Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 14

a partire da una ateologia

Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (VIII)

3.3. Conclusione: «Le symbole donne à penser»

La riflessione pura ci ha condotto alla concettualizzazione della fallibilità attraverso un esercizio razionale diretto che non ha potuto però consentirci l’accesso alla quotidianità dell’uomo, alla sua realtà che è insieme libertà e servitù. A tale realtà enigmatica, che si inserisce in una esperienza qualitativamente diversa, abbiamo potuto accostarci soltanto grazie ad «una rottura metodologica della continuità della riflessione»[1], ponendoci all’ascolto della coscienza di colpa nella ripetizione della confessione dei peccati espressa in un linguaggio completamente simbolico.

La comprensione del male, dunque, ricorrendo al mito e al simbolo, risulta inadeguata ad un inserimento tout court nel discorso filosofico, né il simbolismo religioso del male si mostra suscettibile di una traduzione diretta che ne permetta la trascrizione in termini filosofici: questi i «due scogli»[2] tra i quali procedere verso il problematico traguardo di una possibilità di integrazione tra riflessione pura sulla fallibilità e confessione della colpa.

Ma Ricœur è sicuro: la filosofia aveva cominciato il suo cammino giurando «a se stessa di essere coerente; deve mantenere la sua promessa fino in fondo»[3], deve rivolgere i suoi sforzi di comprensione a tutto, e quindi anche alla religione. È in tale prospettiva che Paul Ricœur propone, per evitare i due ostacoli, «di esplorare una terza via: quella di un’interpretazione creatrice di senso, che sia al tempo stesso fedele all’impulso, al dono di senso del simbolo e fedele al giuramento del filosofo, che è quello di comprendere. Questa è la via proposta alla nostra pazienza e al nostro rigore dall’aforisma che precede la nostra riflessione: “Il simbolo dà a pensare”»[4]. Ricœur si dichiara affascinato da questo aforisma che propone il simbolo come senso che si offre al pensiero e, insieme, come impulso all’attività del pensiero stesso.

La filosofia intesa come riflessione solo razionale, consapevole delle trascorse delusioni, è inevitabilmente portata ad eludere la problematica del principio radicale: la comprensione dei simboli si inserisce in questo punto a rinnovare l’impulso alla conquista del “punto di partenza”. Non bisogna rinunciare alla ricerca del principio, ribadisce Ricœur, ma abbandonare l’illusione di una filosofia senza presupposti, di una ricerca che pretenda di iniziare il discorso, che prescinda, cioè, dai “doni” di «un linguaggio già esistente, nel quale tutto in qualche modo è già stato detto»[5]. Il filosofo deve porsi «nel pieno del linguaggio»[6] per adempiere all’impegno, non di cominciare, ma di ricordare nella parola: la filosofia deve «ricordarsi per poter cominciare»[7].

La modernità attribuisce un significato specifico a tale compito: la nostra epoca è segnata dall’oblio, dalla crisi del rapporto tra uomo e sacro, mentre il linguaggio tende a formalizzarsi in codici univoci per adeguarsi alla tecnicizzazione. Proprio ora, afferma Ricœur, ci si profila l’urgenza della restaurazione di un linguaggio che dobbiamo riempire «di nuovo, richiamando alla memoria i significati più pieni, più pesanti, più legati alla presenza del sacro nell’uomo»[8], attingendo ai prodromi del pensiero ermeneutico di cui tutti siamo eredi: «al di là del deserto della critica, vogliamo essere di nuovo interpellati»[9].

Ma il simbolo ci interpella impegnando il nostro pensiero in una difficile articolazione della sua capacità di comprensione e della sua creatività, in una paradossale tensione a promuovere responsabilmente un’interpretazione che sia autonoma ma, nel contempo, istruita dal simbolo stesso e rispettosa della sua enigmaticità originaria. Contemporaneamente pensiero legato e libero, insomma: si direbbe un vicolo cieco, ma «là dove un uomo sogna e delira un altro uomo si fa avanti per interpretare»[10], ci ricorda Ricœur. Il simbolo è già parola e, in quanto tale, in qualche modo affine al discorso filosofico; è discorso “incoerente”, ma è l’ermeneutica che lo riconduce nel discorso coerente della filosofia.

L’ermeneutica attuale, osserva Ricœur, è caratterizzata dal pensiero critico, ed è proprio la critica, attraverso la puntuale distinzione tra ciò che è storia e ciò che non lo è, a poterci offrire la consapevole considerazione del mito in quanto mito. Il pensiero critico consente un rinnovamento della filosofia nell’accostarsi al “mito-simbolo” – e dissolvendo il “mito-spiegazione” – per innescare un movimento di restaurazione critica del sacro che converga con il processo di demitologizzazione della dimensione storica.

Certo, sottolinea Ricœur, non recupereremo l’ingenuità primitiva, ma potremo pervenire, in virtù della critica, ad una “seconda ingenuità” che ci renda disponibili ad accogliere l’offerta dei significati simbolici: «È insomma interpretando che possiamo di nuovo intendere»[11]. Non solo: è interpretando che possiamo di nuovo credere.

Comprensione, interpretazione, credenza si articolano nel circolo ermeneutico che conduce alla comprensione partendo dalla precomprensione di ciò che si sta interpretando, partendo cioè dai presupposti esistenziali dell’interprete, dal suo intimo sentire: Ricœur può affermare in tal senso che «bisogna credere per comprendere. E tuttavia, solo comprendendo possiamo credere»[12], perché solo nell’ermeneutica possiamo accedere alla seconda ingenuità, all’«equivalente post-critico della ierofania pre-critica»[13], che ci permette di superare l’oblio del sacro e di rispondere all’appello dei simboli in un modo che sia adeguato alla nostra modernità.

Il simbolo dà a pensare, dunque, instaurando «un rapporto circolare tra credere e comprendere»[14].

L’audace scelta di partecipare alla dinamica dei miti si rivela indispensabile avvio ad un’ermeneutica filosofica che superi l’ermeneutica ingenua implicita nell’irrigidimento del simbolo in idolatria; il passo ulteriore è l’accesso «al circolo dell’ermeneutica, al credere per comprendere, che è anche comprendere per credere»[15], nel consapevole orientamento conseguente alla preminenza dei simboli della confessione giudaica dei peccati. Il filosofo deve mantenere il suo impegno alla riflessione e alla coerenza rinunciando alla neutralità di una posizione distaccata; nel prendere coscienza del circolo ermeneutico, egli è provocato «a pensare partendo dai simboli, e non più nei simboli»[16]. Accettare la provocazione significa trasformare il circolo in scommessa, e Ricœur ne sottolinea i termini affermando che potrà «comprendere meglio l’uomo e il legame tra il suo essere e l’essere di tutti gli essenti seguendo l’indicazione del pensiero simbolico»[17]. Questo implica una verifica della scommessa che, conseguentemente, estende la scommessa stessa alla possibilità di un guadagno in potenza riflessiva e in coerenza con la filosofia: è questa la chiave d’accesso alla dimensione propriamente filosofica dell’ermeneutica intesa come restaurazione e promozione del senso simbolico e non come traduzione di un’allegoria.

Secondo Ricœur, l’elaborazione di un’empirica del servo arbitrio attraverso lo studio della mitica del male può essere definita, rispetto al simbolo, come una deduzione trascendentale in senso kantiano, cioè la giustificazione di «un concetto mostrando che esso rende possibile la costituzione di un campo d’oggettività»[18]. Tale espressione però, continua Ricœur, riducendo la considerazione della potenza rivelatrice del simbolo ad un ampliamento della coscienza di sé e quindi del campo riflessivo, non rispecchia la crescita qualitativa della coscienza riflessiva disposta all’esercizio di una filosofia che accolga i simboli e se ne faccia istruire. Perché l’empirica del servo arbitrio sia compiutamente definita, osserva Ricœur, è necessario allora aver chiaro il valore ierofantico di ogni simbolo.

L’espressione del rapporto tra l’uomo e il suo sacro è in fondo l’espressione della «situazione dell’essere dell’uomo nell’essere nel mondo»[19]: in virtù di questo suo dire il simbolo rivela la sua funzione ontologica, imponendo al filosofo di negare il primato della riflessione per prendere atto di una coscienza di sé interna all’essere e non viceversa. In questo ribaltamento la seconda ingenuità diventa la “seconda rivoluzione copernicana” già annunciata da Ricœur, che comporta l’impegno ad elaborare, grazie alle strutture di riflessione ma anche a strutture esistenziali, i concetti che permettano di porre «il problema di come si articola sull’essere dell’uomo e sul nulla della sua finitezza il quasi-essere e il quasi-nulla del male umano»[20].

Tutti gli elementi a questo punto concorrono alla piena definizione della scommessa: l’empirica della volontà serva, delineatasi come deduzione trascendentale, «dovrà iscriversi all’interno di un’ontologia della finitezza e del male che innalza i simboli a livello dei concetti esistenziali»[21].

Solo chi propenda per una filosofia senza presupposti, sostiene Ricœur, potrà non riconoscere l’onestà di un impegno in cui riflessione e speculazione si muovono alla ricerca della razionalità del fondamento di una filosofia che parte «dalla contingenza e dalla ristrettezza di una cultura che ha incontrato quei tali simboli e non altri»[22].

Soltanto nel pieno del linguaggio, conclude Ricœur, la filosofia potrà consolidare la sua universalità ed aprirsi ai molteplici modi in cui tutte le culture dicono l’uomo.

Possiamo ora riprendere il cammino, interrotto per concederci questa breve ricognizione sulla prima fase dell’opera ricœuriana, e proseguire lo studio del Della interpretazione.

[1] ivi, p. 623.

[2] ivi, p. 623.

[3] ivi, p. 624.

[4] ivi, p. 624.

[5] ivi, p. 625.

[6] ivi, p. 624.

[7] ivi, p. 625.

[8] ivi, p. 625.

[9] ivi, p. 625.

[10] ivi, p. 626.

[11] ivi, p. 627.

[12] ivi, p. 628.

[13] ivi, p. 628.

[14] ivi, p. 629.

[15] ivi, p. 631.

[16] ivi, p. 631.

[17] ivi, p. 631.

[18] ivi, p. 632.

[19] ivi, p. 633.

[20] ivi, p. 633.

[21] ivi, p. 634.

[22] ivi, p. 634.

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