in quel capitolo chiamato “le mediazioni sulla metafisica”, dove si vede come la verità non possa più essere identificata come appartenente al piano dell’immutabile, dell’incontrovertibile, come qualcosa di sottratto al tempo e al divenire. La verità è strutturalmente storica, è un diveniente e un divenuto, cosa che non vuol dire che sia riducibile al piano dei fatti, essa è ciò che sempre nella storia si sottrae nuovamente a ogni descrizione, rappresentazione, è il “più” del fenomeno.

Questo significa anche che l’apparenza, a sua volta, non è più il luogo della non verità, non è una dimensione che attenda di ricevere il suo senso dall’alto, dall’esterno, da un non luogo esterna all’esperienza, una sorta di dimensione iperuranica -> l’apparenza non è qualcosa di subordinato all’essenza, a essere negato è ogni primato attribuibile all’intellegibile rispetto al sensibile. al contrario il pensiero adorniano vuole salvare l’apparenza, ma non nel senso di voler stabilizzare il divenire, cioè dare ai fenomeni un ordine sempre garantito, quanto piuttosto salvare l’apparenza vuol dire riconoscere che il senso dell’apparenza è interno all’apparenza stessa, e non è mai totalmente dicibile, rappresentabile, è ciò che nel dato sfugge e si sottrae a ogni piano della definizione e determinatezza. Non si può più affermare che l’apparenza valga meno rispetto al piano dell’essenza.

  • Nell’idea di astrattezza troviamo annodate due caratteristiche dell’arte moderna che sono irrinunciabili: la sua autonomia e la sua enigmaticità, l’astrattezza da conto a entrambe, è sì autonomia, ma un’autonomia enigmatica. L’enigma ci costringe a affrontare il rapporto determinato- indeterminato, e questo perché sappiamo che in adorno la forma è contenuto sedimentato. Se è vero che l’arte moderna tende a essere sempre più astratto, allora quest’astrattezza non può non chiamare in causa il piano del contenuto, cioè l’idea di forma come contenuto sedimentato. Nell’idea di astrattezza autonomia e enigmaticità sono motivi congiunti. Nell’astrattezza del nuovo si incapsula qualcosa di decisivo per il piano del contenuto, dunque nell’autonomia dell’arte moderna, cioè nel suo essere marcatamente non riproduttiva, si incapsula proprio lì, nella sua forma, si incapsula il contenuto dell’opera. ecco perché la difficoltà di comprensione. Il contenuto incapsulato nell’astrattezza, indica che l’astrattezza della forma è la sedimentazione del suo contenuto. Proprio nel suo essere astratta l’opera d’arte si fa testimonianza della realtà, rimanda al suo non identico, e a certificarlo è il fatto che nel suo essere autonoma, cioè non riproduttiva, è anche enigmatica, quell’enigma ci dà da pensare e ci fa interrogare sulla realtà e sul rapporto arte- realtà. In che modo coglie la realtà restando astratta?
  • Nel tema del brivido allude alla non autonomia dell’arte, alla sua capacità di rimandare al non identico, all’altro da sé, ma noi sappiamo che non autonomia e autonomia sono sempre congiunti, l’uno implica l’altro. La non autonomia dell’opera d’arte moderna, cioè il brivido, reagisce alla sua autonomia, cioè alla chiusura criptica dell’opera (la sua auto referenzialità, autonomia, ed è criptica nel senso di enigmatica), autonomia che è funzione della non autonomia. In che senso il brivido ha a che fare con l’indeterminatezza? In “teorie sull’origine dell’arte excursus”, dove parla del comportamento estetico, troviamo anche il brivido, di cui parla dicendo che l’esperienza del brivido, che riguarda la vita mentale dell’uomo in generale e non solo l’arte, consiste in un sentirsi toccati da ciò che è altro, e scrive infatti che la pelle d’oca è la prima esperienza estetica. Si dà brivido nel momento in cui il soggetto percipiente avverte l’indeterminatezza delle cose, cioè il mer, il più. Il brivido è quel trauma provocato dall’urto con l’in sé delle cose, con l’incommensurabilità delle cose, con la loro irriducibilità all’identico, alla possibilità di una categorizzazione. Il brivido è quel sentirsi toccato da ciò che nelle cose resta incategorizzabile. Il percipiente reagisce al brivido, a quella percezione del più, con una reazione mimetica. Quando il percepiente si sente colpito dal più del fenomeno, quel più in qualche modo viene dal soggetto fissato in immagine, ma viene fissato in immagine in primo luogo in quanto sfuggente, non rappresentabile. La vita mentale del soggetto diventa mimèsi di quella stessa irrappresentabilità. Si dà mimèsi nella vita mentale dell’uomo quando il soggetto lascia che la traccia di quel più si imprima nella propria vita mentale. Quando il soggetto si sente invaso dal più, lo fissa in immagine, fissando la stessa fuggevolezza del più, attraverso quella mimèsi che consiste nella mimèsi all’interno della vita mentale. Quando Adorno descrive il comportamento mimetico, fa cadere l’accento proprio su quest’aspetto (siamo sempre nella sezione indicata prima di teoria estetica) mette in connessione proprio brivido e mimèsi, e dice che il comportamento mimetico consiste proprio nell’impulso a farsi uguali a ciò che è altro da sé, cioè un impulso all’identificazione CON l’altro, cioè all’immedesimazione nell’eterogeneo, nel non identico, e non DELL’altro. L’opera d’arte ce ne fa accorgere, nell’arte moderna il rinvio al non identico è incapsulato nella stessa forma dell’opera, dunque il momento del brivido, l’esperienza del sentirsi toccati da ciò che è altro, è qualcosa che è immanente alla stessa forma, configurazione materiale, dell’opera. Che il brivido sia immanente alla forma vuol dire che esso è una delle componenti operanti all’interno di quello spazio di gioco interno alla forma stessa. Un gioco fra forze eterogenee e al tempo stesso cooperanti, il cui lavoro insieme va inteso come un essere reciprocamente in conflitto, conflitto che indica che quelle forze costitutive della forma reagiscono l’un l’altra continuamente, all’azione di una corrisponde la reazione dell’altra. Nell’opera moderna il brivido reagisce (la reazione indica proprio la presenza di forze, dove all’azione di una corrisponde la reazione di un’altra) alla chiusura criptica dell’opera, cioè alla sua astrattezza, alla sua autonomia che è insieme enigmaticità, e questa reazione del brivido indica proprio la presenza di questo spazio di gioco, di forze contrastanti, questo campo energetico. La non autonomia dell’opera, e quindi il momento del brivido, è quella forza che nell’opera si attiva per reazione al mostrarsi dell’autonomia, cioè al carattere astratto della forma. All’esperienza del brivido, però, abbiamo detto corrisponde una reazione di ordine mimetico, la reazione del brivido è una reazione di ordine mimetico. resta il fatto che sia per il brivido che per la mimesi c’è in primo piano il carattere non autonomo dell’opera, il suo carattere eteroreferenziale. La mimesi non è solo questo, è anche dare forma, costruire l’eterogeneo, quel momento compositivo della forma è sempre un’espressione ALTRA del carattere mimetico. La mimesi ha un doppio volto: è il momento recettivo della nostra vita mentale, ma insieme la capacità di dare forma all’eterogeneo, comporre immagini, ha un ruolo anche attivo in certi casi, oltre che recettivo. L’accento qui però è sulla mimesi come reazione al brivido, sul momento della non autonomia, Adorno sottolinea la connessione brivido-mimesi. la forma artistica astratta è animata dall’impulso a farsi uguale a ciò che è altro da sé, cioè con la vita alienata, reificata, mercificata. La mimesi, in connessione e al pari del brivido, appartiene alla non autonomia, ed è reazione all’astrattezza dell’opera, dunque anche la mimesi, connessa al brivido, è espressione di una forza che reagisce alla sua forza opposta: l’astrazione, il carattere autonomo dell’opera. Questa reazione è IMMANENTE, al gioco di forze dell’opera, questo contenuto è INCAPSULATO nell’opera.
  • Tema della mimèsi, dove questa nozione di mimèsi fa tutt’uno con quella di comportamento mimetico, tanto che adorno dice “modo mimetico di comportarsi”.
  • Rapporto fra razionalità e mimèsi, che vale non solo per l’arte, ma per il nostro rapporto con il mondo. Nell’arte va affrontato perché essa ha un momento razionale e uno mimetico, e i momenti sono connessi.

Nella modernità brivido e mimesi sono essenziali per l’opera d’arte, in particolare brivido e mimesi sono forze immanenti all’opera d’arte, forze che risultano incapsulate nella stessa chiusura criptica, astrattezza, dell’opera d’arte. Queste forze si attivano in risposta alla messa in esercizio della forza a loro opposta, cioè la chiusura criptica, l’astrattezza. Nell’opera il momento della non autonomia, piano cui appartengono brivido e mimesi, si attiva per reazione al momento dell’autonomia. Nell’idea di astrattezza sono annodate due istanze: il carattere autonomo dell’arte moderna, ma anche il carattere di enigma dell’opera d’arte. Altra nozione connessa all’idea di brivido: la mimesi.

Primo punto da evidenziare: adorno definisce la mimesi o il comportamento mimetico come l’impulso a farsi uguali a ciò che è altro da sé. Parlando di un comportamento mimetico ci riferiamo all’impulso di identificazione col non identico. Il “con” è essenziale, è con l’identico, non “del”, perché se fosse  ridurremmo il non identico a identico, lo categorizzeremmo. Se diciamo con questo non avviene.

La mimesi così concepita implica uno scuotimento del soggetto, il soggetto nella sua determinatezza si identifica col non identico, e in tal modo viene scosso, la mimesi implica questo scuotimento, implica una destrutturazione del soggetto. Il soggetto presuppone una determinatezza, che viene messa fuori gioco. La mimesi è una spinta all’immedesimazione nell’altro, nell’eterogeneo, la mimesi è messa in atto di un movimento in direzione dell’altro, del non identico, e allora parliamo di un modo di entrare in relazione con le cose dove l’accento viene posto sul dare precedenza, priorità all’altro, è un lasciare che sia proprio l’altro a indicarci il modo in cui deve essere considerato, è l’altro a dirci qual è il suo senso. la mimesi è il modo di abitare il mondo dove a funzionare è la logica auto significante del fenomeno, è lui che si dà senso, non siamo noi a categorizzarlo, è l’altro a indicarci il modo in cui essere considerato. Per adorno la mimesi esprime un primato dell’oggetto, del non identico, ciò che costitutivamente sfugge alla presa del concetto, alla categorizzazione. L’oggetto è il non identico, non è categorizzabile. La mimesi è inoltre connessa all’idea di somiglianza, l’atto dell’imitare è almeno sotto un certo profilo un atto che consiste nel rendersi simili all’altro da se, nell’imitare qualcosa o qualcuno, colui che imita in qualche modo diventa l’oggetto imitato, è infatti l’atto dell’imitare originariamente e anche etimologicamente connesso all’idea del mimare (mimesis, da mimo), cioè all’idea di un fare che consiste nel fare come qualcun altro, questo significa mimare. Il luogo originario della mimesis, tenendo conto di questa connessione con l’imitazione, è il corpo (mimare vuol dire imitare l’espressività del corpo i gesti ecc), in particolare la sua espressività. Secondo Coller la mimesi ha le sue radici nella pratica della danza, specie le antiche danze rituali, come quelle dionisiache: viene in primo piano l’espressività del corpo, viene in primo piano un senso incarnato dal corpo che viene poi messo in scena dall’espressività del corpo, è un senso che viene messo in atto. Tenendo conto alle danze dionisiache, si pensi alla maschera: la maschera è uno strumento mimeticamente intonato, e adorno dice che indossando la maschera, l’appartenente al clan si trasforma nell’animale totemico o nella divinità temuta, chi indossa la maschera diventa il soggetto rappresentato dalla maschera, qui c’è un carattere enormemente mimetico.

La mimesis è connessa all’idea di somiglianza, che può essere anche proprio l’imitazione, diventare qualcun altro. La somiglianza è implicita alla mimesis, ed è somiglianza fra due termini: un primo termine che deve essere mimato o imitato, e un secondo termine, che è il soggetto imitante. Il punto è che durante il processo mimetico ciò che conta è che il secondo termine diventi simile al primo, e non l’inverso, ciò che conta è che il soggetto imitante assomigli all’oggetto imitato, non il contrario, è un rapporto asimmetrico, c’è una distinzione di rango fra i due termini, che non stanno sullo stesso piano. L’altro viene prima, l’oggetto imitato ha la priorità. In questo senso la mimesi esprime un primato dell’oggetto, dell’eterogeneo, del fuori.

Altro motivo da considerare è che nel parlare di un comportamento mimetico stiamo alludendo a una forma di conoscenza, certo conoscenza sui generis, ha la peculiarità che quella espressa dalla mimesi è una conoscenza che è tale proprio perché è già l’altro di per sé a farsene incarnazione, e il nostro conoscere è proprio di seguire l’altro in quella direzione nella quale l’altro andrebbe comunque. Ciò che conosciamo dell’altro dunque è un conoscere qualcosa che già ci è stato in qualche modo svelato dall’altro, questa conoscenza mimetica è nella capacità che il soggetto ha di inquadrare il fenomeno in quella luce che riesce a svelare un senso che il fenomeno già ha, e che ci sta svelando. Se parliamo di un atteggiamento mimetico, a essere enfatizzato è il tenore passivo della aesthesis, della nostra sensibilità, la percezione è passiva, involontaria, è quello che adorno chiama il momento erotico della percezione. Il momento erotico della percezione è il momento mimetico, un momento involontario, a-intenzionale. Noi ci poniamo in ascolto di qualcosa che proviene dall’esterno, è l’altro a dirci come dev’essere considerato, ma il mostrarsi dell’altro sfugge alla nostra intenzionalità, è qualcosa che accade, noi possiamo renderci disponibili ma il mostrarsi dell’altro accade indipendentemente dalla nostra volontà. È questo uno dei possibili volti assunti dalla mimesi, un’idea di mimesi che è in gioco se consideriamo il lato passivo della percezione, la sua disposizione al fuori che trascende ogni intenzionalità, ogni forma di controllo sul fuori.

La mimesi però include anche l’idea di un poiein, di un fare, costruire, produrre un mondo di immagini, rappresentazioni, e in questo caso è accentuato invece il tenore attivamente configurante del processo mimetico, non il lato passivo della vita mentale, ma quello attivo, la componente produttiva, il momento costruente. Ma i due momenti sono inseparabili, possono essere distinti ma non separati: c’è una mimesi che significa dipendenza dall’altro e identificazione con esso, ma anche una mimesi che vuol dire creazione, produzione di forme.

 Che l’opera d’arte ha carattere mimetico vuol dire che riesce a aderire al non identico, riesce ad accogliere il non identico, l’eterogeneo, l’altro dall’arte. Sotto questo profilo il carattere mimetico dell’opera consiste nell’impulso a lasciarsi permeare dal non identico, ad assorbirlo. L’opera, quindi, è tanto più mimetica quanto più il non identico lascia le sue tracce nella forma dell’opera, nella configurazione sensibile dell’opera. La forma risponde al carattere costruttivo dell’opera, il contrario della mimesi sotto tale profilo. A tal proposito adorno scrive che gli antagonismi, le dissonanze della realtà lasciano le loro impronte nella forma dell’opera, proprio a motivo del tenore mimetico della forma, che è quindi insieme COSTRUZIONE e MIMESI. L’opera è carica e lo porta a manifestazione.

Rapporto razionalità-mimesi pag 29, 7 righe dalla fine

Razionalità fa tutt’uno con l’idea di forma qui: il momento razionale dell’opera coincide con la sua struttura formale, nell’opera dare forma è per eccellenza un atto razionale, è unificazione, dare forma al molteplice empirico.

Parlando di mimesi adorno sta alludendo a qualcosa di più generale, al di là dell’opera d’arte. Per adorno una ragione senza mimesi, cioè che non si coniuga con essa, è una ragione che nega se stessa, non è più ragione ma irrazionale. La ragione non può rimuovere la mimesi. L’irrazionalità della ragione, che è ovviamente la ragione strumentale, consiste nel negare la sua connessione col non identico, con l’empirico. la ragione strumentale assolutizza l’identico, e vede nell’altro solo l’oggetto di una categorizzazione del non identico. La ragione strumentale cerca di superare il brivido, cerca di assoggettarlo, è una ragione che ha di mira l’esercizio di un controllo totalizzante sulla realtà. “togliere agli uomini la paura e renderli padroni” (incipit di dialettica negativa), dove la paura è paura del brivido. La logica espressa dalla ragione strumentale è una logica del dominio, una logica appropriativa, il punto però è che a rendere possibile questo dominio, idealmente assoluto, è una scissione: quella fra sensibile e intellegibile, forma e materia, apparenza e essenza. La ragione strumentale nasce così. Ma allora è la ragione strumentale che tende a negare l’idea di mimesi, cioè quell’impulso a farsi uguali al non identico. La ragione strumentale la nega perché la ragione strumentale tende a un’identificazione del non identico, non con, la ragione vuole categorizzare il non identico. L’identificazione con il non identico è un tratto essenziale della nostra vita percettiva, la percezione del più, dell’essenza, implica in primis una reazione mimetica. Se il brivido è l’urto con l’in sé, a quel brivido il soggetto risponde con una messa in atto del processo mimetico, certo involontario, che si realizza con la messa in immagine della stessa fuggevolezza del fenomeno, è una finzione mimetica secondo la quale la nostra vita mentale diventa immagine di quella fuggevolezza, e questo è costitutivo della nostra vita percettiva. La ragione strumentale si presenta come una ragione che quindi non si prende cura della sua genesi, del suo sorgere dal brivido e in quanto risposta a esso, è una ragione immemore, che non vuole ricordare il suo rapporto col non identico, è una ragione che sorge da una scissione (sensibile/intellegibile), ma ripudia quella scissione che la origina. La ragione strumentale non è l’unica ragione, adorno parla anche di ragione critica, una ragione comprendente, non esplicativa. Se la ragione strumentale è immemore, quella critica è rammemorante, si prende cura della sua genesi, è una ragione continuamente animata dal desiderio di rendere giustizia al sensibile, è una ragione quindi che vive e si nutre di mimesi, sa di dover trovare sempre di nuovo nella mimesi il suo correttivo, il rimedio da opporre di continuo al trionfo dell’identico, cioè all’affermazione della ragione strumentale come unica valida.

Adorno afferma che solo nel nuovo si coniuga nella razionalità senza riacutizzarsi. Nella cultura tradizionale pre moderna la ragione si opponeva al mimetico, la ragione strumentale vedeva il mimetico come antitetico alla ragione, la mimesi è vista come trionfo della natura, che qui è intesa come altro della cultura, della ragione.

Agli occhi della ragione critica invece la mimesi non si oppone, perché la ragione critica sa che l’apertura al mimetico è qualcosa di irrinunciabile, e lo è proprio in difesa di una ragione che sia umanamente degna, non indifferente al desiderio di felicità dell’uomo. La ragione critica conosce la sua relazione irrinunciabile col mimetico, e proprio per questo essa sa che la valorizzazione del mimetico non si traduce in una sua assolutizzazione, cioè non si traduce in una “riacutizzazione” del mimetico. Un mimetico riacutizzato sarebbe un mimetico assolutizzato, espressione di un annullamento del soggetto nell’oggetto. La ragione per adorno deve coniugarsi col mimetico, ed è cioè chiamata ogni volta a mettersi in discussione e discutere la sua assolutezza, e nella modernità viene proprio in primo piano l’idea di una ragione così fatta. La ragione deve pensare contro se stessa per impedire l’avanzamento della barbarie. La sua comprensione nel mondo è tanto più autentica quanto più riconosce il primato dell’oggetto, del non identico, cioè riconoscere la sua forza auto significante.

In Dialettica negativa Adorno parla del mimetico, e ne parla descrivendolo come una capacità di differenziare: differenziare, cioè capacità che il vivente dovrebbe avere di distinguere nel fenomeno anche il dettaglio più insignificante, e tutto ciò che sfugge alla presa del concetto. Differenziare vuol dire saper esperire l’oggetto secondo la modalità che riesce a cogliere il senso espresso dal solo mostrarsi delle cose, dei fenomeni. A essere in gioco è una conoscenza che assume la forma di un’affinità elettiva tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, è una conoscenza al di là di ogni dualismo gnoseologico, perché in tal caso la conoscenza che il soggetto può avere dell’oggetto consiste nel suo entrare in comunione con esso, dove comunione indica una relazione COLLUSIVA, dove la collusività è espressione di un rapporto di gioco, di un’interazione nella quale soggetto e oggetto giocano insieme, interagiscono. Chiaramente la conoscenza esprime un adattamento del soggetto all’oggetto, e non quello di conformare a sé la cosa. Nella mimesi il criterio di conoscere è diverso da quello scientifico, logico esplicativo.

Vico parla non di un piegare a sé le cose, ma piegarsi alle cose -> valorizzare il dettaglio, l’unicità delle cose.

A essere irrazionale è una ragione che nega la differenza, non è capace di vedere l’unicità di ogni fenomeno.

La facoltà mimetica coincide con la facoltà qualitativa, dove la qualità è l’unicità delle cose, il loro mostrarsi come non ripetibili. L’arte moderna sa che la sua razionalità fa tutt’uno con la sua capacità mimetica, essa sa che costruisce un mondo di immagini in cui è l’altro e la sua fuggevolezza a farsi oggetto della forma. La forma artistica è quindi il condensato di un’infinità molteplicità di impulsi mimetici, che abitano la struttura formale dell’opera, in questo senso la forma è contenuto sedimentato, sedimentazione di quegli impulsi mimetici. La conoscenza espressa dall’arte moderna trae il suo impulso da ciò che è altro dall’arte, dalla vita, in particolare dal carattere alienato e reificato della vita moderna. L’opera è animata dall’impulso ad assecondare l’oggetto, in questo caso il carattere alienato e reificato della vita moderna, in questo senso asseconda l’oggetto: il carattere alienato e reificato della vita moderna. Il modo mimetico di comportarsi è la misura in cui il soggetto, l’opera d’arte, lascia che l’altro imprima la traccia del suo in sé all’interno stesso dell’identico, che in questo caso è la forma dell’opera. La forma è un identico che si fa permeare, intridere dal non identico.

Brivido -> abbiamo visto che adorno parla di Rimbaud, la cui opera per adorno è esemplare. Rimbaud dice, nelle due lettere del Veggente 1871: “io è un altro”, e poi scrive “è falso dire: io penso, si dovrebbe piuttosto dire “mi si pensa”. Nella costruzione poetica il vero soggetto non è il soggetto empirico psicologico, il soggetto che parla. Nel dire ciò che dice, il poeta è parlato, è agito, e in Rimbaud a parlare e agire è una voce anonima, impersonale. Adorno in teoria estetica parla di una “voce collettiva”. Anche quando il soggetto dice io, a parlare non è quell’io ma una voce anonima, impersonale, collettiva. A parlare è una stratificazione di voci, voci che provengono dal basso, e il luogo dove questa stratificazione ha le sue radici è l’immemoriale, qualcosa che non può essere né tutto ricordato né dimenticato. L’immemoriale è la profondità opaca dell’opera d’arte, mai del tutto spiegabile, un’antichità più antica dell’antichità, perché non appartiene alla linearità dell’opera. A parlare nell’opera è un’estraneità, Rimbaud la chiama Anima universale, che sì è espressione di una trascendenza che trascende ogni determinatezza, ma è una trascendenza vuota.

  • L’opera è espressione di una desoggettivazione dell’io, io è un altro, che insieme è una sua pluralizzazione, l’io si moltiplica in una molteplicità di voci he si stratifica e ha le radici nell’immemoriale.
  • Astrattezza: in Rimbaud la rappresentazione assume un carattere sempre più astratto, perché ha un modo di rappresentare la realtà in cui le cose vengono liberate dalla loro oggettualità, vengono de realizzate. In Rimbaud si traduce nella costruzione di un mondo di immagini che assume un carattere quasi geometrico, e avviene in uno scenario dove la freddezza del puramente geometrico, che si trova nella sua lirica, si coniuga sempre con la leggerezza dell’inafferrabile. Ugo Friedirich ha parlato di una “magica freddezza”, quella di Rimbaud è una de realizzazione del reale in cui la freddezza del puramente geometrico acquista la forza evocativa della magia. Friedirich scrive che “il mondo reale si scinde per imposizione di un soggetto che non vuole ricevere i suoi contenuti, ma li vuole creare da sé”, e a essere creatore è un soggetto DESOGGETTIVATO, un soggetto che si moltiplica in una pluralità di voci, quel soggetto che crea o reinventa il mondo è la stessa opera d’arte, la stessa forma artistica: è la lirica poetica di Rimbaud a essere quell’io, non l’io Rimbaud, che “è un altro”. in Rimbaud, sempre in Friedrich, il risultato è una rappresentazione che si qualifica per la sua irrealtà sensibile, e in questa de realizzazione del reale si riesce a tradurre in immagine proprio quella de realizzazione. In tale scenario accade che gli opposti si fondono. Rimbaud ha anche la tendenza a dissolvere il tutto in una parte, se a essere evocato è il mare si parla di schiuma, non di mare. Tutto viene disarticolato nelle sue parti, l’unità si scinde nella molteplicità. Tutto questo è reso possibile da una composizione di un regno di immagini che ha una sua legalità interna, un suo principio interno di strutturazione, tutto in Rimbaud è sottoposto alla legge della forma, una legge che la forma artistica si è data da sola non l’ha tratta dal mondo esterno. Anche quando parla della perdita dell’io, Rimbaud parla di un lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi. Rimbaud vuole essere poeta e lavora per esserlo, è uno sregolamento consapevole, il disordine è risultato di una costruzione consapevole, ricercata: la costruzione è sempre congiunta a quella della mimesi. La realtà viene frantumata, ma consapevolmente.

C’è un rapporto di reciprocità tra astrattezza e carattere di merce -> proprio in considerazione di questo accoppiamento tra le due cose nell’opera d’arte, l’arte moderna assume il tono della sventura, cioè la sventura diventa la tonalità dominante dell’arte moderna, tonalità affettivamente e emotivamente dominante, e proprio qui adorno parla ancora di Baudelaire: adorno sta esplicitando uno dei motivi sulla base dei quali possiamo dire che l’opera di Baudelaire apre la modernità. Questa motivazione alla base di tale affermazione, o almeno una di esse, è che nell’opera di Baudelaire, cioè nella sua stessa configurazione sensibile, forma, possiamo cogliere una riflessione in atto sull’idea di modernità.

  • Teoreticamente vuol dire riflessivamente. In Baudelaire la riflessione teoretica o riflessiva si articola, cioè quella riflessività conosce un dispiegamento, una strutturazione, ecco in che senso si articola Noi possiamo leggere quel dispiegamento nella stessa forma artistica costruita da Baudelaire. Parliamo di una riflessività che risulta immanente alla stessa forma dell’opera, la quale in Baudelaire si offre a noi come un condensato di riflessività, o riflessione. Quest’aspetto è importante anche perché in teoria estetica adorno parla di una particolare forma di riflessione: riflessione seconda (pag 38). La riflessione seconda è una riflessione non esplicita, che viene montata insieme alla forma. Si parla di una riflessione che non viene esplicitata in termini logico discorsivi, proposizionali, è una riflessione che noi cogliamo a livello di forma. Una forma carica di riflessione si presenta come un linguaggio che si oscura, che tende al silenzio, che mira alla cecità. È una riflessione che possiamo cogliere quando l’opera manifesta la sua tendenza ad ammutolire, e in Beckett emerge in modo esemplare. Anche in Kafka emerge questo tipo di forma. Nel saggio che dedica a Kafka, adorno scrive che nel “processo” di Kafka, il fatto che le dita di Leni siano riunite da una membrana, si presenti come una figura primordiale, così come il fatto che i carnefici abbiano l’aspetto di tenori, tutto questo è più importante degli excursus sulla legge, cioè quando troviamo riflessioni esplicite, ma adorno dice che è più importante la presentazione sensibile di quelle figure, piuttosto che gli excursus, dunque le riflessioni esplicite. La capacità di parlare del mondo di Kafka viene a manifestazione con la massima intensità proprio quando la riflessione non viene esplicitata.

Motivo essenziale in adorno: connessione fra questa riflessività implicita e quel tono di sventura che connota l’arte moderna. Adorno ci sta dicendo proprio che il carattere riflessivo dell’arte moderna è qualcosa che imprime il tono della sventura, che è il sentimento della catastrofe, cioè il dolore per la perdita del senso. c’è fratellanza tra modernità e morte, dove la morte è la morte del senso.

4 termini: morte (del senso), sventura, negatività, dolore (per la perdita del senso: l’uomo moderno ha perduto qualcosa).

Alla base del tono di sventura che l’arte moderna esprime c’è la consapevolezza di poter identificare forma e vita, ideale e reale, possibile e effettivamente esistente. Tutto ciò in Baudelaire è rappresentato in modo tematico, ma in Baudelaire il dolore evocato da adorno è in particolare il dolore per il declino dell’aura, ciò che Benjamin chiama “il sentimento della catastrofe permanente”. A declinare in Baudelaire è il declino sì dell’aura, ma di un’aura duplice: declinano contemporaneamente 2 accezioni di aura, da una parte un’aura concepita come fondamento eterno e immutabile della realtà, a declinare è dunque un’aura da intendersi come espressione di un senso già dato una volta per tutta, è qui che si esprime la caduta degli eterni con la nozione di aura così intesa. Se l’aura la intendiamo così, come fondamento, il senso dell’opera è la sua fissità, il suo darsi come oggetto, il suo avere un HIC ET NUNC, non solo, ma quella fissità della consistenza oggettuale dell’opera è associata a un’idea del valore dell’opera che permane in modo identico a se stesso nell’opera, e questo è dato dal fatto che l’opera è determinata in una certa tradizione, l’aura è espressione della fissità di un senso storicamente determinato, che pretende di essere eterna, metastorico, l’aura è fissazione di qualcosa di storico che pretende di essere atemporale. L’aura ha anche un’altra accezione: è il più del fenomeno. Proprio in teoria estetica (pag 61), adorno dice che non è solo l’ora e qui dell’opera la sua aura, ma tutto quello che in ciò, nella determinatezza dell’opera, rimanda al di là della propria datità, il suo contenuto. L’aura è quindi espressione di una lontananza che appare ma che è inaccessibile, l’aura è l’essenzialmente lontano, l’inaccessibile e irrappresentabile. Parlando di una doppia caduta dell’aura con riferimento a Baudelaire, parliamo di un declino duplice, ed è chiaro che al declino della prima nozione di aura, corrisponde un esito che non è regressivo: se caduta un’aura come autorità della tradizione e fissità del senso, questa caduta è per l’uomo possibilità di liberazione, emancipazione, è il senso che torna a fluire. Se a cadere è l’altra, la caduta assume invece significato regressivo, perché se cade si annulla quella profondità di senso che costituisce l’altro del dato, la dimensione del possibile, la capacità che l’arte ha di farsi espressione sensibile della trascendibilità dell’esistente.

Importanza di 4 termini: sventura, morte, negatività, dolore. Qui questi termini, in qualche modo dicono la stessa cosa: adorno scrive che il nuovo è fratello della morte, morte intesa come morte del senso, così come il dolore è dolore per la perdita del senso. in Baudelaire troviamo proprio questo, infatti, quel tono di sventura che caratterizza la sua arte indica il dolore per la perdita dell’aura, come dice Benjamin sentimento della catastrofe permanente. L’arte di Baudelaire esprime il dolore per la perdita dell’aura, dove a cadere è un’aura duplice: da una parte l’aura esprime un senso che si impone per la sua necessità, per il suo carattere eterno, immutabile (l’aura significa anche questo) ed è specie a quest’idea di senso cui Benjamin allude parlando dell’hic et nunc dell’opera, associando questa nazione di hic et nunc al valore cultuale, di culto, di ritualità nel senso più ampio, quando il rito si fa espressione di un fondamento immutabile. Se a declinare è questa idea di declino dell’aura al declino dell’aura non corrisponde una regressione, anzi se declina questa nozione di aura l’uomo si libera, nuove possibilità di senso, l’uomo si emancipa. D’altra parte con aura Benjamin indica l’appropriazione di una lontananza inappropriabile, per quanto appaia vicina. In questo caso l’aura esprime il più del fenomeno, la sterminata ricchezza del fenomeno, del sensibile che è carico di tale inesauribile profondità di senso. se a cadere è questa idea di aura c’è regressione, perché tale declino esprime almeno una tendenziale eliminazione della profondità di senso del sensibile, e cioè l’altro del dato, è la dimensione del possibile. L’opera di Baudelaire ci parla di una caduta del senso, da intendersi contemporaneamente come caduta degli immutabili e degli eterni da una parte, e tendenza a neutralizzare il più del fenomeno dall’altra. Se a declinare è l’aura nel suo secondo significato, se il dato quindi perde la sua profondità di senso, resta solo la sua superficie, datità, il risultato di questa perdita è una assolutizzazione del dato, della superficie. A profilarsi è uno scenario in cui l’apparenza fenomenica delle cose tende a escludere ogni eccedenza, ogni possibilità di trascendere l’esistente, è un’apparenza senza apparizione, cioè superficie senza profondità. Il luogo del senso diventa solo quella datità, nessun rimando a un oltre, a un trascendimento. Ma nella modernità accade questo, la modernità è segnata da quella particolare articolazione della logica strumentale, che è la logica della merce che trionfa nella modernità, e anche in questo caso è una logica identitaria, dove l’unico senso è il valore di scambio delle cose. Ma un mondo pensato solo in funzione della logica strumentale dello scambio, la logica mercantile, è un mondo di fatto insensato: l’unico senso possibile viene a essere non senso, negazione del senso. quel senso fa tutt’uno con l’idea di morte, anche in questo senso nuovo e morte sono fratelli, perché si impone un senso che è non senso, c’è alienazione, disumanizzazione dell’uomo. Abbiamo la morte non solo del senso, ma anche del propriamente umano.

In un mondo dominato dalla logica della merce troviamo la tendenza a rimuovere la qualità, il concreto, l’individualità delle cose che è anche la loro enigmaticità, la loro irrappresentabilità, e questo a esclusivo vantaggio di quell’astrazione che è il valore di scambio, che è valore quantitativo non qualitativo, è misurabile e calcolabile, ma nell’epoca del capitalismo avanzato in cui vive Baudelaire, è proprio il valore di scambio a subire un processo di feticizzazione, viene assolutizzato dunque diventa feticcio. Il valore di scambio delle cose, il continuo d-m-d diviene feticcio, un idolo che vuole solo essere adorato perché quello è l’unico senso. e la venerazione di quell’idolo lo perpetua, e perpetua quella logica di merce. Eterno ritorno dell’uguale: quella logica si ripete infinitamente, secondo una necessità che sembra incontrovertibile. Alla mercificazione della realtà corrisponde una feticizzazione dell’apparenza, assolutizzazione del dato, idolatria dell’apparenza. Viene eliminato ogni altro senso. il dato, il fenomeno, esclude ogni rinvio a un oltre, e qui parliamo di idolatria dell’apparenza. All’idea tradizionale degli eterni in termini metafisici (vero, bello, bene), la modernità sostituisce un altro immutabile, e questa differente dea è proprio l’idea di merce, cioè la merce si pone come un surrogato dell’aura ormai infranta, la merce è nuovo fondamento, nuova espressione dell’immutabile. Merce come qualcosa di “sensibilmente sovrasensibile”, un feticcio. A caratterizzare questa logica è il suo carattere estraniante, un carattere insieme alienante e reificante.

Nel parlare di una identificazione CON la negatività si sta riferendo al momento mimetico dell’opera di Baudelaire, cioè il suo carattere di fatto sociale, che implica la messa in esercizio di un comportamento mimetico. L’opera di Baudelaire è animata dall’impulso a farsi uguale all’altro da sé, alla vita alienata cioè. L’opera di Baudelaire si fa uguale alla merce, almeno in parte, è un’arte che in modo consapevole esibisce il suo carattere di merce, e non è un caso che Baudelire dica che “l’arte è prostituzione”, l’arte esige la compromissione con l’esistente, l’arte interiorizza l’idea di merce, l’arte deve essere disponibile a farsi contaminare da ciò che le è estraneo, è finita l’epoca di un’arte pura, chiusa in sé e che celebra la propria autoreferenzialità. L’arte moderna è impura, e sa di doversi contagiare con l’esistente. La contaminazione è una necessità, sia etica che estetica. È un dover essere, un compito, e insieme qualcosa cui l’arte deve dare forma sensibilmente. È la necessità di un’arte che sappia tradurre in immagine l’idea di una politica cultura responsabile del proprio tempo, del presente. Quella che si pone a fondamento della lirica, paradossalmente, è ancora una musa, proprio come in Omero e Esiodo. Il fatto che alla base della lirica moderna di Baudelaire ci sia una musa vuol dire che ci sia ancora necessità di trascendere l’esistente, perché la musa incarna proprio questa idea di una trascendenza dell’esistente. Non a caso tutte le muse sono figlie della Memoria, di Memosùne, perché l’arte è rammemorante. Nel parlare di una poesia musaicamente ispirata noi stiamo parlando con Baudelaire di una poesia che trova non in sé, ma FUORI DI SE il suo principio fondativo, un principio che trascende l’esistente. “cantami o diva del peleideachille l’ira funesta” -> a parlare non è l’aedo, ma a parlare è attraverso l’aedo, la musa, cioè è una voce altra, esterna, impersonale. Adorno parla di quella stratificazione di voci, rimbaud dice “io è un altro”, la musa esprime proprio questo, esprime che a parlare attraverso l’io del poeta non è il poeta, ma questa stratificazione di voci, qualcosa di inappropriabile, l’altro del dio, dunque l’altro di quel dato che è l’io. Non un io, ma un noi, un qualcosa che però non va scambiato per una somma di tanti io, è un noi, una voce strutturalmente impersonale.

L’arte di Baudelaire è musaicamente ispirata, la musa ricorre nei Fiori del male esplicitamente, e dà il titolo a due liriche: “la musa malata” e “la musa venale”

La musa è malata, sofferente, l’arte è rammemorazione delle sofferenze. La musa è malata, è espressione di quel dolore sociale di cui si fa rappresentazione

La musa venale rappresenta una musa che si è trasformata paradossalmente in prostituta, e quella prostituta ogni sera “deve guadagnarsi il pane”, l’arte è inscritta nel mercato. L’immagine classica della musa diventa una prostituta che lungo le strade della città agita la sua borsetta in cerca di clienti. Il gesto della musa è assimilato al gesto del chirichetto che agita l’incenso (immagine di una ritualità). Quello che troviamo è una rappresentazione dove sacro e profano cortocircuitano, ed è un cortocircuito enigmatico: dove finisce l’uno e dove inizia l’altro? L’uno è nell’altro e viceversa, c’è un enigma indecifrabile. La poesia è ancora trascendimento dell’esistente, è una trascendenza che però viene riconfigurata come un’istanza che può palpitare solo dal basso, solo a partire dalla degenerazione della vita moderna. Ciò che risuona, attraverso la voce della musa, ancora sacra, è lo squallore di una vita resa estranea a sé, una vita alienata, ed è a tale vita che la poesia di Baudelaire vuole restituire voce.

Nella raccolta Spleen di Parigi, c’è un testo programmatico della poetica baudelariana, nella dedica a Arsène Houssaye dice che il compito assegnato al poeta è quello di “tradurre in una canzone il grido stridente del vetraio” tradurre in una canzone -> dare forma all’informe, che in tal caso è il grido stridente del vetraio, che rappresenta la vita moderna, la vita urbana, metropolitana, cui la sua poesia deve restituire voce, rendere giustizia alle cose.

Ora l’arte sa di doversi concepire come una pratica che è in relazione con tratti salienti della vita moderna, non ne può prescindere, deve sempre e di nuovo aprirsi al confronto con il mercato. La Parigi è quella di napoleone III, se l’arte rinunciasse a questa relazione con l’altro da sé e si chiudesse nella sua autonomia, allora il risultato sarebbe una conferma dell’esistente, ciò che vuole la ragione strumentale, che vuole un’arte chiusa in sé, che funga solo da consolazione.

Adorno parla di un atteggiamento reazionario, l’arte deve vendersi all’avversario, farsi contaminare (pag 30) ma proprio nel suo vendersi l’arte RIMANE PADRONA di sé. Che l’arte debba vendersi vuol dire che l’arte deve essere in grado di combattere l’avversario CON LE SUE STESSE ARMI. È un’arte che deve introiettare la merce, incorporare la stessa FORZA dell’avversario, proprio avendo di mira la messa in questione dell’avversario. Se la forza dell’avversario deve essere incorporata dall’arte, è solo perché questa possa usarla contro il suo avversario. In una raccolta di frammenti, “parco centrale”, Benjamin afferma che Baudelaire è stato l’impresario di se stesso, ha saputo pensare e strutturare la sua opera in relazione all’esistente, cioè al mercato, cioè alle mutate condizioni di ricezione dell’arte, l’arte non può prescindere da una presa in carico di queste mutate condizioni di ricezione. A partire da tale consapevolezza l’arte moderna deve ricomprendere il proprio statuto, questo indica che in primis l’artista deve sentirsi incluso nei rapporti di forza dominanti nel mondo, cioè in quel sistema di rapporti di produzione che è ciò che governa il mondo. L’artista deve riconoscere la propria posizione rispetto al sistema, che vuol dire per esempio contestare il sistema, non aderire a esso, o al contrario appoggiarlo, l’aspetto fondamentale è però che l’artista deve riconoscersi anche all’interno stesso del sistema, non solo rispetto a esso. L’artista moderno deve saper misurare la sua azione artistica in relazione al grado di sviluppo raggiunto nel proprio tempo dalle diverse tecniche con le quali l’uomo del proprio tempo dà forma all’esperienza. Quelle tecniche hanno una caratteristica precisa: sono sempre intessute di storicità, son cariche di una profondità storica. Le tecniche che usa l’uomo sono sempre espressione dei rapporti di forza e quindi di produzione dominanti in una certa epoca. Quella dove Baudelaire vive è un’epoca di profonde trasformazioni, innanzitutto innovazioni tecniche, dove per tecniche si intendono i diversi modi con cui l’uomo dà forma all’esperienza. Quelle trasformazioni riguardano non solo i modi e le forme della produzione economica, ma anche i modi e le forme della PERCEZIONE. Per Benjamin la percezione dell’uomo è storicamente determinata, muta al mutare delle condizioni storiche e dunque anche delle condizioni tecniche. L’innovazione tecnica è sempre espressione di una PRASSI, una prassi AGITA DA RAPPORTI SOCIALI, che per di più sono contraddittori, la storia vive di questa conflittualità tra forme opposte. In ogni innovazione è sempre leggibile l’affermazione di una tendenza, di una linea piuttosto che un’altra. Qualcosa è considerato meglio appropriabile, preferibile, rispetto a qualcos’altro, c’è una scelta.

L’opera di Baudelaire è caratterizzata da una riflessività, relativa alla realtà, immanente alla sua stessa forma.

Essa riguarda 3 ordini di trasformazione della realtà:

la trasformazione delle forme di ricezione dell’arte (cos’è l’arte per l’abitatore della metropoli moderna), la trasformazione delle condizioni di percezione in generale dell’uomo moderno (cosa significa percepire per l’abitatore della metropoli moderna), la trasformazione delle condizioni di produzione (al cui mutare mutano le condizioni di percezione). Le condizioni di produzione mutano le condizioni di percezione, le quali mutano storicamente proprio in quanto influenzate dalle condizioni di produzione, dai mutamenti sociali.

nella parigi del 19 secolo le innovazioni tecniche riguardano o coinvolgono aspetti diversi della realtà, ad esempio il modo di produrre la merce (automatizzazione e meccanizzazione del lavoro), così come il modo di distribuire la merce, si pensi ai passage di cui parla Benjamin, innovazioni, sono corridoi che si aprono nello spazio urbano, caratterizzati dall’essere coperti di vetro, fatti di suffissi in ferro, e illuminati da luce a gas, tutti materiali appartenenti alla sfera industriale. A caratterizzare i passage è una volontà di estetizzazione del materiale industriale, in senso negativo, si occulta il loro essere fatti per lo scopo di vendere, e vengono invece fatti apparire come un qualcosa che ha valore estetico, si cerca di venderli come belli, piacevoli. Questi materiali indicano la possibilità di leggere la riarticolazione dello spazio urbano attorno a quelle due uniche polarità, uniche strutture fondanti che ora diventano industria e mercato, ci sono loro e non più agorà, templi. I passage sono luoghi deputati all’esposizione delle merci, sono un mondo in miniatura al servizio del commercio. Parlando di innovazioni tecniche bisogna pensare anche all’evoluzione dei passage nella storia. Essi li troviamo per la prima volta a Parigi intorno al 1820, ma a partire dagli anni 50 dell’800 cambiano, inizialmente erano dedicati a esposizione di beni di lussi per un elite, poi no: diventano esposizione di una merce sempre più standardizzata, e per un pubblico di massa, omologato in tutto: gusto, sensibilità. Sono il luogo in cui l’innovazione tecnica si rende visibile. Parlando di innovazione tecnica si pensa anche al modo di strutturare lo spazio urbano, basti pensare all’importanza del progetto di ristrutturazione di Parigi per Benjamin, progetto descritto da lui nei termini di una “abbellimento strategico della città”, aveva uno scopo preciso: impedire la formazione delle barricate, dunque moti insurrezionale, e favorire il commercio e la circolazione delle merci. Il progetto prevede infatti l’inclusione della città all’interno di un sistema di coordinate a carattere geometrico, parigi viene iscritta in una rete ortogonale, fatta di lunghissimi viali, torna dunque il modello prospettico della finestra albertiana. È un paesaggio di cui godere, per occultare tutte le dissonanze della realtà. Abbiamo la sublimazione del non senso in un senso meramente astratto, quello geometrico. Parlando di innovazioni tecniche si parla anche del modo di abitare lo spazio, si pensi al flaneur di cui parla Benjamin, che però è una figura resistenziale, che si oppone alla folla, alla massa compatta e omogenea caratterizzata dall’universalità del suo aspetto e dalla meccanicità del suo movimento, la massa è fatta di tutti uguali e dunque tutti sostituibili. In una massa del genere l’artista deve ricomprendere il suo ruolo e lo statuto della sua opera, e lo fa operando NEL MONDO, al suo interno, in quella logica, ma proprio in quanto operante lì deve porsi all’altezza del proprio tempo, cioè all’altezza delle sfide del proprio tempo. Baudelaire infatti sa di rivolgersi a un lettore che legge nell’arte un puro oggetto di consumo, un prodotto suscettibile di vendita, quel lettore ipocrita cui Baudelaire dice di essere fratello (identificazione col non identico), il lettore è ipocrita in primis perché mente a se stesso, in quanto non si interroga sui presupposti impliciti dell’esperienza, sulle condizioni del suo fare esperienza del mondo, ma è ipocrita anche in senso etimologico, è ipocrites, cioè attore, è attore inconsapevole, non cosciente del suo essere attore, del ruolo che è costretto a interpretare su quel teatro che è il mondo della metropoli moderna. Sempre per Benjamin, a caratterizzare Parigi è la trasformazione dell’idea di committenza. Prima essa era operata dall’élite aristocratico-borghese, e quell’élite ancora dava all’arte una funzione veritativa, conoscitiva, dava all’arte ancora una serie di valori universalmente validi (bello, vero) e il poeta era custode di tali valori, era considerato un Vate, aveva una funziona profetica, sacerdotale, oracolare.

nell’età del capitalismo avanzato invece l’élite sta dando la posizione di committente dell’arte al mercato in quanto tale, e cioè alla massa, quell’ipocrita lettore, un pubblico sempre più omologato, che non vede più nell’arte una funzione conoscitiva, quei valori di Bello, Vero, ma vede nell’arte solo un mondo fantastico, di sogno, suscettibile di acquisto e in cui il fruitore può rifugiarsi per sfuggire dalla vita moderna.

L’artista della vita moderna sa di dover costruire un’opera che si ponga come equivalente sensibile del carattere alienato della vita moderna, è di quel carattere che l’opera deve diventare l’immagine.

Nel passo che leggeremo a pag 430, parlando del momento mimetico: identificazione col non identico, adorno afferma che l’artista della vita moderna (Baudelaire) è quello che resta padrone di sé, ma perdendosi in ciò che è del tutto effimero: combattere il nemico con le sue stesse armi, l’arte si vende all’avversario restando padrone di sé, introietta la forza del nemico per usarla contro di lui. Nel passo, questo altro da sé dell’opera ha un nome preciso, LA MODA. La moda incarna l’effimero, la moda è l’oggetto merce nel suo apparire sulla scena della vita sociale come una potenza che seduce, che incanta e che costringe l’acquirente a desiderarla, a vedere in quell’oggetto il luogo del senso, senso che però si caratterizza per il suo carattere effimero, cioè radicalmente contingente, la moda è ciò che vale solo adesso, appare solo per dileguare, la parola moda ha inscritto in sé il suo rapporto con l’effimero.

Anche l’opera di Baudelaire deve esibire sensibilmente tratti o aspetti che sono qualitativamente simili alla moda, cioè all’oggetto merce, cioè al carattere mercificato della vita moderna. Nel sistema la merce sorprende in primis per la sua mobilità accelerata, e a caratterizzare la moda è proprio questa sua velocità, vale ora e poi no, pretende di valere come assoluta ma non può. La merce è mobile, ed essa viene prodotta per essere immessa in un mondo ove tutto è fluido, transitorio, la circolazione delle merci in quanto circolazione del denaro è proprio questa fluidità. Tutto circola incessantemente, e nel mondo moderno tutto è fluido, liquido e transitorio. “tutto ciò che è solido evapora”, tutto ciò che si riteneva tradizionalmente vincolante evapora. Questa circolazione procede sempre dal denaro al denaro, da quello investito a quello guadagnato dalla vendita, merce venduta per il consumo che a sua volta genera altro consumo e così via. Nel mondo governato dallo scambio, l’oggetto merce si presenta come qualcosa che chiede di essere solo desiderato, consumato, un consumo che si realizza in funzione della logica sottesa al sistema, cioè per perpetuare quella logica strumentale basata sulla circolazione, è questo l’eterno ritorno dell’identico. In un simile scenario che ne è del senso dell’ente, dell’empiricamente esistente? A determinare il senso dell’ente è la sua precomprensione come equivalente, è il suo valere solo come dotato di valore di scambio, e allora il suo senso è sempre il suo intendersi come equivalente a un altro ente. Ogni ente è la sua sfruttabilità in quanto oggetto inserito in una rete mobile di traffici, di scambi. Il fine assegnato alla mobilità della merce non è che l’incremento del denaro investito nella messa in esercizio della produzione. È il ritorno con un salto inattivo rispetto al punto di partenza, tutto ruota attorno al denaro. Se l’opera d’arte deve farsi mimesi di ciò, anch’essa deve presentare quei tratti di mobilità, fuggevolezza e transitorietà che sono propri della merce. Tutto ciò ha a che fare col movimento mimetico dell’opera d’arte, qui però  Adorno afferma che quell’identificazione è dotata di una virtù AUTO RIFLESSIVA: “che riflette se stessa”, l’opera riesce a dare forma a quell’identificazione, cioè non è una riproduzione passiva, LE DA FORMA. Nell’aderire al non senso della realtà, dunque nel suo identificarsi CON, l’opera di baudelaire se ne distanzia, rimane padrona di sé. Nella riproduzione dell’eterogeneo, della vita mercificata, l’opera le dà forma, lo trasfigura perché lo iscrive in uno scenario che ha una sua legalità autonoma, una sua interna normatività, un logos diverso rispetto a quello vigente nel mondo. Il dare forma è anche, sempre, un prendere distanza, un affermare differenza rispetto a ciò di cui la forma si dà forma.

Il satanismo che chiama in causa adorno, è proprio l’esibizione di quel doppio movimento dell’opera d’arte, cioè della capacità che l’opera di Baudelaire ha di tenere insieme prossimità e lontananza. Adorno sta sottolineando che l’arte di Baudelaire ha un principio che è diabolico, nel senso di dia ballein, cioè il separare. Una separazione, dualità, mai ricomponibile. Il satanismo di Baudelaire opera nella costruzione lirica di Baudelaire come un principio immanente di divisione, di lacerazione, e in tal senso ad avere l’aria del satanismo è proprio quel formento dialettico che anima l’opera di Baudelaire. E quel fermento a partire da Baudelaire animerà tutta l’arte moderna. Il motivo del satanismo è importante, in Baudelaire ha due significati: da una parte l’idea della divisione, della separazione, dall’altra l’idea della ribellione, satana è l’angelo ribelle.

Una lirica di fiori del male: “Abel e Caino”, che è contenuta nella sezione “Rivolta”, e in cui l’umanità è presentata come la discendenza di Caino, che ha ucciso Abel. La discendenza dell’uomo viene declinata da Baudelaire come l’eterna ripetizione che è la lotta fratricida, il conflitto fra fratelli, ciò che si ripete è però anche un altro schema, la divisione della società fra vittime e carnefici. La lirica si conclude con un invito alla ribellione, ribellione da parte di un’umanità oppressa nei confronti di un Dio che appare muto spettatore, e che deve venire scaraventato sulla terra. Quello rappresentato da Baudelaire è in particolare il mondo della metropoli moderna, dove l’unico senso sembra essere quello costruito dalla logica strumentale dello scambio, ma quel senso propriamente compreso si rivela negazione del senso, cioè non senso, perché a imporsi come unico senso è un ordine che implica la disumanizzazione dell’uomo, la sua estraniazione. Questa consapevolezza della perdita del senso è qualcosa a cui Baudelaire risponde con un’arte che anima una volontà di ribellione, è ciò che Sartre descrive come un “odio nei confronti del dato”, è un odio anche della natura, perché la natura è qualcosa di già dato, e in Baudelaire ciò che è dato viene condannato, in quanto non serve un’attività formativa, lui ha un impulso al trascendimento dell’esistente, c’è l’elogio dell’artificiale.

L’arte di Baudelaire, fa notare Benjamin, è nutrita di una COLLERA IMPOTENTE, e fa proprio della manifestazione di questa collera impotente, la propria potenza, la propria forza inesauribile. Baudelaire non è più il poeta vate che la comunità riconosce come depositario di valori considerati eterni e immutabili, e lo stesso Baudelaire che pure continua a rappresentarsi come appartenente a un’elite aristocratica, non può che riconoscere che ormai quest’elite la quale il poeta di diritto appartiene, è fatta di soggetti declassati.

Protesta e ribellione sono fondamentali in Baudelaire, ma tale ribellione nei confronti dell’esistente fa tutt’uno col momento mimetico dell’arte. È proprio questa dualità continua fra mimesi e distanziamento, fra vicinanza e lontananza, a costituire quell’aria del satanismo.

Il soggetto del benché è l’arte moderna.

L’identificazione da parte dell’opera con ciò contro cui l’opera stessa insorge.

La critica dell’esistente, nell’arte moderna, non può essere mai disgiunta da un comportamento mimetico. Se l’arte moderna può funzionare come negazione dell’esistente, è solo per la mimesi che esercita l’arte.

Nell’identificazione l’opera d’arte ci induce a leggere il non senso della realtà, ci dà da pensare. L’identificazione con il negativo fa tutt’uno con la testimonianza del negativo, dunque con l’esigenza di riflettere intorno al negativo.

“il dolore per il mondo passa al nemico…” il dolore per la perdita del senso si tramuta in una costruzione di un mondo di immagini, caratterizzato dal fatto che a essere rappresentato è lo stesso non senso del mondo. Che passi al nemico vuol dire che l’abiezione della vita moderna viene fatta immagine. È come se a parlare in Baudelaire fosse quello stesso nemico contro il quale insorge. La forma non è senso che si oppone al non senso del mondo, anzi, la forma è espressione sensibile di quel non senso del mondo.

“perciò l’imago della natura…” la natura è negativa perché dato, in baudelaire trionfa l’artificiale.

In questo passo la natura è concepita come l’altro della cultura, della società. La natura qui racchiude quegli aspetti che si oppongono a ciò che l’uomo nel mondo ha plasmato. La natura è l’altro della prassi sociale. In Baudelaire l’arte vieta a se stessa di essere rappresentazione della natura. Bisogna pensare a Dialettica dell’illuminismo. La natura non si fa più percepire come un’espressione di una forza creativa illimitata. Nella modernità la natura non può più essere pensata così, perché a dominare è la ragione strumentale. Alla base di quest’idea mutata di natura c’è la ragione illuministica, cioè strumentale, e dunque non è altro che l’oggetto di una possibile spiegazione in termini matematici, la natura è oggetto di dominio, non può più essere espressione di una illimitata forza creativa, è solo oggetto di spiegazioni matematiche. Nella modernità, fare dell’arte un luogo deputato alla rappresentazione di una natura concepita come illimitata forza creativa, come natura naturans, sarebbe una menzogna, perché ormai si è imposta un’idea di natura che esclude tutto ciò, e questo a causa del dominio della ragione strumentale. Se l’arte rappresentasse questa natura naturans cadrebbe in un sentimentalismo tardo romantico. Quella di Baudelaire è un’arte che sa di non dover più rappresentare la natura come natura naturans, ma sa che deve rappresentare la stessa vita moderna, e cioè in primis la vita urbana in quanto vita sociale, non la natura. Ecco perché in Baudelaire c’è il divieto di ridurre l’arte a rappresentazione di quest’idea di natura. Certo Baudelaire parla di natura, ma è una natura come allegoria, che attesta la caduta dell’idea di natura come physis, è qualcosa che attesta la sua caduta e che insieme ci fa sentire il bisogno per questa natura caduta.

Un’arte che riproduca la natura naturans, la physis, sarebbe falsa, anche per un altro motivo: con l’affermazione della ragione strumentale l’uomo è stato disumanizzato, denaturalizzato, ha perso la sua natura, l’idea di uomo ora imposta dalla ragione strumentale non ha più nulla di naturale, intesa come physis, intesa come la sua indeterminatezza, la sua singolarità e questo perché l’idea illuministica di uomo si costituisce come pura forma, l’io penso, qualcosa che appartiene all’ordine dell’universale, altro che la vitalità della natura: l’uomo non vale più come singolarità incarnata, ma solo come l’esempio della sua classe di appartenenza, come un particolare che fa parte di un universale più ampio.

L’uomo subisce un processo di denaturalizzazione, e la natura un processo di desocializzazione. In dialettica dell’illuminismo affermano che “se l’animismo vivifica le cose, l’illuminismo reifica le anime”

All’idea di una natura miticamente animata, vivificata dalla presenza di una spiritualità interna, l’illuminismo pone un’esigenza di matematizzazione, e questo coincide con una desocializzazione della natura, perché la natura non è più abitata da potenze, da spiriti, e al contempo tutto ciò che è natura dell’uomo deve essere trasfigurato nell’intellegibile, deve essere categorizzato, e in questa denaturalizzazione si perde proprio il propriamente umano.

Diversi temi, come la questione del rapporto autonomia- non autonomia nell’arte, poi la mimesi, poi la centralità della nozione di forma artistica, e in relazione alla forma il motivo della riflessione, specie la riflessione che adorno chiama “riflessione seconda”.

A essere evocato è anche il tema della funzione critica dell’arte, la “protesta”, che con riferimento a Baudelaire chiama in causa quel sentimento di ribellione, al quale l’opera di Baudelaire risulta improntata.

Rapporto opera di Baudelaire realtà a lui contemporanea, cioè quella del capitalismo avanzato, la società delle merci. Adorno ci dice che la poesia di Baudelaire ha avuto il merito di codificare per prima, di tradurre in immagine due aspetti chiave nell’orizzonte della modernità, entrambi riguardano la relazione arte moderna-società. Relazione che l’arte ha con la società delle merci, quindi con una realtà dominata dalla logica strumentale dello scambio, che è espressione di una logica identitaria, del dominio. L’opera di Baudelaire ha tradotto in immagine 2 aspetti: 1) la condizione di ignoranza che occorre ascrivere all’arte moderna 2) la sua condizione di impotenza. L’arte moderna è impotente, e per quanto riguarda ciò l’arte moderna sa di dover portare a rappresentazione la sua stessa impotenza a dire, a rappresentare. L’arte sa di trovare nell’idea stessa di fallimento un suo tratto costitutivo. Perché? Se il senso ha abbandonato il mondo e di esso non restano che frammenti, il compito dell’arte è esibire la sua stessa impotenza a ricomporre in unità l’infranto, la sua impotenza a dare forme alle cose, ai frammenti, al caos. Quella moderna è un’arte che sa di dover configurare al meglio la sua stessa impotenza a tradurre in immagine, il suo non potere, seppure tentando, di dire l’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile.

Meno chiaro è la condizione di ignoranza dell’arte moderna -> sembra paradossale, perché sappiamo che l’arte moderna è carica di riflessione, se infatti fosse irriflessa, ingenua, non sarebbe ciò che invece è. Se l’arte moderna è ciò che abbiamo detto, essa vive e si nutre di riflessione, che non può prescindere dall’elaborazione critica del suo stesso modo d’essere, d’operare, della realtà ecc. l’arte moderna custodisce un sapere, e sa di dover fallire e dare forma al suo stesso fallimento. Dicendo questo sappiamo che l’arte è dotata di un sapere, come fa a essere per Adorno ignorante? Adorno lo dice con un senso specifico relativo al verbo ignorare. L’arte ignora qualcosa o è priva di qualche sapere: a essere in gioco è un non sapere, un’ignoranza che ha per oggetto la situazione storica dell’arte moderna, il suo essere in relazione col mercato. Parliamo di un’ignoranza che ha per oggetto la stessa tendenza dell’arte alla mercificazione, è questa tendenza a essere oggetto dell’ignoranza. Quest’ignoranza significa che quella tendenza per l’arte moderna è oggetto di un non sapere, ma noi sappiamo anche che deve essere cosciente della sua relazione col mercato, cioè la sua mercificazione. Come fanno a stare insieme i due aspetti? Bisogna chiedersi DI QUALE SAPERE l’arte moderna è priva, e sa di esserne priva? Questo sapere che manca, e della cui mancanza l’arte è consapevole, è un sapere esplicitabile, cioè che può essere detto, tradotto in termini logico discorsivi: di questo sapere l’arte moderna è priva, e questo lo sa, e lo sa a partire da Baudelaire e dal suo modo di tradurre in immagine la relazione arte-società. L’arte moderna non ha un sapere che può essere esplicitato col linguaggio proposizionale.

A pag 167 adorno arriva a dire che solo astenendosi dal giudizio le opere d’arte giudicano, questo vuol dire che il dire dell’opera non sta nel fare definizioni sulla realtà, cioè non si basa sullo schema logico discorsivo, non dice: “le cose stanno così”. L’opera d’arte non trasmette messaggi, non veicola contenuti a carattere informativo e comunicativo. Nelle opere d’arte anche la copula “è”, è la copia mutata qualitativamente fino alla negazione del suo essere copula di un giudizio di esistenza (cioè x è, x esiste). Se e quando l’opera d’arte dice x è, cioè laddove sembra pronunciare un giudizio di esistenza, ciò che sta dicendo non è davvero quello, quel giudizio non va considerato davvero tale, non può essere letta come un’asserzione fatta dall’arte attorno a un presunto fatto, ente esistente, e lo stesso vale per qualsiasi giudizio apparentemente formulato, tipo x è y, cioè quelli che attribuiscono un predicato al soggetto. Il punto è che l’opera anche quando sembra ripetere le strutture del linguaggio proposizionale, in realtà esprime una logica altra, una logica differente rispetto a quella incarnata dalla logica classica, cioè dalla logica aristotelica dell’enunciato. Quella dell’arte è una logica pseudo predicativa o para propositiva, dove il para esprime una vicinanza ma anche un contrasto rispetto al linguaggio tradizionale.

il sapere non può mai essere davvero esplicitato. Capire l’opera è capire la loro incapibilità, non si possono comprendere. Ma questa non è una rinuncia al comprendere, anzi è espressione di una necessità di un continuo urto del fruitore con l’enigma dell’opera d’arte, cioè con quell’ambivalenza di determinato e indeterminato. Risolvere l’enigma è dare la ragione della sua non risolubilità.

Mercato eteronomo dominato da una logica altra rispetto a quella dell’arte. Ne giunge al di là perché supera il vigente, la logica dominante, alla sola condizione di:

“solo portando l’imagerie di esso alla propria autonomia” autonomia dell’opera d’arte fa tutt’uno con la forma, solo avendo forma si connota per la sua autonomia, cioè per il suo carattere autoreferenziale, l’opera d’arte ha in sé la ragione di sé. La forma rende possibile la distinzione fra l’opera d’arte e la realtà, cioè il mondo delle res che popolano il mondo empirico. l’opera è una res, ma dotata di forma. Parliamo di una res che almeno in parte, cioè perché ha una forma, nega o contraddice il suo essere res, perché è una res formata. La res è ciò che popola l’empiricamente esistente, l’opera è una res DIFFERENTE perché ha forma.

Imagerie del mercato. il modo in cui il mercato, cioè l’esistente, costruisce storicamente la propria immagine. È l’autorappresentazione che il mercato dà di sé, quell’insieme di pratiche, narrazioni, rappresentazioni attraverso i quali la logica strumentale edifica e promuove l’ordine vigente nel mondo, il modo in cui quel mondo si auto rappresenta, e nel farlo si legittima e si celebra. Qui adorno si interroga sulla funzione che l’arte moderna ha di interrogare l’esistente e metterlo in questione.

La funzione critica però ha anche la capacità di andare al di là dell’esistente, ha una forza di trascendimento che la fa giungere oltre, con quello che chiama “funzione utopica dell’arte”, la sua capacità di far emergere nel dato, l’altro del dato, cioè il possibile. Mette in questione l’esistente, e ha capacità di trascendere, aprire al possibile che nella storia la ragione strumentale ha soffocato, non ha fatto realizzare, sono le possibilità inespresse. L’arte è testimonianza del fatto che quello esistente non è né l’unico né il più giusto dei mondi possibili, apre al possibile, alla possibilità di altri mondi. Proprio nell’esibire la non incontrovertibilità dell’esistente, annuncia il suo poter essere trasformato. Adorno ora si sta chiedendo a che condizioni è possibile, a che condizioni l’arte di Baudelaire giunge al di là del mercato?

Prima condizione è che l’arte neghi l’esistente, negazione che per adorno è particolarissima: può esercitarsi solo per azione della stessa forma dell’opera, è una negazione alla quale l’opera dà corso solo a motivo del lavoro che viene svolto dalla forma. Con riferimento alla negazione, adorno parla di “negazione determinata”, l’arte è una negazione determinata dell’esistente, configurata, cioè quella negazione si realizza proprio attraverso e grazie alla forma, per il tramite della forma.

Imagerie della propria autonomia a permettere di negare l’esistente è la capacità dell’opera d’arte di introiettare nella sua stessa struttura formale, la grammatica dominante nel mondo a opera della logica dominante. Il modo in cui la logica dominante afferma se stessa nel mondo, viene introiettata dall’opera d’arte. Interiorizzare la forza dell’avversario per usarla contro di lui.

Imagerie  modo in cui si autorappresenta il mercato, si legittima.

Quest’introiezione ovviamente rimanda alla mimesi, al carattere mimetico dell’arte moderna, alla sua capacità di farsi mimesi del carattere alienato della vita moderna.

A renderla arte è proprio il suo essere mimesi dell’irrigidito e dell’estraniato, nella dimensione moderna l’arte può essere solo ciò.

Irrigidito e estraniato esprimano il cadere dell’aura, cioè dell’impoverimento dell’esperienza dovuto alla neutralizzazione del più del fenomeno, cioè dell’aura, è dovuto alla rimozione della profondità di senso immanente alle cose.

Solo incorporando l’esistente, l’arte può funzionare come negazione determinata dell’esistente. L’opera d’arte si qualifica come capacità di mimare, per esempio, la stessa mobilità della merce, la sua velocità, la fluidità del suo circolare. Nel dare corso a questo assorbimento dell’eterogeneo, l’arte gli dà una forma DIVERSA, e questo equivale a una trasformazione del senso di quelle cose, l’opera dà a quelle stesse cose un senso differente dandole forma. L’arte introiettando la logica del mercato la iscrive in un orizzonte di senso qualitativamente differente rispetto all’ordine vigente nel mondo. Nel suo farsi mimesi del mondo l’arte istituisce una nuova logica e strutturazione dell’esperienza. La logica del mercato viene sì introiettato, ma tramite ciò viene riarticolata, quella logica mercantile introiettata subisce una metamorfosi per opera dell’arte, che lo fa secondo una regola che si è data da sola, senza farsela dare dal mondo esterno, dal vigente, perché nel suo essere forma l’arte non tollera intromissioni esterne, ma l’arte già di per sé custodisce la risposta al perché la forma è in quel modo.

Baudelaire non combatte contro.

Alla mercificazione della cultura l’arte moderna non oppone una presa di posizione esplicita, anzi è un’arte che vuole valorizzare, non negare, ciò che è muto. La funzione critica dell’arte nei confronti della realtà è una funzione cui l’arte assolve tanto meglio quanto meno esplicita è la messa in esercizio di questa funzione. Ciò che conta per adorno non è il fatto che l’opera dichiari un assenso o rifiuto nei confronti della società, non è ciò che dichiara che conta, adorno contesta l’idea di un’arte politicamente impegnata, esplicitamente contro qualcosa, un’arte militante, perché un’arte di questo tipo sarebbe una conferma del vigente, una ripetizione di quella stessa logica affermativa e definitoria che è la logica dominante. La forza critica dell’opera e la sua funzione utopica è qualcosa che chiama in causa non l’intellegibile, ma il sensibile, l’apparenza: la forma, è lì che si articolano quelle funzioni, ed è lì che c’è la riflessione seconda, cioè la riflessione montata insieme alla forma, implicita e immanente alla forma, alla struttura sensibile dell’opera. La riflessione seconda è quella che cogliamo quando l’opera tende ad ammutolire, tende al silenzio.

Il rifiuto dell’opera alla logica strumentale non è quindi esplicita, non è tradotta in termini logico esplicativi. L’arte moderna certo prende posizione vero l’esistente e i suoi effetti, ma questo non è mai disgiunto dalla qualità formale, è solo lì che si legge questa presa di posizione, in ciò che l’opera mostra, dà a vedere. Il dire dell’opera è sempre connesso al mostrare dell’opera. È un dire mostrando, cioè presentando sensibilmente qualcosa. Il dire dell’opera fa quindi tutt’uno col mostrare, e quel mostrare è un tacere, è un dire tacendo. Quel tacere è un indicare, un fare segno verso qualcosa, un indurre o sollecitare il nostro sguardo a riposizionarsi. Il linguaggio dell’opera d’arte spicca per il suo carattere GESTUALE, OSTENSIVO (indicare, fare segno), e che fa tutt’uno con il carattere performativo del linguaggio. L’opera non dice, ma mostra dove guardare, mostra una prospettiva, non la dice. Ed è una prospettiva sempre indeterminata, altrimenti riconfermerebbe l’esistente, seppure in direzioni diverse. Il senso dell’opera? Il senso è qualcosa che l’opera ha la capacità di agire, di eseguire, è un senso che fa tutt’uno col modo in cui viene messo in azione dall’opera, o col modo in cui sensibilmente viene incarnato dall’opera. Il senso è la qualità che connota la forma dell’opera. Non è un senso da dire, ma un senso da SENTIRE, questo è il senso incarnato dall’opera. Il senso non appartiene al piano del significato, inteso come logicamente determinato. Il senso appartiene al piano del come, non del che cosa, è un senso da sentire non da dire, è un senso che può essere avvertito solo facendo appello a un sentire che sia totale. E proprio la materialità e la forma dell’opera rendono possibile questo sentire del senso

Proprio nel suo essere mimesi della vita alienata, l’arte moderna diventa eloquente. Il momento mimetico lo vediamo nella forma. Il momento mimetico è connesso al momento costruttivo dell’opera, cioè alla forma che è risultato di una sintesi dell’eterogeneo, unificazione del molteplice. Il mimetico è una delle forze operanti nella forma. La forma è la sedimentazione di una serie di impulsi mimetici. Il carattere mimetico dell’opera viene anche definito “carattere espressivo”, cioè il suo apparire come esteriorizzazione di un interno, venir fuori di un dentro, e quel dentro non è però mai esplicitato totalmente dall’opera, quindi non possiamo mai coglierli totalmente. La profondità immanente dell’opera risuona tanto più intensamente quanto più l’opera riesce a farla precipitare nella forma, nella sua concretezza sensibile. Come può essere “innocente” un’arte del genere? “che non tolleri più l’innocenza”. A farla innocente è la sua muta eloquenza, cioè quella tensione fra il momento mimetico e il suo tacere, a renderla muta è che il mimetico appartiene al sensibile, ma non è mai totalmente esplicitabile. Il sensibile si pone in primis per la sua opacità, mostra all’esterno qualcosa, ma anche un residuo che non può mai essere esplicitato, l’opacità del sensibile sfugge all’esplicitazione. A rendere non innocente l’arte è proprio il suo essere carica di implicitezza, l’opera è carica di realtà, storia, dolori, esperienze sedimentate al suo interno: questo rende l’opera non innocente, impura, tutto il dolore palpita nella struttura dell’opera. L’arte di baudelaire si astiene dal tradurre la sua protesta in termini proposizionali: quella baudelariana non  dice la reificazione, cioè il non senso del mondo, non fa di quella protesta un’asserzione chiara e distinta, non la ritrae. Baudelaire non ritrae la reificazione.

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