Introduzione ai MANOSCRITTI FILOSOFICI di Marx del 1844

Raffaele Arcese

I Manoscritti Economico-Filosofici sono la prima vera espressione della teoria comunista di Marx e la prima espressione dei suoi studi economici; sono tre quaderni “tirati fuori” ed isolati da un gruppo di nove quaderni che fra il 1843 e il ’45 Marx compone a Parigi, formati da estratti e da annotazioni dei testi classici dell’economia politica. Questi tre quaderni vengono scritti da Marx tra il maggio e l’’agosto del ’44, prima della pubblicazione dell’opera che scrive nel Febbraio ’45 con Engels, “La sacra famiglia”.

Come gran parte delle opere giovanili di Marx, i Manoscritti vengono abbandonati e lasciati da Marx alla “critica roditrice dei topi”, e vengono pubblicati solo molto tempo dopo la morte di Marx: Le prime edizioni risalgono al periodo tra il 1927 e il ’29, ma solo nel 1932 nella Prima Mega l’allora curatore Adoratskij cura una pubblicazione dei Manoscritti e per la prima volta gli attribuisce un titolo, Manoscritti Economico-Filosofici del 1844; solo nel 1998 si arriva ad un’edizione completa di tutti i nove quaderni parigini di Marx.

Certamente la pubblicazione dei Manoscritti segna e divide la storia del marxismo, segnando due linee precise nella storia delle interpretazioni di Marx:

– Da un lato ci sono le edizioni sovietiche, la cui impronta è data da Riazanov, edizioni che tendono ad una netta svalutazione del significato dei Manoscritti: fin dall’Introduzione di Riazanov ai Manoscritti, essi sono visti come un testo giovanile di Marx, ancora influenzati dall’Idealismo e che vengono pubblicati come semplici appunti e come materiale preparatorio alla Sacra Famiglia. Secondo quest’interpretazione non bisogna pensare che nei Manoscritti sia contenuta la filosofia di Marx e non bisogna perciò dargli troppa importanza.

A quest’interpretazione si richiamerà anche la lettura di Althusser, la cui tesi principale è che c’è una rottura epistemologica nel percorso di Marx (nei Manoscritti c’è un “Marx prima di Marx”) e per il quale i Manoscritti sono l’ultima espressione di una giovanile metafisica di Marx che verrà poi completamente superata da Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach e dall’Ideologia Tedesca.

  • I Manoscritti diventeranno invece il testo fondamentale di quello che è stato definito “marxismo occidentale” (Fromme, Marcuse, la Scuola di Francoforte ecc.): in questa corrente interpretativa si ritiene che in quest’opera si trovi la teoria dell’alienazione e che essa rimanga la base filosofica permanente in tutta l’opera di Marx, anche se Marx poi non userà mai più quest’espressione. La teoria dell’alienazione dell’uomo è la base filosofica di Marx, da cui deriva ogni altra conseguenza del suo pensiero.

Se c’è continuità o discontinuità nel percorso di Marx, è questa la questione interpretativa in ballo nella storia del Marxismo.

In questi tre quaderni si trovano tre novità fondamentali del pensiero di Marx:

  • La prima analisi dell’economia politica, ossia Marx ci dà un’interpretazione delle principali categorie dell’economia politica (capitale, rendita fondiaria, salario).
  • La teoria dell’alienazione, ossia quella del lavoro alienato.
  • La prima teoria del comunismo, che si lega in maniera strettissima al concetto di alienazione.

Quali problemi pone la lettura dei Manoscritti e in modo particolare la teoria dell’Alienazione? Un 1° problema riguarda il fatto che Marx opera una distinzione fondamentale tra quella che lui chiama la storia dell’industria, l’industrialismo, e la forma sociale determinata del capitalismo: Marx finora ci si è presentato come un autore che attribuisce un valore alla storia dell’industria, che viene vista come la storia delle capacità dell’uomo, fino a considerare la rivoluzione borghese ed il suo pieno compimento come una condizione necessaria per la rivoluzione comunista. Marx perciò non vuole riportare l’uomo nell’idiotismo della vita contadina: il grande problema del comunismo è quello di un governo razionale dello sviluppo industriale.La teoria dell’alienazione sembra invece non solo costituire una critica della forma sociale del capitalismo, ma una critica dell’industrialismo stesso e della tecnica, per cui il comunismo metterebbe in discussione non solo il capitalismo ma lo sviluppo industriale stesso. Nella teoria dell’alienazione Marx non parla dello schiavo, dell’operaio o dell’oppresso, ma parla dell’uomo: si parla dell’uomo in tutto lo sviluppo della storia dell’industria, e Marx usa la categoria di uomo che poi sarà largamente critica da Marx stesso negli scritti successivi.

Il 1° problema che i Manoscritti pongono è quello di capire se Marx è un critico del capitalismo o è un critico dell’intero sviluppo dell’industria.

Il 2° problema riguarda il rapporto tra le categorie critiche fondamentali di Marx, e Marx dispone di tre principali risorse per compiere la critica della civiltà: l’alienazione, l’oppressione (come regola della storia) e lo sfruttamento (come forma specifica del capitale). Queste parole sono le tre grandi risorse critiche di cui Marx dispone, e Marx si deve sempre interrogare su cosa sia il loro rapporto, quale termine fondi l’altro o se i termini siano distinguibili fra loro.

Nel Manifesto si parla di una regola della storia umana e di una sua deformazione iniziale, presente in ogni forma sociale: tutta la storia è segnata dalla regola dell’oppressione perché questa regola dice che fin dall’inizio la specie umana si divide in due generi di uomini, e perciò l’umanità è spezzata fin dal suo inizio.

Il signore antico si limita a consumare ciò che lo schiavo produce e considera il lavoro come una funzione animale: nella filosofia antica (Aristotele parla dello schiavo come di un animale domestico) c’è la ricerca di ciò in cui l’uomo eccede la funzione animale, e il lavoro non eccede la dimensione animale ma fa parte dell’animalità, non consentendo la libertà. Il signore antico fonda così l’idea di libertà sulla possibilità di occuparsi della pura vita teoretica o della vita civile; bisogna però ricordare che il signore antico scopre la libertà e fonda la civiltà umana, uscendo dalla vita animale (Marx è consapevole che la civiltà greca è una grande civiltà, segnata dal carattere dell’oppressione).

Lo sfruttamento è una seconda risorsa critica di cui Marx dispone; non ha lo stesso significato del concetto di oppressione, e può essere definito come una specificazione storica e decisiva dell’oppressione, perché nella società borghese l’oppressione cambia forma: non c’è più il signore e lo schiavo, ma l’oppressore (il borghese) non può definirsi come un puro consumatore, esso non ha come suo fine la vita teoretica o la vita civile e politica, ma esso è un uomo d’azione ed il fine dello sfruttamento è l’accumulazione e l’arricchimento. Il borghese esercita l’oppressione come regola della storia umana, ma la esercita secondo la forma dello sfruttamento, ovvero estraendo plusvalore dal lavoro dell’operaio salariato sulla base delle condizioni moderne della libertà personale (sarà necessaria l’uguaglianza delle condizioni affinché sia possibile lo sfruttamento).

Quello dell’Alienazione è invece il problema che sorge coi Manoscritti: che rapporto c’è tra essa e sfruttamento o tra essa e oppressione? Bisogna abbandonare l’alienazione considerandola una forma giovanile e presto superata da Marx? La teoria dell’alienazione che si trova all’inizio del percorso del Marx economista e comunista cerca di spiegare perché l’uomo è entrato nella vicenda dell’oppressione (mentre il Manifesto ed il Capitale si muovono più sul territorio del “come”, spiegando come si muove la storia e sulla base di quale regola o come funzioni lo sfruttamento).

I Manoscritti vogliono invece rispondere alla domanda sul perché, portandoci indietro al rapporto originario tra uomo e natura e tra uomo e uomo: per Marx c’è una continuità fondamentale, l’uomo è rapporto con la natura (la natura è il corpo inorganico dell’uomo) e ha un rapporto organico con gli altri uomini. Accade però che questa continuità si spezza e che l’uomo appare frammentato, e questa continuità dà luogo ad una disgregazione che a sua volta apre la strada alla storia dell’uomo come storia dell’oppressione.

È l’alienazione che cerca di spiegare l’oppressione e lo sfruttamento (e non è invece il contrario), ma è anche vero che non si può semplicemente concludere che questa è la filosofia di Marx, poiché questa filosofia la si indica nella filosofia della praxis, mentre la teoria dell’alienazione è una spiegazione radicale della regola della storia umana, ossia del fatto dell’oppressione.

La storia umana presuppone anzitutto il segno negativo, ossia la negatività del bisogno e la negatività del lavoro: Marx nell’Ideologia Tedesca comincia con la negatività del bisogno, per cui l’uomo è attraversato da questa mancanza ed è costretto dalla natura a produrre la sua vita: i bisogni negativi sono quelli dettati dalla natura e non ordinati dall’uomo stesso. Nella stessa Ideologia Tedesca Marx scrive che la soddisfazione del 1° bisogno (ossia il bisogno naturale) trasforma la natura stessa del bisogno, il bisogno si moltiplica e da naturale diventa umano: nel comunismo l’uomo pone a sé stesso i suoi fini ed i suoi bisogni non sono più ordinati dalla natura, ma da sé.

Nei Manoscritti il bisogno da negatività si converte in fatto umano: l’uomo non usa più il “grido della natura” per salvarsi dalla morte (come indicava Rousseau), ma cresce le sue possibilità di comunicazione: da un bisogno naturale iniziale nasce un bisogno ed un fine umano. La stessa cosa accade per il lavoro: nella storia dell’oppressione il lavoro è negatività, è un prezzo che viene pagato, tanto che il signore antico fonda una civiltà e l’idea di libertà emancipandosi dalla pena del lavoro, lasciandolo al servo e allo schiavo.

Come nel caso del bisogno, Marx opera la conversione della negatività del lavoro nella positività del lavoro, che nella sua visione diventa realizzazione dell’essenza dell’uomo, cambiando segno rispetto al modo con cui il signore lo aveva considerato: la negazione del lavoro spiega l’origine dell’oppressione ed essa stessa è la radice dell’alienazione. L’alienazione è il motivo per cui l’umanità si spezza e si divide in due generi opposti, poiché il signore ha la necessità di delegare ad altri questa funzione animale.

Marx arriva a questa tesi soprattutto grazie a Hegel e a Locke (col suo 2° Trattato sul Governo e la sua teoria sul diritto di proprietà), e arriva a leggere il lavoro come oggettivazione e come realizzazione dell’essenza umana: l’alienazione si fonda su questa conversione deformata della positività (che Marx chiama oggettivazione) in negatività, ovvero la negazione del valore del lavoro e della praxis, e quindi espropriazione del prodotto del lavoro, ossia espropriazione di quella che Marx chiama essenza generica (Gattungswesen) dell’uomo.

La critica che Arendt rivolge a Marx su questo punto, correggendolo con la distinzione tra ciò che è lavoro e ciò che è opera: per Marx il lavoro è sempre opera, è sempre oggettivazione della prassi, è l’uomo che pone a sé stesso i suoi fini e si oggettiva nel prodotto della sua oggettivazione. In Marx nella società borghese l’uomo è alienato è espropriato del prodotto, ma non perde la capacità di oggettivazione di sé poiché altrimenti non sarebbe il soggetto della rivoluzione, anche il capitalista è alienato ma egli è solo alienato poiché non oggettiva sé stesso.

Il proletario è oggettivazione di sé e al tempo stesso alienazione, e per questo il proletario liberando sé stesso paradossalmente libera l’intera società ed anche il capitalista, poiché il lavoro positivamente considerato è oggettivazione, espressione di sé.

L’alienazione non è invenzione di Marx, ma è un grande e importante concetto della storia della filosofia:

  • Ne parla Tommaso Campanella nella Metafisica, parlando di quando l’oggetto perde valore
  • Rousseau nel Contratto Sociale, nel 6° capitolo del 1° libro, ne parla nei termini dell’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: è l’alienazione di ciascun associato alla volontà generale che fonda la volontà generale.
  • Nella lingua tedesca ci sono due espressioni che si possono più o meno tradurre con alienazione, Entoisserung ed Entfremdung: Entoisserung ha dentro di sé l’alterità, l’altro, mentre Entfremdung ha dentro di sé l’estraneità, l’estraneo.

L’alienazione ha dentro di sé questi due significati, ed in Hegel compare prevalentemente come Entoisserung: il farsi altro è un’esperienza di arricchimento, un farsi altro che arricchisce la natura del soggetto (ad esempio, il farsi altro dello Spirito nella Natura per diventare più compiutamente Idea).

In Feuerbach invece l’alienazione è prevalentemente Entfremdung poiché ha il carattere della perdita di sé, nella proiezione della sua essenza di vita che l’uomo fa nella figura di Dio: l’uomo si aliena nel senso di una perdita secca, poiché senza l’elemento della coscienza di ciò che succede (ossia la consapevolezza) toglie a sé stesso e proietta nell’immagine di Dio, di cui dimentica la genesi e che crede indipendente da sé.

In Marx è presente l’alienazione in entrambe le accezioni:

  • Essa è presente sia come Entoisserung, ed essa intesa come oggettivazione (ciò che Arendt chiama opera): l’uomo essenzialmente realizza la sua essenza alienandosi nel prodotto, cioè oggettivandosi
  • Ma è anche presente come Entfremdung, ossia l’alienazione dell’operaio nella fabbrica moderna: Marx, riprendendo quasi letteralmente un’espressione di Feuerbach, scrive che più l’operaio trasferisce nel prodotto, nella società capitalistica, più toglie a sé stessa, e diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce.

La teoria dell’alienazione presente nei Manoscritti si presenta come una sorta di crescendo musicale di tre diversi tipi e accezioni di alienazione, in cui dall’aspetto economico (che consiste nell’alienazione del prodotto) si arriva progressivamente all’aspetto più propriamente filosofico (l’alienazione della propria essenza generica di uomo):

  • La prima figura la si comprende solo se si tiene presente cosa significhi per Marx lavoro e prassi umana: l’operaio mette sé stesso nel prodotto, si oggettiva e attraverso questa oggettivazione abbandona la dimensione animale (la sua umanità è nell’opera che ha compiuto, nel suo prodotto). Con questo determinarsi nell’opera l’operaio crea un mondo artificiale e abbandona la ripetitività della natura, fondando una storia, che ha una base naturale ma che la oltrepassa continuamente.

L’uomo si oggettiva in una storia e in una civiltà, realizza sé stesso secondo fini razionali (ossia posti da lui stesso, l’uomo diventa sostanzialmente prassi razionale); nella società capitalistica l’uomo, nella figura dell’operaio, continua a oggettivarsi e a conferire valore alla natura, fondando una storia, ma la merce è espropriata al lavoratore: questo può rendersi come l’immagine di una vera e propria rapina, dove però bisogna capire cosa venga derubato.

Viene derubato qualcosa di fondamentale dell’essere umano, e si pone di fronte all’operaio come una potenza indipendente e come qualcosa che gli è estraneo; la sua oggettivazione diventa estraniazione, l’uomo si realizza nell’oggetto ma il suo oggetto gli viene sottratto. Con questa prima figura dell’alienazione avviene quindi la conversione del positivo nel negativo.

  • Vi è poi una seconda figura, che è quella decisiva, ma che è anche una conseguenza della prima figura (ossia dell’espropriazione del prodotto); nella società borghese l’operaio non è espropriato solo della cosa, cioè della merce che lui produce, ma dentro il suo prodotto c’è qualcosa di più: quello che viene sottratto all’operaio è l’atto della produzione, la praxis stessa. Espropriare l’atto della produzione significa espropriare l’umanità e la capacità di oggettivazione dell’operaio, la sua creatività.

In questa seconda figura appare un concetto fondamentale dei Manoscritti, quello dell’animale: essere ridotti all’animale significa essere ridotti ad un essere e ad un’esistenza che è separata dal lavoro, un’esistenza che si limita a consumare l’oggetto per la sua sopravvivenza e opera un semplice scambio organico, non elaborando l’oggetto e dunque non entrando nell’artificio.

La differenza tra l’uomo e l’animale è tutta in questa prassi razionale, cioè in questa capacità di oggettivazione dell’uomo: l’uomo lavora non solo per rispondere al bisogno dettato dalla natura, ma per creare un mondo artificiale e dunque per rispondere a bisogni e a fini che lui stesso si pone.

In cosa consiste nell’alienazione del lavoro? Consiste anzitutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio (vi è dunque la separazione del lavoro dall’operaio), cioè non appartiene al suo essere e dunque nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, sentendosi infelice; perciò l’operaio solo fuori dal lavoro si sente presso di sé, e si sente invece fuori di sé nel lavoro, e perciò il lavoro è solo un momento per soddisfare bisogni estranei.

L’estraneità del lavoro si rivela nel fatto che nel momento in cui viene meno la costrizione, esso viene fuggito come la peste; ne viene quindi come conseguenza che l’operaio si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare ecc..) e invece si sente non più che una bestia nelle sue funzioni umane (il lavoro): ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diventa animale. Per questo motivo l’alienazione tocca il valore del lavoro e il valore del bisogno.

  • Infine si arriva alla terza figura dell’alienazione, dove non si tratta neanche più dell’atto dell’oggettivazione del produttore, ma dove invece l’alienazione riguarda la Gattungswesen, la sua essenza generica (il suo essere-di-specie): è in questa terza figura dell’alienazione che Marx ci “accompagna fuori dalla fabbrica” e ci fa guardare l’umanità nel suo insieme, l’

L’Uomo (categoria sulla quale poi Marx polemizzerà) per il Marx dei Manoscritti è come un nodo, che stringe insieme due relazioni inestricabili: da un lato il rapporto uomo-natura, la loro continuità essenziale, e dall’altro il rapporto tra uomo e uomo. -L’uomo è ricambio organico con la natura ed è anche essere sociale, e questi due lati sono lo stesso Gattungswesen, la stessa natura del genere umano: l’uomo è in rapporto con la natura solo in quanto essere sociale, ed è in rapporto con l’altro uomo soltanto in quanto produce la propria esistenza (il ricambio organico con la natura).

La relazione con la natura e con gli altri uomini sono due momenti di uno stesso nodo: la natura nel suo insieme è il corpo inorganico dell’uomo (mentre il corpo organico è costituito dalla sua fisionomia), e sia attraverso il suo corpo organico e il corpo inorganico l’uomo è sempre parte della natura, e la governa essendo prassi che trasforma la natura.

Per Marx la vita umana è questa continuità essenziale tra uomo e uomo e tra uomo e natura, ma nella storia, e più precisamente nella modernità borghese, questa continuità si spezza: l’uomo si separa dalla natura e si separa dall’altro uomo, la sua essenza va in pezzi. L’alienazione di questo nesso costitutivo che costituisce l’uomo è perciò la forma più radicale di alienazione, che lo priva della sua capacità di produrre storia (e pertanto lo riduce alle sue funzioni animali).

Il comunismo invece è la situazione che riunifica quello che la modernità borghese ha spezzato, che ricongiunge l’uomo alla natura attraverso la liberazione della praxis: il comunismo supera la frammentazione della società borghese perché restituisce all’uomo la sua capacità di essere artefice di storia. Nei Manoscritti Marx scrive con un linguaggio giovanile, ed anche un po’ poetico, che il comunismo realizza l’uomo totale: l’uomo si riappropria del suo essere onnilaterale.

Qual è il rapporto che nei Manoscritti si determina con la rivoluzione borghese? Marx sa riconoscere il positivo della rivoluzione borghese e delle opere compiute dalla borghesia, però la rivoluzione borghese ha fatto delle promesse, ossia quelle di scardinare il sistema signorile e affermare il principio del merito e della dignità del lavoro, ma per Marx essa non ha mantenuto le sue promesse: ha frammentato l’uomo e ha affermato un nuovo tipo di signoria, perciò il fatto dello sfruttamento ha conservato la regola dell’oppressione.

Ma già nei Manoscritti è presente anche la critica feroce al comunismo primitivo, ossia di coloro che pensano che il problema si risolvi tornando al di qua della rivoluzione borghese, perciò sempre all’interno della regola dell’oppressione: Marx scrive che il comunismo è il risultato della storia umana (perciò parla di risultato, di ciò che viene dopo), l’intero movimento della storia è l’atto di nascita dell’esistenza del comunismo. La storia dell’industria (la tecnica) è il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, scrive Marx, perciò essa dimostra ciò di cui l’uomo è capace, mostra il progresso, ed il compito del comunismo è di portarla oltre la regola dell’oppressione.

L’uomo del comunismo non è solo l’uomo si riappropria del prodotto del lavoro, dell’atto della produzione e del rapporto con la natura e con l’altro uomo, ma si presenta con un’alterazione fondamentale rispetto all’uomo come lo si è conosciuto in tutta la storia, cambiano i sensi umani: il comunismo restaura il sentire, l’odorare, l’amare e tutto ciò che appartiene alla vita più elementare dell’uomo. I sensi vengono convertiti da sensi individuali a sensi sociali.

Il presupposto di questo discorso che Marx fa sul sentire è che il sentire nel pensiero di Marx è mediazione: il rapporto con l’oggetto non è mai nella radice un avere o un consumare, ma un produrre. Il rapporto tra sensi individuali e sensi sociali corrisponde a quello che nell’economia di Marx è il rapporto tra il consumo e la produzione: l’uomo della civiltà borghese è un uomo che consuma e che si situa nella logica dell’avere, mentre l’uomo del comunismo è prassi razionale, e produce l’oggetto che consuma.

L’uomo con tutti i sensi si afferma nel mondo oggettivo, l’oggetto diventa oggetto sociale e nel comunismo l’uomo esce dalla logica del semplice avere e del semplice consumare l’oggetto: anche il senso (la vista, l’udito ecc.) nel comunismo diventa praxis, diventa mediazione e produzione dell’oggetto, uscendo dalla dimensione del puro consumismo.

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Materialismo storico e prassi in Marx

Amelia Forte

Quando si parla di Materialismo Storico ci si riferisce al rapporto che Marx ha con la filosofia, e bisogna cercare di rispondere alla domanda su cosa Marx veramente aggiunge nella storia della filosofia. È solo qui dentro che nasce il problema del lessico economico che Marx utilizza per costruire la sua filosofia; senza il materialismo storico anche la stesura del Capitale diventa incomprensibile. Marx incontra il discorso filosofico e diventa filosofo nel 1836, quando Marx arriva a Berlino, e nell’estate del 1837 (dopo aver iniziato i suoi studi a Berlino) legge tutte le opere disponibili di Hegel e diventa hegeliano. Questo è il punto di partenza della filosofia di Marx. Hegel era morto nel 1831, per cui Marx non poté incontrarlo, ed essere hegeliani nel 1837 era diverso rispetto ad esserlo nel ’29 o nel ’30: significò per Marx far parte di un circolo di giovani hegeliani. Erano sì seguaci di Hegel, ma già erano critici degli aspetti fondamentali del pensiero di Hegel. Marx continua i suoi studi filosofici quando si trasferisce a Parigi dal ’43 al ’45 e scopre Ludwig Feuerbach, che fornisce alla sinistra hegeliana gli strumenti teorici fondamentali per una prima critica alla filosofia hegeliana; qui compare una parola fondamentale che segna tutta la filosofia post-hegeliana, ossia il rovesciamento. Rovesciare la filosofia di Hegel, nel lessico di questi autori, significa che secondo la lettura data allora di Hegel, nell’Idealismo il soggetto, cioè l’elemento attivo e produttivo della realtà, è l’idea, l’infinito o l’essenza, che produce il finito.

Per Feuerbach non è più Dio che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea Dio; per il Marx della Kritik non è lo Stato che genera la società civile, ma è la società civile (Bürgerlichen Gesellschaft). Il tema del rovesciamento è fondamentale per tutta la filosofia post-hegeliana fino alle correnti filosofiche del ‘900, dove il soggetto diventa l’elemento attivo del discorso filosofico.

In questo contesto nascono gli scritti filosofici del Giovane Marx: la Kritik, la Questione Ebraica, i Manoscritti e la Sacra Famiglia (primo testo scritto con Engels). All’arrivo a Bruxelles accade qualcosa di importante, poiché ora Marx non si limita più a criticare Hegel e l’Idealismo sul fondamento delle categorie fornitegli da Feuerbach, ma comincia a criticare anche Feuerbach e il Materialismo.

La critica di Marx si rivolge ora in due direzioni, e queste due direzioni sono le due grandi linee di tutta la metafisica e la filosofia europea; Marx critica entrambe queste posizioni, ed oltre l’Idealismo ed il Materialismo cerca una nuova filosofia, mai sperimentata nella storia del pensiero, quella definibile una filosofia della praxis (Gramsci).

Molti anni dopo la morte di Marx vengono pubblicati due testi, scritti tra il ’45 e il ’46, che sono l’inizio di quella filosofia che sta anche alla radice del Capitale: le tesi su Feuerbach e l’Ideologia Tedesca. La Miseria della Filosofia del ’47 aggiungerà altri elementi sul piano filosofico, ma è in questi due testi che nasce la nuova filosofia di Marx, il Materialismo Storico.

Nelle Tesi è già presente il nucleo generativo del Materialismo Storico, e sono un appunto che Marx scrive su un foglio appena arriva a Bruxelles:

  • Nella 1° tesi Marx inizia con una critica perentoria del materialismo, tutto il materialismo precedente incluso quello di Feuerbach (mentre nella Sacra Famiglia scrisse che il comunismo si fondava sul Materialismo); il materialismo ora non è più l’orizzonte filosofico del comunismo, perciò Feuerbach è incluso nella critica al materialismo europeo.

Il torto del Materialismo è quello di aver concepito l’oggettività, la realtà e la sensibilità solo sotto la forma dell’oggetto o dell’intuizione: il Materialismo concepisce l’oggetto come trascendente rispetto al soggetto e come presupposto rispetto al soggetto, e non invece come posto e prodotto dal soggetto stesso. Per il Materialismo ci sono solo res, oggetti che si danno già a prescindere dall’attività formatrice, la praxis dell’uomo: per il materialismo il presupposto è la differenza, all’origine della filosofia vi è la differenza tra l’intellectus e la res che gli sta di fronte, ed il problema della filosofia è di apprendere la res che gli si pone di fronte, mentre non è l’attività dell’uomo che forma la res.

Marx parla anche della forma dell’intuizione per dire che nel Materialismo è assente la mediazione, ma all’origine c’è l’immediatezza dell’oggetto, che si dà in quanto tale; il Materialismo per Marx non arriva a concepire soggettivamente l’oggetto, cioè non arriva a concepirlo nell’atto di produzione della soggettività, nella mediazione. La soggettività che sta all’origine della stessa produzione dell’oggetto è specificata da Marx con due parole fondamentali, ossia l’attività sensibile umana e la praxis: il materialismo non concepisce la soggettività come praxis, come azione.

Nella prima tesi arriva quindi l’elogio dell’Idealismo, che ha il merito di concepire l’oggetto soggettivamente, capendo che la materia è mediazione, è prodotto dell’uomo, ma compie un errore nel concepire questa mediazione astrattamente, ossia l’Idealismo non arriva a concepire la mediazione come attività sensibile umana, ma come attività propria dell’Idea e dell’Infinito verso il Finito.

La conclusione è quindi il superamento delle due grandi correnti della metafisica europea, quella del Materialismo che presuppone la differenza e considera l’oggetto come rappresentazione, come ciò che sta di fronte al soggetto, e l’Idealismo che non coglie la radice della mediazione nell’attività sensibile del soggetto ma la colloca nel processo di movimento dell’Idea.

  • Marx nella 2° tesi ci dice cosa è la verità, che per lui è una questione pratica, ossia risiede nell’attività formatrice e sensibile dell’oggetto, è in essa che l’uomo prova e costruisce la verità. Nell’Ideologia Tedesca Marx scrive che la verità cammina con le gambe sulla potenza della classe dominante, per cui ogni verità è prodotto e costruzione dell’azione rivoluzionaria dell’uomo; l’uomo prova la verità nell’immanenza del suo pensiero: la mondanità del suo pensiero si esprime nella realtà e nella potenza .

 

  • Nell’ultima tesi su Feuerbach, Marx non compie solo un invito a fare le rivoluzioni, ma scrive che si comprende il mondo nella prassi e nell’azione: questa è la grande critica che Marx compie alla definizione della filosofia di Hegel (nottola di Minerva), per Marx la filosofia deve ormai essere dentro la storia dell’uomo, e non arrivare dopo ad interpretarla.

In Marx la filosofia acquista diversi significati, e nel suo pensiero la filosofia, intesa in termini tradizionali, è finita, e Marx ne dichiara la morte pronunciandone l’elogio funebre; ma il compito della filosofia ed il suo senso persiste in almeno tre sensi fondamentali:

  • Da un lato la filosofia diventa più precisamente teoria e scienza, che in questo caso significa consapevolezza piena del percorso che l’umanità ha fatto lungo il suo cammino: grazie alla filosofia il proletariato acquisisce consapevolezza della sua posizione nella storia umana e diventa consapevole dello

Labriola nell’opera “In memoria del Manifesto dei Comunisti” espresse perfettamente questo senso della filosofia come teoria e come scienza, scrivendo che il compito del Marxismo e del Materialismo Storico non è quello di preparare i leader e progettare la rivoluzione, ma illuminare la posizione che la classe del proletariato ha nella storia. La teoria è quindi in primo luogo coscienza e si distingue dall’azione, spiegandone però la necessità.

  • Ma per Marx la filosofia non è solo teoria o scienza, ma c’è anche una 2° visione della filosofia, che si rivela anche nella 2° tesi su Feuerbach, per cui la filosofia è anche produzione della verità e non solo coscienza della necessità della storia; la filosofia è anche produzione della visione del mondo della classe che si afferma nella storia con il suo dominio.

Quando la borghesia compie la sua rivoluzione essa afferma il suo sistema di valori come un sistema universale, ed in maniera simile il proletariato quando fa la sua rivoluzione afferma i suoi valori e realizza la propria visione su tutta l’umanità. La filosofia non si limita a comprendere la necessità storica, ma è anche costruttrice di una visione del mondo che si fa verità universale.

Si pensi al caso del signore antico, che inaugura il fatto dello sfruttamento e inaugura la storia come storia di oppressione, emergendo dalla comunità degli uomini uguali come puro consumatore; ma non è solo uno sfruttatore il signore antico, ma è anche colui che attraverso lo sfruttamento genera un intero sistema, cioè afferma la sua filosofia come la filosofia di un mondo. C’è sempre un nesso tra sfruttamento e civiltà, lo sfruttamento è una negazione che produce e genera civiltà.

La filosofia è perciò teoria e scienza, che illumina la necessità della storia, ma è anche visione del mondo, per cui chi fa la rivoluzione costruisce la propria visione del mondo e la afferma con la potenza della propria azione.

  • Marx poi definisce la filosofia anche come il sapere reale, cioè la conoscenza della filosofia nella sua genesi dalla non-filosofia: in questo modo la filosofia diventa decostruzione delle stesse idee filosofiche dell’uomo e rivelazione della loro origine, ricostruzione del rapporto tra filosofia e non-filosofia come suo terreno di nascita. Qui si consuma la sua critica alle Ideologie: l’Ideologia è quella forma di pensiero che prende un prodotto storico e lo indica come fatto di natura, ed il compito della filosofia è quello di svelare l’inganno.

Il 1° capitolo dell’Ideologia Tedesca è un poderoso sviluppo delle Tesi su Feuerbach, ed è in essa contenuta l’enunciazione più compiuta del Materialismo Storico:

  • Marx assegna grande importanza al sapere reale, in opposizione a tutta la tradizione filosofica, dicendo che la colpa della filosofia tedesca è quello di non aver abbandonato il terreno della filosofia: questo non significa negare la filosofia come sapere, ma significa che per fare filosofia bisogna saper uscire dal suo terreno, saper ricostruire la relazione tra la filosofia e la sua genesi non-filosofica, illuminando la filosofia mettendola in relazione con la sua genesi.

Marx scrive con una celebre metafora che i filosofi sono finora scesi dal cielo alla terra, mentre ora bisogna invertire questo rapporto: ora si tratta di salire dalla terra al cielo, ed è la terra che produce il cielo, ossia il terreno materiale di produzione della vita che produce le idee della filosofia.

Marx col termine sublimazione si riferisce al termine della chimica del suo tempo, ossia il passaggio dallo stato solido a quello aeriforme senza passare da quello liquido. Sublimazione significa che la non-filosofia passa nella filosofia senza nessuna mediazione possibile, e riflette la sua immagine nell’Idea; bisogna perciò entrare nella dimensione del sapere reale, che non è chiuso nel terreno della filosofia, ed il compito della filosofia riguarda il mostrare la genesi dell’Idea e il suo processo verticale di formazione, per cui è l’uomo che nella sua vita materiale produce le sue idee e i suoi valori.

Marx poi nell’Ideologia Tedesca introduce un’altra nozione fondamentale, parlando di classe dominante, e affermando che la classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone in pari tempo dei mezzi della produzione intellettuale. Non è solo sfruttamento quello posto dalla borghesia nei confronti del proletariato, ma è dominio: per compiere lo sfruttamento non basta la forza e ridurre lo schiavo alla schiavitù, ma occorre che la classe dominante ottenga il consenso dell’oppresso e che le sue idee diventino la cultura dello schiavo, affinché egli riconosca le idee della classe dominante come valori universali e razionali.

 

Qual è il rapporto tra Marx e la filosofia? Marx ha aggiunto qualcosa alla storia della filosofia e le ha dato un contributo? La risposta che abbiamo dato è affermativa: Marx è un filosofo ed aggiunge qualcosa di fondamentale al nostro modo di praticare la filosofia; questo tema filosofico lo abbiamo definito filosofia della praxis (espressione che compare con Labriola e con cui Gramsci sostituisce nei suoi quaderni quella di Materialismo Storico).

Nelle Tesi su Feuerbach, che Marx scrive a Bruxelles nella primavera del ’45, si scopre che Marx non considera più il Materialismo come la base filosofica per la teoria del comunismo (1° tesi), e svolge una critica di tutte le correnti fondamentali della filosofia e metafisica europea, cioè dell’Idealismo e del Materialismo: nessuna di queste due filosofie può essere utile come base per la teoria del Comunismo.

Il torto del Materialismo, compreso Feuerbach, per Marx è preciso: il suo torto è quello di presupporre l’oggetto, la res, come trascendente rispetto al soggetto, come presupposto e come qualcosa che non è il risultato di una praxis umana e della storia umana. L’Idealismo invece sa cogliere la mediazione originaria tra soggetto ed oggetto, questo è il suo merito, ma esso coglie la mediazione solo in forma astratta, ossia come mediazione delle idee.

Marx nella 1° tesi scrive invece che la realtà è attività umana, qualcosa che pertiene specificamente al genere umano, ossia a quell’animale che costruisce una storia, ed essa è sensibile, per cui la mediazione non è astratta nelle idee ma è qualcosa di sensibile, riguarda la praxis effettiva dell’uomo.

Nella 2° Tesi, Marx chiarisce che la verità non è una questione teorica, ma è una questione pratica, e dev’essere provata non nel puro pensiero (sillogismi, forme logiche ecc…) ma essa dev’essere provata nella realtà, e cammina sulle gambe della potenza. Nella 1° Tesi si parlava di oggetto e di realtà in senso materiale, mentre qui si parla della verità (ossia del grande problema che la filosofia si trova di fronte sin dal pensiero antico, quid est veritas?): la verità è il valore che conferisce valore ad ogni valore, per cui ogni valore di una civiltà è valido perché sono validi valori come l’uguaglianza, il bene, il bello etc., a cui si attribuisce verità.

La verità è per Marx non qualcosa di innato e di inscritto nel cuore dell’uomo, non sta nel grande libro nella natura ed essa viene poi letta (come affermava invece Galileo, ad esempio), ma ogni verità (anche quella di un sillogismo) è prodotta dall’uomo e riguarda la prassi, non si prova sul terreno della teoria.

Nell’11° Tesi si trova una delle formule più celebri di Marx: questa Tesi non dev’essere letta come se Marx facesse l’invito a prendere le armi e fare la rivoluzione, ma ha una grande profondità e segna una trasformazione nel discorso filosofico.

Nella prefazione ai Lineamenti della filosofia del diritto, Hegel dice tre cose fondamentali:

  • La filosofia è il proprio tempo appreso e compreso nella forma del pensiero”: Il dialogo del pensiero non è con sé stesso, ma esso presuppone che ci sia un mondo ed un tempo, e che il filosofo trovi il contenuto del proprio pensiero nel mondo e nel tempo e sappia metterlo nelle forme proprie della comprensione logica.
  • Il reale è razionale, ed il razionale è reale”: La realtà non è caos come appare e come sembra, ma al fondo di essa c’è una ragione ed una razionalità che viene letta e scoperta dal filosofo.
  • La filosofia è la nottola di Minerva che si leva in volo sul calare della sera”: Hegel ha in mente che la storia cammina sulle gambe delle passioni e degli interessi degli uomini, passioni prive di ragione, mentre la filosofia viene dopo a scoprirne il senso e la razionalità.

Marx però è dell’idea che la filosofia si occupi sì del proprio tempo e del mondo, ma la nuova filosofia (la filosofia della praxis) non arriva dopo che la storia si è svolta con le sue regole, ma è dentro la storia, essa è la prassi stessa: nella visione Hegeliana della filosofia si dividono la teoria e la prassi, mentre nel pensiero di Marx questi due momenti si riunificano, con la teoria che nasce dentro la prassi.

Marx mette fine a tutto un modo di concepire la filosofia e ne trasforma il significato, e nell’Ideologia Tedesca si trovano tre diversi significati che la parola filosofia acquista nel pensiero di Marx:

  • La filosofia è teoria, e quindi anche scienza, e così restituisce all’uomo (e in particolare al proletariato) la coscienza e la consapevolezza: all’uomo restituisce la consapevolezza del processo che l’umanità ha percorso nel suo cammino e la coscienza della posizione che il proletariato come classe occupa come classe. È grazie alla filosofia così concepita che l’uomo acquista coscienza che la storia è governata dalla regola dell’oppressione, e così il proletario diventa consapevole del fatto dello sfruttamento (e perciò di essere sfruttato).

Labriola, ne “In memoria del Manifesto dei Comunisti”, dà una definizione molto nitida della filosofia in Marx intesa in questo 1° senso: la filosofia in 1° luogo non è formazione di classi dirigenti o preparazione della rivoluzione, ma essa dà alla teoria la forma del processo, essendo coscienza della storia e non essendo invece un contenuto specifico.

Ne “La miseria della filosofia” si comprende cosa significhi davvero per Marx fare filosofia: come l’Economia politica classica è l’ideologia della classe borghese, così il Materialismo Storico è l’ideologia del proletariato. La filosofia è utopia, sistema e semplice scienza (e non invece coscienza) quando il proletariato non arriva a costituirsi come classe; la teoria per Marx si ha invece quando la filosofia non costruisce un sistema di uguaglianza e di giustizia, ma quando essa illumina il movimento oggettivo della storia, mostrando cosa sono le classi e qual è la loro posizione nella storia.

La teoria è dialettica, e cioè coglie la negazione comprendendo la negatività del sistema, e perciò comprendendo il germe rivoluzionario del sistema sociale: solo così il proletariato si fa classe e diventa perciò consapevole della sua posizione e delle sue potenzialità all’interno della società borghese.

  • Ma la filosofia per Marx non è solo teoria, essa fa anche dischiudere una visione del mondo di una classe rivoluzionaria; così non c’è più solo sfruttamento e oppressione in senso materiale, ma c’è anche dominio (un dominio anche spirituale): c’è una classe dominante e ci sono classi subalterne, ed il dominio è la capacità di una classe di non poter esercitare solo la sua potenza materiale senza una potenza spirituale, essa ha bisogno di un livello di consenso dell’oppresso.

Ogni classe dominante costruisce un sistema di valori, ed i valori della classe dominante diventano anche i valori dei dominati: anche il subalterno riconosce valore alla verità affermata dalla classe al potere. “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”: il subalterno è assoggettato e cioè pensa con gli stessi valori affermati dalla classe dominante, un’intera civiltà è costituita dalle idee della classe dominante, altrimenti il potere e l’oppressione non si potrebbero costituire.

Il dominio è perciò civiltà, visione del mondo ed è il senso della rivoluzione borghese; ma anche il proletariato è portatore di una propria visione del mondo e di una filosofia che si rende universale con il proprio sistema di valori e con la sua civiltà.

  • La filosofia è poi definita da Marx come il sapere reale: in tutta la storia della filosofia per Marx si discende dal cielo alla terra, mentre nel sapere reale si sale dalla terra al cielo; questo significa che le idee filosofiche non nascono in sé stesse e che non si è mai filosofi se si resta solo nel terreno della filosofia, ma per comprendere la filosofia bisogna entrare nella non-filosofia, la “terra”. È necessario ricostruire il nesso tra la filosofia e la non-filosofia, e perciò avere un modello genetico di comprensione delle idee: la filosofia della praxis è un metodo genetico, nel senso che spiega le idee a partire dalla vita materiale degli uomini come un prodotto storico della vita degli uomini.

Le idee nella visione di Marx non sono mai trascendentali, ossia delle forme che costituiscono la realtà (come le intuizioni kantiane, che costituiscono i fenomeni), ma esse sono sempre figlie e costituite dalla realtà. Questo è il significato più profondo e radicale della formula “dalla terra al cielo”, e segna un 3° significato della filosofia della praxis, che nella storia del Marxismo si chiama critica delle ideologie, ossia lo smascheramento del loro trucco: nella visione di Marx le Ideologie scambiano la storia con la natura e rendono natura ciò che è storia, rendendo un prodotto storico come qualcosa di scritto nel grande libro della natura e non vedendo come siano invece prodotto della storia umana.

Nell’Ideologia Tedesca, Marx ed Engels svolgono una vera e propria antropologia fondamentale, e distinguono cinque aspetti dell’esistenza fondamentale dell’uomo il cui risultato è proprio la produzione delle idee, l’ideologia:

  • Marx ci dà una visione basilare ed elementare della vita umana: nel suo punto 0, la vita umana è produzione dell’esistenza, produzione che soddisfa alcuni bisogni elementari o animali. In base a questa considerazione di Marx, la vita umana comincia con la conservazione della vita, che coincide con la produzione della vita: la vita è un bene che dev’essere prodotto.

Qui entrano in gioco tutte le categorie costitutive del pensiero di Marx, e all’origine del discorso di Marx vi è il fatto che lui gioca su due termini, da un lato il bisogno, qui considerato come negatività e cioè come un bisogno dettato dalla natura, senza la cui soddisfazione l’uomo muore; dall’altro lato vi è ciò che Marx chiama la creazione dei mezzi (che nel Capitale chiamerà valori d’uso), cioè quei beni utili che permettono all’uomo di rispondere al bisogno e di sviluppare la sua vita.

Il bisogno e la creazione dei mezzi sono due termini fondamentali nel pensiero di Marx, soprattutto per il fatto che essi si trovano in un nesso inestricabile, per cui nessuno di questi due termini si potrebbe mai considerare da solo: quello che sta all’inizio della vita umana è questa mediazione fra bisogno e creazione dei mezzi per rispondere al bisogno.

Qui Marx però dice due cose che non stanno insieme:

  • Da un lato dice che questa è un’azione storica, e dall’altro lato dice che essa è la condizione fondamentale di qualsiasi storia, per cui non si capisce se si è già all’interno della storia o se ne è al di fuori.

 

  • Marx poi scrive che la soddisfazione del bisogno implica immediatamente la creazione di nuovi bisogni e la moltiplicazione dei bisogni, che è indotta dalla produzione stessa: questa è la prima azione storica, si esce dal terreno della conservazione e si entra in quello dell’artificio. Qui non si ha più di fronte un bisogno come negatività, cioè dettato dalla natura, ma un bisogno creato e prodotto dall’uomo e dalla sua formazione sociale.

Cambia la natura del bisogno, ma il passaggio è immediato: la creazione dei mezzi per la soddisfazione del primo bisogno è già produzione di civiltà, storia e artificio. Si scioglie il dubbio tra storia e condizione della storia, poiché si entra nella storia quando il bisogno è il fine, esso è fissato e prodotto dall’uomo stesso nella sua attività produttiva.

  • L’uomo poi riproduce sé stesso: il rapporto tra uomo e donna, la generazione dei figli e ciò che Marx chiama la “famiglia” (gli uomini cominciano a fare altri uomini e a riprodursi).

Questi tre elementi non vanno concepiti in successione, ma vanno concepiti in modo organico come tre aspetti e momenti di un processo che avviene tutto insieme: alla base della vita sociale c’è l’insieme simultaneo e immediato di questi tre momenti fondamentali.

  • Il quarto aspetto è quello decisivo: tutto questo processo che si svolge è sempre, e senza possibilità di eccezione, un rapporto sociale. Fin dall’inizio, se vuole vivere e produrre la sua vita, l’uomo costruisce una forma sociale determinata: al principio non c’è mai l’individuo, il lavoro o l’Uomo, ma c’è la forma sociale e cioè l’uomo e il lavoro come socialmente determinati.

L’uomo può conservare sé stesso solo in una forma sociale: tra riproduzione della vita e socialità non c’è differenza, e perciò l’uomo è da sempre un animale sociale che non si presenta mai nella forma dell’Individuo. Marx scrive che la cooperazione è essa stessa una forza produttiva, e che forse è la più importante delle forze produttive.

  • Se i primi quattro momenti non vanno letti come facenti parte di una successione cronologica, il 5° viene dopo e va letto secondo la categoria della successione, poiché esso essendo la coscienza presuppone tutti gli altri gradi e viene dopo e appare anzitutto, nella lettura di Marx, come linguaggio: nella filosofia di Marx il linguaggio è la metafora iniziale di tutta la sfera ideologia, la superstruttura elementare che ha il carattere di tutte le superstrutture.

La coscienza è perciò successiva ed è conforme alla produzione e alla riproduzione della vita; per produrre e riprodurre sé stessa, l’umanità ha bisogno del linguaggio solo tecnicamente, in quanto forma della comunicazione, ed è solo nell’Ideologia che esso perde la coscienza della sua genesi dalla vita reale: il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno e dalla necessità di rapporti con altri uomini.

Marx così pone il problema del fatto che il sistema sociale si costituisce a prescindere dall’apparato ideologico che lo attraversa, e proietta i suoi rapporti di forza nella sfera ideologica: l’Ideologia non è costitutiva del sistema sociale e non determina la riproduzione del sistema ma è il riflesso delle condizioni e dei rapporti sociali (tesi che sarà sostenuta soprattutto nel Marxismo sovietico, da Lenin a Stalin).

Ma così nasce il problema di come la sfera ideologica possa essere così concepita nella contemporaneità; bisogna precisare che Marx è spinto da un’esigenza polemica e di radicalizzazione, affermando il principio che le idee non costituiscono né la realtà e né l’oggettività, ma ne sono costituite.

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Recensione: IL DIVINO PLATONE, di Stefano Cazzato

Pasquale Amato

Per una coincidenza che Jung avrebbe definito “sincronica”, il libro di Stefano Cazzato mi è capitato tra le mani quando avevo appena finito di leggere Filosofia e poesia di Maria Zambrano (ed. Pendragon, Bologna 2018), in cui la filosofa spagnola analizza i segni della profonda ferita a suo parere inflitta alla riflessione occidentale dal rifiuto platonico della poesia a favore della razionalità, pur sospettando che Platone stesso, con una certa “doppiezza”, proprio nell’atto di condannarla riaffermasse, per negazione, il valore della poesia.

È proprio a partire da tale condanna che Cazzato, esaminando specifici brani dei dialoghi platonici, individua e segue le tracce di una costante nostalgia che sembra indurre Platone, subito dopo la perdita del suo maestro, al recupero di quel talento poetico che gli insegnamenti dello stesso Socrate lo avevano convinto ad abbandonare. In ogni caso, credo che il richiamo alla Zambrano trovi un senso più generale nell’evidente espressione del comune bisogno, implicita nello scritto di Cazzato – al di là del riferimento a Platone, e da esso rafforzata –, di promuovere un pensiero intero, un atteggiamento filosofico cioè che si avvalga tanto della logica quanto della sensibilità poetica.

Le argomentazioni di Stefano Cazzato si dipanano attraverso le evidenze che la produzione platonica fornisce alla sua tesi di fondo, agganciate a quella sorta di autocritica che, nella Lettera VII, Platone fa sul percorso filosofico fin lì compiuto, e nella quale Cazzato identifica elementi significativi di un ripensamento provocato dal dolore per la morte di Socrate e dall’esigenza di divino che spinge il filosofo a cercare appoggi nella tradizione mitologica e misterica.

Noi lettori, più o meno preparati, possiamo tra l’altro cogliere una preziosa occasione per usufruire di una ricca panoramica – originale e tutt’altro che superficiale – dei dialoghi platonici, tra i quali Cazzato necessariamente trasvola, con disinvolta e solida competenza, per approfondire le questioni centrali del suo studio.

Preliminare, strategico e per me di particolare interesse, il secondo capitolo dell’opera [pp. 31-42] riassume la riflessione platonica sulla possibilità limitata che l’uomo ha di conoscere “ciò che realmente è”, vista la natura difettosa dei quattro strumenti di conoscenza – i nomi (instabili e mutevoli, quindi inaffidabili), la definizione (incerta attività che combina nomi e verbi), l’immagine (soggettiva in quanto frutto del percepire e della sensazione), la conoscenza (opinabile perché riferita alla “copia” di cose di cui sappiamo poco e niente) – a cui aggiunge “una quintessenza” senza nome, esterna ai confini della ragione. La ragione umana (costituita dai quattro primi necessari elementi), e dunque la filosofia, può giungere a “una opinione vera”, che però non è la verità, la cui ricerca resta allora “incerta e problematica” e richiede di essere affidata, non al logos, ma alla visione che consegue a un’intuizione, a una illuminazione (Hannah Arendt, nota Cazzato, la assimila al nous privo di linguaggio).

Ecco perché il mito interviene in Platone con la funzione supplente di dire narrativamente, facendo leva sul verosimile, quello che la ragione universale è impotente a svelare e il linguaggio comune a dire. Max Müller diceva che la «mitologia non scompare mai del tutto» perché mai del tutto la ragione può rivelare il segreto delle cose. [p. 36]

Il ricorso a Wittgenstein diventa a questo punto ausilio imprescindibile e chiarificatore.

Resta nella conoscenza umana una difettosità o “debolezza” di fondo, un errore di impostazione che sta nel cercare in un certo modo ciò che meriterebbe di essere trovato in modo diverso. Bisogna scendere dalla scala o gettarla via per vedere rettamente il mondo. E non restare appesi alla propria soggettività. [p. 37]

Tra le righe delle tesi logico-razionali che caratterizzano i dialoghi platonici, Stefano Cazzato indaga allora nel non-detto, nell’implicita ricerca di un registro che vada oltre il logico, nella trapelante urgenza di una connessione al divino con cui Platone conta di poter raggiungere la verità delle cose.

In questo ulteriore confronto con il filosofo ateniese – è il suo quarto lavoro su Platone –, Cazzato si fa scortare e confortare da pensatori che gli sono cari: Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Vattimo, per concludere con Simon Weil, il cui apporto consolida l’ipotesi di un Platone alla fine rivolto a una visione dell’essere indissolubile dal nesso al divino, e in tale posizione convinto della necessità di un pensiero perfezionato da componenti che superino l’assetto logico e razionale.

Senza dimenticare, pregiato, il contributo introduttivo di Lucio Saviani, che invoglia, orienta e avvia la lettura, suggerendo l’attinenza delle idee di Cazzato con un’implicita trattazione del limite e, per contro, dell’ispirazione (ambizione) all’oltre, al mistero.

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NIETZSCHE UND HEIDEGGER ZWISCHEN TECHNIK, GOT UND KÖRPERBEGRIFF

Massimiliano Polselli

“Nur ein Gott kann uns noch retten”[1]. sagte Heidegger 1966 in einem Interview mit dem Spiegel. Didier Franck zufolge droht eine Gefahr, wenn man die Hilfe eines Gottes anruft. In der Zwischenzeit handelt es sich um eine “radikale” Gefahr, denn angesichts des “Tons” eines solchen Ersuchens dürfte es sich nicht um eine Bedrohung wie jede andere handeln, sondern um ein Risiko, das das Sein selbst in Frage stellt. Das Schicksal des Seins selbst und seine Wahrheit einer Gefahr auszusetzen, die in der Tat übermächtig ist.

In der Zwischenzeit ergibt sich als erstes Element, dass die Gefahr dem Sein selbst angehört, sie ist keine Gefahr außerhalb des Seins, denn Heideggers Hilferuf richtet sich nach außen, nämlich an einen Gott, der das Sein in seiner Totalität von dieser Bedrohung befreien kann.

Daraus folgt, dass die Gefahr von unserem Wesen ausgeht.

Aber diese Bedingung kann durchaus eine andere, noch beunruhigendere Bedingung voraussetzen: Die Gefahr kann nicht zum Sein gehören, ohne dass das Sein selbst die Gefahr ist. Aber wenn schließlich das Sein niemals gegeben oder bestimmt ist, außer im Zeichen einer Epoche, und wenn unsere Epoche die Epoche der Technologie ist, in der “das Sein in seinem Wesen die Gefahr seiner selbst ist”[2]. muss man zunächst feststellen, dass die Technik in ihrem Wesen die radikale Gefahr ihrer selbst ist.

Es ist also notwendig, das Wesen der Technik im Sinne Francks zu klären und zu begreifen.

Man kann mit den technischen Werkzeugen des täglichen Gebrauchs beginnen, um zur eigentlichen Bedeutung der Technik zu gelangen: Wenn man beispielsweise einen elektrischen Schalter betätigt, schaltet man eine Lampe ein, um Licht zu machen. Elektrizität ist Energie, die, um verbraucht zu werden, in einem Wasserkraftwerk erzeugt werden muss, das am Ufer eines Flusses, z. B. des Rheins, steht und dessen Wasser in Turbinen leitet. Der erzeugte Strom wird dann über Kabel, die an Masten befestigt sind, transportiert, um dann nach Belieben verteilt und verbraucht zu werden – allein durch den Druck auf unseren Startschalter. Es zeigt sich also, dass die Technik alles in seiner Gesamtheit an sich selbst sendet!

Das heißt, die Welt des Wassers und damit der Rhein selbst, die Ebene, in der die Hochspannungsmasten stehen, die Geste des Menschen, der das Licht einschaltet, die Behausungen und Orte, die ganze Menschheit ist darauf ausgerichtet, also auf Technik. Alles, was ist, fällt als ständiger Fundus der Verwertung für die Technik oder wird für eine mögliche Verwertung hinterlegt. Die Technik erfindet das Sein als diesen Fonds. Folglich setzt sich das, was ist, nicht mehr als Gegenstand unter dem Gesichtspunkt der Bestimmung des Seins ein, auch nicht als technischer Gegenstand für oder in Bezug auf jemanden oder etwas, denn für die Technik selbst gibt es keine technischen Gegenstände mehr, sondern nur noch den Bestand, ein Begriff, der “Reserve” oder “Depot” bedeutet. Nun ist dieser ontologische Titel, den der Begriff der Technik annimmt, nicht willkürlich, da er mit dem griechischen Sinn von τέχνη zusammenhängt, der sie als eine Art und Weise von ἀληθεύειν beschreibt und nicht als ein Mittel oder Instrument, das einem Zweck[3] entsprechend organisiert ist. Eine Technik ist in der Tat “die Art und Weise zu betrachten, in der etwas entsteht, was sein kann oder nicht sein kann und dessen Prinzip (ἀρχή) im Produzenten (ποιούντι) und nicht im Produkt[4] begründet ist”. Die Technik steht also im Zusammenhang mit der Produktion, mit dem ποίησις. Letzteres ist weder die handwerkliche Produktion noch die Schaffung eines künstlerischen Werkes, sondern, wie schon Platon sagte, die Bewegung, die aus der Nicht-Präsenz in die Präsenz führt. Dieses Kommen gründet sich auf das, was wir “das Entbergen” nennen, und beginnt damit. Die Griechen verwenden dafür das Wort ἀλήθεια[5]. Der φύσις, die Natur, ist also ebenso Teil der ποίησις wie die τέχνη.

Da das Wesen der Technik ein Schicksal der Enthüllung ist, ist der Mensch dadurch selbst gefährdet. Das heißt, der Mensch selbst wird innerhalb eines Mangels an Objekten zu einem “Fonds” für die Technik, er selbst wird zu einer Art Kommissar des Fonds. “Und in diesem Moment rühmt er sich der Rolle des Herrn und Meisters der Erde. Denn er selbst sieht alles, was ihm begegnet, als sein Produkt. Und dieser Schein erzeugt eine letzte Illusion: Es scheint, dass der Mensch überall nur sich selbst begegnet[6]. Nun ist die Figur des Menschen als “Herr und Meister” nicht griechischen Ursprungs, sondern biblisch[7]. In diesen Bibelstellen kann der Mensch als Ebenbild Gottes bezeichnet werden, weil er sich die Erde und die Tiere in gleicher Weise untertan macht, wie Gott über die gesamte Schöpfung regiert. Der Mensch ist das Ebenbild Gottes, weil er der Herrscher ist und weil er seinen Auftrag erhalten hat.

Wenn die Technik den Menschen zum Herrscher über die Erde zu machen scheint, ist der Wille des Menschen, der mit dem allgegenwärtigen Willen der Technik zusammenfällt, zu seinem eigenen Objekt geworden. Das heißt, sie ist die Grundlage und damit die Domäne der modernen Technik. “Die Technik ist die Organisation und das Organ des Willens des Willens”[8]. Der Wille der Technik erschöpft, blutet aus, erschöpft das Sein und führt die Natur zu grenzenloser Verwüstung, indem er sie aus dem Kreis ihrer Möglichkeiten reißt. Dies geschieht jedoch, weil der Wille der Technik tatsächlich vom göttlichen Willen selbst “befohlen” wird.

Die Erde unter den Füßen zertreten, bis zur Erschöpfung. Der Wille des Willens ist also in zwei Richtungen zu verstehen: Der Mensch ist die Erfüllung des göttlichen Willens, wie die Worte des Alten Testaments sagen, und der Mensch sieht dadurch seinen eigenen Willen als fähig an, sich die Erde zu unterwerfen und das Wort des Alten Testaments zu erfüllen. Andererseits fällt der eigene Wille mit dem Willen der Technik zusammen, der die Erde zu Mühsal, Abnutzung und Veränderung des Künstlichen führt und sie aus dem Kreis des Möglichen in Richtung des nicht mehr Möglichen und damit Unmöglichen zwingt[9].

Aber wir könnten das Wesen der Technik nicht vollständig bestimmen, wenn wir nicht zuerst den wesentlichen Charakter des Schöpfergottes bestimmen würden, von dem das Wesen der Technik nur kommen kann.

Erstens setzt die Verkündigung der Gesetzestafeln, die Israel gegeben wurden, die Erwählung und den Bund mit den Menschen voraus[10]. Vor allem aber zeigen sie, dass der Mensch in der Lage ist, auf ein von Gott gewolltes Gebot hin zu wollen. Damit aber wird der menschliche Wille durch den göttlichen Willen negativ, d.h. durch Verbote, bestimmt. Der Mensch ist also der Wille, der das wollen muss, was Gott nicht will.

Kurz gesagt, der menschliche Wille wird von der Negation bewohnt. Mit dem Tod Gottes wird also der Wille des Menschen zum Herrn und zur Herrin der Erde. Solange Gott lebt, bleibt der Mensch also dem Herrn als übergeordneter Macht und Willen unterworfen; mit dem Tod Gottes ändert sich das jedoch. So entfaltet sich das Wesen der Technik als Entfesselung eines Herrschaftswillens als Wesensbestimmung des Menschen und kommt ins Spiel, wenn der Sinn für die Transzendenz eines Gottes und seines Willens geleugnet wird. Solange aber Gott lebt, bleibt der Mensch dem Herrn als einer höheren Macht und einem höheren Willen unterworfen.

Nun aber stellt sich die eigentliche historisch-philologische und philosophisch-ontologische Herleitung des Wesens der Technik. Dies lässt sich nach Heidegger auf das Gegensatzpaar ἀλήθεια/ψεύδος zurückführen, das mit verum/falsum aus der römischen Kaiserzeit, einem Syntagma, letzteres als Wesensmerkmal des alttestamentarischen Gottes bezeichnet und aus dem nach Heidegger das gesamte Missverständnis der gesamten abendländischen Denkgeschichte als metaphysisches Denken von Platon bis Nietzsche entspringt, zum Tragen kommt.

Mit einem komplexen Spiel philologischer Querverweise geht Heidegger vom Wesen des griechischen ψεύδος aus: das ist das lateinische Falsum, dem er die Bedeutung von “fallen” zuschreibt, d.h. fallere, das wiederum vom griechischen Verb σφάλλω ableitbar ist, das ein “in den Irrtum fallen”, “über das Falsche stolpern”, letztlich “sich irren” bezeichnet.

Das Falsum, das dem ἀληθές gegenübersteht, wäre ein solches, d.h. “in den Irrtum zu-fallen”, da es, so könnte man sagen, in einer Weise offenbart wird, wie es sich nicht erwiesen hat, in seiner Nicht-Ganz-so-Schönheit. Das heißt, es ist so, als ob etwas, das sich zunächst auf eine bestimmte Weise manifestiert und uns in einer bestimmten Form erscheint, sich stattdessen auf eine andere Weise offenbart, so dass dies am Ende “den Feind in den Irrtum stürzt und ihn wieder zur Ordnung bringt”.

Nach Franck würde Heidegger so argumentieren[11], weil diese Bedeutung richtig wäre, wenn sie der Bedeutung von ἀλήθεια, eben dem Nicht-Verbergen, dem Falsum als Verbergen, entgegengesetzt wäre. Heidegger selbst interpretiert jedoch gerade diese Stelle nicht so. Denn das Falsum ist nicht deshalb ein solches, weil es sich auf ἀλήθεια in negativer Weise und damit als Verbergung bezieht, denn das griechische Nichtverstehen ist in der Tat schon durch das lateinische Falsum übertroffen und außerdem würde man das eigentliche Wesen von ψεύδος nicht verstehen, da das lateinische Falsum als ‘Fallen’ und ‘Irrtum’ nichts anderes wäre als die Folge des Wesens von ψεύδος selbst, und alles, was zu einem solchen ‘Fallen’ gehören würde, könnte nicht ursprünglich dem ἀλληθές entgegengesetzt sein.

Warum also übersetzten die Römer ψεύδος mit Falsum und machten den Sündenfall zum eigentlichen Wesen des ψεύδος?

 In der Tat ist für Heidegger die eigentliche Verbindung des Falsums mit dem Imperium. Bezogen auf die römische Kaiserzeit bedeutet imperium nämlich Befehl oder Ordnung und führt uns zum Befehl eines dominus, der einem dominus unterstellt ist.

Wenn aber der Beherrschte die Befehle, d.h. das imperium oder preceptum, nicht ausführt, muss der Beherrscher den Untergebenen “zurückdrängen”, indem er ihn “wieder zur Ordnung bringt”, und das tut er, ohne ihn “frontal anzugreifen”, sonst würde er ihn eliminieren. Stattdessen “betrügt” er ihn geschickt, indem er ihn wieder zur Ordnung bringt. Und das wird mit einem eindeutigen Verb gesagt, das im Deutschen jedoch eine doppelte Bedeutung hat: hintergehen, wörtlich “hinter seinem Rücken gehen” oder “umgehen”, was die Bedeutung von “täuschen” annimmt, d.h. wiederum “zu Fall bringen”, “in die Irre führen”. Nachdem Heidegger also den Zusammenhang von Falsum und Imperium aufgezeigt hat, verbindet er ihn nun mit dem Wesen des alttestamentlichen Gottes. Der Gott des Dekalogs, den die Septuaginta mit τους δεκα-λόγους (die zehn Reden) übersetzte, scheint, auch wenn dies paradox erscheinen mag, nicht der Bhefelender Gott zu sein, der Gott, der befiehlt, denn die griechischen Übersetzer übersetzten das Wort das Gebot oder der Bhefel nicht mit “Gebot”. Auch Luther verwendete diese Bedeutung nicht und gab dem Begriff Bhefhelen nicht die Bedeutung von “befehlen, gebieten”, sondern von “empfehlen”, so dass Luther selbst bei der Übersetzung eines Psalmwortes “empfehle Jahwe dein Schicksal” mit “Befhiel dem Herrn deine Wege” übersetzt! Nur in der Vulgata des heiligen Hieronymus wird “Gebot” mit praeceptum übersetzt. Aber warum dieser Diskurs? Der Grund dafür ist, die bereits bestehende, dem Falsum entgegengesetzte Ordnung, die ihrerseits dem Verum entgegengesetzt ist, unter das Imperium des Römischen Reiches zu bringen. Wenn die Verbindung zwischen dem jüdischen Gott und dem Gebot nicht so deutlich erscheint, liegt das daran, dass ein anderes Problem auftauchen würde.

Das heißt, der hebräische Gott ordnet trotz seiner absoluten Herrschaft und seiner substanziellen Autorität mit den Zehn Geboten nicht “militärisch”, er ist kein Gott, der sein Volk militarisiert. Er beginnt zwar mit Geboten, aber er verlangt nicht deren militärische Ausführung oder eine unmittelbare Reaktion seines Volkes, sondern er zeigt ihm “Verhaltensweisen” in einer soteriologischen oder erlösenden Perspektive auf[12].

Wenn Heidegger sich nur auf den Gott der Thora bezöge, würde Heidegger selbst einen Fehler begehen, aber das ist nicht der Fall. In der Tat ist der Gott, auf den Heidegger sich bezieht, vor allem der christliche Gott, d.h. der Offenbarungs- und Mensch gewordene. In dem Sinne, dass das römische Imperium als charakteristisches Merkmal die pax romana hat, mit der es den “irrenden” Feind “stürzt” (falsum), indem es ihn zur Ordnung zurückbringt. So wird im Übergang vom weltlichen Imperium zum kurialen Imperium die göttliche Ordnung der übersinnlichen Welt im Heiligen Römischen Reich völlig aufgehoben oder in den Händen des Heiligen Roms verwirklicht: aber Rom ist nicht Jerusalem! Und obwohl der Papst-Kaiser der Stellvertreter Christi auf Erden und die Kirche sein Leib ist, kommt diese Theophanie nicht voll zum Tragen, weil gerade die himmlische Stadt weit entfernt und transzendent bleibt. Daraus ergibt sich die Unantastbarkeit des “imperium”, der himmlischen Herrschaft über die übersinnliche Welt, im Gegensatz zur irdischen Welt! Es ist also noch etwas gegeben. Gewiss ist dieses Etwas absolut weit von aletheia entfernt, da es das Sein von seiner eigenen Wahrheit verdrängt und entfremdet. Dennoch ist das Sein fähig, selbst in seiner extremsten Vergessenheit und Unausgewogenheit mit der Nicht-Verpflichtung, immer noch ein eigenes Schicksal zu senden, das den Menschen immer noch nicht zum Menschen der Technik macht. Sein Wille, sein Befehl war immer noch durch ein Leben nach dem Tod begrenzt!

Aber was das Verum[13] betrifft, so ist es dem Falsum entgegengesetzt. Das heißt, nach Heidegger leitet sich die Vorsilbe von -ver ab, einer indogermanischen Wurzel, die in den deutschen Wörtern die Wehr, Verteidigung, das Wehr, Schranke und in dem Verb wehrn, widerstehen steht. Und im Althochdeutschen bedeutet wer nicht nur ‘sich wehren…’, sondern ‘sich wehren, um…’, d.h. sich durchsetzen, sich behaupten, aufrecht stehen, im Recht sein, kurzum befehlen und nicht fallen. Heidegger wird sich aber auch auf eine andere Wurzel italischen Ursprungs beziehen: der Begriff veru oder verone bedeutet Tür und basiert wiederum auf einem alten Neutrum weurm – Verschluss, abgeleitet von der Wurzel wer aus dem Sanskrit vrnoti, ‘rinserra’, ‘schließt’, deutsch Wehr[14] . Folglich ist das ursprünglichste signifikante Moment, das mit der Wurzel ver verbunden ist, das der Schließung. “Das Ursprüngliche in ‘ver’ und ‘verum’ ist das Verschließen, Bedecken, Verbergen und Beherbergen und nicht die Verteidigung als Widerstand”[15]. Der griechische Begriff, der dieser indogermanischen Wurzel entspricht, ist ερυμα, die Mauer, die Rüstung, der Verschluss.

Verum schützt also, bewahrt vor Risiken, garantiert das Imperium. Verum ist also rectum und iustum, es ist ius verstanden als Gesetz, das befiehlt. Das ist die Essenz der Veritas: rectitudo, Rechtschaffenheit.

Aber nicht nur das! Von hier aus entsteht in der Tat der Zustand der Philosophie als Metaphysik und Seinsvergessenheit. Mit anderen Worten: Heidegger spielt auf die Verwandlung der ἀλήθεια in ὁμοίωσις an, und das kann nur dazu führen, dass der Mensch von seinem ausschließlich “entschleiernden” Moment und seiner Reaktion als einfacher Empfänger der Seinsaussendung selbst zum “Manipulator” des Seinssinns mit seinen Äußerungen, also mit dem λόγος wird. Damit wird “die Übereinstimmung des Wortes mit dem, was es erscheinen lässt, zur normativen Darstellung” der ἀλλήθεια. Hier trifft nun die ἀλήθεια auf die Veritas: ἀλήθεια[16] als ὁμοίωσις wird zur adaequatio. Veritas est adaequatio intellectus ad rem. Das gesamte metaphysische Denken von Platon bis Nietzsche ist so. Für Heidegger schließt die Untersuchung nun mit der Feststellung, dass das Wesen der Technik als Wille des Willens und als das In-sich-ziehen des Seins selbst aus jener Veritas, Verum romana, hervorgeht, die das Imperium mit der Ordnung der Wahrheit, d.h. durch die Konformität mit dem Gesetz, der Geradheit, der Gerechtigkeit, verteidigen muss, und hier führt die Ratio, d.h. das Kalkül, die berechnende Organisation desselben, zum technischen Charakter: zum Maschinismus. Das Imperium erhebt sich zum Wesen der Wahrheit als Rechtschaffenheit, im Sinne der leitenden und organisierenden Gewissheit der Herrschaft. Vom Imperium geht also für Heidegger die Herrschaftsform der modernen Technik aus.

Aber hier ist der Punkt, an dem es kein Zurück mehr gibt, so Franck. Das heißt, da das biblische Gebot nicht auf das Imperium[17] oder das römische Gebot zurückgeführt werden kann, konnte sich der Mensch der Technik nicht als Herr und Meister der Erde rühmen, indem er das Wort des Alten Testaments erfüllte.

Es ist also an der Zeit, den Zustand der “Verwalter der Erde” und der “Herren der Erde” mit der Wahrheit des Seins und seiner Bestimmung zu verbinden. So findet ein weiterer Übergang statt: vom kaiserlichen verum zum modernen certum. Bei Descartes wird die klare und deutliche Selbstwahrnehmung als Merkmal der Gewissheit des cogito hochgehalten, indem er “als allgemeine Regel festlegt, dass alle Dinge, die wir sehr klar und deutlich wahrnehmen, wahr sind”[18]. Damit erhebt er die klare und eindeutige Wahrnehmung ihrerseits in den Rang der Wahrheit als Gewissheit. Aber die klare und deutliche Wahrnehmung selbst leitet das Kriterium der Autorität vom ego cogito ab, und nur von letzterem begründet sie das erste. Aber das ego cogito selbst ist endlich und unvollkommen und hat die Grundlage seines eigenen Seins nicht in sich selbst. Es gibt also eine Idee an sich, die sich als ihr eigenes Fundament offenbart: die Idee von Gott, die Gott selbst in uns gelegt hat. Die Idee des unendlichen Gottes, der alles, was in den Dingen wahr ist, umfasst, ist die letzte Grundlage der allgemeinen Regel, dass eine klare und deutliche Wahrnehmung die Wahrheit bestätigt. Aber es ist daher notwendig, den Ursprung des Irrtums und der Falschheit aufzuspüren, denn das Sein kommt von einem wahren Gott. Nach Descartes entspringen sie dem Erkenntnisvermögen, das in uns ist, und dem Wahlvermögen, also dem Verstand und dem Willen[19].

Aber formal betrachtet sind der Verstand und der Wille als Ganzes vollkommen. Der menschliche Wille ist in dieser Hinsicht dem Willen Gottes gleichgestellt, rein für sich betrachtet ist der Wille nichts anderes als Freiheit. Der menschliche Wille ist frei, wenn er von der Erkenntnis des Guten und Wahren bestimmt ist.

Das heißt, wenn der Wille zum Guten tendiert, ist es der Intellekt, der dem Willen das Perceptum liefert, um zu folgen oder zu fliehen.

Der Irrtum rührt daher, dass der Wille, der viel weiter und umfassender ist als der Verstand, vom Subjekt nicht in denselben Grenzen gehalten wird, sondern sich auf Dinge ausdehnt, die er nicht beabsichtigt, indem er Böses für Gutes oder Falsches für Wahres wählt. Und das führt dazu, dass das Subjekt täuscht und sündigt[20]. Das “Ich” betrügt sich selbst, wenn es seine Freiheit über das hinaus nutzt, was es sich klar und deutlich vorstellt. Wenn aber der Irrtum ein usus libertatis non rectus ist, so ist dies möglich, weil die Wahrheit selbst schon vorher als Rechtschaffenheit verstanden worden ist.

Nach Heidegger findet auf diese Weise bei Descartes eine “Enttheologisierung” statt[21]. Das heißt, die ursprünglichen Aussagen des christlichen Glaubens gehen in die des philosophischen Wissens über. Dies impliziert jedoch eine Verschiebung von der Gewissheit des Glaubens zu der des Wissens, das sich selbst kennt, so dass sich letzteres von ersterem ablöst.

Zum Beispiel die kartesianische Forderung nach einer absoluten und unanfechtbaren Grundlage der Wahrheit

Sie entspringt der Befreiung, mit der sich der Mensch von der Bindung an die Wahrheit der christlichen Offenbarung und der Lehre der Kirche befreit, um ein Gesetz zu schaffen, das auf sich selbst beruht. [22]

So wird die christliche Beschreibung des Menschen als ens finitum durch eine gewisse existenzielle Analytik der modernen Philosophie entideologisiert, so dass es zu einer Umkehrung der Positionen kommt: In denselben Wurzeln der christlichen Dogmatik geschieht es, dass der Mensch selbst zur Transzendenz wird und damit das ontologische Problem in einem existenzialistischen Schlüssel wieder aufmacht. Indem man nämlich ein Konzept der christlichen Dogmatik in die Philosophie einbringt, geht man zu einer schleichenden und radikalen Theologisierung der Philosophie über, indem man Gott selbst in die Vernunft einführt. In der Tat hat die kartesianische Enttheologisierung als letzte Konsequenz die spekulative Assimilation Gottes.

So kann nur Gott selbst mit seinem Tod sich vergessen machen und nur der Tod Gottes kann eine radikale und endgültige Enttabuisierung bewirken. Denn wie jede Bewegung bringt auch die Deteologisierung immer wieder ihren eigenen Ursprung mit sich. Solange der in Christus geoffenbarte Tod Gottes nicht zum Gegenstand einer frontalen Erklärung gemacht wird, solange das Ganze der Offenbarung mehr umgangen als angesprochen wird, bleibt die Bewegung der Enttologisierung von Gott zum Sein und von der Theologie zu einer allgemeinen Ontologie unzureichend. Man kann sagen, dass Descartes auf das cogito überträgt, was der heilige Thomas, der die Gewissheit des Glaubens über die des Wissens gestellt hatte, allein der göttlichen Wissenschaft zuschrieb[23].

Und hier ist Nietzsche. Auch für ihn ist das Reale das Richtige, das sich an das Reale anpasst, um es einzurichten und zu sichern. Das Reale hat den Willen zur Macht als grundlegenden Charakterzug. Der Konformist muss sich nach dem Realen richten, also muss er ausdrücken, was das Reale sagt, nämlich den “Willen zur Macht”.

Sie legt fest, woran sich jede Konformität zu orientieren hat. Was mit dem Willen zur Macht übereinstimmt, ist das Gerechte, d.h. die Gerechtigkeit. Nietzsche verwendet den Begriff “Leben” auch häufig, um den “Willen zur Macht”[24] auszudrücken. Gerechtigkeit ist also der höchste Repräsentant des Lebens selbst, als Wille zur Macht: Gerechtigkeit, im nietzscheanischen Sinne, stellt den Willen zur Macht dar. Darüber hinaus ist die göttliche Gerechtigkeit sowohl eine Gerechtigkeit in Gott als auch eine, die aus rationalen und freiwilligen Handlungen kommt, d.h. sie kommt auch aus Werken, und so ordnet Heidegger das Wort göttliche Gnade, Gerechtigkeit in Gott dem Wort Sein unter[25].


[1] «Spiegel-Gespräch», in Der Spiegel, Nr. 23/1976, pag. 209.

[2] «Die Gefahr», in Bremer und Freiburger Vorträge, Gesamtausgabe (G.A.), Bd. 79, pag. 54.

[3] Cfr. Etica Nicomachea, 1139 b 15 sgg.

[4] Id., 1140 a 12 sgg. Cfr. Heidegger, Platon: Sophistes, G. A. Bd. 19, pagg. 40 sgg. e «Die Frage nach der Technik», in Vorträge und Aufsätze, pag. 17; trad. Franc. pagg. 18-19; trad. it. pagg. 9-10.

[5] «Die Frage nach der Technik», in Vorträge un Aufsätze, pag. 15; trad. it. pag. 9. Qui Heidegger cita il Convivio, 205 b.

[6] Id., pag. 22; trad. it. pag. 14.

[7] Si tengano presenti qui le citazioni bibliche ed evangeliche: Salmo XCVII, 5 cfr. Isaia, XLI, 15-16, Matteo, XI, 25; cfr. Luca, X, 21, ed Atti, XVII, 24; I Cor. X, 26 e Salmo XXIV, 1. Genesi, I, 27-28.

[8] Heraklit, G. A., Bd. 55, pag. 192.

[9] «Überwindung der Metaphysik», in Vorträge und Aufsätze, pag. 94

[10] Esodo, XX, 2.

[11] Parmenides, G. A., Bd. 54, pag. 58

[12] Nel 1935, nell’Introduzione alla metafisica, Heidegger aveva però tradotto «οί δέκα λόγοι» con «Die zehn Gebote Gottes»; G. A., Bd. 40, pag. 143.

[13] Cfr. Introduzione alla metafisica, Heidegger, pag. 60 sgg.

[14] E. Benveniste, Le vocabulaire dei institutions indo-européennes, tomo 1, pag. 311.

[15] Id., pag. 111 sgg.

[16] Parmenides, G. A., Bd 54, pagg. 70-71.

[17] Id., pag. 74 sgg.

[18] Meditation III, in Descartes, Œuvres, edizione Adam-Tannery, IX-1, pag. 27.

[19] Meditation IV, id., pag. 45 (trad. it. pag. 52); cfr. Einführung in die Phänomenologische Forschung, G. A., Bd. 17, pagg. 130 sgg.

[20] Cfr. Sant’Anselmo che, nel De veritate, definisce la verità come «la rettitudine percepibile al solo spirito» e, nel De libertate arbitrii, il libero arbitrio come “il potere di salvaguardare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa”, in L’œuvre d’Anselme de Canterbury, ed. M. Corbin, tomo II, pagg. 160 e 218

[21] Einführung in die phänomenologische Forschung, G. A. Bd. 17, pagg. 159 e 311.

[22] «Die Zeit des Weltbildes», in Holzwege, G. A., Bd. 5, pag 107; cfr. Nietzsche, Bd. II, pag. 144 sgg. e 320 sgg.

[23] Cfr. Summa teologica, II-II, Q. 9, art. 1, sol. 1 et Q. A, art. 8.

[24] Parmenides, G. A., Bd. 54, pag. 77.

[25] Disputatio contra scholasticam theologiam. 1517, tesi n° 40, in Werke, Bd. I, pag. 226.

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Was ist die Seinslehre von Hegel? Kurze Exposition des Systems.

Amelia Forte


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Der erste Teil der Logik ist die Wissenschaft vom Sein.
Ihr Gebiet ist das unmittelbare Sein und seine unmittelbaren Bestimmungen: Qualität, Quantität, Maß. Die Welt bietet sich uns zunächst als eine Gesamtheit unabhängiger Existenzen an, die unterschiedlich qualifiziert und quantifiziert, teils verstreut, teils in mehr oder weniger homogenen Gruppen zusammengefasst sind. Diese Existenzen stehen untereinander in Beziehung, aber diese Beziehungen scheinen ihnen äußerlich und gleichgültig zu sein und erscheinen ebenfalls nur als bloße Tatsachen. Die gegebene Realität unverfälscht zu erfassen, festzustellen, zu unterscheiden, zu benennen und zu messen, das ist der Ausgangspunkt der Erkenntnis. Doch so einfach diese Vorgänge auch sein mögen, sie beinhalten bereits eine Vielzahl von Kategorien, die wir meist verwenden, ohne uns dessen ausdrücklich bewusst zu sein. Die Wissenschaft des Seins legt diese Kategorien frei, bestimmt durch die dialektische Methode ihre genaue Bedeutung und ihre notwendige Verkettung. Auf diese Weise beweist sie, dass die verschiedenen Bestimmungen des Seins, die scheinbar nur nebeneinander oder übereinander stehen, sich tatsächlich gegenseitig nennen und nur durch ihre Verbindung eine Realität haben. An ihrem Ende wird sie den Begriff der unmittelbaren Existenz vollständig geklärt haben. Dadurch hat sie ihn sozusagen zum Verschwinden gebracht. Sie hat uns verstehen lassen, dass das unmittelbare Sein, selbst wenn es in seiner Gesamtheit betrachtet wird, sich nicht selbst genügt, dass es für sich genommen widersprüchlich und absurd ist, dass man, um es zu hören, sich in eine Sphäre erheben muss, die es beherrscht und in sich aufnimmt: die der Reflexion und der Essenz.

Wie wir bereits festgestellt haben, muss der Ausgangspunkt der Logik die abstrakteste und leerste Idee sein, d.h. die Idee des Seins, des reinen Seins, des Seins, das nichts anderes ist als das Sein ohne irgendeine Art von innerer oder äußerer Bestimmung, ohne Qualität, ohne Beziehung. Das so verstandene Sein ist im Grunde nur die leere Form der Bejahung, eine Bejahung, durch die nichts bejaht wird. “Wenn man hier von einer Intuition sprechen kann, gibt es nichts im Sein, das diese Intuition erfassen könnte, oder wenn man so will, ist es selbst nur diese reine und leere Intuition. Es gibt auch nichts in ihm, das Gegenstand eines Gedankens sein könnte, oder, wenn man so will, ist es selbst nur dieser leere Gedanke. Das unmittelbare, unbestimmte Sein ist in Wirklichkeit das Nichts, nicht mehr und nicht weniger als das Nichts”.

Andererseits ist “das Nichts, das reine Nichts, einfach gleich mit sich selbst, vollkommene Leere, völlige Abwesenheit von Bestimmtheit und Inhalt, Ununterscheidbarkeit in sich selbst. Soweit hier von Intuition oder Denken die Rede sein kann, gibt es einen Unterschied zwischen dem Wahrnehmen und Denken von etwas oder nichts, es sind zwei verschiedene Tatsachen, daher ist das Nichts in unserer Intuition oder in unserem Denken, oder vielmehr ist es die Intuition des leeren Denkens selbst; dieselbe leere Intuition oder leeres Denken wie das Sein. – Das Nichts ist somit dieselbe Bestimmtheit oder vielmehr dieselbe Unbestimmtheit wie das Sein, jedenfalls ist es dasselbe Ding.”

Somit ist der absolute Gegensatz von Sein und Nichts nicht wahr, da er nicht formuliert werden kann, ohne sich selbst aufzuheben und sich in Identität zu verwandeln. Ihre Ununterscheidbarkeit ist rein und einfach, ihre vollständige Identifikation ist ebenfalls nicht wahr, da sie die unmittelbare und absolute Kontradiktion ist. “Wahr ist, dass sie absolut verschieden, aber gleichzeitig untrennbar sind, und dass, sobald man sie trennen will, jedes von ihnen sofort in seinem Gegenteil verschwindet. Ihre Wahrheit ist daher dieses eigentliche Verblassen des einen im anderen, das Werden”.

Das Werden, das wir hier haben, ist ein logisches Werden. Es ist die Einheit von Sein und Nichts, eine Einheit, die noch unbestimmt ist und daher alle Bestimmungen enthält. Es ist das Milieu, in dem sich alle späteren Momente des Seins entwickeln werden. Es darf nicht, wie es manchmal gemildert wurde, als ein Cliangeniont in der Zeit irnaginor werden. Zeit und Raum erscheinen erst mit der Natur. Sie sind der Logif[ie] fremd. Das reine Sein ist nicht das wahre Sein, da es sofort in das Nichts fällt. Wahres Sein ist das Sein, das das Nichts nicht ausschließt, sondern es in sich zulässt, das sich selbst bestätigt, indem es sich selbst verneint und durch seine Negation selbst. Das reine Sein und das reine Nichts sind die abstrakten Grenzen, zwischen denen sich das undefinierte Feld des wahren Seins erstreckt. Dieses Sein ist noch nicht das bestimmte Sein, die Existenz, die wir später noch kennenlernen werden. Es ist nur das Werden, d.h. das Unbestimmbare oder, wenn man so will, das wahrhaft Unbestimmte. Das reine Sein wird zunächst als das absolut Unbestimmte begriffen, aber gerade weil es sich als solches versteht, gerät es in einen Widerspruch. Es bestimmt sich selbst absolut zur Unbestimmtheit. Er schließt von sich aus jede weitere Bestimmung aus und manifestiert sich so als absolut bestimmt. Im Gegensatz dazu ist dieses unbestimmte Feld möglicher Bestimmungen, das Hegel das Werden nennt, das wahrhaft Unbestimmte, das Sein (pii), das dadurch, dass es sich selbst dazu bestimmt hat, seine Negation zu empfangen, aufgehört hat, die Bestimmung auszuschließen. Es ist das Unbestimmte, das als bestimmbar bestimmt wird, die amorphe und flüssige Materie, die alle Formen annehmen kann.

Das Werden versöhnt den Widerspruch von Sein und Nichtsein, aber in ihm entsteht ein neuer Widerspruch. Das reine Werden ist nicht weniger unvorstellbar als das reine Sein und das reine Nichts. Das Werden ist das gleichzeitige Verlöschen von Sein und Nichtsein. Doch mit ihnen verschwindet auch ihr Gegensatz und damit das Werden selbst. Absolut zu werden bedeutet, überhaupt nichts zu werden, folglich bedeutet es, nicht zu werden. Die Unbestimmtheit verwirklicht sich nur als Gleichgültigkeit gegenüber jeder Bestimmung, nur als ständiger Übergang von der einen zur anderen. Proteus kann alle Formen annehmen, aber nicht ohne eine einzige bleiben. Das Werden, die unbeständige und bewegliche Einheit von Sein und Nichts wird sich daher zumindest vorübergehend in ihrer stabilen Einheit festsetzen müssen {vuliigc Einheil). Diese Einheit ist das Sein, aber nicht mehr das unbestimmte Sein des Anfangs, es ist das Sein, das aus dem Zweiwerden hervorgeht und das, wie das Werden, die Negation in sich enthält. Es ist mit einem Wort die Existenz, das bestimmte Sein.

Im bestimmten Sein ist die Bestimmung eins mit dem Sein. Sie tritt nicht wie ein Prädikat zu einem Subjekt hinzu, ihre Beziehung ist nicht die des Universellen zum Besonderen, der Gattung zur Art. Die Bestimmung, die so als konstitutiv für das Bestimmte aufgefasst wird, ist die Qualität. Aber der Prozess, der uns vom reinen Sein zum bestimmten Sein geführt hat, muss sich notwendigerweise, mutatis mutandis, für das Nichts wiederholen. Die Bestimmung der Gegensätze ist eins. Folglich steht dem bestimmten Sein ein ebenso bestimmtes Nichtsein gegenüber, ein qualifiziertes Nichtsein. Das Nichtsein der Qualität ist eine weitere Qualität, die mit den Namen Entbehrung oder Mangel bezeichnet wird. Das Farblose zum Beispiel ist ein Begriff derselben Ordnung wie das Farbige, und das eine kann ebenso gut existieren wie das andere. Daher unterscheidet sich in der bestimmten oder qualifizierten Existenz die Qualität, ohne sich vom Sein zu trennen, von diesem. Das bestimmte Sein ist das Sein der Qualität, eine bestimmte Qualität, die das bestimmte Sein {Daseyn) ist, wird zum existierenden Deter- minat [daseyend), d.h. zum Etwas {Bticas, ali- quid). In dem Etwas werden zwei Elemente, die Qualität und das Sein, gleichzeitig unterschieden und vereint, ihre Trennung wird zuerst gesetzt und dann verneint: Das Etwas ist somit die erste Negation der Negation, folglich das erste wahre Konkrete. Es ist die erste und abstrakteste Bestimmung des Subjekts. Diese Bestimmung wird sich in den höchsten Sphären der Wissenschaft wiederholen. Der Verkauf kann nicht im Zustand der bloßen Abstraktion bleiben. Die Existenz wird als existierend bestimmt, und so muss auch das Leben als Tier, das Denken als denkendes Subjekt und die Gottheit als Gott entstehen.

Das Etwas ist eine neue und konkretere Form des Seins, der eine neue Form des Nichts entgegengesetzt wird. Die Negation des Etwas ist nicht mehr das abstrakte Nichts, das, was absolut nicht ist, sondern das, was nicht das Etwas ist, es ist etwas anderes oder, einfacher gesagt, es ist der andere. Aber auch das Andere ist, für sich betrachtet, ein Etwas, in Bezug auf das das Erste wiederum das Andere ist. Das Etwas geht also in das Andere und das Andere in das Etwas über, so wie vorhin das Sein in das Nichts und das Nichts in das Sein übergegangen ist. Dieser Übergang scheint auf den ersten Blick nur ein Spiel der äußeren und subjektiven Reflexion zu sein. Es scheint, dass es hier nur zwei Etwas gibt, die unterschiedslos das eine und das andere sind nach.

der Reihenfolge, in der ich sie zu betrachten beliebt, und dass der Übergang von dem quchjiic Etwas in das andere nur ein Wechsel des Standpunkts des Subjekts ist, das sie vergleicht. Wenn dies jedoch der Fall wäre, würde das Andere, da es absolut außerhalb des Etwas bleibt, für das Etwas so sein, als ob es nicht wäre; es wäre für das Etwas gleichbedeutend mit dem Nichtsein, dem Nichts ahsulu. Dadurch würde das Etwas sofort seine Bestimmtheit verlieren, die im Grunde nur sein Gegensatz zum Anderen ist, und in das reine Sein zurückfallen.

Der Übergang zum Anderen ist also eine intrinsische Bestimmung des Etwas; so wie das reine Sein sich sofort in Nichts verwandelt, wird das reine Etwas sofort zum reinen oder absoluten Anderen. Die Wahrheit liegt also weder in dem Etwas noch in dem Anderen, sondern in diesem Übergang selbst: Das Etwas ist wesentlich dazu bestimmt, ein Anderes zu sein, ein absolut Anderes, das heißt, es muss ständig ein Anderes werden, es ist wesentlich wandelbar und vergänglich. Dies ist die Veränderung, das konkrete Werden, das nicht mehr Sein und Nichts als Begriffe hat, sondern zwei Existenzen: das Etwas und das Andere. Das ist die Veränderung nach Aristoteles. Die reine Veränderung ist jedoch nicht verständlicher als das reine Werden. In der Veränderung ist das Wesen, das sich verändert, in jedem Augenblick ein anderes als es selbst, aber da seine einzige Bestimmung gerade darin besteht, ein anderes als es selbst zu sein, und da es diese Bestimmung durch seine Veränderung hindurch beibehält, bleibt es in dieser Veränderung ständig mit sich selbst identisch. Dies ist der innere Widerspruch der reinen Veränderung.

Die wahre Veränderung kann nur die Veränderung eines bestimmten Etwas in ein bestimmtes Anderes sein. Die beiden Begriffe müssen bestimmt und relativ zueinander bestimmt sein. Sie müssen ausdrücklich in Beziehung zueinander gesetzt werden. Um das Werden zu verstehen, mussten wir Vètre determiniert (absolut . Um die Veränderung zu verstehen, müssen wir das bestimmte Etwas in Bezug auf das andere setzen. Wir müssen in das Etwas ausdrücklich seine Beziehung zu seinem Gegenteil, d.h. zu dem anderen, einführen. Das Sein des Etwas ist notwendigerweise das Sein für ein Anderes. So zeigt sich das Etwas, das sich bereits als Variable bestimmt hat, hier als Relativität. Dennoch kann diese Relativität keine intrinsische Bestimmung ausschließen. Es wäre kontradiktorisch, wenn nichts nur für etwas anderes wäre, wenn alle Existenz auf ein Außen ohne ein Innen reduziert wäre. Die Existenz des Etwas muss daher in zwei Momente gespalten werden, das Sein in sich selbst oder das innere Sein (an sic h seyn) und das Sein außerhalb von sich selbst oder das Sein für einen anderen. Diese Spaltung kann jedoch nicht bis zur vollständigen Auflösung des Etwas gehen. Es bewahrt seine Identität in diesem Gegensatz von Innen und Außen. Das Etwas ist für andere Dinge das, was es in sich selbst ist, und es ist in sich selbst das, was es für andere Dinge ist. 11 manifestiert seine innere Bestimmung nach außen, und diese ist nur die Virtualität seiner Manifestation. Die Gegenüberstellung von Innen und Außen sowie ihre Einheit zeigen sich hier nur in ihrer abstraktesten Form. Wir werden sie in den höheren Sphären der Logik genauer und konkreter wiederfinden.

Die Relativität des Etwas wird uns dazu führen, seine Endlichkeit zu erkennen. Das wechselseitige Verhältnis des Etwas und des Anderen ist ein wesentlich negatives Verhältnis.

Der andere ist für das Etwas eine Grenze, gleichzeitig findet er selbst seine Grenze in dem Etwas. Die Grenze ist also den beiden gegensätzlichen Existenzen wesentlich gemeinsam; durch sie berühren sie sich und verschmelzen miteinander. Gleichzeitig sind sie aber auch durch sie getrennt. Jede ist und ist nicht, ist sie selbst und anders als sie selbst. Die Grenze ist sowohl der Anfang als auch das Ende des Begrenzten. Sie ist in gewisser Weise auch die Mitte, das innere und konstitutive Element. Das Etwas existiert nur als etwas Bestimmtes oder Begrenztes, und es ist nur innerhalb seiner Grenze ein solches. So ist der Punkt die Grenze der Linie und, man könnte sagen, auch ihr Element, da die Linie nur durch und in ihren verschiedenen Punkten existiert. Die Grenze ist also gleichzeitig das Sein und das Nichtsein des Begrenzten, das, was es setzt und das, was es aufhebt, das, was es ausschließt und das, was es konstituiert; sie ist in jedem Fall der konzentrierte und verwirklichte Widerspruch. Das endliche Sein ist radikal widersprüchlich und selbstzerstörerisch. Die Verneinung des Endlichen ist die Bejahung des Unendlichen. Indem es sich selbst aufhebt, macht das Endliche Platz für sein Gegenteil. Die Unendlichkeit, wie sie sich uns zunächst präsentiert, ist jedoch nicht die wahre Unendlichkeit. Es ist die bloße Antithese zum Endlichen, seine absolute und unmittelbare Negation. So konzipiert, enthält die Unendlichkeit ihre eigene Negation, widerspricht sich selbst und geht unmittelbar in das Endliche über. Die Ausschließlichkeit ist natürlich reziprok. Die Unendlichkeit, die das Endliche absolut ausschließt, ist selbst absolut vom Endlichen ausgeschlossen. Es findet also in ihm seine Grenze. Wir haben geglaubt, das Unendliche dem Endlichen gegenüberzustellen, und wir haben nur zwei Endliche einander gegenübergestellt. Die wahre Unendlichkeit muss sich gegenüber ihrem Gegenteil so verhalten. Sie muss es durchdringen und absorbieren, in ihm enthalten sein und es enthalten. Sie kann nicht nur einen der Begriffe der Anti-Nomenklatur, sondern beide Begriffe gleichzeitig haben. 11 muss mit einem Wort er selbst und sein Gegenteil sein.

Der enthaltene Widerspruch wird sich in einem neuen Aspekt zeigen. Da die Grenze die Negation des begrenzten Wesens ist, verneint das Wesen, das im Wesentlichen Selbstbehauptung ist, seine Grenze. Von diesem neuen Standpunkt aus betrachtet wird die Grenze zum Grenzstein; sie erscheint als ein Hindernis für die Ausdehnung des begrenzten Wesens, und dieses strebt sozusagen danach, sie abzuwehren. Andererseits wird das Sein an sich des Etwas dadurch zum Sollen, d.h. zur Verneinung der Grenze, oder, wenn man das allzu Konkrete des Ausdrucks beiseite lässt, zu einem unbestimmten Streben nach dem Sein. Das Sein-Müssen ist in einem gewissen Sinne bereits die Unendlichkeit, die Unendlichkeit im Endlichen; aber eine noch umhüllte und virtuelle Unendlichkeit. Das “sein müssen” ist die Bestimmung des Endlichen, in der sich seine wesentliche Beziehung zum Unendlichen manifestiert. Der Widerspruch des Endlichen und gleichzeitig seine Endlichkeit bestehen allein darin, dass es nicht das ist, was es sein soll. Um sich von diesem Widerspruch zu befreien, verneint das Endliche sich selbst, verneint die Grenze, die es zu dem macht, was es ist, überwindet sich selbst und dringt in das Jenseits ein. Aber wenn es ins Jenseits eindringt, dann nur, um sich dort selbst zu bestätigen, um dort das zu bleiben, was es im Diesseits war, nämlich das Endliche. Es überschreitet also seine Grenze nur, um sich selbst eine neue Grenze zu setzen, die es wiederum überschreiten muss, und das auf unbestimmte Zeit. So bejaht und verneint das Endliche abwechselnd seine Endlichkeit, setzt und unterdrückt abwechselnd das Unendliche. Wir haben hier zwar die Unendlichkeit in Form eines unendlich fortgesetzten Fortschritts, aber das ist nur eine falsche Unendlichkeit, in der die Endlichkeit nur verneint wird, um sie gleich wieder zu bestätigen. In dem monotonen Wechsel der beiden Begriffe taucht der Widerspruch, der in einem Moment beseitigt wurde, im nächsten Moment wieder auf. Die Lösung erscheint gleichzeitig notwendig und unmöglich.

In dieser falschen Unendlichkeit offenbart sich jedoch bereits die Natur der wahren Unendlichkeit. Der unbestimmte Fortschritt ist in gewisser Weise die äußere und unmittelbare Erscheinung. Um ihn zu lösen, muss man nur seine innere Bedeutung verstehen und ihn auf sein Gesetz zurückführen. Dieses Gesetz ist sehr einfach. Jeder der beiden entgegengesetzten Begriffe verneint sich selbst und setzt sein Gegenteil voraus, aber nur, um es sogleich zu beseitigen und sich selbst durch die Verneinung dieses Gegenteils zu bestätigen. Auf diese Weise erhebt sich jeder der beiden Begriffe, sowohl der endliche als auch der unendliche, zur wahren Unendlichkeit. Die Unendlichkeit besteht nicht in der einfachen Negation der Grenze, von der wir bereits wissen, dass sie widersprüchlich ist. In der wahren Unendlichkeit muss die Begrenzung sowohl verneint als auch bewahrt werden; sie muss so bewahrt werden, dass sie der Selbstbehauptung nicht mehr entgegensteht. Und genau das ist gerade geschehen. Die Unendlichkeit ist das Wesen, das sich in und durch seine Negation bestätigt, das sie abwechselnd setzt und aufhebt und sie zum Instrument seiner eigenen Verwirklichung macht. Dieses Unendliche schließt das Endliche nicht mehr absolut aus. Folglich steht es ihm nicht mehr als ein fremder und antagonistischer Begriff gegenüber, in dem es selbst seine Grenze finden würde. Er nimmt es vielmehr in sich auf und macht es zu einem Moment seiner eigenen Existenz. Er ist es selbst, der ihn setzt, der ihn in sich und für sich setzt. Wie Hegel es ausdrückte, ist das Unendliche in seiner Beziehung zu seinem Gegenteil sowohl einer der beiden Begriffe als auch die gesamte Beziehung. Die wahre Unendlichkeit ist ein Werden, aber ein konkretes und bestimmtes Werden, bei dem die beiden Begriffe, deren Gegensatz sich auflöst, nicht mehr das abstrakte Sein und das abstrakte Nichts oder gar das Etwas und das Andere sind, sondern die Unendlichkeit selbst und das Endliche. Es ist ein ganz inneres Werden, in dem das Unendliche aus seiner Abstraktion heraustritt und sich selbst verwirklicht, indem es sein Gegenteil setzt und aufhebt. Das Gegenteil hört damit auf, eine unabhängige Existenz zu haben, es ist nur noch in und für das Unendliche, es wird gleichzeitig aufgehoben und bewahrt, es hat mit einem Wort nur noch eine ideale Existenz. Die Unendlichkeit als Begriff der Opposition folgt übrigens der Bedingung ihres Gegenteils, und auch sie existiert nur ideell. Aber wenn sie in gewisser Weise nur ein ideales Moment der Totalität ist, ist sie andererseits auch die Totalität selbst. Er ist also zugleich ideal und real: Er ist und er ist für sich. Das so bestimmte Sein, das ideale und zugleich reale Sein, das Sein, das sich selbst durch sein Gegenteil reflektiert, ist Vrtre pour soi . Das Sein für sich selbst ist eine konkretere Bestimmung des Subjekts als das Etwas; mit ihm erscheint bereits in seiner elementarsten Form jene Selbstreflexion, jene vermittelte Identität mit sich selbst, die wir im Bewusstsein und noch ausdrücklicher im Selbstbewusstsein voll verwirklicht finden. Hier haben wir die wahre Unendlichkeit, aber eine rein abstrakte und qualitative Unendlichkeit: die Unendlichkeit als Qualität oder die Qualität der Unendlichkeit, die abstrakte Infi- nität. Wir wissen jedoch bereits, dass die Wahrheit nicht in der Abstraktion liegt und dass diese in einer konkreten Existenz Gestalt annehmen muss. Das Leben für sich selbst muss in einem Leben für sich selbst verwirklicht werden. Das, was als für sich selbst existierend bestimmt wurde, ist ein ijuolque chose, das als solches bestehen bleibt, d.h. eine besondere und exklusive Existenz, die die Virtualität des unendlichen Werdens nicht ausschöpfen kann.

Seine formale Unendlichkeit besteht nur darin, dass er seine vollständige Bestimmung in sich selbst hat und dass es für ihn folglich kein Jenseits mehr gibt. Wenn er nicht mehr durch den anderen begrenzt ist, dann ist er sich selbst seine Grenze. Das ist seine Qualität, und das ist absolut die Qualität in ihrer vollkommenen Übereinstimmung mit seinem Begriff. Nach diesem Begriff ist die Qualität die Bestimmtheit, die mit dem Sein eins ist. Die Bestimmung ist aber nur dann wirklich mit dem Sein identisch, wenn sie aufhört, etwas außerhalb des Seins vorauszusetzen. Diese absolute Konzentration der Bestimmtheit im Sein ist in der formalen Unendlichkeit als Ergebnis ihres inneren Werdens aufgetreten. In diesem Ergebnis schwindet das Werden. Von der Sphäre der Qualität, die sich nun vollständig verwirklicht hat, bleibt nur dieses Ergebnis übrig: das absolut in sich selbst bestimmte Sein, d.h. die Eins.

In der Einheit erreicht die Qualität ihre höchste Realität. Durch die dem Einen eigene Dialektik wird sie in ihr Gegenteil übergehen. Dieses Gegenteil ist die Quantität, d.h. die Bestimmung, die nicht mehr mit dem Sein identisch ist, die sich ändern kann und sich tatsächlich ändert, ohne dass das Sein davon betroffen ist. Das Eine ist wieder das Sein, aber es ist das Sein, das nunmehr durch die Vermittlung bestimmt wird, die in ihm stattgefunden hat und die er supremiert hat. In ihm hat sich die Verschmelzung von Negation und Sein vollendet. Er ist sozusagen die existierende Negation. Seine Existenz ist essentiell negativ oder exklusiv: exklusiv von jeder inneren Vielfalt und von jeder Beziehung zu einem Außen. Er ist das in sich selbst eingeschlossene Sein ohne Kontakt und mit irgendetwas: die abstrakte Einheit und das abstrakte Wesen.

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Critica di T.W. Adorno alla negazione nella logica di Hegel

Fulvio Abbate


                                                                                                                                                     ©  Consecutio Temporum  

Adorno konzentriert sich auf den Begriff des Negativen. Er glaubt, dass Hegel diesen konstitutiven Begriff der Dialektik zugunsten einer Wiederherstellung der Identität aufgibt. Die Identität erscheint wieder siegreich, als “Aufhebung” jener Spannungen und Aporien, die im Negativen zum Ausdruck kommen, die Hegel aber in eine versöhnte Totalität auflösen wollte. Dies sind Thesen, die Adorno in seinem gesamten Werk vertritt, die aber in den Drei Studien über Hegel (1963) und in der berühmten Negativen Dialektik (1966) am deutlichsten hervortreten. Er würde sogar so weit gehen zu behaupten, dass Hegel mit seiner Theorie des Negativen ein mächtiges und doch höllisches logisches Mittel erfindet, um die Differenz auf die Identität zurückzuführen. So sieht Adorno im Negativen eine Kategorie, die der Bewegung der Differenz gerecht zu werden scheint, während Hegel gerade durch den Prozess, der durch den Widerspruch und das Negative ausgelöst wird, einen Weg findet, das Vielfache ein für alle Mal der Einheit und die Differenz der Identität unterzuordnen. In der Logik des Seins, im Kapitel über das Dasein, d.h. das “Dasein als solches” (WdL 1812, 59-66; 80-90)[1]; und im Teil “Bestimmtheit” (WdL 1812, 66-78; 91-107) hat der Begriff Dasein für Hegel die Bedeutung von “bestimmtes Sein”. Das heißt, “bestimmtes Sein”. oder “bestimmtes Wesen” (WdL 1812, 59; 80). Darin ist der Begriff der Negation konstitutiv für das bestimmte Sein, insofern er als Bedingung für die Definition des Begriffs bereits implizit enthalten ist. Außerdem entsteht sie aus der Dialektik von Sein, Nichts und Werden. In dem Teil, den Hegel “Nichtsein und Negation in der Logik” nennt, stoßen wir nun auf den Begriff der Realität. Diese weitere Stufe des determinierten Seins stellt Hegel in Form einer Vereinigung zweier zunächst gegensätzlicher Begriffe dar, bestehend aus dem “Sein an sich” (Ansichsein) und dem “Sein für etwas anderes”.

Diese beiden Momente sind konstitutiv für die Wirklichkeit des Seins. Das bedeutet, dass das Sein, um Wirklichkeit zu erlangen, zugleich als ein Anderes als sich selbst bestimmt werden muss und daher, während es in der Nähe seiner selbst, also “an sich” ist, eine Seite hat, die es dem Anderssein als sich selbst, also dem “Anderen” aussetzt. Im Sein-Sein als Realität haben wir es noch nicht mit einer Bewegung der positiven Bejahung der Existenz zu tun, das Sein-Sein steht noch nicht als singuläre Existenz. Der Aspekt des Anders-Werdens als er selbst, in der Wirklichkeit des Seins, besteht noch immer als gleichgültig neben seinem An-sich-Sein. Außerdem macht Hegel deutlich, dass man es auf dieser Höhe noch nicht mit der Beziehung zwischen einem An-sich-Sein und einem anderen Sein zu tun hat, d.h. man hat es noch nicht mit der Beziehung zwischen zwei verschiedenen und unabhängigen Wirklichkeiten zu tun, sondern die Beziehung zwischen An-sich-Sein und Für-anderes-Sein beinhaltet ein einziges und identisches Sein.  Die Wirklichkeit als Ausdruck der Einheit zwischen diesen verschiedenen Aspekten zeigt, dass das Sein zu einem vermittelten Konzept geworden ist, in dem sich das An-sich-Sein und das Für-den-Anderen-Sein als Momente einer einzigen Wirklichkeit widerspiegeln. Daher kann Hegel das Wirklichkeit gewordene Sein als “reflektiertes Sein” bezeichnen (WdL 1812, 63; 86). Daraus entsteht das “Etwas” (Etwas). Nach dem bisher zurückgelegten Weg hat der logische Prozess gezeigt, dass das Sein als abstrakter Begriff mit dem Nichts identisch ist und als mit dem Nichts identisch nur in der Konkretheit des Werdens wirklich existieren kann; letzteres fällt in das Sein “als solches”; das Sein “als solches” aber, insofern es bestimmtes Sein ist, konstituiert sich als “Wirklichkeit” nur insofern, als es als “Reflexion”, d.h. als Überwindung der beginnenden Spaltung zwischen dem An-sich-Sein und dem Für-andere-Sein, in seiner eigenen Einheit gesetzt wird. Hierin liegt aber der aus Hegels Sicht unbedingt notwendige Übergang von der Dimension der Wirklichkeit zur Dimension des Etwas. Damit das An-sich-Sein und das Für-den-Anderen-Sein die beiden Seiten ein und derselben Wirklichkeit zum Ausdruck bringen können, darf sich diese nicht darauf beschränken, sie als zwei in gegenseitiger Indifferenz nebeneinander existierende Aspekte passiv in sich aufzunehmen, sondern muss aus ihrer gegenseitigen Überwindung positiv als negative Einheit hervorgehen.

Das bedeutet, dass diese Momente nicht einfach voneinander unterschieden werden und gleichgültig bleiben, sondern dynamisch ineinander übergehen. Um sich abzugrenzen, setzt jeder den anderen voraus und löst sich in ihm auf. Die Wirklichkeit des Seins wird so zu etwas positiv Bejahendem, und es ist genau dieser Charakter der bejahenden Selbststellung, der das Sein als Etwas vom Sein als Wirklichkeit zu unterscheiden scheint: “Das Sein”, schreibt Hegel, “ist Insichsein, und als Insichsein ist es existent (Daseiendes), d.h. etwas” (WdL 1812, 66; 89). Nicht-Sein und Negation in Hegels Logik münden also in die Bejahung des An-sich-Seins als Sein, in seine explizite Setzung als singuläres Seiendes, kurz, in seine Selbstbestimmung als Etwas. Hegel schreibt: “Das Sein an sich ist das Verhältnis des Seins zu sich selbst, insofern die Überwindung des Seins durch etwas anderes seine eigene Bewegung ist” (WdL 1812, 66; 90). Hier haben wir nicht mehr ein Verhältnis der einfachen Indifferenz zwischen dem An-sich-Sein und dem Für-andere-Sein; letztere stellen nicht mehr, wie es noch beim An-sich-Sein als Realität der Fall war, verschiedene Aspekte oder Seiten dar, die ruhig nebeneinander existieren. Das Wesen, das zu etwas wird, wird als in sich selbst immanent existierend postuliert, es ist das Ergebnis einer Bewegung der Absorption des Anderen in sich selbst. Wir befinden uns in der Gegenwart einer artikulierten Identität, die ein bestimmtes Werden, eine beginnende Prozesshaftigkeit enthält und zum Ausdruck bringt. In diesem Etwas wird die Negation zum ersten Mal nicht mehr nur eine operative und implizite Modalität, sondern die grundlegende Dimension – das Rückgrat des Konzepts. Und das bedeutet für Hegel, dass wir im Etwas zum ersten Mal einen Anfang der Subjektivität haben. Subjektivität ist bei Hegel immer nur als die Bewegung der Rücknahme eines Anderen in sich selbst gegeben. Dies ist der Grundgedanke der Aufhebung. Hegel schreibt: “In der Folge [der Logik] wird das Etwas genauer als Für-sich-Sein oder als Ding, Substanz, Subjekt und so weiter bestimmt werden”, wobei er präzisiert, dass “allen diesen Bestimmungen die negative Einheit zugrunde liegt” (WdL 66; 90). Die negative Einheit ist also “die Beziehung zu sich selbst durch die Negation des Andersseins”, d.h. die negative Einheit bezeichnet zugleich eine Struktur und eine Bewegung: Sie hat selbstreflexiven Charakter als Selbstreferenz, die die Notwendigkeit voraussieht, sich dem Anderssein auszusetzen, die aber, indem sie das Risiko dieser Aussetzung in Kauf nimmt, auf ihre “Macht” (die Macht des Negativen) setzt, d.h. auf ihre Fähigkeit, es durch eine prozessuale Dynamik in sich selbst wieder aufzunehmen. In der Tat schließt die Hegelsche Passage so: “das Sein also im Etwas ist so ins Negative übergegangen, dass dieses nun allen übrigen logischen Bewegungen zugrunde liegt” (ebd.). Hegel nennt “das Negative” eine “negative Einheit”, d.h. eine Einheit, die sich selbst dynamisch herstellt und ein Verhältnis zum Anderen impliziert, das den Bezug auf sich selbst durch die prozessuale Absorption dessen realisiert, was in seiner Unmittelbarkeit als anders und fremd in Bezug auf sich selbst erscheint Der durch das Etwas konstituierte Fortschritt hat für Hegel jedoch eine Grenze, die durch den unbestimmten Charakter des Etwas selbst konstituiert wird. Es geht nun darum, die Bewegung der Bestimmung voranzutreiben, und zwar so, dass die konstitutive Unbestimmtheit der Bestimmung des Begriffs von etwas selbst überwunden wird. In dem Abschnitt, der der Bestimmtheit gewidmet ist, besteht Hegels Aufgabe darin zu zeigen, wie die negative Einheit, die sich im Etwas verwirklicht, nicht in den Grenzen des Etwas enthalten sein kann, sondern über die unbestimmte Allgemeinheit des Letzteren hinausgeht, auf der Suche nach Konkretisierung. So ist das Etwas als negative Einheit nicht nur die Bejahung seines eigenen Seins in sich selbst durch den Einschluss des anderen Wesens, sondern impliziert die Ausübung einer erneuten Negation des letzteren, als Ausschluss dessen, was das Etwas nicht ist, von sich selbst.

Was das Etwas von sich selbst ausschließt, ist sein eigenes Nicht-Sein, das heißt, sein eigenes Nicht-anders-Sein. Aber das ist die Schlussfolgerung, die Hegel zieht: Etwas kann nicht existieren, ohne mit dem Nichtsein zusammenzufallen, das es auch ausschließt. Dieses Nicht-Sein macht also das wahre und eigentliche Sein des Etwas aus; das Sein des Etwas fällt mit seinem eigenen Nicht-Sein zusammen. Hegel sagt: “Etwas ist nur in seiner Grenze, was es ist” (WdL 69; 94). Indem also die Grenze das Etwas von dem trennt, was anders ist als es, bestätigt sie zugleich, dass das Sein des Etwas nur als negatives Sein gegeben ist, das heißt in Bezug auf das, was das Etwas nicht ist. Diese Dialektik zwischen dem An-sich-Sein des Etwas und dem Sein des Etwas in Bezug auf etwas anderes ist es, die im Begriff der Grenze zum Ausdruck kommt. So fällt das An-sich-Sein des Etwas mit seiner eigenen Grenze zusammen; aber es fällt mit seiner eigenen Grenze nur insofern zusammen, als die Grenze auch den Punkt markiert, ab dem das Etwas aufhört zu sein. Die Grenze bezeichnet sowohl den Bereich, in dem das Wesen des Etwas besteht, als auch den Bereich, durch den das Wesen des Etwas aufhört zu sein. Und so behauptet Hegel mit gutem Recht, dass das Sein des Etwas mit seinem Nichtsein zusammenfällt, während umgekehrt das Nichtsein des Etwas als sein eigentliches Sein erscheint. Der Begriff der “Determiniertheit” drückt diese in die Grenze gestellte wechselseitige Implikation zwischen dem Sein und dem Nichtsein des Etwas aus.  Das Etwas, das durch seine eigene Grenze bestimmt ist, zeigt, dass seine Bejahung als existent mit seiner eigenen Verneinung zusammenfällt. Der Begriff der Grenze ist die Form, die die Einheit zwischen Sein und Nichtsein, deren erster Ausdruck die Kategorie des Werdens ist, auf der Ebene des Etwas annimmt. Wir kommen also zu dem Problem, diese dynamische Einheit zwischen Sein und Nichtsein weiter zu bestimmen, ausgehend von dem im Begriff der Grenze skizzierten Widerspruch. In der Logik von 1812 bestimmt Hegel diese Einheit als “Veränderung”. Dies ist eine höhere Ebene der logischen Konkretisierung als die ursprüngliche Dialektik zwischen Sein, Nichts und Werden. Auf der Ebene von etwas wird die Einheit zwischen Sein und Nichtsein nämlich nicht allgemein als Werden ausgedrückt, sondern gibt Anlass zum Begriff der Grenze. In der Grenze drückt sich diese Einheit jedoch als reiner und einfacher Widerspruch aus, der zur Selbstzerstörung des Etwas führen würde; der Ausdruck des der Grenze immanenten Widerspruchs muss daher dynamisch in Form von Prozessualität und Bewegung realisiert werden. Diese dynamische Verwirklichung stellt sich als eine Veränderung des Etwas dar, d.h. nicht einfach als sein Übergang vom Sein zum Nichtsein und vom Nichtsein zum Sein, sondern als eine Transformation, die seine Bestimmtheit als variablen Ausdruck seiner Grenze investiert. Der Wandel ist die neue Form der Vereinigung zwischen den Aspekten des An-sich-Seins und des Für-den-Anderen-Seins. In diesem Sinne ist die Negation besonders deutlich im Begriff des Etwas aufgetaucht, aber gleichsam als “metalogische” Kategorie, d.h. als ein Begriff, den Hegel verwendet, um die Bewegung innerhalb des Begriffs des Etwas zu beschreiben. Am Ende des Abschnitts über die Veränderung wird die Negation jedoch nicht mehr nur ein Begriff sein, mit dem Hegel die Bewegung der Kategorien beschreibt, sondern sie wird selbst als Kategorie auftauchen: das heißt, sie wird aus der Bewegung der logischen Selbstbestimmung abgeleitet, die sie selbst zu beschreiben und zu artikulieren hilft. Mit dem Ausdruck “die Äußerlichkeit des Andersseins ist die Bestimmung, das An-sich-sein, des Etwas selbst” (WdL 1812, 73; 101) impliziert, dass das An-sich-Sein ein Element des Andersseins hat, das diesmal als konstitutiv für die Innerlichkeit des Etwas erscheint. Entschlossenheit wird somit als Ergebnis einer Prozessualität oder Bewegung verstanden. Es ist kein Zufall, dass der Begriff Bestimmung im Deutschen auch die Bedeutung von “Ziel” annimmt: Die Idee des Ziels drückt eine Orientierung aus, eine Handlungslinie, die auf die Verwirklichung einer Identität gerichtet ist, die wir nicht voraussetzen können, sondern die sich nur im Werden ihrer eigenen Herstellung, in der Bewegung einer freien Prozessualität, etablieren kann. In der Grenze findet etwas nicht mehr sein Sein, sondern sein Nichtsein; die Grenze ist nicht mehr Symbol der Vergewisserung und Rückversicherung in der Identität, sondern deren Negation. Sie wird in diesem Sinne zur Einschränkung. Das heißt, sie ist nicht mehr eine ein für allemal gezogene, statisch gegebene Grenze, sondern eine überwindbare Schranke, das heißt, sie ist der Anfang des Subjekts; daher liegt der Begriff der “Unruhe von etwas” in der Tatsache, die eigene Grenze zu sein und nicht zu sein, diesseits und jenseits der eigenen Grenze zu sein; in der Grenze die Bedingung der eigenen Identität und zugleich die Schranke zu haben, die einen von ihr trennt. Bestimmung ist der Ausdrucksbegriff dieser Ambivalenz, als die Abwesenheit von Befriedung. Wir befinden uns in der Gegenwart eines neuen Widerspruchs, einer neuen Figur des “Negativen”, als widersprüchliche Einheit von Bestimmtheit und Bestimmung. Hegel schreibt dazu: “Bestimmtheit ist Negation im Allgemeinen” (WdL 1812, 77; 106). Und die Bewegung der Negation selbst erweist sich als negativ. “Negativität” ist nicht einfach Negation, sondern sie ist die Bewegung der Affirmation der Negation, sie ist der Prozess, in dem sich die Negation als Kraft des Negativen entfaltet. Hegel schreibt: Die Negation ist das authentische Reale und das Sein an sich. So wird die Hegelsche Logik in dieser Bewegung zu einer Logik der Negation. “Diese Negativität ist die abstrakte Grundlage jeder philosophischen Idee und des spekulativen Denkens im Allgemeinen” (ebd.). Und dann: “Vom Begriff der Negativität müssen wir sagen, dass erst die Moderne begonnen hat, ihn in seiner Wahrheit zu verstehen” (ebd.). Der wesentliche Charakter der Moderne besteht also gerade darin, dass sie diesen Begriff der Negativität in den Mittelpunkt ihrer Überlegungen gestellt hat.  Die Negation spielt in der Logik des Seins eine entscheidende Rolle.

In der Wesenslehre ist es nun nicht mehr einfach eine Negation aller Bestimmtheit, sondern die Negation ist die Bewegung der Wesenseinheit als negative Einheit. Im Falle der Essenz gibt es mehr als nur ein Werden oder einen Übergang von einer Bestimmtheit zu einer anderen, aber jede Bestimmtheit bleibt in der Bewegung der Essenz, die sie setzt. Hegel schreibt nämlich: “Im Wesen ist die Determiniertheit nicht. Sie wird nur durch das Wesen selbst gesetzt” (WdL 1813, 243; 435): sie wird nicht als Wesen vorausgesetzt, sondern existiert nur in Bezug auf die Bewegung des Wesens. Aus diesem Grund verneint das Wesen in der Bewegung, mit der es seine Bestimmungen aufstellt, sofort deren vermeintliche Autonomie und schließt sie in seine eigene Bewegung ein. Daraus ergibt sich die besondere Form der Negativität des Wesens. Er bestimmt die Negativität der Essenz durch den Begriff der “Reflexion”. Die Negativität des Wesens ist Reflexion, schreibt Hegel; und die Bestimmungen des Wesens sind “reflektierte” Bestimmungen, d.h. vom Wesen gesetzt und so, dass sie im Wesen bleiben, insofern sie in der Bewegung des Wesens selbst “überwunden” und wieder aufgenommen werden. Die Essenz bezeichnet nämlich kein Substrat, sondern eine Bewegung oder eine Prozessualität; und die Reflexion wiederum wird nicht als subjektive Denkübung verstanden, sondern ist eine objektive Struktur der Essenz. Sie ist nicht etwas, das sich im “Geist” des Menschen abspielen würde, sondern ist der konstitutive Vorgang des selbstbestimmenden Wesensprozesses. So kommt es zu einer radikalen Verwerfung des Reflexionsbegriffs bei Kant und Fichte, und dasselbe gilt für den Wesensbegriff in Bezug auf die frühere metaphysische Tradition. Im Hinblick auf diesen Begriff der Negativität möchte ich nun das Problem des Negativen und das des Verhältnisses von Differenz und Widerspruch untersuchen und diskutieren. Der Begriff des “Scheins” (Schein), demzufolge die Wesensbestimmungen in diesem Stadium der logischen Entwicklung die Bedeutung von bloßen Erscheinungen haben. Das bedeutet, dass die Bewegung der Selbstbestimmung des Wesens zunächst eine Bewegung der reinen Selbstreflexion ist, denn die spezifisch bestimmten Momente, in denen sie sich artikuliert, sind lediglich die Reflexion eines Prozesses, in dem sich das Wesen ausschließlich zu sich selbst in Beziehung setzt. Indem sie von der Essenz postuliert werden, ist es klar, dass Bestimmungen jeglichen Status ontologischer Konsistenz verlieren und sich als Schein (“Simulacra”) der Essenz selbst offenbaren. Dieser Begriff verdeutlicht noch einmal den Wandel, den der Begriff der Bestimmtheit durchläuft, auf den ich aber, wie ich meine, schon oft genug hingewiesen habe: Die Bestimmtheit wird vorausgesetzt, der Schein wird postuliert. Darüber hinaus erhält der Begriff der “Reflexion” seine spezifisch hegelianische Konnotation gerade in Bezug auf diesen Schein, diese Erscheinung des Wesens in Bezug auf sich selbst. Das grundlegende Merkmal des Scheins ist also die Identität zwischen Unmittelbarkeit und Negativität; der Schein zeigt die Verbindung an, die das Wesen zwischen diesen beiden widersprüchlichen Bestimmungen herstellt. Die Essenz setzt sich in einer Bestimmtheit, aber diese Bestimmtheit wird, insofern sie von der Essenz gesetzt wird, als unmittelbar Nicht-Sein gesetzt, und die Negation in der Hegelschen Logik verliert die Unmittelbarkeit, die sie als Voraussetzung auszeichnete, die Bestimmtheit verliert ihre Unmittelbarkeit und wird zum Simulakrum oder “Schein”, so wie die Negation, die in der Reflexion der Essenz bejaht wird, nicht mehr die an ein Wesen gebundene Negation ist, sondern eine Negation, die sich unmittelbar auf eine Negation bezieht. Die Negation der Negation, die in der Essenz bejaht wird, ist alles, was der Bewegung der Vermittlung innewohnt, die die Essenz mit sich selbst herstellt: Es gibt nichts Unmittelbares mehr, sondern alles ist in die unendliche Bewegung eingeschlossen, mit der sich die Essenz in den Schein stellt, und der Schein bezieht sich nicht auf etwas anderes als sich selbst, sondern nur auf sich selbst. Daher kann Hegel schreiben, dass die Unmittelbarkeit nur diese Bewegung ist, d.h. die Bewegung des Wesens, das sich in den Schein setzt und durch die Aufhebung des Scheins sich in der Identität mit sich selbst wiederherstellt. Hegel bezeichnet diesen Vorgang als eine “Bewegung, die vom Nichts zum Nichts geht und auf diese Weise zu sich selbst zurückkehrt” (WdL 1813, 250; 444).

Das Wesen ist die Bewegung, die aus dem Schein, als negative Bestimmung, die dem Nichts gleich ist, zu sich selbst zurückkehrt als Prozess der Nifikation des Nichts, das der Schein in sich selbst ist. Das Wesen ist also nichts, aber es ist insofern nichts, als es eine Bewegung der aktiven Nivellierung ist, die die Parvance postuliert, sie aber, indem sie sie als bloße Negation postuliert, als gleichwertig mit dem Nichts postuliert und sie daher im selben Moment negiert, in dem sie sie postuliert. Indem sie den Schein vernichtet, behauptet sich die Essenz als nientifizierende Kraft oder Negativität, d. h. als eine Bewegung, die aus dem Nichts, das sich als Schein darstellt, zu sich selbst als Nichts zurückkehrt, die dieses erste Nichts vernichtet hat und sich so in negativer Einheit mit sich selbst wiederhergestellt hat. Es ist klar, dass die Reflexion als unendliche Bewegung der Essenz Gefahr läuft, das Ganze in eine neue Form der Unmittelbarkeit zu stürzen, die mit der absoluten Negativität der Essenz selbst zusammenfällt. Solange sie sich auf die Produktion des Scheins beschränkt, läuft die Essenz Gefahr, nicht nur den Schein ins Nichts zu stürzen, sondern auch sich selbst als rein negative Reflexionsbewegung. Durch diese Passagen zeigt Hegel, wie gerade die Bewegung der Nihilisation, in der die Vernichtung des Scheins zu einem Ende zu kommen scheint, die Negation der Negativität, oder vielmehr die Affirmation der Negativität als Gleichheit mit sich selbst, nach sich zieht. Die Negation des Scheins durch die Essenz ist in der Tat keine externe Negation in Bezug auf den Schein, sondern eine Negation, die durch den Schein selbst auf sich selbst wirkt. Die Negation, die das Wesen auf den Schein ausübt, ist dessen Autonegation, und es ist genau dieser Austausch des Negativen mit sich selbst, den Hegel als “absolute Reflexion” des Wesens bezeichnet. Auf diese Weise wird die Negativität, die sich auf sich selbst bezieht, in eine Negation ihrer selbst als reine Negativität umgewandelt. Hegel kann also argumentieren, dass die Dialektik des Scheins ebenso sehr aus einer “überwundenen” Negativität wie aus einer reinen Negativität besteht. Die Negativität der Essenz als reflektierende Bewegung verwirklicht die Überwindung dieser Negativität und stellt die positive Identität der Essenz mit sich selbst wieder her. Umgekehrt ist die Negativität aber nur in dem Maße als überwunden gegeben, wie sie ausgeübt wird und sich als Negativität in Bewegung entfaltet. Diese beiden Seiten sind untrennbar miteinander verbunden. Es sollte uns nicht entgehen, dass der Begriff “negativ” in diesen Passagen eine grundlegende Rolle spielt. Das Negative erscheint in der Essenz als absolute Reflexion auf der Höhe des Scheins. Das Negative ist der Schein, der sich als Schein unmittelbar in dem Moment negiert, in dem er sich selbst bejaht, und umgekehrt kann er, um sich als Schein zu bejahen, nicht anders, als sich als Negativ zu bejahen und sich damit selbst zu negieren. Das Negative, das auf der Höhe des Wesens bestimmt wird, ist also diese gleichzeitige Bewegung der Selbstpositionierung und der Selbstbestätigung der Parvance; auf diese Weise negiert sich das Negative selbst als negativ. Indem es sich selbst als negativ verleugnet, ist es in der Tat noch in der Gegenwart seiner selbst, als das Negative, das sich gerade verleugnet hat. So wird durch das Negative eine Form der positiven Gleichheit mit sich selbst wiederhergestellt, die jedoch immer noch die des Negativen ist, so dass sie sich wieder in eine negative Gleichheit von sich selbst mit sich selbst umkehrt. Das Ergebnis der Dialektik der Erscheinung führt zu einem der wichtigsten Kapitel der gesamten Wissenschaft der Logik, dem Kapitel über die sogenannten “Bestimmungen der Reflexion”. Der erste beschäftigt sich mit dem Übergang von der Differenz zum Widerspruch, der zweite mit der Überwindung des Negativen, die Adorno in Drei Aufsätze über Hegel und in Negative Dialektik bestreitet. Was – 1 – den ersten Punkt betrifft, so geht es um den Begriff der Differenz und seine Beziehung zu den Begriffen der Identität und des Widerspruchs. Die Position von Deleuze ist sehr klar. In der Tat liest er den Übergang von der Differenz zum Widerspruch nicht als Radikalisierung der Differenz, sondern als deren Entmachtung. In diesen Abschnitten der Hegelschen Logik werden wir Zeuge der Verwandlung der Differenz in einen Widerspruch, denn der Begriff des Widerspruchs ermöglicht es, die Differenz von einer Vielzahl verstreuter Elemente auf eine reine und einfache Dualität von Begriffen zu reduzieren, die in Wirklichkeit ein und derselbe Begriff sind, der einmal als positiv und einmal als negativ aufgefasst wird. Auf diese Weise wird der Widerspruch zu dem Begriff, durch den die Differenz in den Bereich der Identität zurückgeführt und das Vielfältige in die Einheit des spekulativen Begriffs einbezogen werden kann. Das Ergebnis dieser Bewegung, in der der Unterschied durch den Widerspruch in die Identität mündet, ist also das wahre Ziel der Dialektik des Wesens und ganz allgemein des gesamten Hegelschen Denkens. Natürlich handelt es sich nicht mehr um eine Frage der Identität im Sinne der formalen Logik, sondern im weitaus komplexeren Sinne des spekulativen Begriffs.

[1] G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, erster Band: Die objektive Logik, erstes Buch: Das Sein, 1812, in Gesammelte Werke, Bd. 11, hrsg. von F. Hogemann und W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1978, pp. 1-232; trad. it. Scienza della logica. Libro primo. L’essere, 1812, a cura di P. GIUSPOLI, G. CASTAGNARO, P. LIVIERI, Quaderni di Verifiche, Trento 2009. Da noi abbreviata con la sigla WdL 1812, seguita dal G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, erster Band: Die objektive Logik, zwi- tes Buch: Das Wesen, 1813, in Gesammelte Werke, Bd. 11 cit., pp. 233-409; Scienza della logica, trad. it. di A. MONI, rev. di C. CESA, tomo secondo: La dottrina del- l’essenza, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 431-646.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 9

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

3. Finitudine e Colpa (III)

3.1. L’uomo fallibile (II)

3.1.1. La sintesi trascendentale

Il primo momento, la sintesi trascendentale, getta il ponte che abbiamo visto necessario alla trasposizione del patetico nel filosofico, prima individuando, come punto di avvio, l’indagine sulla conoscenza, quindi approfondendo la sproporzione tra conoscere e determinare implicita nel fatto che il potere di conoscere viene esercitato sulla cosa, così come è sulla cosa che la riflessione trascendentale rileva la possibilità della sintesi. Sono proprio le sue caratteristiche di «sintesi proiettata al di fuori, nel mondo, nella struttura dell’oggettività che essa rende possibile»[1] a ridurre la connotazione del potere della sintesi trascendentale ad una “coscienza” che non è, però, coscienza di sé.

La sintesi avviene ad opera dell’enigmatico termine medio della “immaginazione trascendentale”, in virtù della quale l’uomo opera mediazioni per giungere alla costituzione della cosa in quanto «può apparire e essere detta, può sollecitarmi nella mia finitezza e prestarsi al discorso dell’essere razionale»[2]. Questa coscienza che non è ancora coscienza di sé produce, secondo Ricœur, la sintesi del senso e dell’apparenza. La costituzione dei due termini passa attraverso la serrata disamina da parte di Ricœur della finitezza dell’uomo letta nel suo essere prospettiva, punto di vista soggettivo. La finitezza della prospettiva è violabile in forza della parola, della possibilità, cioè, «di dire il punto di vista»[3]. La parola, “finita” se considerata come significazione della percezione, diventa lógoV aristotelico, verbo, quando si rivela possibilità di affermare o negare, estensione della volontà di fare o non fare, fino a delineare i caratteri dell’affermazione umana che si esprime nella correlazione tra il verbo, oggettivo e significante, e l’affermazione, soggettiva e volontaria, cioè, come Ricœur ci ricorda, nella husserliana coppia noesisnoema. In altri termini, la dialettica tra finito e infinito si prospetta come sproporzione tra il limitato momento oggettivo del verbo, conforme ai confini dell’intelletto, e lo sconfinato momento soggettivo in cui la volontà è “padrona”, parafrasando Aristotele, anche di negare il vero oltre che affermarlo, o di negare il falso.

 

3.1.2. La sintesi pratica

Individuata l’«ossatura astratta del mondo della vita»[4], si può progredire nell’indagine accedendo alla questione della totalità, resa filosofica, e perciò problematica, dalla riflessione trascendentale. Oggetto della sintesi pratica non è più la cosa, ma la persona, le cui implicazioni di finitezza e infinità, il carattere e la felicità, sono comunque estensioni pratiche delle rispettive nozioni trascendentali di prospettiva e di senso.

La sintesi ci si ripropone in una sproporzione.

Il carattere, finitezza pratica, destino immutabile ed ereditato dalla persona, si pone come restrizione della possibilità di apertura illimitata ed universale dell’uomo: «il mio carattere è l’origine radicalmente non scelta di tutte le mie scelte»[5].

La possibilità, per il volere umano, di inventare l’idea di totalità, sottopone l’agire alla tensione estrema tra finitudine del carattere e infinito della felicità. Quello che non è dato in nessun atto, è solo indicato «in una coscienza di direzione»[6], in un istinto che mi proietta verso la totalità, che mi «assicura che io sono diretto verso quella stessa cosa che la ragione esige»[7], che mi garantisce la coincidenza tra la mia destinazione e la felicità.

Ora, così come la cosa si costituisce nella sintesi nascosta dell’immaginazione, la persona è luogo di sintesi tra carattere e felicità. È la persona «il che mancava alla coscienza in generale, reciproco della sintesi dell’oggetto»[8], un sé veduto ma non vissuto ancora, «un progetto che io mi rappresento, mi oppongo e mi propongo […] che io chiamo l’umanità; non il collettivo di tutti gli uomini, ma la qualità umana dell’uomo»[9].

Il vissuto nel quale la persona si costituisce è individuabile, sostiene Ricœur, «in un sentimento morale specifico, che Kant ha chiamato rispetto»[10]. Il rispetto è l’intermediario paradossale che nella persona opera la sintesi di carattere e felicità; chiave di una inerenza doppia della persona con la propria sensibilità e con la propria ragione, il rispetto produce il paradosso di un’obbedienza e di una concomitante sovranità, un contrasto che costituisce la fragilità dell’uomo.

[1] ivi, p. 89.

[2] ivi, p. 112.

[3] ivi, p. 98.

[4] ivi, p. 121.

[5] ivi, p. 141.

[6] ivi, p. 148.

[7] ivi, p. 149.

[8] ivi, p. 149.

[9] ivi, p. 150.

[10] ivi, p. 153.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 10

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (IV)

3.1. L’uomo fallibile (III)

3.1.3. La fragilità affettiva

È arduo ripercorrere in maniera succinta l’impegnativo studio che Ricœur intraprende nell’affrontare il momento in cui si costituisce l’aspetto più intimo della dimensione umana, l’espressione conflittuale della soggettività vissuta: il sentimento. Ce ne suggerisce la profondità una definizione ricœuriana dalla quale prenderemo il via: «interiorizzando la dualità che fa la nostra umanità, [il sentimento] la esprime in conflitto; con il sentimento la dualità polemica della soggettività risponde alla sintesi solida dell’oggettività»[1].

Abbiamo seguito Ricœur in un percorso riflessivo il cui centro di interesse, la coscienza, veniva osservata, alla luce della sproporzione che le è propria, secondo una prospettiva inizialmente teorica che la coglieva, in quanto sproporzione sulla oggettività della cosa, come coscienza in generale, mentre la riflessione pratica ci proponeva, come coscienza di sé, la sproporzione sulla umanità della persona. Ricœur ci fa notare che il nostro scopo di restituire al discorso filosofico la tematica che il patetico della miseria ci proponeva in un linguaggio mitico, non è stato ancora raggiunto pienamente, né dalla riflessione trascendentale, né da quella pratica: il bilancio della riduzione operata evidenzia, per un innegabile guadagno in rigore, notevoli perdite in spessore, in profondità.

Ci siamo spinti, in altri termini, alla soglia del mistero, ne abbiamo distinto gli elementi costitutivi, ma nell’adempiere a questo pur necessario impegno, abbiamo dovuto rinunciare ad abbracciare, viva, la «sproporzione per sé»[2]. Ricœur varca quella soglia per esplorare, ora, il misterioso «legame indiviso della mia esistenza con gli esseri attraverso il desiderio e l’amore»[3].

Si apre qui lo spazio di una analisi del momento affettivo, di una filosofia del sentimento che si assume il rischio di colmare lo iato tra miseria vissuta, esperienza viva della sproporzione, e riflessione trascendentale su di essa.

Abbiamo, finora, proceduto a ritroso nel fatto di vivere, abbiamo scisso per conoscere, quando, viceversa, il sentimento si rivela come esercizio della funzione «di collegare; esso collega ciò che la conoscenza scinde; mi collega alle cose, agli esseri, all’essere»[4]. L’oggettivazione è un movimento attraverso cui mi stacco dal mondo per tentare di definirlo; con il sentimento, interiorizzando tutte le sproporzioni, metto in atto l’unione paradossale dell’intenzionalità verso il mondo (che mi porta fuori di me) e dell’affezione dell’io (che mi fa sentire di esistere). Il sentimento, dice Ricœur, «è anche sempre al di qua o al di là della dualità soggetto-oggetto»[5].

Il “non coincidere” dell’uomo è stato precedentemente colto nell’immaginazione trascendentale, agente sulla cosa, e nel rispetto, inerente la persona. Le due sintesi ci dicono, in chiave teorica e poi pratica, la fragilità umana connessa alla sproporzione. La conflittualità del sentimento, il darsi come strana intenzionalità «che da un lato indica qualità sentite sulle cose, sulle persone, sul mondo, dall’altro manifesta, rivela il modo in cui l’io è intimamente colpito»[6], l’esprimere insieme «una mira trascendentale e la rivelazione di una intimità»[7], dimostrano che il sentimento è la cifra della fragilità dell’uomo.

Ma la sproporzione è anche qui, nella dualità di ragione e sentimento, se con Ricœur prendiamo atto che l’una genera l’altro nell’estendersi verso un orizzonte di totalità, mentre il secondo, nell’interiorizzare la ragione, la personalizza. In più il sentimento, letto come desiderio sensibile, è proiettato verso il piacere, in cui placa la sua tensione vitale ad una forma finita di perfezione; la ragione, invece, apre l’ideale di una perfezione infinita, desidera la felicità, si protende nella spirituale ricerca della beatitudine. Ed ecco ancora il conflitto, il dislivello, la polarità di finito e infinito che si presenta come «una nuova scissione, tra sé e se stessi»[8], che trova, stavolta, il suo luogo di mediazione in quel qumóV platonico, termine di mezzo tra ragione (come Eros) e sensibilità, tra vita organica e spiritualità, tra ricerca del piacere e voglia di felicità. Luogo intermedio e nodale della sproporzione, il qumóV, «l’animo, è il momento fragile per eccellenza; il cuore inquieto»[9]. Ma è anche il “misto”, a testimoniare che il conflitto attiene all’umanità dell’uomo, alla sua più originaria costituzione. È per questo, riassume Ricœur, che non potremmo interiorizzare i conflitti esterni, quelli di cui la realtà ci fa partecipi, se non fosse già celato in noi un conflitto tra noi e noi stessi che li fa nostri, conferendo loro la sua originaria nota di interiorità. Noi siamo «già la sproporzione del bíoV e del lógoV di cui il nostro “cuore” soffre la discordia originaria»[10].

La nostra affettività è la conflittuale sproporzione delle sproporzioni: «l’oggetto è sintesi, l’io è conflitto»[11].

[1] ivi, p. 194.

[2] ivi, p. 164.

[3] ivi, p. 173.

[4] ivi, p. 224.

[5] ivi, p. 224.

[6] ivi, p. 166.

[7] ivi, p. 166.

[8] ivi, p. 225.

[9] ivi, p. 164.

[10] ivi, p. 225.

[11] ivi, p. 224.

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Lettera di Hegel

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Jahrbuch für Hegelforschung (15-17/2009-2011). Hrsg. von Helmut Schneider. 978-3-89665-628-5. (Jahrbuch für Hegelforschung Bd. 15) Burkhard Mojsisch, Klaus J. Schmidt: Ein neu entdeckter Hegel-Brief vom 18. März 1826 di CONSECUTIO TEMPORUM.  

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Brevi considerazioni sulle quattro comunicazioni dell’Eterno Ritorno in Nietzsche

Massimiliano Polselli

Le comunicazioni dell’Eterno Ritorno dell’Eguale sono ben quattro: la prima appare ne La Gaia Scienza (1882), la seconda nel Così parlò Zarathustra (1884), la terza in Aldilà del bene e del male (1886), ed infine in Ecce Homo (1888). Dall’altro lato il non dare più spazio allo storicismo, poiché esso produce solo frammenti di realtà e di soggettività, segna un’altra critica radicale di Nietzsche. Tuttavia la principale denuncia che il filosofo di Rõcken esplicita risiede nell’ atteggiamento che porta un esito di una fantasmatica interiorizzazione e formalizzazione della stessa soggettività, conducendola all’azzeramento degli istinti e dei valori del corpo dionisiaci. Tutto ciò trasformò gli uomini in mere astrazioni, poiché l’esito della cultura storicista giunge ad un esito fideistico. La fede ha svalutato il mondo a favore dell’attesa di un aldilà. Così la realtà diventa un NULLA. Ma solo se si prende atto di questa manifestazione del mondo come abisso del Nulla, l’uomo raggiunge tale consapevolezza attraverso il dramma musicale greco, di cui l’opera wagneriana è il suo alter-ego moderno; il NULLA non va rimosso ma fronteggiato e poi superato con la creazione. Visione questa che ruota tutta nel momento della creazione e non sulla fruizione. La tragedia realizza la liberazione dal dominio della Volontà, che Schopenhauer aveva esposto nel “ Mondo come volontà e rappresentazione”[1], e che i Greci superano con l’ inveramento nella “forma”. Ma con il sopraggiungere di Socrate ed Euripide il senso ultimo della natura viene tolto con il Logos che si sovrappone al Sensibile, al vivente, come enorme maschera e che infine la cultura storica incarna. Socrate è colui che verrà definito da Nietzsche come il “mistagogo” della scienza. L’universalità del sapere conduce così la scienza lontano dalla vita. Con Socrate nasce la storia delle idee universali, dimenticando l’uomo, la natura, la vita.

Con “Umano troppo umano”[2] siamo dinanzi alla svolta di Nietzsche: egli abbandona la forma che non è in grado di redimere la realtà e così supera anche Schopenhauer e rompe anche con Wagner. Nel I° cap. di “Umano troppo Umano” (prima edizione 1876) critica l’universo della fede, dell’arte, della morale ed ogni credenza consolidata e dismette il concetto di “Schwärmerei” come “fantasticheria o utopia” che era presente, in quanto esaltazione spirituale, tra le pagine della Nascita della tragedia e nel periodo schopenhaueriano[3] e wagneriano. Così nella II° edizione di Umano troppo umano del 1886, l’arte, la religione, la metafisica divengono per Nietzsche “cose del passato”. In tal senso l’arte è considerata come un’evocatrice di morte poiché resuscita condizioni spirituali che non esistono più. Arte, Religione e Metafisica mostrano in superficie solo un’interiorità esuberante senza radici nel mondo oggettivo, poiché diventano solo produzioni spirituali nelle quali si rivela il bisogno umano di trascendenza. Da qui l’attacco al Cristianesimo[4], al platonismo e al socratismo: il Cristianesimo esalta il trascendente rispetto al mondo. Tale esaltazione era già presente in Platone con la distinzione tra Mondo sensibile e Mondo ideale[5], con la conseguente svalutazione del sensibile e a tutto vantaggio del trionfo della cultura sovrasensibile, cui attingerà anche lo storicismo.

Nella Gaia Scienza[6]si giunge così all’aforisma 125 che riporta icasticamente la seguente comunicazione: Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso[7]. Dio muore al culmine della metafisica occidentale che ha cercato la verità sotto il velo dell’apparenza. Ma l’uomo ancora non ne ha contezza. Inoltre il gesto criminogeno, deicida, non deriva da una presa di posizione ateistica[8], ma è un evento che si è preparato lungo tutta la storia dell’occidente. Ma insieme a Dio in Nietzsche viene a cadere anche una certa idea dell’uomo[9].

Nel Così parlò Zarathustra[10] il pensiero di Nietzsche assume una postura sperimentale. La morte di Dio comporta anche la morte dell’uomo. Così la dipartita di Dio esige la formazione di una nuova umanità in grado di tollerare lo sgretolamento di ogni orizzonte che fa seguito al venir meno dell’Ente supremo. Non più una filosofia che possa riconciliarsi con la Natura[11] ma una filosofia proiettata verso un’ultra umanità capace di dire “Si” alla vita! Con atteggiamento pienamente affermativo. Da ciò emerge un uomo come un “cavo teso tra la bestia e il superuomo: un cavo al di sopra dell’abisso! Aldilà dell’affascinante linguaggio profetico e metaforico, senza alcun intento ontologico e assiologico, Nietzsche passa in rassegna lo spirito venerante, il leone, il bambino, verso l’ultimo uomo: egli è colui che ha saputo della morte di Dio, eternizzando un presente senza aspettative e non crea. In seguito Nietzsche giunge all’uomo bestia che è il risultato più risentito e uccide Dio, ma pur sempre collocato in mezzo al gregge. L’uomo che viene dopo la morte di Dio non intende più un tempo lineare, come nella tradizione cristiano-neoplatonica ed escatologica, ed inoltre modifica e trasvaluta tutti valori rinunciando all’aldilà, eliminando lo stesso spazio trascendente. Nell’opera “Il Crepuscolo degli Idoli”[12] Nietzsche compie il passaggio per la nascita del mondo vero.[13]

Tornando all’opera della Gaia Scienza[14] all’aforisma 341, appare evidente di come Nietzsche parli di un “mondo insensato”, dopo l’avvenuta morte di Dio. Da ciò egli inserisce la dinamica dialettica dei campi di forza in cui si esercita la volontà di potenza.

L’analisi dell’Eterno ritorno dell’Eguale implicherà, per alcuni, uno spostamento dell’asse “storia” e “creazione”, che non saranno più in conflitto, come avveniva nelle Considerazioni inattuali (II considerazione inattuale) o “sull’utilità e il danno della storia per la vita”, rovesciando del tutto la prospettiva dello stesso “nichilismo attivo” di Nietzsche. Di modo che “senso ed “evento” coincidono: ossia Nietzsche rinuncia alla negazione totale di un senso, introducendo quest’ultimo non più come distante e altrove dalla realtà, ma presente esso stesso nella realtà storica.

Il mondo e un nuovo senso (non più tuttavia divino), vengono così in Al di là del bene e del male[15] a congiungersi: la Storia si profila come un divenire senza escaton poiché già tutto ha un senso ed il passato stesso è liberato da ogni estraneità.

Il Nietzsche maturo giunge così, con il prevalere dell’Historia sulle Res gestae, non più alla mortificazione della potenza creatrice dell’uomo, ma la storia si mostra come divinizzazione o forma dell’esistenza. Come se si profilasse una seconda creazione, dopo la morte di Dio, senza scopo e origine.

Ma questo passaggio ad un “senso di Nichilismo significante”, è appunto introdotto dalle comunicazioni dell’Eterno Ritorno dell’Eguale.

In tutti i luoghi – Gaia Scienza (1882), Così parlò Zarathustra (1884), Aldilà del bene e del male (1886), Ecce Homo (1888) –, aldilà della differente narrazione, Nietzsche, affinché togliesse del tutto dall’orizzonte degli eventi, la malcelata e cadaverica – dopo la sentenza “Dio è morto” – ombra divina, collega alla dottrina della Volontà di Potenza la stessa comunicazione dell’Eterno Ritorno in comparazione al problema del tempo, nella dimensione del Passato. Ebbene Nietzsche notò che l’unico ed ultimo “posto” dove ancora l’idea di Dio potesse essere ancora attiva era appunto il non-luogo del Passato. Poiché il Passato designa fatti ed eventi accaduti in un tempo trascorso che non c’è più e questo tuttavia significava anche inquadrare quei fatti, passati e accaduti, come immutabili nel tempo. E’ ovvio che nessuna cosa o fatto accaduto può essere “ripreso” per poi modificarlo[16]. Ossia il passato designa e sentenzia che i fatti passati sono fissati per sempre e resi immutabili nel tempo. Ma l’exit strategy di Nietzsche fu da lui stesso così annunciata: quella stessa Volontà di potenza che ha già accompagnato e dissolto l’Ente supremo, cioè Dio, sta sullo sfondo di ciò che è stato: poiché ciò che è stato, è stato sempre voluto o creato da una Volontà o Forza (umana o naturale) e quindi l’eterno ritorno dell’eguale è ciò che è continuamente voluto all’infinito. In tal modo la volontà di potenza, pur se declinata al passato, vorrà sempre e ancora una volta per sempre lo stesso gesto o fatto (naturale o umano; volontà inconscia o conscia) accaduto e quindi caduto nel passato. In tal modo il Passato non sarà più quella dimensione abissale dove riposa l’Essere permanente con sé (incarnato dal fatto o dal gesto in quanto accaduto e immodificabile), ma è semmai il territorio del continuo scorrere della Volontà che da sempre ed eternamente ha voluto quel gesto o quel fatto: un fiume in piena continuamente mobile e in atto: un precipitare continuo o dileguare della Permanenza in un eterno ritorno della Inconsistenza.

Alcune fuorvianti interpretazioni derivanti da opere, saggi e persino romanzi, daranno vita in seguito ad un’esegetica falsificatrice in senso autoritario della visione di Nietzsche. Al netto delle manipolazioni vere e proprie operate sugli scritti postumi di Nietzsche (in particolare riferibili ai Frammenti Postumi[17]), si noti come, iniziando da alcuni racconti ispirati ai personaggi e agli animali di Nietzsche, da Zarathustra, all’aquila, fino al concetto di Volontà intesa come un insieme di Spirito ed Anima vitalistica, si è assistito ad una vera e propria mitologia nietzscheana[18].

 


[1] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza Ed. 1984

[2] F. Nietzsche, Umano troppo umano, Adelphi Ed. 1982

[3] Si ricorda che l’arte per Schopenhauer sospende la Volontà come principio del Tutto, poiché la coscienza si libera mediante la stessa opera d’arte della volontà. Anche se solo la Musica, come forma d’arte suprema, rispetto alla stessa Tragedia greca, secondo Schopenhauer, libera realmente dalla Volontà poiché non è subordinata a quest’ultima.

[4] F. Nietzsche scrive che senza San Paolo il Cristianesimo sarebbe rimasta una setta orientale, poiché egli con la sua predicazione fornisce il nuovo credo di un impianto teologico-messianico.

[5] Platone, La Repubblica, Laterza ed., intr. M. Vegetti, 2018

[6] F. Nietzsche, La Gaia scienza, Rusconi ed.,2010

[7] Si veda il saggio di M. Polselli, Teoria del corpo e morte di Dio., Stamen ed. 2014, Roma

[8] Ossia Nietzsche vuole far intendere che l’affermazione Dio è morto non è una semplice ed immediata esclamazione emotiva che rapsodicamente un ateo qualsiasi, quasi come per una bestemmia, intende urlare. Tutt’ altro: la morte di Dio è l’esito ed il risultato di duemila anni di transito e cammino metafisico che non poteva non approdare a tale “scomparsa” di Dio stesso. La precisazione viene anche a rinfrancare la comune interpretazione che ex ante ne avrebbe dato lo stesso Hegel, allorquando appare nella stessa Fenomenologia dello Spirito, (Nuova Italia ed.1993 – La Religione II vol. cap.VII., par. C. La religione disvelata; capov 81 pag.255), la stessa frase: Dio è morto: laddove Hegel intende con ciò riassumere il percorso tanatologico di Dio mediante l’impossibilità da parte della Coscienza Infelice di addivenire alla possibilità di autocomprendersi come assoluta ed intrasmutabile. La morte di Dio in Hegel svela piuttosto la morte dell’autocoscienza umana che ancora non ha raggiunto le vette dello Speculativo e dell’Universale, e che quindi il Dio morto sottende l’impossibilità di un Soggetto Assoluto. Per altre considerazioni sul concetto della morte di Dio in Hegel si rimanda al paragrafo ad esso riferito.

[9] Nel V libro della Gaia Scienzala morte di Dio è posta in secondo piano poiché in primo piano Nietzsche colloca prospettive del tutto inedite giacché si schiudono orizzonti inusitati, poiché si distendono allo sguardo dello spirito libero sconfinati approdi.

[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi ed., tr.it. M.Montinari,1976

[11] In tal senso si richiama il pensiero di J. J. Rousseau con l’esaltazione della natura attraverso un senso romantico di essa, intesa come forza pacificatrice dello spirito e come inesauribile fonte di ispirazione.

[12] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi ed., tr.it. F. Masini, 1983

[13] Ivi

[14] F. Nietzsche, Gaia Scienza, Rusconi ed., 2010

[15] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi ed.,tr.it. F. Masini; 1977

[16] Probabilmente Nietzsche lesse e studiò alcuni principii teologici rigurdanti la problematica all’interno dell’onniscienza divina se e come Dio possa o non possa modificare i fatti accaduti nel passato.

[17] Il tema dell’interpretazione nazista della filosofia di Nietzsche sorge allorquando vi fu la pubblicazione postuma nel 1906 della Volontà di potenza avvenuta sotto la supervisione della sorella di Nietzsche, Elisabeth, che raccolse ed ordinò l’imponente mole di appunti scritti dal fratello, operando una serie di tagli ricuciture e manipolazioni al fine di dare non solo alla Volontà di potenza, ma a tutto il pensiero di Nietzsche una connotazione razzista e nazionalista. Solo con l’opera critica e le sue edizioni successive, portate avanti da Giorgio Colli e Mazzino Montinari negli anni settanta fu avviata una ripubblicazione filologicamente rigorosa di tutte le opere di Nietzsche, mettendo in discussione molte interpretazioni che partivano dalla lettura “falsata” della Volontà di Potenza del 1906. Quest’ultime sostenevano la vicinanza di Nietzsche alle correnti reazionarie di destra sfociate successivamente nella tragica esperienza del nazismo.

[18] A tale riguardo si vedano i seguenti romanzi : quello di Hermann Conrad dal titolo “Adam Mensch” che allude ad un senso antisemita dell’opera di Nietzsche; Conradi nel romanzo “Purpurea Tenebra” viene celebrato, presso un popolo immaginario, i Teuta, il martire-patrono Zarathustra, il cui nome come per Jahwè, può essere pronunciato solo una volta all’anno; Adolf Wildebrandt che ebbe molto successo con il romanzo “ L’isola di Psqua”, dove comparte un certo Adler- aquila in tedesco-animale del “Così parlò Zarathustra” che alleva un Superuomo, dando inizio ad una visione “estetista” ed esaltatrice del Superuomo; Bertram che inaugura il mitologismo di Nietzsche; Klages che afferma che Nietzsche va oltre il soggetto, superando la contrapposizione di soggetto-oggetto. Mentre giudica la Volontà come Spirito che ingloba l’anima vivente fino a fondersi in un unico Erlebnis.

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