Modernità , opera d’arte e creatività: introduzione alla Mimesis adorniana

Franca Sera

La Soggettività moderna riproducendo la realtà, – mediante l’opera d’arte -, ne raccoglie solo un frammento. L’esito di questo risultato è dato dal fatto che il Soggetto produce un “oggetto artistico” morto, in quanto esso nasce dalla doppia negazione. La prima è da attribuire al gesto artistico ed intellettuale che ha con sé lo stigma di un’autocoscienza idealmente datrice di realtà. In tal senso l’Opera d’arte ha la capacità di ripetere e di raddoppiare la struttura stessa della nostra esperienza. Cioè l’arte ripete e raddoppia la natura del nostro commercio percettivo con il mondo e le sue stesse modalità di funzionamento. Ed è precisamente nel suo darsi come “Ripetizione” o appunto come: Raddoppiamento del nostro fare esperienza del mondo che l’arte lo rivela. Lo rivela vuol dire che l’arte in quanto funzionamento del nostro fare esperienza del mondo  porta allo scoperto quest’ultimo e lo fa uscire dal suo nascondimento provocandolo e riproducendolo. Allora che l’arte dunque rivela la struttura e il modo di funzionare della nostra vita percettiva significa che a caratterizzarla è la capacità di farla emergere in primo piano. L’Arte ci fa accorgere di questa modalità di funzionamento del nostro essere nel mondo, ed in questo senso noi possiamo affermare che della nostra capacità creativa, e quindi della stessa Meta-Operatività umana, l’Arte costituisca una sorta di equivalente artificiale. Il punto che ci preme sottolineare, adesso, è il Senso che occorre attribuire a questa Nozione di artificialità. Diciamo allora che nel parlare di artificialità noi ci stiamo riferendo all’Idea di un operare intenzionale. Ed è proprio questo operare Intenzionale a dare luogo, nel caso dell’arte, a una rivelazione. Una rivelazione in atto, una rivelazione in azione delle modalità di funzionamento della nostra percezione. L’Arte come equivalente artificiale della nostra stessa vita percettiva. E a questo livello, dunque, che noi possiamo cogliere la peculiare funzione conoscitiva svolta dall’arte, o almeno secondo una sua possibile declinazione. Cioè, almeno una possibile declinazione di questa funzione conoscitiva che noi possiamo attribuire all’Opera d’Arte. Il Tema della funzione conoscitiva dell’Opera d’Arte è centrale per Adorno . Si tratta del cosidetto “contenuto di verità dell’Opera d’Arte”. Essa svolge una funzione conoscitiva: A partire dalla visione che per esempio Nietzsche esprime nella Nascita della Tragedia[1] e nelle Considerazioni Inattuali[2], si dipana il peristilio al tempio del suo pensiero ed in particolare al suo concetto di Nulla. L’origine di quest’ultimo sorge a partire dalla critica di Nietzsche allo storicismo visto come inesauribile messa in scena di maschere[3] che trova la sua stessa ragion d’essere in se stessa come esito iniziale e finale. Così la tragedia e la cultura storica pongono due diverse modalità di accostarsi al concetto dl Nulla: da un lato la saggezza terribile di Sileno[4] che afferma , rivolto al re Mida : “il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nato! non essere! essere niente!”[5].

E’ con Oswald Spengler[6] che nel 1918, con la pubblicazione del saggio “Tramonto dell’Occidente, inserisce il concetto per il quale tutte le Culture storico-sociali affacciatesi sul mondo, muoiono né più né meno dell’essere umano quando giunge alla propria fine esistenziale.. Egli condanna la storia dei popoli e e la loro vita alla limitatezza. Ossia la Cultura è anch’essa sottomessa al destino degli organismi viventi e come al singolo individuo non è permesso sottrarsi alla propria fine, allo stesso modo anche la Storia dei popoli è subordinata alla stessa scomparsa. Tale destino è inaggirabile e sottende una sorta di Legge Universale. Il bersaglio di Spengler è la cultura faustiana[7] intesa come coazione alla’operatività e dunque tutta rivolta al delirio attivo della Tecnica. Quest’ultima come elemento invasivo, che permea di sé uniformemente l’intero pianeta, grazie anche agli influssi dello stesso spirito faustiano. L’esito, per Spengler, è presto detto: la Tecnica soppianterà la Cultura.[8] In tal senso egli profetizza una desertificazione delle città, per mancanza di relazionalità, e l’uomo stanco della Natura, propria e del proprio ambiente naturale con i suoi limiti, si abbandonerà al suicidio. Ma prima della catastrofe il filosofo prevede un devastante impero totalitario, totalmente asservito ad un solo uomo: è chiaro in questo passaggio l’allusione profetica del sorgere del Nazionalsocialismo.

Al contrario di Spengler, Jünger riteneva invece che la Tecnica sia ineluttabile e quindi l’uomo avrebbe dovuto disporsi benevolmente verso di essa e con ciò accolta con favore. L’istituto della coscrizione obbligatoria alla leva militare impresse, secondo Jünger, un cambiamento epocale e tragico allo stesso tempo: la guerra non riguarda più solamente una decisione privata ed obbligata di un Sovrano contro un altro Sovrano, ma coinvolge le masse popolari, con una mobilitazione che verrà definita totale. A questo punto Jünger usa una similitudine non affatto scontata: la Guerra, come la prima guerra mondiale, è paragonabile al concetto di Lavoro che tutto pervade e unifica. Il Lavoro come Forma Lavoro è universale pervasività. Esso è come una trama che unifica la vita dei singoli. Nel suo saggio[9]DerArbeiteregli teorizza una radicale differenza del Lavoratore rispetto al Borghese: quest’ultimo “anche in guerra cerca ogni occasione per adocchiare una possibile trattativa, mentre per il soldato-lavoratore la guerra significa uno spazio in cui abbia valore morire, ossia vivere in modo tale da riaffermare la forma dello Stato: di quello Stato che è destinato a rimanere, anche se gli sottraggono il suo corpo. Lungi dall’essere un operaio nel senso marxiano, ossia un rappresentante di una classe sociale storicamente ed economicamente determinata all’interno di un contesto altrettanto materialista, l’Arbeiter di Jünger si mostra invece come un precipitato di ideologia metafisica. Egli pone l’accento sul carattere “spirituale” delle regole economico-politiche tra Capitale e lavoro. All’interno di un dominio spirituale che fa riferimento alla sovranità dello Stato come sovrastruttura metafisica: chi domina il proprio destino domina anche ilo mondo. Il lavoratore si presenta così come incarnazione di un principio politico trascendente che trova nel momento del dominio il suo inveramento. In tal senso è una Forma delle Forme senza tempo dentro il mutamento della storia e del tempo. L’operaio di Jünger assume così una dimensione aggressiva, poiché egli utilizzerà con il lavoro la stessa Tecnica come mezzo per mobilitare il mondo. Questa universale mobilitazione si presenta come una fenomenologia della catastrofe e annuncia un nuovo avvento: una fenomenologia dell’iper-nichilismo. Esso significa distruzione degli assetti trascorsi ed il profilarsi della nuova epoca si abbandonano ad un indisgiungibile pasdesdeux. La tecnica fa implodere la forza del vivente, la potenza primigenia dell’elementarità della natura. Così l’operaio con la Tecnica è in grado di assumere la potenza distruttiva della forza elementare , travolgendo anche la fede e la stessa borghesia. In “Oltre la linea[10] egli, in dialogo con Heidegger[11] annuncia la possibilità di uno “stato di transizione” andando oltre il presente. Tale operazione di “oltrepassamento“ prelude ad un nuovo stile di vita del reale grazie alla presenza ipertrofica dei mezzi. In sostanza Jünger si apre al nichilismo per poi superarlo, poiché il Nichilismo non è l’ultima parola , come voleva Nietzsche, ma occorreva per questo superare un nichilismo compiuto statalista, negando uno Stato Leviatanico, e neppure prefigurare la morte dell’Essere, ma anzi preannunciando un ritorno possibile ad esso.

Ma purtroppo lo sforzo teorico-conoscitivo di Jünger fu misinterpretato da alcuni teorici del Nazismo che si affettarono ad utilizzare il concetto di Volontà di Potenza di Nietzsche per propagandare il totalitarismo nazista e sussumere il concetto di uomo tecnico-soldato di Jünger come baluardo della violenza pianificata.

Da ciò nascerà un filone irrazionalista che unisce i Greci ai Tedeschi , ma non come nell’epoca neo-classicista della Göthe-Zeit di Weimar , ma nel senso di un ritorno ad un filone romantico di Heidelberg pessimista, decadentista e reazionario ( II° Romanticismo), frammista a elementi fideistici e appunto reazionari. In tal modo fu rigettato il filone classicista e cosmopolita di Weimar e di Humboldt, a vantaggio di una esaltazione parossistica del concetto di razza, attraverso un progetto educativo, mediante la propaganda e le mobilitazioni di massa, prospettando alla Nazione tedesca un concetto di Popolo tutto raccolto in un’unità organica che avrebbe superato le divisioni sociali: esaltando il senso di uno Stato – Sostanza , più che Stato- Attivo o Pratico fattivo.

Altri teorici interpretarono il Dominio e la Forma di Jünger come dominio e forma della Razza Ariana sul mondo, in quanto Spirito e trionfo del più forte : l’Ariano contro gli Ebrei.

Presto, dopo l’abominio Nazista e della Seconda Guerra Mondiale, si aprì la strada, in filosofia, alla possibilità di discutere circa un Nichilismo Relativo, gettando un cono d’ombra sul Nichilismo assoluto. L’esito di ciò si materializza con l’apertura di un dialogo teorico e pratico tra Ragione ed Esistenza. Da qui l’istanza della categoria della Comunicazione. La stessa filosofia di Nietzsche è vista come pensiero che superi ogni stazione dogmatica della riflessione e del mondo. Lo stesso concetto di “volontà di potenza” è una nozione limite che serve come principio ermeneutico allargando ed accogliendo le possibilità dell’Essere e del reale, con uno sguardo al moltiplicarsi indefinito delle prospettive.Diffidare di Nietzsche stesso significa in altri termini pensare il Nichilismo come strumento ed attitudine ermeneutica o mimesi imitatrice di una coscienza che “lavora” con la Ragione e con gli infiniti significati del reale.

Così con la massima esperienza delle “possibilità ermeneutiche” che si dischiudono Nietyzschedifventa il filosofo della Libertà, e non invece il portatore del Nulla. Da ciò si parlerà poi di Nichilismo relativo e non assoluto.

Tenere a freno il Nulla: diventa òa parola d’ordine di molti tra cui Jaspers. Se il Nichilismo andasse fino in fondo esso avrebbe effetti devastanti sull’uomo e sul mondo assoluti. Si arriverebbe a giustificare ed utilizzare persino il suicidio come regola logica. Non a caso il Materialismo, o il Buddismo ad esempio, attingono DAL Nichilismo quella capacità critica e antiadattiva nei confronti delle strutture della realtà. Ma sempre utilizzandone una vis nullìus tenuta a freno e calmierata: ossia sposando un nichilismo antropologico-relativo.

Tuttavia il problema del Nulla, fu solo procrastinato a… filosofie da destinarsi!

Esso si aggira ancora come corpo morto rimosso ma mai veramente eliminato, all’interno delle regioni dello Spirito e della Realtà. Il Nulla ci appare così come lo spettro di Banquo che si manifesta al cospetto di Macbeth, nella tragedia shakespeariana: ciò da cui Macbeth voleva separarsi e appunto rimuovere e negare, ma di nuovo il fantasma di Banquo gli ricompare sempre come immagine orrifica e proiettiva di quello. Nella filosofia contemporanea il bisogno di alcuni di esorcizzare il fantasma del Nulla e di Nietzsche, con l’intento di elaborare un sistema capace di contenere in sé unità e opposizione, Essere e Non Essere,rende in realtà problematica ogni esclusione da questo dello stesso Nulla Assoluto,che non solo come il fantasma di Banquo che insegue Macbeth ad un certo punto si risveglierà, ma  segnerà per l’uomo un destino condannato all’incessante inseguimento dell’escluso che si ripresenterà come Iper-Nichilismo. La questione nichilistica e della Tecnica si inserisce perciò, ad avviso di chi scrive, in questo errore di categorizzazione che ha segnato la post-modernità, come incapace di pensare il rapporto tra Mondo-Soggetto e Nulla, dando vita a tre concetti posti come auto-sussistenti e autonomi.

 


[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed.-Milano 1977; tr.it., S. Giametta

[2] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, Newton Compton ed.- Roma 1997

[3] N.d.a.: Si osservi l’analogia del termine mascherico e mascherache Marx riferisce al proprio mondo in quanto esiti di un camuffamento dei conflitti e delle opposizioni che si sono determinati storicamente.

[4] F, Nietzsche, La nascita della tragedia, ivi., III Cap.., pgg. 31-32 et al.

[5] Ivi

[6] O. Spengler, Tramonto dell’Occidente, Longanesi ed., Milano,.2015

[7] B, Croce, “Rivista critica di Letteratura, Storia e Filosofia “, Nr.31, 1933; Nuovi Saggi sul Faust: : “la natura è nel dovere di assegnarmi un’altra forma di esistenza affinché io continui ad operare”. Goethe a colloquio con Eckermann.

[8] O. Spengler, L’uomo e la Tecnica, Aragno ed., 2016., Torino

[9] E. Jünger, DerArbeiter. Herrschaft und Gestalt, 1932; tr.it. L’operaio . Dominio e forma, trad.it. di Q.Principe, Guanda Ed., Parma 1991.

[10] E. Jünger, Oltre la linea, Adelphi ed. tr.it. A. La Rocca, F. Volpi; 1989 Milano.

[11] Nel 1950 per il genetliaco di Heidegger, Jünger pubblica il saggio “Oltre la linea” dedicato al tema onniipresente del Nichilismo ed egli s’interroga, se dopo il punto zero di Nietzsche, segnato dalla parola <Niente!>, si possa attraversare la linea , andando oltre il Nulla. Cinque anni più tardi Heidegger, raccogliendo la sfda, gli rispose con un testo dal titolo” La questione dell’essere” .

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Breve ritorno all’identità e differenza della identità

Parte seconda
Alberto Iannelli

A = A, ma ti estì A-in-sé?

Posto il principio d’identità, che preliminarmente definiamo seità dell’essente (Sichheit), qualunque predicazione – tanto essenziale quanto eterogena – osiamo ora attribuire ad A oltre il limite del principiale e anapodittico predicarla eguale a sé, coercisce il semplice affermante-ulteriore al “folle volo” al di là del templum monadico o sinechiale della medesimezza, esortandolo ossia e cogentemente all’epiclesi che distente o subitamente espande l’ordinarsi della Differenza o della Dis-equazione a partire precisamente dall’inestensione – adimensionale dunque impredicata o indifferenziata nel proprio contenuto (l’inseità dell’essente [Ansichheit]) – di questo punto della di-partizione identitaria, di questo e non di quest’altro: oltre i riguardi eraclei della predicazione d’autoeguaglianza, trascendentale si estende infatti e meravigliosa (Thaumásios) precordialmente discorde (Én-Dia-Phéron-Eautõ, ek tỗn Dia-pheróntōn Kallístēn Armonían) si schiude o dis-immorsa la Dia-vergenza (Pólemos, Zwischen, Lichtung, Keraunós) ovvero il Tutto autentico sive apofatico prolettico della molteplicità dell’ente individuale o particolare.[1]

Oltre la predicazione reduplicativa d’autoeguaglianza del soggetto, pertanto, oltre ebbene la posizione affermativa apparentemente principiale in cui l’orizzonte della predicazione è tutto-avvolto (perì pánta kalýptoi) e stipato (steinoménē) dalla posizione – sdoppiata (Gaîa-Ouranós) e traspostasi – del soggetto stesso, se si vuole incedere ancora entro il cielo della predicazione, se si vuole ossia sopravanzare l’afasia del niente-predicativo-ulteriore per compattezza o continuità della potenza del dire ancora qualcosa, occorre con autoevidenza escutere alla diafania dipartitiva un altro soggetto – ordunque una differente posizione inseitale o partizione distintiva – che possa esso disporsi – accanto e accosto in discretudine – quale predicato ultra-tautologico rispetto al predicato del soggetto posto in preludio, occorre ebbene che l’orizzonte della predicazione principi a ordinare il molteplice della predicazione – l’eidogonia di A – secondo differenza e discretudine.

Si prenda avvio apodittico dal porre l’ipotesi dell’esserci – qui ed ora – esclusivamente dell’identità “Sole”. Bene, se tendiamo di definirla, il niente della determinatezza che, in accordo con la nostra definizione preliminare di esclusività onto-eidetica (Sýn-olon), si estende oltre la partizione del “Sole”, immediatamente arresta ogni nostro dire che non affermi esclusivamente: “Il Sole è il Sole”. Infatti, per poter dichiarare: “Il Sole scalda”, “Il Sole corre nel cielo”, “Il Sole fa crescere le messi”, i soggetti: “Calore”, “Corsa”, “Cielo”, “Crescita” e “Messe” debbono – già – essere presso la disponibilità del predicante, ossia, coimplicativamente, passando dal piano semantico al piano ontico, le realtà che tali deissi indicano debbono – già – sussistere, certamente escludendo la possibilità della creatio ex nihilo sui et subiecti del predicante per ciò stesso onomatoteta (quanto qui affermato, naturalmente, non coinvolge esclusivamente le proposizione apofantiche: lo stesso sintagma nominale endiadico “Sole e Luna” chiama immediatamente alla manifestazione del proprio esserci l’astro protetto, ciclicamente, dal nume di Selene, Artemide, Ecate e Perseide, né tantomeno vige la distinzione tra noesi e dianoesi del concetto di “Sole”, poiché la stessa di esso intellezione intuitiva e inespressa o non ancora argomentata pur già e preliminarmente si di-mostra sottostare alla medesima Legge dell’Ordinamento della Differenza).

Pertanto, poiché noi qui ed ora discorriamo e con asiana dovizia oratoria del “Sole” – di tutti i suoi attributi, tanto quanto di tutte le relazione possibilmente predicabili tra il Sole e il Mondo, tra il Sole e ciascuna onto-medesimezza (egualmente tra il semantema “Sole” e ogni altra referenzialità linguistica) disposta lungo il procedere del Mondo o l’ordinarsi della Differenza – pur qualcosa oltre la posizione del Sole è stato disposto all’esserci, pur qualcosa ovvero, qui ed ora, è in grado di stare e con recisa desisione presso sé, epperò oltre l’adimensionalità posizionale del “Sole”, questa dimostrando pertanto – con il semplice stare atremido del sé – incapace di coinvolgerlo completamente, inglobandolo in sé sì tanto in continuità e co-incidenza da annullarne la di esso solo propria distintività posizione o autonomia identitaria, pur qualcosa ovvero, in ultimo, è stato distaccato e distanziato dalla posizione del “Sole”.

Ebbene, conquistando esordiale conclusione: se non si desse differenza o alterità alcuna, se non si desse altresì la Differenza-in-sé o l’Alterità-da-sé, non alcuna identità che non fosse tautologica né ora vi sarebbe, né mai.

Ciascuna identità pertanto, se isolata nel proprio momento positivo o distintivo, se altresì astratta dall’alterità-da-sé o contraddittorietà esclusivamente sua propria (giacché Non-A immediatamente non è Non-B), lasciata esclusivamente a sé non può che risolversi in vuota tautologia, non può invero se non re-iterare in eterna eco l’originaria o constitutiva distinzione tra sé e sé: improcedibile e non ulteriormente intro-partibile o differentemente determinabile, permane presso lo stigma della propria partizione ipseitale e lì sta, endo-evacua a punto obs-cillando e inane tra i lembi della sua dis-secazione posizionale.

Indirettamente dunque così evocata l’essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes) dell’essente in totalità (Hypo-keímenon), procediamo adesso col dimostrarne l’originarietà (Archḗ) epperò l’omniavvolgenza (Umgreifende), il carattere proprio ebbene d’eccedenza inesauribile rispetto a ogni occorrenza particolare (Symbebēkós) necessariamente – autenticamente (Stérēsis) – compartecipantela (Méthexis) per essere distintamente e pienamente qualcosa (Héxis) e non semplicemente per essere pertenuta nell’eguaglianza con sé.

Ci si chiede, infatti, ora, ulteriormente: come può una de-terminata posizione di medesimezza stare presso la coalescenza del sé al sé o coerenza solo propria senza il già esserci dell’altro-da-sé? Ovvero: può l’identità essere la predicazione essenziale originaria dell’essente determinato? E, ancora, categorizzando l’essente: come può costituirsi alcuna particolare posizione identitaria se in principio si dà l’Identità? Dunque, e anzitutto: come può costituirsi la posizione identitaria stessa dell’Identità se ante ogni darsi si dà l’Identità?

Riedendo al nostro esempio invitto, pur invero nella vacuità del solo proprio riverbero tautologico, il “Sole” appare, si dà (es gibt), pur la posizione “Sole” pertanto in qualche modo si è già distaccata – e se ne è distacca, secondo necessità (katà tò Chreṓn), pena il non-poter-esserci stesso del Sole (Principium individuationis singularis), ammenda altresì, e anzitutto, ma qui ancora in prolessi, il non-poter-esserci di alcunché in generale (Principium individuationis universalis) – da ciò che la conteneva, cioè dall’Orizzonte estremo della predicazione, pur orbene, nell’attualità del tempo distintivo-predicativo tautologico – enantiodromicamente o riconvergendo (Epistrophé) all’Originario per via catafatica –, essa precisa posizione fu dispiegata in successione lungo la teoria dell’impressione onto-identiraria o della riduzione presso ecceità, resa epperò discreta tanto rispetto al Mondo già e im-mediatamente estendentesi oltre del Sole il limite del sé al sé coalito, quanto in relazione a ogni altra posizione nel Mondo già imposta sotto la presa dell’individuazione. Se, infatti, vi fosse esclusivamente il Sole, pur l’affermazione del Sole, e non d’altro, si dovrebbe poter in qualche modo, attuandosi o giungendo ad essere, s-tagliare – lungo l’assialità paradigmatica dalla Potenza-della-impressione-in-posizione-di-qualcosa o a punto dal Tutto dinamico od orizzontale, apofatico o escate, della Predicabilità.

Ebbene, questa potenza immediatamente enantio-determinata non è null’altro se non il contraddittorio simmetricamente in principio tautologico della posizione o affermazione particolare, ossia, nell’esempio nostro mitraico, null’altro se non il Tutto affermatosi per negazione dalla posizione affermativa del Sole (Non-Sole), cioè a punto il contraddittorio del Sole, l’orizzonte della sua negazione in totalità, ovvero, ancora categorizzando – ma qui autenticamente – la negazione dell’essente determinato, l’Orizzonte della Negazione in Totalità o in-sé, lo Spazio altrimenti per il Tempo dell’E-vento del Disvolgersi della Differenza e autoctica e abissale.

Conseguendo dunque deuteriore conclusione: non la stessa posizione tautologica di alcunché può darsi senza il già in qualche modo esserci della Distintività o della Differenza, dell’Alterità o della Contraddittorietà.

Si provi ora – retrocedendo verso l’Origine alla ricerca dalla causa prima dell’identità dell’essente – a porre quale originaria la posizione dell’Identità-in-se-stessa: anzitutto, come affermato, non potrebbe che darsi e la posizione anapoditticamete principiale sua tautologica, e la posizione, parimenti esclusivamente propria o de-cisa dal (e determinata nel) porsi del sé, enantio-tautologica (“l’Identità è l’Identità”, “l’Identità non è la Non-identità”, “la Non-identità è la Non-identità”).

Ebbene, poiché tra l’Identità e la Non-Identità deve costituirsi distanza e distacco, Identità e Non-identità – posizione della Posizione e posizione della Non-posizione della-posizione – sembrano in qualche modo dover entrambe essere sottese entro un orizzonte comune di relazione – l’Uno che con-rela Identità-e-Non-identità – che del

pari le avvolge: per poter pertenere nella mediazione della distanza o presso l’adunazione nel distacco tali due posizioni, l’Orizzonte della Divergenza-dei-Due deve, infatti, con necessità porsi in mezzo tra loro, toccandole entrambe, cioè sogliale relazionandosi simultaneamente con esse due.

Ma frap-porsi tra ogni cosa (e ogni cosa) significa circondare tutto. E come si frap pone questo Frap-ponentesi che tutto circonda? Certamente come il Ni-ente della posizione già distinta, egualmente ebbene giacché il Tutto della Potenza escate della partizione o dell’individuazione ancora ulteriore.[2]

Ora, che cos’è la Non-identità tautologica, ossia la Non-identità che null’altro entro sé distintivamente contiene (stante la posizione originaria o “unica” dell’Identità-in-sé), se non proprio questo orizzonte che da ogni parte avvolge il punto posizionale dell’Identità? Questo medio tra il sé e l’altro da sé della posizione originaria può essere ordunque l’Identità stessa? Può ovvero l’Identità frapporsi tra e non-sé, mantenendo nel distacco (e mantenendo il Dis-tacco [Hiatus] tra) queste due posizioni? Può ovvero, in ultimo, l’Uno che co-alesce Identità-e-Non-identità essere – in sé o identitariamente, dunque unitariamente – Identità o Enadità?

Evidentemente no, poiché, in questo caso, si troverebbe a essere simultaneamente, in relazione (positiva o di coerenza, in quanto la relazione d’esclusione, contraddistinzione o negazione implica l’esserci dell’Alterità, qui, de origine rogando, invece ipotizzata ancora non-essenteci), e con-sé, e con l’altro-da-sé. Ma, se l’Identità può stare e certamente in re-lazione con sé, proprio ciò (ossia Per-tenimento-in-coerenza) essendo essenzialmente o insé (l’Identità-in-sé è infatti la posizione dell’immediata coalescenza o dell’immorsata sinchechia tra seità e inseità, l’insé dell’Identità essendo invero identità – dunque non distinzione – tra inseità e seità), assolutamente non può, per pari cogenza eidetico-distintiva, stare in relazione col Non sé, se non a punto in una relazione di contraddizione o d’esclusione, di negazione o di avversione, ora, perí Archễs, impossibile a darsi.

Dunque l’Identità – se in seguito si dà la distintività, e la determinazione qualitativa (dasein) dell’ente (tà pánta; tà ónta) qui e ora appare, meraviglia a vedersi (Thaũma Idésthai) – non può essere la posizione originaria, dunque l’Identità – quale in-sé Principio di Identità o coalescenza ipseitale dell’essente – non può essere il contenuto della posizione identitaria dell’Originario.

Si provi pertanto a contrap-proporre adesso la tesi che indica nell’Alterità (nella posizione ovvero dell’immanente divergenza o della devasta discretudine – immediatamente mediale – tra seità e inseità, l’insé dell’Alterità essendo invero diversità – dunque distinzione – tra inseità e seità) il contenuto della posizione dell’Originario, sicuramente sottoponendola alla medesima complusione che della curule dignità di fondamento ne indaga l’autenticità del cremisi trabeale.

Può ordunque l’Alterità frapporsi ovvero porsi in relazione positiva tra la posizione del sé e la posizione del non-sé? Certamente, immediatamente, la posizione del sé null’altro essendo – in essenza o precisamente in accordo al suo proprio contenuto identitario positivo – se non alterità o differenza tra e sé. Ma come può mai, al contrario, porsi nella posizione parimenti positiva di medesimezza col sé, sè – Alterità di-ogni-cosa-da-ogni-cosa – essendo la posizione principiale, ossia già essenteci ante il darsi stesso dell’Identità-di-qualcosa-con-qualcosa?

Ebbene, può pro-porsi di porsi infine incontraddittoriamente in essa relazione d’incontraddittorietà identitaria.

Se, pertanto, è immediatamente o nell’autocausazione omniprincipiale eguale a sé in quanto pro-posizione d’essere in estremo compiutamente eguale a sé, allo stesso tempo (áma synístatai kaì apoleípei) è – sempre o trascendentalmente – eguale a sé nell’insé (Pro-posizionalità), e non è – mai o storicamente – eguale a sé nel sé (Posizionalità), così epperò procedendolo, altrettalmente com-piendolo, ovvero imprimendo nella propria contraddittorietà o negazione (posizionalità o seità) viepiù o secondo l’ordine della distensione elenctica tutta la contraddittorietà rispetto al contenuto della propria posizione, in principio specularmente proposizionale, di Proposizionalità-in-sé.

E, nondimeno, l’impressione processuale o teleologica d’incontraddittorietà alla contraddittorietà (seità o posizionalità) della Contraddizione originaria (inseità o Proposizionalità) non è forse proprio il distendersi via via (katà tḕn toũ Chrónou Táxis) della totalità dell’affermazione distinta, ebbene il Tutto autentico ovvero meontico orizzontale dell’identità discreta?

Che cos’è infatti e immediatamente l’Alterità, oggetto di questo nostro attuale discorrerne, se non una posizione di identità? Ma come può essere sé (ed essere, giacché naturalmente l’autoctisi della Differenza coimplica immediatamente, sotto altra categoria inquadrando il medesimo Originario, l’antecedenza stessa del Ni-ente dell’ente sull’Essere-dell’ente-in-totalità) ante la posizione della Posizione-in-coerenza in-sé? A punto essendo sé (ed essendo semplicemente qualcosa) nella pre-supposizione di essere sé (e d’essere semplicemente qualcosa). Ma cosa implica, e con incontrovertibilità, tale carattere pro-posizionale assunto in principio dalla posizione del sé in sé Pro-posizionalità se non il processo stesso di riduzione completa presso piena posizionalità escate o incontraddittoria immobilità entelechiale di tale presupposizionalità concutente la posizione principiale della Pre-supposizionalità-in sé?

E sia, raggiungendo l’ultima conquista dell’apodissi: la Contraddittorietà in sé, e solo essa, è intrinsecamente storica (Ge-schichte) così come solo essa può essere – e lo è autenticamente – autoprincipiativa, immanentemente Discorde o in concento nel Contrasto, quindi originaria, epperò, egualmente, destinale (Ge-schick).

Che cosa, infatti, sotto altri riguardi a rinforzarsi la storicità (Geschehen) immanente del Negativo assoluto, determina autenticamente l’evolversi del contenuto di ciascuna identità distintiva, dal grado 0 o tautologico pristino, se non l’ampliarsi via via dell’esclusivamente proprio (Non-A ≠ Non-B) momento negativo o contraddistintivo, l’identità positiva particolare non altro essendosi invero dimostrata se non il pertenimento-in-co-erenza del sé col sé dell’ente individuale lungo il percorso di determinazione o affermazione del sé dell’inseità Contraddizione categoriale o Negazione trascendentale attuantesi attraverso l’ordinarsi meraviglioso o il dispiegarsi completo di tutta la di essa affermatasi negazione o distintasi differenza? Come, ovvero, in ultimo, questo medesimo ex-tendersi via via differenziativo del contenuto autentico d’identità di ogni posizione particolare può e deve essere inteso se non giacché il pro-gredirsi stesso del Mondo? E come, infine, tale diversificazione processiva della Terra (Erde) può e deve essere (ri-)compresa se non quale il prendere viepiù posizione contro – dunque autenticamente entro – il Cielo (Himmel) proletticamente omni-avvolgente di contraddizione o negazione del Niente-di-ogni posizione-conciliata-o-coerente?

Ecco dunque che cos’è (ti estì), hic et nunc – quindi già nell’avanguardia stessa dell’Originario-in-Atto (l’O-mediato, l’eccenza sempre escato-orizzontale ovvero di tutto ciò che immediatamente ante-omnia-appare quale il Niente-estremo-del-tutto dell’apparenza [ΔΙΆ]) –, questo Sole che ora abbacinante si ostende innanzi a noi: è il non-essere ogni ente già determinato ovvero retrodeposto nella Totalità dell’F immediato sin qui dimostratasi lungo il Sentiero del Giorno.

ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος.

Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua.[3]

  1. «Il mondo pensato non può essere se non com’è pensato: pensato che sia, immutabile (nel pensiero che lo pensa). Ma noi, quando ci siamo affacciati nell’età moderna allo spirito come attività trascendentale produttiva di ogni oggetto dell’esperienza, ci siamo trovati in un mondo nuovo, che non è materia di esperienza, poiché non è pensato, ma ragione e principio di quanto si pensa; e non può essere governato esso stesso dalla legge, che è propria del vecchio mondo, nel quale rimangono chiusi tutti coloro che continuano a indicare il principio di non contraddizione come le colonne d’Ercole della filosofia». Giovanni Gentile, Teoria generale dello Spirito come Atto puro, Sansoni, Firenze 1938.
  2. «Ed io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora». Omero, Inno ad Atena.
  3. Eraclito, Fr. 76
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Sul concetto del riconoscimento in Hegel

Amelia Forte

È il momento dell’essere altro che genera e commuta la propria identità di sé. E non è neppure la semplice relazione che intercorre tra le due identità. Non è solo il progetto distintivo che in una dimensione particolare-universale e sovra-individuale connette i molti uno. Non è la distinzione che genera le identità, e quindi non la relazione, ma prima ancora della relazione che comunque non può non procedere dalle identità, prima dell’identità vi è la negazione[1]. Se fosse semplicemente una filosofia della relazione o distinzione, si avrebbe prima ancora della relazione, l’identità, le ipostasi, gli enti che in seguito si relazionerebbero l’uno all’altro. Viene prima la relazione, fermo restando che essa non è un semplice riferimento dialogico e postumo che connette dall’esterno la molteplicità degli oggetti che pone in essere, e quindi attraverso una soggettività riflettente dal di fuori crea una polarità relazionale tra gli oggetti. La relazione è carne, è sangue, è essenza degli oggetti stessi. E quindi questi sono appunto nel loro fondo identitariamente parziali con sé e quindi sono presi dal negativo. È chiaro che lo Spirito è quella dimensione naturale (a partire dalla natura) che non è una dimensione altra dallo Spirito. Non è essa un terreno creato dallo Spirito. Lo Spirito, che è appunto l’auto-movimento progressivo dell’autocoscienza, e lo Spirito inteso come elemento fondante della determinazione materiale, ma fondante non nei termini fondativi, ma fondante nel senso di “essenziale” alla determinazione materiale che in quanto tale, cioè in quanto materia, non può non accogliere obbligatoriamente dentro di sé la determinazione universale. Poiché la determinazione formale è il processo per cui l’autocoscienza diventa assoluta attraverso un continuo alterarsi e trasformarsi da configurazioni sempre meno povere, parziali, precarie, fino ad un completo e conchiuso rinvenimento di sé presso se stesso ma con tutte quelle determinazioni altre che la coscienza ha attraversato. Quindi l’autocoscienza assoluta è sintesi di sé mediante l’altro, raggiungendo quella circolarità incondizionata in sé e per sé. Ma tale movimento è nelle cose stesse del reale, è la vita stessa, poiché ogni determinazione materiale, che sia organica o inorganica, ed ogni tipo di esperienza del genere umano non può non risultare internamente come auto-movimento di sé rispetto all’altro. Sul piano della filosofia naturale, lo Spirito in Hegel non crea la natura. Questa dimensione totalizzante, sintetizzante, come vettore immanente alle cose e alle azioni non crea natura. Non è presente un atteggiamento creazionistico o emanatista o di scaturigine. Lo Spirito non è un demiurgo o una dimensione ontoteologica che permea di sé il reale, ma è quello stesso obbligatorio, impossibile da non ritenere vero: ossia il riferimento dell’altro mediante sé. Poiché in sé non può trarre la propria identità da se stesso, in quanto altrimenti lì ci sarebbe effettivamente un sospettoso movimento auto-fondativo idealistico-spinoziano. Mentre lo Spirito appunto non è idealistico. Lo Spirito di Hegel non pone la realtà. Non è lo Spirito fichtiano. Ma la dimensione naturale, in quanto povertà di Spirito semmai, in quanto la Natura è altro dallo Spirito. Ma non altro in senso fondamento-fondato, ma nel senso di una dimensione non emancipata, non affrancata dall’elemento materiale. La determinazione materiale nel naturale rimane imprigionata in se stessa attraverso una sorta di autoconvincimento per il quale essa è bastevole a se stessa, attraverso questo concetto d’identità tautologico, vuoto, di medesimezza con sé, di auto-eguaglianza di sé, di ipseità o stessità con sé, ma appunto questo creerà ben presto dei problemi. Poiché se la verità costitutiva del soggetto è quella di destinarsi all’altro, questa dimensione che il determinato materiale cercherà di superare ma in realtà riuscirà solo a rimuovere, verrà reincarnata in un’altra dimensione estranea ed estrinseca. A volte anche attraverso una maschera fantasmagorica, spettrale[2]. Ma questo qualcosa che è l’altro ed è ciò che permette di dire all’identità con sé di porsi come coincidente con sé, nel momento in cui viene rimosso da quella stessa identità, anche in modo implicito, fa sì che questa si sbricioli e possa crollare. Ma non in quella negazione determinata mediante la negazione della negazione, ma attraverso una continua ed indefinita alterazione detta cattiva infinità, in indefinite e indeterminate trasformazioni, figurazioni di sé, senza che poi questa soggettività possa piegarsi, curvarsi e tornare in sé e per sé. Senza soluzione di continuità l’autocoscienza naturalistica o individualistica astrattamente universale subirà una serie di rovesciamenti e metamorfosi, alterazioni che non controllerà e che destinalmente la porteranno al fallimento, a soccombere. E questa è la tematizzazione di quello che il giovane Hegel, sin dal 1797-1798 chiamerà ancora Destino. Che non è altro per l’Hegel del 1803-4, già negli abbozzi del Sistema della Fenomenologia dello Spirito, in Logica e Metafisica di Jena, appunto chiamerà dialettica. Il cuore della dialettica è la negazione o contraddizione. Ma fin tanto che quella determinazione particolare-naturale rimarrà in un ambito esclusivo, repulsivo nei confronti della dimensione universale del vettore immanente, del principio dell’auto-movimento dello Spirito in quanto identità con sé, nel momento in cui appunto la coscienza si pone come tale soltanto mediante l’altro da sé, è chiaro che venendo meno l’altro da sé la sua identità già immediatamente così povera, fragile e gracile crollerà e si rovescerà nel suo opposto. E questo suo opposto si tramuterà in potenza estraniata o eteronoma, tanto che alla fine soccomberà, e vedrà quella stessa potenza ritorcesi contro. Hegel terrà fermi degli esempi che farà fino alla maturità con le figure della Coscienza infelice o l’Anima Bella, Abramo, Cristo e gli esempi dei grandi eroi tragici come Antigone. Ma anche esempi storici come il cesarismo imperiale. Queste individualità o aggregati identitari autofondanti in se stessi, subiranno un destino atroce, poiché quel destino è il conto da pagare per aver rinunciato alla vera e propria identità con sé. Ed ecco che l’Enteusserung, cioè quell’uscire fuori da sé, quel farsi altro da sé, che è il primo momento del passaggio negativo inteso come negazione assoluta, o prima negazione, non sarà altro che il momento non del ritorno a sé attraverso la negazione della negazione, ma appunto dell’Entfremdung, cioè della Estraneazione. E del non ritorno in sé e per sé. Ed allora si ribadisce che quel mondo naturale o determinazioni naturali, organiche ed inorganiche, sono coincidenti con se stesse e non si muovono da quella coincidenza con sé, cioè non si sentono obbligati, sbagliando, a dover uscire fuori da sé, a sentirsi altro da sé, per intrinsecamente raggiungere la piena e perfetta coincidenza con sé. Non avvertendo questo bisogno intrinseco di padronanza di sé finale e reale, in quanto autocoscienze in sé e per sé assolute, rimangono essi sul dato tautologico-naturalistico-individuale, per cui si accontentano di essere ciò che sono ma senza avere coscienza dell’altro da sé e quindi senza chiudere la loro personalità in una reale dimensione assoluta e razionale. Un cane o un leone sostanzialmente si raccolgono e si limitano ad essere compresi nel loro genere animale-specie-individuale ad una condizione di perfetta coincidenza con sé. Ma appunto questa perfetta coincidenza con sé è quello stato immediato-naturale, per cui il leone continua ad essere leone e a fare il leone, ma senza che questo esser-ci o dimensione lo porti a considerare che egli è leone perché non è una pantera. Quindi se si è detto che la padronanza di sé di un’autocoscienza assoluta ed incondizionata è l’esito della negazione della negazione, per cui è l’altro che istituisce l’altrui identità, ossia è il NON che istituisce la propria perfetta coincidenza con se stessi, il leone non operando la sintesi di se stesso mediante l’altro, esso rinuncia alla padronanza di sé come autocoscienza. E quindi si può dire che a stretto rigore il leone non sa chi sia veramente e per puro caso avrà tutti i tratti caratteristici dell’essere leone. Ma tale elemento è del tutto naturale, poiché il nascere leone è dettato dalla natura della sua essenza leonina che ha immediatamente presso di sé. Con questo però si ribadisce che nella dimensione naturale o semplicemente naturalistica-individualistica organica-inorganica, la dimensione dello Spirito non è che sia assente. Lo Spirito è presente nella dimensione naturale come elemento sovra-individuale, sovra-determinato, universale, totalizzante, essenziale tanto quanto in una dimensione di un’autocoscienza a padronanza con sé. Quindi lo Spirito c’è nella natura, solo che non è obbligatoriamente, come è giusto che sia invece, nella dimensione realmente universale. Poiché appunto quelle determinazioni materiali si fermano ad una dimensione naturalistica. Ma questa condizione non permette di dire che la Natura è altro dallo Spirito, nel senso che lo Spirito in qualche modo crea la natura come qualcosa di più rigido e quindi di meno vero, o come qualcosa di subordinato o materico e quindi oscuro. Questa visione è idealistica e teologico-creazionistica. Ma la materia nella sua opalescenza, opacità resiste a quell’universalità. Ma non perché la natura sia fuori dallo Spirito, ma bensì perché quella determinazione materiale rimane e resiste nella propria parzialità ed opacità. Si può dire invece che lo Spirito è presente nella Natura in un aspetto sovraindividuale, sovradeterminato, ma senza rischiararsi a dimensioni coscenziali. La Natura non procede fuori dallo Spirito: è lo Spirito stesso, ma nella forma esteriore. L’altro da sé dello Spirito in una dimensione semplicemente naturalistica-esteriore-opaca[3]. Se si applica la dialettica come processo e struttura che conduce lo stesso soggetto dapprima in modalità esteriore, fino allo Spirito, quindi da una forma particolare e naturale-individuale ad una spirituale, in quanto Autocoscienza assoluta, ebbene questo movimento è il dialettico. E il motore di tale movimento e divenire dialettico è la negazione: ossia la contraddizione. Hegel per mostrare chiaramente che il movimento dialettico è ab intra, ossia è nelle cose stesse, come filigrana stessa ed ordito stesso del reale, per affermare questo Hegel dovrà sbarazzarsi del principio di identità e di non-contraddizione aristotelico, mutandolo da principio di non-contraddizione(laddove è interdetta la possibilità persino di pensare la contraddizione) a principio necessariamente della contraddizione. Abrogando quel principio stesso con il principio dell’identità degli opposti. Affermare che il soggetto di un predicato possa essere allo stesso tempo predicato e non predicato di qualcosa, sotto la stessa frazione di tempo e luogo spaziale, sarebbe stato un paradosso inaggirabile. Nella tradizione aristotelica, la contraddizione concerne l’ambito della formulazione logico-comunicativa del pensiero, per cui è impossibile che in un giudizio si possa predicare e non-predicare nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista di uno stesso attributo uno stesso soggetto, ossia è impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto ad una medesima cosa. E per fare questo Hegel commette una delle più grandi trasgressioni del pensiero occidentale (forse la più grande!) nei confronti dello stagirita. Infatti per Hegel non si trattava solo di sovvertire il principium firmissimum sul piano logico-predicativo-comunicativo (con le differenti predicazioni contraddittorie del giudizio) del pensiero, ma di entrare in una condizione di “sospensione” dello stesso sul piano esperienziale-fenomenico-pratico, percettivo e materiale (ossia nel determinato stesso) con la mostrazione dello stesso Hegel, che in quello stesso oggetto o soggetto contemporaneamente e sotto lo stesso punto di vista insista la determinazione-formale e la determinazione-materiale, e cioè a dire che consiste insieme l’Universale ed il Particolare, l’Infinito ed il Finito, la Necessità e la Contingenza. Hegel per questo non verrà mai veramente accettato, poiché afferma qualcosa di sbalorditivo trascinando il pensiero oltre le stesse colonne d’Ercole della filosofia e della Logica. Da qui i giudizi sull’Hegel di teologo, metafisico, oscurantista, neo-platonico, reazionario, ed anti-positivista. La scienza infatti che produce il proprio sapere su verità inconfutabili con giudizi logico-analitici, rifiutava il principio della possibilità del principio dell’identità degli opposti: uno o è uno o non è uno; non può essere uno e insieme non-uno, poiché legittimare il principio di contraddizione e quindi dell’identità degli opposti con il rovesciamento e spostamento soggetto-oggetto sarebbe stato inaudito. Quindi il legame d’essenza tra Spirito ed Autocoscienza è un legame d’Essenza reale e realizzato e che in una dimensione contemporaneamente ascensiva e discensiva, allo stesso tempo iscritti entrambi nella duplice teoria della verità circolare hegeliana agisce la dimensione dell’annullamento da parte di Hegel del principio d’identità di Aristotele, e quindi opera la dimensione dell’alterità e quindi la dimensione dialettica, in quanto momento sintetizzante formale e materiale. Motore della dialettica è il non essere del principio d’identità. Ossia è la Negazione, il Nulla, il Non, l’Errore. Osservando che, anche la determinazione materiale è una funzione a questo punto: cioè non è fissata la determinatezza, anche per essa e non solo per lo Spirituale (determinazione formale) vale lo scardinamento del principio d’identità. Il determinato è funzione poiché è dialettico, sciolto ed evaporato accanto e dentro la funzione del “non”, dentro la funzione abrogativa del principio d’identità. Il movimento è appunto insieme centrifugo e centripeto dello spirito: tanto più si ha una coincidenza verticale quanto più, sempre per l’annullamento del principio d’identità da parte di Hegel, lo spirito è fuori di sé, non coincide con sé e quindi è attività centrifuga orizzontale e verticale. Non solo appropriazione di sé come assoluta autocoscienza coincidente con sé o individualità assoluta, ma orizzontalità estrema. Questa dimensione del Geist agisce con tutta la sua potenza nella Logica. Questo ci porta dinanzi, in modo perentorio, alla vexata questio del COMINCIAMENTO in Hegel. Per introdurre il cominciamento logico di Hegel con la Logica dell’Essere (il volume qui tradotto di A. Leonard), occorre partire da un’attenta analisi della Filosofia della Natura. Ossia dall’Identità degli opposti fenomenico-esperienziale, giungendo a quella logico-predicativa, si dispiegano le tre archi-categorie: Essere-Nulla-Divenire. Perché è all’interno della Fenomenologia dello Spirito, con tutte le problematicissime questioni della sua collocazione nell’ambito del quadro sistematico di Hegel nella stessa Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, che si dischiude all’orizzonte, in una sorta di misteriosa propedeuticità, non facilmente coglibile, l’Inizio della Logica. Questa consustanziale presenza dell‘altro come istitutore del Sé in quanto esso non può essere tale e perfettamente coincidente con sé, se non mediante l’altro, porta a tutti i livelli sino all’organizzazione più ampia della soggettività (dalla dimensione empirico-privatistica, sociale e statuale, giungendo poi all’arte, alla religione e alla filosofia). A tutte le latitudini la filigrana dello Spirito è presente, non solo come espressione giustapposta tra ideale e materiale, spirito e natura, ma in una dimensione nella quale lo Spirito è l’insieme delle alterazioni delle figure sensibili, e queste sono a loro volta l’insieme delle trasformazioni di quest’ultima come ultimo momento conclusivo in quanto auto-impossessamento ed auto sapersi assoluto di Sé presso Sé. Questa è l’Idea. Questa è l’autocoscienza come Sostanza ma in quanto trama reale della Realtà. Le categorie non sono astrazioni dalla realtà, ma sono categorie organiche della realtà.

 


[1] Non viene appunto prima il relarsi tra il quaderno ed il libro, il fatto che poi si dica che qui c’è un quaderno e là un libro. Ma a stabilire e a statuire l’identità del quaderno e del libro, è il fatto che il libro per essere tale non può non essere negato e quindi poi affermato in sé e per sé dal quaderno.

[2] Pensando a Banquo, che Hegel cita nello Spirito del cristianesimo e che si eleva a spirito nelle notti e nelle veglie di Macbeth. Il carattere proprio della tragedia di Macbeth è la rappresentazione del dramma della vita quando essa pone di fronte a sé la morte come principio a lei estraneo. Macbeth uccide credendo cha la potenza della morte non appartenga alla sua stessa vita: egli stesso dunque evoca il fantasma di Banquo, reso oggettivo di fronte a sé dalla sua stessa concezione dell’essere della vita come cosa, oggetto cui è estranea la dinamica interna di nascita e morte, intesi qui piuttosto come il prodotto di una essenza esteriore. Nella logica della potenza, infatti, la forza appare la relazione esteriore tra cose, il dominio appare come un atto indipendente dall’essere reciproco del dominatore e del dominato. Così gli dei greci sono potenze interiori all’uomo ed alla vita; gli dei di Macbeth sono essenze esteriori, oggetti di cui egli si fa servo. Qui la bellezza non muore perché non è mai nata: la dinamica che la produce non è neppure stata avviata. Le due tragedie corrispondono alla duplice opzione dell’umanità di fronte alla natura insensata e violenta: dominarla o rappacificarsi con essa. L’essenza del tragico, in entrambi i casi, nasce dalla realtà della vita che è tanto in noi quanto nella natura.

 

[3] La chiave di lettura che legge in Hegel uno Spirito che precede (materia organica-inorganica) e trascende la Natura, che la pone, la crea (teologismo creazionista), intende interpretare Hegel medesimo in termini non “spirituali”, ma “spiritualistici”, ossia in un senso teologico-metafisico. Le critiche di Feuerbach e altri che giudicano Hegel come una sorta di teologo mancato e neoplatonico (esempio della Destra hegeliana che leggerà Hegel come un “onto-teologo”, parlando non solo di panlogismo, ma di una vera e propria teologia panteistico-sostanzialistica), non scorgono invece che la formulazione della dimensione naturalistica in Hegel è una res extensa cartesiana ma rifondata. Nel senso di una res extensa invece che calibrata sulle coordinate delle ascisse cartesiane, di modo che tutto ciò che esiste è dato analiticamente dai giudizi e dalle verità matematico-geometriche che tutto spiegano per l’oggetto che traendo le sue coordinate spazio-temporali fondandolo nella sua esistenza, mediante i concetti chiari ed evidenti, Hegel invece riformula la res extensa cartesiana in modalità logica-antropologico-fenomenologica. Cioè mentre le verità cartesiane esistono grazie al fatto che un Dio non ci inganna e che quindi sottendendo e regolando il reale ci consentono di capire il reale come insieme di punti spaziali-materiali in quanto matematici-geometrici, la verità dello Spirito invece è l’Autocoscienza stessa. Ma senza l’idealismo tetico fichtiano o trascendenza teistica ed emanatista cristiano-platonica, quasi che Hegel sia un neo-platonico del III sec. d.C., come se fosse Hegel produttore e profeta di principi metafisici astratti che scardinano il principio di individualità e di soggettività.

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Permanere nell’indecisione in Martin Buber

Maria De Carlo

Il libro Immagini del bene e del male si apre con una considerazione: nelle parole attribuite a Dio dalla Genesi, in riferimento all’uomo, come “uno di noi” (3,22) – per via della conoscenza degli opposti (conoscenza del bene e del male) -, egli è libero, cioè “può obbedire o rifiutarsi” al comando divino. Adamo ed Eva infatti trasgrediscono il divieto di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. l’uomo diventa “come Dio” e conosce l’opposizione, ma, al contrario di Dio, non la supera, “vi entra e ne viene assorbito” con la conseguenza di una “possibilità illimitata” che riempie con la fantasia che è “cattiva” in quanto fittizia: “nel turbinìo dello spazio immaginario in cui vaga, ed ogni cosa lo eccita affinché venga realizzata; e lui, irresolutamente, soltanto per superare la tensione dell’estrema possibilità, agisce come uno scassinatore avventato e attua l’effettività, ma non già quella di Dio, bensì la propria arbitraria e senza destinazione, la sua violenza che lo sopraffà, sua consorte e destino funesto”. la trasgressione di Adamo ed Eva non viene riportata, precisa Buber “come una decisione tra il bene e il male”, ma essi “entrano nel suo sapere vitale”; e nell’uomo, in quanto creatura, ma non saranno mai “contemporaneamente presenti”. L’uomo, partner di Dio, riconosce l’opposizione soltanto perché già ci si trova; e di fatto questo significa che l’uomo può sperimentare, conformemente all’esperienza e al senso, il Sì nella zona No, ma mai il No nella zona-Sì. Così la riconosce senz’altro dal “male” se ci si trova dentro. o meglio, la riconosce come lo stato in cui si trova se ha violato il comandamento di Dio: questo è il male mentre il bene è ora per lui perduto e al momento inaccessibile.

Per Buber il male è la mancanza da parte dell’anima di direzione verso Dio: “…ciò che chiama “male” l’uomo lo conosce di fatto solo conoscendo se stesso” ed è proprio all’ingresso dell’anima che si trova il demonio, quel potere demoniaco che Caino non sa combattere “consegnandosi così alla sua brama”. Perciò: “la permanenza ostinata nell’indecisione equivale alla decisione per il male (…) nel conflitto dell’indecisione Caino colpisce, nel momento della massima eccitazione e della minima resistenza, non assassina ma tuttavia uccidendolo. Quando la maledizione di Dio, espressa di nuovo con parole che riconducono alla condanna dei primi uomini , lo sospinge dal terreno coltivato nel mondo aperto, per “essere ramingo e fuggiasco sulla terra”, gli riserva un destino in cui è rappresentato fisicamente ciò che accadde nella sua anima”.

Buber precisa che “non è l’uomo che viene visto come male”, ossia ad essere   corrotta non è l’anima ma la “via che riempie la terra di violenza (6,11): qui non si tratta dell’anima cattiva, bensì del ‘pensiero’ cattivo. la malvagità delle azioni deriva da quella del pensiero.

Pensiero o fantasia, si tratta di un gioco di possibilità, che si traduce come immaginazione in atto. E’ dal cuore dell’uomo che partono desideri e progetti: “Questa fantasia di possibilità, nella sua essenza, viene chiamata “male”. Il bene non viene “escogitato”: il male invece sì, in quanto si distoglie dall’effettività data da Dio.

Ma l’immaginazione per Dio non è del tutto cattiva. Buber commenta: “è cattiva e buona, poiché in essa e tramite essa può realizzarsi, cosa impossibile prima della conoscenza del bene e del male, sia la decisione di padroneggiare il turbinío delle possibilità, con la buona disposizione del cuore, sia la figura umana intesa nella creazione. Dato che l’ondeggiamento e l’arbitrio non sono innati nell’uomo, che non è soggetto a peccati originali, egli inizia, nonostante il fardello delle generazioni passate, sempre come persona nuova e soltanto la burrasca giovanile della fantasia lo investe con l’illimitatezza del possibile, pericolo estremo e chance massima. 

Dunque nell’uomo sono presenti due istinti, quello “buono” e quello “cattivo” dati da Dio come suoi servitori, che però possono agire appieno soltanto in coppia. Sia l’istinto buono che cattivo sono necessari all’uomo. Ma l’impulso cattivo – che, nell’interpretazione di Genesi proposta da Buber, all’atto della creazione del sesto giorno (dell’uomo) è detta opera molto buona – è stato reso tale dall’uomo che lo ha separato dal suo compagno. il male dunque è inteso come passione che è tra tutte le cose create, quella molto buona, senza la quale non si può servire Dio, non si può vivere veramente. la Parola: ‘ama dunque lui, il tuo Dio con tutto il tuo cuore’. Da qui  Buber muove fondamentalmente da una critica al pensiero moderno che, a partire dal cogito cartesiano, ha esaltato l’io considerandolo come colui che genera l’essere, rendendo “irreali Dio e ogni assolutezza”. In questo modo Dio è diventato oggetto – esso – del suo stesso pensare e non più il “Tu” con cui dialogare. Un Dio che non ha nulla a che vedere con l’esperienza reale poiché “lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l’assolutezza e l’assoluto”. Di conseguenza, l’uomo si è sostituito a Dio diventando egli stesso giudice di ciò che è bene e di ciò che è male (come si legge nel racconto biblico del genesi), e così Dio, che ha abdicato alla sua potenza in favore della libertà dell’uomo, si è eclissato. Ma “l’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, poiché  già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritrarsi”. Infatti afferma Buber che vede nella relazione con l’altro la vera completezza dell’uomo. Colui che si è “pensato” padrone assoluto si trova, al contrario, smarrito dietro pseudo divinità, schiavo e soffocato dalle sue stesse opere in un rapporto alienante e frustrante tanto da diventare oggetto di se stesso. il problema del male lo accompagna, poiché l’anima lo sperimenta, come afferma Buber, in tutta la sua profondità. I due istinti, quello buono (della direzione) e quello cattivo (della non-direzione), creati per essere destinati ad agire in coppia (per meglio servire Dio), vengono separati dall’uomo che ha smarrito la via che conduce a Dio, al Bene; l’uomo così non riesce (perché non decide di intraprendere il cammino verso la giusta direzione) a dominare l’impulso cattivo. Chiuso nel suo ego, l’uomo non sa più dialogare, non unificato non è capace di relazioni autentiche e immediate, egli tocca le più alte vette della solitudine, e della disumanizzazione. Sordo ad ogni appello resta imprigionato nelle maglie dell’impulso “cattivo”. il rapporto con il mondo è irreale, non vive il qui e ora; nessuna conferma del suo esser-quest’uomo. Alla luce di queste considerazioni, la filosofia dialogica di Buber (e il suo insegnamento) è un sentiero possibile – e comunque urgente – quale risposta ad un’umanità assetata di verità e ferita dal male che non riesce più a controllare, pervasa com’è da quell’ospite inquietante, il nichilismo, tempo in cui manca il fine, manca la risposta al perché, come diceva Nietzsche, e i valori perdono ogni senso. L’ uomo è invitato a riguadagnare se stesso e  a “riposse-dersi”. Solo così sarà in grado di prendere “decisioni” secondo il proprio cammino (per questo non c’è nessuna formula precostituita, poiché possono essere molteplici le vie che conducono a Dio. a ognuno la sua!). Ed inoltre solo così potrà poi “spossedersi”, poiché capace di relazioni autentiche con l’altro. Un dialogo che l’uomo deve cominciare a far partire da sé; mai senza un “Io” che non potrà mai pronunciare senza un “ Tu” che lo rivela. L’ uomo a cui si fa riferimento è quello che non ha bisogno di rinnegare Dio per affermare se stesso, al contrario. Quanto più l’uomo si scopre essere-in-relazione, capace di guardare l’altro da sé, tanto più conferma la sua autentica natura. L’ uomo contemporaneo vive una crisi antropologica non indifferente. Saltate le sicurezze e i grandi idealismi, anche le strutture sociali (una volta rifugio) non reggono all’urto del disorientamento. “tale è l’ora presente”, afferma Buber, Quasi masticando con amarezza queste parole. e alla domanda: “Ma come sarà la prossima?”, Buber non soccombe in un pessimismo; certo “ogni età è la continuazione di quella precedente – asserisce -; ma una continuazione può essere conferma oppure rinnegamento”. ecco allora riapparire sulla scena l’uomo in tutta la sua libertà e responsabilità, capace di vincere il male soggiogandolo al bene. Con il seguente racconto chassidico, dal titolo “il male”, invito il lettore a lasciarsi condurre dal maestro Martin Buber lungo un percorso che conduce a una direzione possibile. A Buber , che ha saputo fare della sua vita una continua esperienza dialogante, uno scolaro chiese al Magghid di Zoloczov: «il talmud afferma che il bambino, nel seno della madre, contempla il mondo intero e conosce tutti gli insegnamenti, ma che, nell’istante in cui viene a contatto con l’aria della terra, un angelo lo colpisce sulla bocca, sicché dimentica ogni cosa. non ne comprendo il motivo: perché conoscere prima ogni cosa e poi dimenticarla?». rispose il rabbi: «nell’uomo resta una traccia, tramite la quale egli è messo in grado di riacquistare la conoscenza del mondo e degli insegnamenti e rendere così il giusto servizio a Dio». Quello però insisteva: «Perché l’angelo deve colpire l’uomo? Se non lo facesse, il male non esisterebbe». «Ma se non esistesse il male» rispose il rabbi «non ci sarebbe neppure il bene, perché questo non è che l’altra faccia del male. un piacere che dura eternamente non è un piacere. ecco come dobbiamo interpretare l’insegnamento secondo il quale il mondo è stato creato per il bene delle creature che lo abitano. ed ecco perché sta scritto: ‘non è bene che l’uomo’, intendo il primo, quello creato da Dio, “stia solo”, cioè senza l’effetto contrario e l’ostacolo rappresentato dall’inclinazione al male, come era prima della creazione del mondo. infatti non c’è bene senza che esista anche il suo opposto. Leggiamo poco dopo: ‘Voglio farlo in modo che possa aiutarsi’ per indicare che la lotta del male contro il bene consente all’uomo di vincere, di rifiutare il male e di scegliere il bene. Soltanto così il bene esiste veramente e in modo perfetto e l’esistenza, fin dal grembo materno, è accompagnata in ogni suo sospiro dalla luce e dalla notte. nell’oscurità l’uomo è messo a dura prova. l’immaginazione prende il sopravvento e la visione delle cose è condita dal malessere. Questo perché l’esistenza è sempre più autentica quanto più è illuminata dalla verità. il mito della caverna ci insegna che la luce ci permette di vedere le cose nella loro effettiva realtà, la luce ci conduce a una consapevolezza più piena di ciò che siamo. Ma la vita di ogni uomo è attraversata anche dalla notte, dalle tenebre: buio che confonde e procura malessere. ognuno di noi può dare un nome a quel male che procura disagio, che toglie il respiro annebbiando la vista e facendo smarrire la serenità. non vi è mai capitato di mettere in discussione ogni certezza raggiunta, come pure la sensazione di venire soffocati da una insoddisfazione? Ciò è simile a una presenza fastidiosa o pungente come l’ortica. la domanda “dove mi trovo?” acquista un senso se ad essa facciamo seguire una riflessione e un approfondimento del mio sé in relazione a un universo di uomini e cose che mi circondano. Cosa ho fatto? Quali le mie aspirazioni? Cosa penso di me? Come vengono vissute le mie relazioni con gli altri? So prestare l’orecchio a ciò che mi risuona nel profondo? La pienezza dell’uomo e del suo essere va oltre il confine dell’immediato, oltre tutto ciò che lo coinvolge nelle “cose” poiché: “tutto questo e cose di questo genere insieme fondano il regno dell’esso”. Nelle cose che lo circondano e di cui l’uomo si cir-conda “i tanti lui, lei, esso” (che Buber non rigetta, anzi il mondo dell’esso, cultura, scienza, tecnica, istituzioni, etc. – è necessario per dare “continuità e durata ai frutti della relazione”) rientrano in quel dinamismo profondo dell’essere che trova radice nell’inquietudine esistenziale, nel suo esistere in quanto coppia, relazione io-tu. un equilibrio che, se infranto, sprofonda l’uomo nel baratro della frammentarietà. l’uomo così si è perso: “Dove sei?” è la domanda che Dio rivolge ad Adamo “o a chiunque altro”: “Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità”. interrogarsi, mettere in discussione le proprie certez-ze è solo l’inizio di quel processo che va sotto il nome di “ricerca”. ed essa è propria dell’uomo che si interroga e si pone infinite domande. C’è una sana inquietudine che accompagna la nostra ricerca. e questo è un bene. Ma altrettanto salutare è trovare di volta in volta, di ricerca in ricerca un senso a ciò che facciamo, un senso che si rinnova, così come la nostra esistenza è in continuo cambiamento ed evoluzione. trovare un senso (o uno scopo-significato) diventa vitale per la propria sopravvivenza ed equilibrio. il vuoto interiore o esistenziale, come lo chiama Victor Frankl, blocca il flusso della vitalità e della “presenza”. il senso poi trova maggiore significazione se affonda la sua radice nell’essere mistero e nell’avere a che fare con il mistero, e se abbiamo chiara in noi la “Direzione”. Sapere dove andare equivale a dare senso a ogni nostro gesto, a ogni nostro incontro, a ogni nostra scelta. Quando ciò viene a mancare ecco allora prendere piede in noi quel malessere o male che trova nella sua piena realizzazione il buio e la notte, la perdita di direzione – il non vedere. e’ male tutto ciò che non ci fa stare bene. non sapere (o non vedere) dove andare e brancolare nella notte procura malessere: male-essere, che ben si traduce con “stare nel male” o “stare male”, ma anche “essere-male” ovvero ciò che è “male per me”. Siamo chiamati a fare delle scelte, la vita ci pone di fronte, a partire dalla quotidianità, situazioni che ci interpellano e richiedono una scelta, e anche la non scelta (apparente) diventa scelta essa stessa. e proprio questo decidersi, la scelta di ciò che potrà avvenire, e quindi del futuro, dell’ignoto, procura e genera angoscia. Disperazione e angoscia che sono strettamente legate e sono proprie della struttura dell’io. noi tutti dobbiamo fare i conti con questa struttura. Søren Kierkegaard ci parla di disperazione dell’io, sia che voglia essere sia che non voglia essere se stesso. egli parla di malattia mortale, cioè il vivere la morte dell’io: “è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta”. Per combattere la disperazione è necessaria la possibilità, e solo a Dio tutto è possibile, afferma Kierkegaard: “per quanto disastrosa o disperata la situazione in cui un uomo viene a trovarsi, Dio può sempre trovare per lui, per questo singolo uomo, una possibilità che gli dia respiro e lo salvi. Ma Dio può far questo perché ha a sua disposizione infinite possibilità che gli diano respiro e lo salvino. Se l’uomo si trovasse nella stessa situazione, non avrebbe, ovviamente, bisogno di Dio”. ecco allora trovato, per il credente, “il contraveleno”. e se la disperazione è peccato, suo opposto è la fede che procura speranza e fiducia in Dio.

Credo che l’esperienza di Kierkegaard possa essere un incentivo a guardare dentro di noi. egli scrive: “Ciò che in fondo mi manca, è di veder chiaro in me stesso, di sapere “ciò che io devo fare” (…) e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole che io faccia, di trovare una verità che sia una verità per me, di trovare l’idea per la quale io voglio vivere e morire”. Kierkegaard rifiuta un “sistema” e introduce il concetto di una soggettività della verità. Dunque anche per noi: “ciò che conta è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per cui io voglia vivere e morire”. la verità è tale se tiene conto dell’esistenza concreta del soggetto, ciò che spinge a compiere determinate azioni o decisioni. Ma cos’è il male che ci accompagna fin dalla nascita e di cui non riusciamo a liberarci? Perché esso è il compagno fastidioso che ci rende infelici anche se allo stesso tempo può trasformarsi in opportunità di riscatto? il male può diventare una risorsa quando trovandoci in un baratro tanto profondo da sfiorare il limite della non-possibilità, del non-ritorno, esso diventa, nella notte oscura (perdita del proprio senso esistenziale), l’occasione (che siamo liberi di cogliere o meno) dello sprigionarsi di quella forza vitale che spinge l’uomo alla piena consapevolezza di sé per la conquista della felicità autentica. e’, quindi, nella paura e nel buio che si può “ri-sor-gere”, è qui che avviene il riscatto per la vita nuova, l’uscita verso la luce come una seconda nascita. Solo così è possibile trovare la Direzione. e’ necessario un incontro autentico, come insegna Martin Buber, a prende in esame le due parole fondamentali (“Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole”), la coppia io-tu (luogo di relazione, Beziehung – “relazione è reciprocità” (Gegenseitigheit) e la coppia io-esso, definendone i caratteri antropologici e analizza la dinamica di queste coppie nell’uomo, nella società e nella storia. infine, Buber parla della relazione autentica dell’io con il tu-Dio (la matrice del pensiero buberiano è biblica, la sua ricerca filosofica pertanto parte da categorie radicate nella fede ebraica). il problema antropologico è caro a Buber (si pensi al saggio Das Problem des Menschen, Il problema dell’uomo, pubblicato nel 1943 – prima edizione in ebraico -, sulla tematica dell’interrelazione, in particolare – nella parte finale – sul rapporto tra l’uomo e l’altro uomo. Per Buber la relazione con l’altro è evento ontologico in quanto l’essere si rivela nell’accadere della relazione), che vede l’uomo in tutta la sua interezza, quale uomo in relazione con l’altro (“il dire tu dell’io è all’origine di ogni singolo divenir uomo”. nella postfazione del volume Il principio dialogico e altri saggi: Per la storia del pensiero dialogico, Buber, su questa tematica, richiama autori che già se ne erano occupati, come Friedrich Heinrich Jacobi, Johann Caspar lavater, ludwig Feuerbach. Søren Kierkegaard, Hermann Cohen, Franz rosenzweig, Ferdinand ebner e gabriel Marcel, come pure alcuni teologi evangelici quali Friedrich gogarten ed emil Brunner. Cfr. M. Buber, Il principio dialogico, cit., p. 319 e ss.). Divento io nel tu: il mio essere viene partecipato al tu; sono riflesso del tu, non posso darmi l’io da me stesso. e’ nell’unità suprema che ritrovo il mio io e solo quando e attraverso l’unità ricomporrò l’armonia il mio io apparirà nitido, capace di pronunciare tu (il linguaggio è riconosciuto dall’ebraismo come un accadimento che si protende oltre l’esserci dell’uomo e del mondo. Di contro alla statica dell’idea del logos, appare qui la parola nella sua piena dinamica, come ciò che accade. l’atto creatore di Dio è linguaggio; ma lo è anche ogni attimo vissuto. il mondo viene assegnato (zugesprochen) all’uomo che lo percepisce, e la vita dell’uomo stesso è un dialogo. Ciò che gli accade sono i piccoli e i grandi segni, intraducibili ma inconfondibili, di un discorso; ciò che egli fa lo tralascia, può rispondere o negare la risposta. e così tutta la storia del mondo, la segreta, effettiva storia universale, è un dialogo tra Dio e la sua creatura; un dialogo in cui l’uomo è reale, legittimo partner, che è reso capace e autorizzato a parlare da sé la sua propria, autonoma parola”. id., La passione credente dell’ebreo, cit., pp. 54-55). Se oggi l’uomo fa fatica a dire tu è perché ha smarrito il proprio io, nel caotico mondo delle ingannevoli compensazioni che è esterno al suo profondo; lo ha smarrito in ciò che appare illusorio e che spinge l’uomo verso il baratro della frammentazione e nullificazione. l’incontro autentico col tu “avviene solo dove è caduto ogni mezzo” (id., Il principio dialogico, cit., p. 67) in quanto: “la relazione al tu è immediata. tra l’io e il tu non vi è alcuna conoscenza concettuale, alcuna precom-partire da se stessi. ricordando che non ci si salva da soli.un punto, questo, fondamentale per la comprensione del pensiero dialogico dell’autore. Per Buber l’uomo è nella relazione (una relazione che dovrebbe essere segnata dalla autenticità e reciprocità ma che talvolta è malata in quanto l’uomo, soprattutto nella modernità, per l’altro è solo un “esso” da strumentalizzare per propri scopi), ed è nella pronuncia di quel “tu” che egli comprende il proprio “io”. Da un tu orizzontale a un tu verticale, poiché “la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio”14. relazione che nell’epoca moderna si è oscurata (come scrive ne L’eclissi di Dio) per effetto dell’ipertrofia dell’io-esso cioè di quel rapporto che vede l’altro come oggetto. una prospettiva, quella proposta dal filosofo ebreo, che si discosta da una visione moderna che considera l’uomo in termini di “individuo”. al liberalismo individualistico e al collettivismo – per Buber due atteggiamenti esistenziali15 – si oppone la via prensione, alcuna fantasia, e persino la memoria si trasforma, poiché precipita dalla particolarità nella totalità” (Ibidem). la relazione io-tu è ontologica nell’uomo, per questo si registra un’inquietudine dell’io che tende al desiderio quasi spasmodico della comunione: “tra l’io e il tu non vi è alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione; e persino l’anelito si trasforma, poiché precipita dal sogno nell’apparizione” (Ibidem). Sia l’individualismo che il collettivismo secondo Buber non pro-muovono l’integrità dell’uomo: “l’individualismo considera l’uomo soltanto nella relazione con se stesso, ma il collettivismo non vede affatto l’uomo, non vede che la “società”. nell’uno il volto dell’uomo è deformato, nell’altro è nascosto”, cfr. Das Problem des Menschen, Il problema della “comunità vera”, luogo di molteplicità di persone e di reciprocità. Si tratta della Comunità (Gemeinschaft) dove si costruiscono relazioni io-tu. in Ich und Du. Buber afferma: “la vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca. la seconda condizione scaturisce dalla prima, ma non si dà ancora solo con quella. una vivente relazione reciproca comprende i sentimenti, ma non deriva da essi. la comunità si costruisce a partire dalla vivente relazione reciproca, ma il costruttore è l’operante centro vivente”. Dunque il male è proprio questo non volersi dirigere verso l’incontro autentico. e allora la domanda: è possibile il recupero del rapporto autentico? Certo. esso si può trovare in un cammino che parte dal dialogo con se stessi – ritorno, conversione (teshuvah), un ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino – per aprirsi poi all’incontro con l’altro: “Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!” come Buber riporta in un racconto: “Quando rabbi Hajim che ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “oh suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “ah, suocero – gli rispose rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e dell’uomo. Il principio dialogico, cit., p. 90.pensate al mondo!”, che così commenta: “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno (…)”. L’io è incomprensibile senza il tu. non si può parla-re dell’io escludendo il tu. Buber afferma: “Quando si dice tu, si dice insieme l’io della coppia io-tu”. L’assenza di questa relazione è causa di inquietudine che l’io non può colmare poiché “la parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere”. il tu che l’uomo pronuncia lo apre all’infinito. e nella pronuncia del tu l’uomo si affaccia alla sua vera realtà, quella relazionale: “Chi dice tu – afferma Buber – non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella Beziehung (relazione)”. E’ necessario pertanto ripensarsi uomo in termini di relazione io-tu. l’io ha coscienza di sé solo mediante l’incontro con il tu. relazione dialogica. e relazione è reciprocità; l’io si dà nella realtà proprio mediante la relazione, un rapporto con l’altro che è costitutivo dell’essere. Ma questa relazione con l’altro può essere, dice Buber, autentica quando si vede nell’altro il “tu” (l’io-tu: santa parola fondamentale del dialogo) e ciò è pienezza del proprio essere; oppure relazione non autentica quando, nella sfera dell’io-esso, si vede l’altro come “esso”, cioè si vuol ridurre l’altro ad una cosa, ad uno strumento da utilizzare per propri fini, ad un oggetto su cui esercitare il proprio potere o un oggetto da voler rendere a propria immagine e somiglianza, allontanandosi così dalla Gegenseitigkeit (reciprocità). Secondo Buber, nell’epoca moderna il rapporto io-esso ha conseguito un netto predominio sulla relazione io-tu. Di conseguenza, la vita dialogica – sia della relazione con l’altro uomo che con il Tu eterno (relazioni che per Buber sono interdipendenti poiché solo chi è capace di relazione autentica con il tu può anche invocare il Tu Eterno) – è in crisi; l’uomo della tarda modernità è “senza casa”, senza relazioni e perciò solo; di fronte a questo uomo che vive un forte disagio spirituale, che non è capace di pronunciare “tu” e quindi non riesce a vivere relazioni autentiche, Dio si è eclissato. Poiché ad avere la meglio è stato il rapporto io-esso cioè un primato dell’ego che considera “altri” in termini di oggetto. “Senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo”. Ciò che Buber condanna è il prevalere del mondo dell’esso sulla possibilità delle relazioni autentiche. e comunque l’uomo può sempre sottrarsi al mondo dell’esso, rifugiandosi in quello della relazione con la conseguenza che “solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. e nell’atto della decisione, della scelta, avviene l’opzione fondamentale della conversione-direzione che si oppone alla non-direzione cioè al male, poiché esso è il permanere nella non-scelta. L’uomo può entrare in relazione, oltre che con il suo simile, anche con gli esseri della natura e con le “essenze spirituali”. relazioni tutte che se autentiche – ovvero caratterizzate dall’immediatezza e dalla reciprocità – aprono al mistero, al “tu eterno”, al rapporto con Dio poiché “ogni singolo tu è una breccia aperta sul tu eterno”. Buber parla di quel “tu” che: “non è un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definitive” . Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce”. il tu, la sua luce pervade tutto l’essere, è il tutto che si presenta e mi incontra per grazia non si trova nella ricerca; afferma Buber: “il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire”. C’è una risposta al tu che si svela, c’è una scelta che spetta all’uomo, la disponibilità ad accedere alla relazione: “l’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu, diventando io, dico tu. ogni vita reale è incontro”. E  ancora sul ritorno – che è al centro della conce-zione ebraica del cammino dell’uomo – Buber afferma che: “ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. Il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie. La virata di cui parla Buber rinvia al tema della “direzione-decisione” che l’uomo deve intraprendere per abbandonare il male. “in una predicazione pronunciata all’apertura del giorno dell’espiazione, il rabbi  usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘allontanati dal male e fa’ il bene’, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”. il ritorno alla relazione è fonte di bene: “Solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. Si fa appello alla decisione dell’uomo di scegliere. una visione, questa, che attiene al profetismo e responsabilizza l’uomo di fronte al suo destino. il male dunque è inteso come “forza senza direzione”, ovvero “istinto cattivo” che si contrappone all’“istinto buono”. Buber afferma: “… se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi”.

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Sulla soglia di casa di Carla Stroppa: una (non) recensione

Pasquale Amato

Ho letto Sulla soglia di casa di Carla Stroppa[1]. Fossi un esperto di psicoanalisi, scriverei una vera recensione, ma non lo sono, e le mie conoscenze su Jung sono sommarie, devo ammettere. D’altronde, l’incontro con la psicologia analitica ha inciso significativamente sul mio modo di esistere, e quindi ho voglia di condividere alcuni stimoli che le riflessioni di Stroppa mi hanno dato. Seguirò l’istinto, e senza troppo strutturare un percorso, mi permetterò di sintetizzare alcune sue pagine che hanno fatto risuonare in me emozioni (ri)conosciute.

“Vado a casa”, diciamo quando siamo stanchi, e sottintendiamo la voglia di rilassarci, di ricaricarci. “Mi sento a casa” vuol dire che siamo in un posto che ci piace, in cui ci sentiamo al riparo, senza tensioni, sereni: casa mia, casa mia… Carla Stroppa punta il compasso sull’idea di casa, e in tante direzioni ne sviluppa il senso, disegnando cerchi diversi ma concentrici, a quell’idea riconducendo esperienze analitiche di vario rilievo che le ispirano pensieri pratici, di buonsenso psicoanalitico.

Partiamo dalle basi. La casa prospetta un dentro e un fuori. È rifugio che ci accoglie, o prigione che ci spaventa: «La casa è una necessità essenziale e, né più né meno, è un pericolo essenziale»[2]. Implica, in ogni caso, una soglia da varcare in entrata o in uscita. “Sulla soglia di casa” si sta nella possibilità fisica di uscire o entrare, di perlustrare il dentro o il fuori, si sta in una metafora della scelta (a cui la vita continuamente ci costringe) tra il partecipare al mondo assumendone i rischi e l’esplorarsi dentro assumendone i rischi. A questa immagine metaforica l’autrice riconduce le esperienze dei suoi analizzati, individuando e interpretando le difficoltà psichiche sottintese nei loro racconti. Ecco la sintesi (bella, così senza una virgola, tutta d’un fiato) di quelle esperienze: «Ci si può perdere sia rimanendo sempre dentro che cercando sempre fuori e sia dentro che fuori ci si può salvare»[3].

I tanti che, non riuscendo a rispecchiarsi nei canoni di comportamento dell’epoca contemporanea, si perdono e si ritrovano “senza casa” pur non mancando di capacità pratiche e intellettive, sono verosimilmente stati vittime di traumi infantili che hanno causato una scissione intrapsichica. Disconosciuti nella propria identità, corrono il rischio reale di un disadattamento che li rende «inetti e malati, pieni di aggressività non riconosciuta, persino disposti a morire o a uccidere»[4] e quindi pericolosi per se stessi e per gli altri. A loro (e a chiunque vada in analisi), l’autrice suggerisce si dedichi un assetto analitico che concili le spiegazioni archetipiche con la loro storia individuale, criticando quegli interpreti di Jung che assolutizzano l’approccio mitopoietico (approccio a cui pur attribuisce un’indiscutibile ricchezza formativa) e che trascurano l’esperienza di vita dell’analizzato.

Ogni cosa è vera ed è vero il suo contrario: il riduttivismo che non tiene conto della complessità può essere mortale come l’astrazione archetipica che non tiene conto delle declinazioni della storia individuale, tuttavia entrambi questi sguardi offrono una chiave di lettura importante e ineludibile. Si tratta di capire quando deve prevalere l’una o l’altra e come si intrecciano fra di loro.[5]

È necessario accettare, peraltro, che l’analisi non può restituire tutto l’amore materno perduto, ma l’autentico interesse per i vuoti affettivi che l’altro in qualche modo racconta può generare una compensazione almeno capace di rimettere in moto lo slancio vitale in lui sopito. «Conta soprattutto l’autenticità dell’interesse umano per chi ci si trova di fronte»[6], si ribadisce più avanti, e questa “umanistica” impostazione del rapporto analitico ritorna, costante, nella narrazione che si snoda capitolo dopo capitolo, sempre connessa alle diverse declinazioni dell’idea portante di casa.

Mi preme dire sin d’ora che, in tutto il testo, la riflessione ricca e stimolante dimostra (prevedibilmente) la profonda conoscenza del pensiero junghiano da parte dell’autrice, ma anche una solidità e una serenità intellettuale che le permettono di metterne a fuoco sfumature critiche, e di proporre in merito – senza riserve – ritocchi considerevoli ai fini analitici.

Inconsciamente impegnato nella ricerca impellente di una “casa accogliente e rassicurante” che compensi l’infantile dolore per la mancanza di una madre “sufficientemente buona” – «sto proprio parlando di mancanza di cure primarie, abbandono, solitudine dell’infante di fronte al mondo»[7] –, il soggetto cui fu negato un “buon latte materno” continua, da adulto, a cercarlo negli altri, spesso a discapito dell’impulso erotico che un normale interesse sessuale dovrebbe liberare. Chi ha subito tale privazione, allora, compie l’errore di aspettarsi dal proprio partner, con dispetto e pressione crescente, l’amore incondizionato che solo un genitore avrebbe potuto dargli e che, implicando simbiosi, ostacolerebbe gli effetti erotici di una libera curiosità per le differenze dell’altro.

La soluzione, ammesso e non concesso che sia sempre possibile, sta nel guardarsi dentro e nel rendersi conto che tutta quella carica di rancore e di richiesta non può essere destinata al partner che da parte sua ha tutto il diritto di essere quello che è, con i suoi pregi e i suoi limiti.[8]

L’esito positivo del difficile e delicato passaggio dall’essere bambino all’essere adulto richiede l’incontro con adulti equilibrati, che sappiano conciliare la logica con la capacità analogica di un bambino. Bisogna insomma diventare adulti senza perdere quella visione che richiede «il senso della totalità, della creatività e quella sensazione di essere realmente vivi che si prova»[9] da piccoli. È nondimeno auspicabile un’apertura alla vita che faciliti il cammino “verso casa”, ovvero il conseguimento di una piena coscienza di sé attraverso il “sacrificio” sereno e consapevole di possibilità alternative alle scelte che definiscono la propria identità. Scegliere, d’altro canto, richiede la capacità di combinare i criteri della realtà con quelli dell’immaginazione, il sogno con la realtà, per riuscire a “pensarsi e progettarsi”, per raggiungere l’autentico sé e farlo crescere nello scambio con gli altri.

Avviene anche in analisi: le storie vere si intrecciano a quelle inventate e lo sappiamo. Operiamo sempre a partire da questa consapevolezza che nulla toglie all’autenticità del percorso: siamo animali simbolici e corteggiamo sempre la vocazione poetica a cantare la verità del sé attraverso l’intreccio tra verità storica e finzione narrativa. Lì siamo a casa nostra.[10]

Eh, sì: se posso dire, lì mi sento a casa anch’io.

E così via, passando attraverso tante altre raffigurazioni di case, tanti giardini in cui riflessioni variamente colorate fioriscono, profumate di emozioni diverse, toccanti.

Penso alle pagine, a me particolarmente care, in cui la scrittura letteraria – «Lo scrittore invita nella sua casa le quattro funzioni psichiche che Jung ha descritto con geniale maestria: il sentimento, la sensazione, l’intuizione e il pensiero.»[11] – è acutamente intesa come gioco associato all’elaborazione onirica, tramite il quale il narratore declina «la propria “equazione individuale”»[12]. Laddove la gratificazione del logos ottenuta con la scrittura erudita può causare – Jung insegna – una scissione tra il zigzagante muoversi del pensiero emotivo e il procedere rettilineo dell’intelletto, e dunque un assottigliamento della propria identità, la cui pienezza esige quel “sapere dell’anima” che ci disponga anche a tornare nella «casa in cui il danno psichico si è prodotto»[13].

E penso alle annotazioni sulla comprensione improvvisa e illuminante di un nesso originario tra la persona che siamo e la casa della nostra infanzia in quanto «fonte di ogni nostalgia, teatro del dispiegarsi dell’immaginazione dove accadono le cose migliori e le cose peggiori che imprimono il loro marchio nella personalità»[14].

E ancora ai brani in cui Carla Stroppa suggerisce, prudente, di considerare il contesto analitico come un laboratorio alchemico in cui sperimentare «quelle idee che formano un possibile orizzonte di senso della psiche individuale e della società»[15], anziché come luogo dove cercare esemplari modi d’essere di società e individuo, riaffermando a tal proposito la conciliazione necessaria tra realtà e immaginazione, ma anche promuovendo la percezione unitaria dell’anima individuale e dell’anima del mondo.

Oppure all’allegoria delle ali che a volte, a persone particolarmente sensibili e creative, “spuntano davvero”, perché possano stazionare «sulla soglia della casa dell’Angelo che altro non è che la casa dell’Anima»[16]. Qui si inserisce l’idea di «doppio binario tra psicologia individuale e psicologia della collettività»[17], con un riferimento a quelle sofferenze psichiche delle quali Jung approfondì la ricerca fino a riscontrarne il rispecchiamento in ambito sociale e culturale.

Trovo fondamentale e sempre attuale l’intuizione secondo la quale in certi individui, particolarmente percettivi, la nevrosi personale, lungi dall’esaurire le proprie ragioni all’interno delle cause legate al romanzo familiare, si fa specchio e risonanza della nevrosi del tempo storico in cui si trovano a vivere.[18]

Colgo un ultimo pensiero di Stroppa che, citando Metamorfosi di Franco Rella (Moretti & Vitali, Bergamo 2013) e, in particolare, il capitolo “Due mondi, cioè due verità”, riflette sulle difficoltà con le quali ogni individuo abita “coscientemente la contraddizione” tra immanenza e ricerca di trascendenza, richiamando le diverse modalità in cui l’uomo contemporaneo insegue qualcosa che vada oltre la concretezza del mero vivere quotidiano, e altresì paventando le alterazioni psicologiche cui una distorta idea di trascendenza può condurre. «L’essere umano ha bisogno di una casa terrestre e una celeste»[19], ci ricorda, ma tenersi in equilibrio tra i bisogni materiali della pura sopravvivenza e le spinte cui l’immaginazione ci sottopone esige la capacità matura di un “doppio sguardo” che sappia vedere «il dritto e il rovescio delle cose, o se vogliamo il loro lato destro e quello sinistro nella loro pregnanza simbolica»[20].

Penso sia proprio giunto il momento di concludere questa mia escursione, volutamente breve e frammentaria. Perché non ho dubbi: meglio non perdere tempo con le mie chiacchiere, e passare prima possibile alla lettura dell’originale.

 


[1] Carla Stroppa, Sulla soglia di casa, Moretti & Vitali, Bergamo 2019.

[2] Ivi, pag. 16.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, pag. 58.

[5] Ivi, pag. 60.

[6] Ivi, pag. 66.

[7] Ivi, pag. 67.

[8] Ivi, pag. 69.

[9] Ivi, pag. 80 (nota 45: M.L. Von Franz, L’eterno fanciullo, Red. Como 1970, p. 24).

[10] Ivi, pag. 86.

[11] Ivi, pag. 98.

[12] Ivi, pagg. 98-99.

[13] Ivi, pag. 99.

[14] Ivi, pag. 100.

[15] Ivi, pag. 135.

[16] Ivi, pag. 159.

[17] Ivi, pag. 162.

[18] Ivi, pag. 160.

[19] Ivi, pag. 222.

[20] Ivi, pag. 225.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 7

  1. Finitudine e Colpa (I)

Il secondo momento della Filosofia della volontà si presenta come un diverso approccio: la neutralità dell’ontologia fondamentale dell’uomo – innocente o meno – aveva richiesto una sospensione della colpa che ora, rientrando in gioco, induce la trasformazione dell’analisi in una empirica dell’uomo finito e colpevole, e impone un adeguamento del metodo.

Ricœur prospettava in tal senso una Poetica della volontà, una mitica concreta, ma ora ammette che il mito mal si addice al discorso filosofico, e si domanda quale sia un modo che possa avvicinare le due prospettive.

I miti che ci parlano della colpa e del male, a cui si può accedere mediante lo studio comparato delle tradizioni religiose, resistono a una diretta trasposizione nel discorso filosofico, rivelandosi elaborazioni secondarie di un linguaggio in cui le espressioni che significano la colpa sono sempre indirette, sono sempre figurate. Ricœur individua il fondamento del racconto mitico nel linguaggio della confessione, la cui peculiarità è di essere «da cima a fondo un linguaggio simbolico»[1].

Il filosofo che si addentri nei «miti della caduta, del caos, dell’esilio, dell’accecamento divino»[2], deve prestare allora attenzione a questo linguaggio che, pur parlandogli in codice, si offre ad una possibile comprensione.

Quella che Ricœur stesso aveva prospettato come mitica della volontà malvagia assume, dunque, le dimensioni più ampie di una simbolica del male, permettendo «l’inserimento dei miti nella conoscenza che l’uomo acquista di sé»[3] attraverso una ermeneutica filosofica che ne consenta la decifrazione.

La considerazione della colpa fa emergere la fallibilità come debolezza costituzionale dell’uomo e introduce la consapevolezza della possibilità del male. Il concetto di fallibilità si connota come fascia di confine tra l’antropologia filosofica e la simbolica del male, così come la simbolica del male fa da tramite fra mito e discorso filosofico; in questa zona intermedia si comprende l’ingresso del male nel mondo ad opera dell’uomo stesso, ma oltrepassando tale limite «inizia l’enigma di un punto di insorgenza, e il discorso non può essere che indiretto e cifrato»[4]. L’origine del linguaggio della confessione, quindi, sembra situarsi nell’enigma di una incapacità per l’uomo di inoltrarsi nella sua profondità se non in termini di analogia, «come se la coscienza di sé potesse esprimersi alla fine solo per enigmi»[5], sottraendosi, per costituzione, ad una lettura che non fosse interpretazione.

L’unità dialettica di volontario e involontario trova, nella simbolica del male, una collocazione più idonea come «struttura di mediazione tra il polo della finitezza e quello della infinità dell’uomo»[6], la cui essenziale fallibilità risulta concetto centrale di una teoria che non può essere metodologicamente omogenea all’eidetica della volontà e che, per poter accedere ad un contesto che è simbolico, deve ricorrere all’ermeneutica.

La simbolica del male, in conclusione, «indica come si possa rispettare la specificità del mondo simbolico di espressione e al tempo stesso pensare, non “dietro” al simbolo, ma “a partire” dal simbolo»[7].

La ricerca nell’ambito dei temi mitici del male sembra comunque collegata alla considerazione – che va ad integrare l’ontologia fondamentale dell’uomo – del servo arbitrio inteso come libero arbitrio ostacolato dal non-essere specifico del male. Per poter comprendere in maniera completa il problema del male nell’uomo, osserva Ricœur, la riflessione filosofica dovrebbe effettivamente esaurire quella visione etica del mondo verso cui viene proiettata dall’assunzione della simbolica del male, dovrebbe cioè spingersi più a fondo possibile nella comprensione del male per mezzo della libertà e, viceversa, della libertà mediante il male.

Una difficile impresa, questa, conseguente alla «decisione di entrare nel problema del male attraverso la porta stretta»[8], cioè alla scelta di una prospettiva che, pur non togliendo il dubbio di un’origine umana o non umana del male, ne considera comunque l’umanità come spazio di manifestazione. Anche questa è libertà, ci dice Ricœur: libertà che si mostra responsabile attraverso il riconoscimento dello spazio in cui il male si manifesta, «che dichiara di considerare male il male commesso, e confessa che dipendeva da lei che non lo fosse»[9]. È attraverso questa confessione che l’uomo si mostra, oltre che come luogo, anche come autore del male.

Confessando la sua responsabilità, e quindi prendendone coscienza, la libertà si attribuisce il problema del male e può raggiungerne i confini dell’origine radicale, qualunque essa sia.

Ma, in più, l’uomo accede così ad una significativa comprensione di sé e della propria libertà: «la confessione della colpa è al tempo stesso la scoperta della libertà»[10]. L’ammissione di colpa, ci persuade Ricœur, fornisce maggiore spessore alla coscienza che, oltre al futuro aperto dallo slancio del progetto, scopre il passato del rimorso che le procura la «certezza di una possibilità di rigenerazione»[11]; l’io acquista, inoltre, un suo senso di continuità, anche perché la coscienza di colpa, facendo «appello all’io originario»[12] attraverso il riferimento alla sua «causalità totale e semplice»[13], ne ricostituisce, al di là dei suoi atti singoli e, nel contempo, in quegli stessi atti (poiché lo rendono accessibile), il senso di integralità cui aspira.

In tutte queste articolazioni della coscienza di colpa risiede la «grandezza della visione etica del mondo»[14], mentre proprio una simbolica del male ne mette in luce il limite: è vero che l’uomo pone il male nel mondo, ma, d’altro canto, «lo pone solo in quanto cede all’urto dell’Avversario»[15].

Questa simbolica del male, nello stesso modo in cui il simbolo “fa pensare”, fa pensare «la grandezza e il limite di ogni visione etica del mondo»[16]: essa è l’evocazione di un uomo vittima quanto colpevole.


[1] Ricœur P., Filosofia della volontà ii. Finitudine e Colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 57.

[2] ivi, p. 56.

[3] ivi, p. 56.

[4] ivi, p. 58.

[5] ivi, p. 57.

[6] ivi, p. 58.

[7] ivi, p. 59.

[8] ivi, p. 61.

[9] ivi, p. 62.

[10] ivi, p. 63.

[11] ivi, p. 63.

[12] ivi, p. 64.

[13] ivi, p. 63.

[14] ivi, p. 64.

[15] ivi, p. 65.

[16] ivi, p. 65.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 8

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (II)

 

3.1. L’uomo fallibile (I)

Prima tappa del lavoro ricœuriano su Finitudine e Colpa è lo sviluppo degli spunti teorici che portano a definire il concetto di fallibilità. Siamo ancora, ci precisa Ricœur, entro i confini di una riflessione pura che tiene conto dello sfondo di sproporzione caratteristico dell’uomo, di una certa costituzionale «non coincidenza con se stesso»[1].

Muovendo dal «paradosso cartesiano dell’uomo finito-infinito»[2] e depurandolo dall’implicita obiettivazione, la ricerca individua la realtà umana dell’essere «più grande e più piccolo di se stesso»[3] in una posizione di intermediarietà e, dunque, non in una regione ontologica sita tra finitezza e infinito, ma nell’esistenza fatta di mediazioni in virtù della quale l’uomo «è misto»[4].

I concetti di fallibilità, di sproporzione, di intermediario, la cui concatenazione può essere elaborata solo su una piena considerazione della polarità finito-infinito, ci conducono verso una antropologia filosofica che, non potendo – come sappiamo – procedere dal semplice al complesso, deve poter attingere ad una visione che sia, di per se stessa, già una visione globale degli aspetti della sproporzione dell’uomo: la riflessione si presenterà allora come «elucidazione filosofica»[5] di una precomprensione, di una comprensione pre-filosofica. La riflessione deve procedere «per elucidazione seconda di una nebulosa del senso che comporta anzitutto un carattere prefilosofico»[6], e dunque la filosofia non è cominciamento radicale, se ci riferiamo alle origini, ma «può esserlo quanto al metodo»[7].

È una pre-filosofia dell’uomo fallibile quello che Ricœur chiama il «patetico della “miseria”»[8], indicando proprio nel pathos il motivo di fondo di questo pensiero che legge in chiave ontica la sproporzione e l’intermediarietà dell’uomo. La miseria rappresenta, per esempio nei miti di Platone, la perplessità costitutiva dell’anima che, non essendo l’Idea pur essendo quel che più si avvicina ad essa, «è in travaglio in quanto all’essere»[9] e cerca.

Rivolgersi al prefilosofico significa rivolgersi al mito, con la consapevolezza di dover poi procedere ad una «riduzione del patetico […] mediante una riflessione di tipo “trascendentale”»[10] che risalga alle condizioni di possibilità partendo, non da me, ma dall’oggetto. Il termine riduzione si riferisce, ci ricorda Ricœur, alla «ricchezza di senso a cui la riflessione non può giungere»[11] e che è propria, invece, della precomprensione e quindi del mito, nonostante – o in virtù del fatto che – il mito stesso sia «la miseria della filosofia»[12]. Ma non è abbastanza: il patetico della miseria, insiste Ricœur, è il limite cui la riflessione pura tende e che, irraggiungibile, la renderebbe comprensione totale.

L’analisi della fallibilità, che alla riflessione trascendentale – per la quale il miscuglio sarà sintesi – affianca una riflessione sull’azione e sul sentimento, consiste « nel colmare progressivamente il divario tra patetico e trascendentale, nel recuperare filosoficamente tutta la ricca sostanza che non passa nella riflessione trascendentale fondata sull’oggetto»[13]. L’obiettivo è il limite estremo cui la riflessione può condurre, in vista della seconda fase che si prospetta come tentativo di cogliere, nell’esegesi della simbologia del servo arbitrio, quel sovrappiù di senso offertoci dalla precomprensione.

È interessante e suggestiva la lettura che Ricœur propone del Convito, del Fedro e della Repubblica, i tre miti platonici nei quali egli sostiene sia già presente «tutta la precomprensione della “miseria”»[14]. Possiamo apprendere, in questi che sono racconti dell’anabasi, dell’ascesa travagliata dell’anima verso l’essere, come, da figure allegoriche che propongono l’animo come funzione di mezzo tra ragione e desiderio, si passi al mito vero e proprio, in cui il miscuglio offre lo spunto per raccontare la genesi dell’intermediarietà. Ed ecco, per esempio, che la “statica” del ó – l’animo – si trasforma nella “dinamica” del mito della biga alata, nel Fedro, in cui la “miseria” – che si delinea indifferenziatamente come finitudine e come colpa – è il nucleo di una fragilità insita nel miscuglio, nella commistione dell’anima, che ne determina poi la caduta. Il passaggio da “mito della fragilità” a “mito della caduta” richiama la visione del male come insorgenza, come salto, come caduta – appunto – da un’originaria condizione di innocenza dell’uomo.

Un ulteriore stimolo a «comprendere la fallibilità e, comprendendola, articolare in figure distinte la nebulosa della “miseria”»[15], ci viene dai due infiniti pascaliani, il tutto e il nulla, intesi come fine delle cose a cui tutto tende e nulla da cui è tratto l’uomo. Pascal ci aiuta a cogliere un’altra prospettiva della sproporzione attraverso questa incapacità di comprendere e «di inglobare il principio e la fine»[16], ma aggiunge anche l’elemento nuovo della dissimulazione, del divertissement, quella sorta di distrazione che scaturisce dalla sproporzione stessa e che porta l’uomo ad eludere, nel nascondere e nascondersi la propria condizione miserabile, il compito di conoscersi.

Il percorso che ci conduce al concetto di fallibilità attraversa due momenti di sintesi, trascendentale e pratica, il primo rivolto alla delineazione della struttura astratta sulla quale la tematica della sproporzione e dell’intermediario trova consistenza filosofica, l’altro teso a vivificare lo statico universo delle cose definito dal primo, colmando la mancanza di tutte le sovrastrutture e i valori di carattere pratico implicati nella nostra esistenza, con «tutti gli ostacoli, tutte le vie, tutti i mezzi, gli attrezzi, gli strumenti»[17] che costituiscono un mondo e lo rendono più o meno vivibile.


[1] ivi, p. 69.

[2] ivi, p. 70.

[3] ivi, p. 70.

[4] ivi, p. 71.

[5] ivi, p. 72.

[6] ivi, p. 73.

[7] ivi, p. 73.

[8] ivi, p. 73.

[9] ivi, p. 76.

[10] ivi, p. 73.

[11] ivi, p. 75.

[12] ivi, p. 75.

[13] ivi, p. 74.

[14] ivi, p. 75.

[15] ivi, p. 85.

[16] ivi, p. 83.

[17] ivi, p. 121.

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Un’amicizia proficua: Psicoanalisi e Diritto

Raffaele Cannovo

Il seguente articolo trae spunto dal VI congresso dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa APRE, tenuto a Roma il 14 dicembre 2012, per avviare una riflessione sul rapporto tra la psicoanalisi, intesa come psicoterapia e attività scientifica, e il diritto, inteso come attività di regolamentazione della vita sociale. Un rapporto funzionale tra le due farebbe da spinta per valorizzare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, problema che sta diventando pressante con gravi ricadute negative, nei diversi ambiti del sistema socio-politico-economico del nostro Paese.

La psicoanalisi, fin dalla sua nascita, si è presentata come attività che, prescindendo dagli strumenti e tecniche impiegati, faceva ricerca sul pensiero umano; da ciò conseguiva sviluppo tecnico/teorico e, in definitiva, nuova conoscenza. Partendo da questo presupposto il ruolo della psicoanalisi nel contesto sociale è chiaramente più culturale che giuridico, laddove si volesse polarizzare a scopo chiarificativo la cultura e il diritto. Se la psicoanalisi da un lato compie opera di riconoscimento ed individuazione di dinamiche intrapsichiche ed interpsichiche, per espandere la consapevolezza delle persone al fine del superamento dei disagi psicosociali; dall’altro per il diritto la faccenda è ben diversa; innanzitutto, il diritto prevalentemente si rivolge al rapporto tra le persone, più che a quello con se stessi, per cui l’ambito è più sociale che non personale; la psicoanalisi invece ha forse anteposto la relazione al singolo solo in anni recenti (la questione è troppo ampia per essere affrontata in questa sede). Nello specifico, il diritto va a ratificare quella parte della conoscenza che si dà per scontato, che sia vera e giusta, per dare un orientamento o, anche, una regola specifica su come comportarsi nel sociale, la cui violazione può avere come contropartita qualcosa che va dal rimprovero, alla condanna limitativa della libertà personale, a seconda del reato commesso. Se nella psicoanalisi si può parlare di “regole”, queste, qualora violate, non prevedono sanzioni (certamente non intese come nell’ambito giuridico); in quanto, per loro natura, difficilmente conoscenze derivate dalla psicoanalisi possono raggiungere un grado di certezza tale da assurgere ad idea di verità e giustizia.

Sembra evidente la grande differenza applicativa di psicoanalisi e diritto, il cui punto di equilibrio si ritrova laddove c’è da regolamentare attività non soggette a frequenti modifiche, come ad esempio la gestione della percorrenza di strade ed autostrade: non c’è molto da discutere in questo caso, va rispettato il codice della strada. Sarebbe però un grave errore pensare che la psicoanalisi non abbia nulla da dire in questo settore, in quanto il suo lavoro risulta fondamentale nello spiegare la “ratio” di una certa regola, evitando di dare per scontato che la funzione della stessa sia immediatamente comprensibile ai più; oltretutto è molto diverso il comportamento di una persona che segue le regole per obbligo rispetto a chi lo fa perché le sente utili alla comunità e per se stesso. Si pensi poi se tutto quello che è abitudine si volesse trasformare in legge per definirne meglio l’applicazione pratica, sarebbe un’impresa tanto colossale quanto inutile, un po’ quello che si tentò di fare ad inizio secolo ‘900 con il Circolo di Vienna, quando si pensava di poter separare una metafisica filosofica utile, dalle speculazioni improduttive. Alcuni comportamenti vanno lasciati alla cultura, se non funzionano, l’intervento necessario è culturale, non si può risolvere tutto emanando leggi. Anche Manzoni nell’opera che lo ha reso immortale, “I promessi sposi”, critica le autorità della dominazione spagnola nel nord Italia del 1600, che pensavano di far rispettare quelle leggi, puntualmente violate, inasprendole, anziché tentare di mettere in atto strategie diverse dalla punizione.

Le leggi danno per scontato che le cose debbano essere fatte in un certo modo, nel momento in cui dovessero peccare di chiarezza, o comunque rimanere piuttosto complesse, il risultato sarebbe quello di allontanare la base sociale dalla vita pubblica. D’altro canto la psicoanalisi, potrebbe far tanto, se riuscisse a fare interfacciare il tecnicismo della legalità e la popolarità delle regole, sfruttando la profonda propensione all’analisi dei significati, che la contraddistingue come disciplina.

Le regole dovrebbero affondare le loro radici nella cultura popolare, al fine di assumere quelle forme capaci di essere sentite come proprie dalle persone, ciò creerebbe l’identità culturale del luogo, come anche della nostra nazione ancora oggi fortemente divisa tra nord e sud. Di fatto, all’indomani dell’unità d’Italia, il famoso proclama di Massimo d’Azeglio (abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani) è rimasto tutt’ora disatteso.

Le leggi, a mio modo di vedere, sono un po’ come le teorie psicologiche: a volte ce ne innamoriamo, ma quando una teoria psicologia è portata all’estremo è sbagliata. Daniel Stern (tra i massimi esponenti della psicologia dello sviluppo) nella sua concezione delle teorie sostiene: quando osserviamo un bambino è un conto, quando scriviamo di quel bambino osservato è un altro, descriviamo qualcosa di diverso, cioè “il bambino clinico”. Inevitabilmente, il risultato di quanto osservato è sempre qualcosa di diverso da quanto visto. È questo l’errore che Peterfreund (influente psicologo dello sviluppo) rinfaccia al padre della psicoanalisi, Peterfreund sostiene infatti che il bambino che descrive Sigmund Freud è soggetto a una distorsione: “adultomorfizzazione”, concetto che si può condividere o meno, pur rimanendo valida l’idea di distorsione indotta dalle parole, questo anche quando si provano a delineare grandi principi. Leggi e regolamenti non fanno eccezione a questo tipo di problema.

Condivido in pieno l’idea presentata nel congresso circa la responsabilità che la psicoanalisi ha di intervenire nel contesto sociale a tutti i livelli, al fine di “influenzare” con la sintonizzazione affettiva la direzione che la nostra società ha preso. Ritengo che l’uso che si fa oggi del diritto sia oltremodo eccessivo: all’insorgere di qualunque problema si ricorre, perentoriamente e repentinamente, alle vie legali per risolverlo. La psicoanalisi dovrebbe porsi come obiettivo l’arginamento di questa deriva così spiccatamente “legalista”, che fa da paravento ad un oscuro sottofondo narcisistico, recuperando il valore della cultura e contrapponendolo in maniera netta alla legalità; tutto questo, non allo scopo di primeggiare, ma di far emergere un confronto che gioverebbe ad entrambe, nell’ottica di una migliorata comprensione del senso e, quindi, di un migliorato utilizzo delle stesse; così facendo avremmo due entità nettamente distinte nel modo di operare, ma molto cooperative circa gli obiettivi.

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Goezia del Negativo e parola poetica in Martin Heidegger

Alberto Iannelli

Nel 1950, a Bühlerhöhe, nel Baden-Württemberg, Heidegger tenne un’ormai celebre conferenza, in memoria di Max Kommerell – storico e scrittore svevo già appartenente al circolo letterario di Stefan George e anch’egli studioso di Hölderlin –, dal titolo Die Sprache (Il Linguaggio), pubblica riflessione poi raccolta nell’antologia Unterwegs zur Sprache (In cammino verso il linguaggio), edita nel 1959[1].

La discussione (Erörtern), che aveva per scopo l’accennare a una possibile localizzazione (Ortung) dell’essenza del linguaggio, ci offre pagine su cui davvero esercitare il pensiero che ram-memora (An-denken) e custodisce tanto ri-unendo (Léghein) quanto di-mostrando (Apophàinesthai) o dis-piegando ciò che di-vergendo si dis-volge facendosi innanzi, giacché dis-chiude privilegiato adito alla soglia del Negativo, alla di esso antecedenza fondantiva e al modo autentico o apofatico del darsi ovvero del pro-porsi solo proprio. Parlando del linguaggio, o piuttosto ascoltandolo, egualmente ponendoci in cammino verso il suo dire aurorale, il Negativo, il Destino (Ge-schick), si farà e-vento, presenza, essere, suono e parola, soglia e dolore: Storia (Ge-schichte).

Il linguaggio è connaturato all’uomo e ne riflette la realtà in interdipendenza col pensiero: tanto manifestazione categoriale dell’essenza antropica (zỗon lógos échōn), quanto espressione particolare di una determinata Civiltà (Kultur), prisma che ne veicola l’altrettanto peculiare “visione del mondo” (Weltanschauung), l’animale razione anzitutto parla e parla anzitutto la lingua della propria Comunità storica. Wilhelm von Humboldt e Aristotele perimetrano pertanto, apparentemente, ogni possibile altro dire storico ed eziologico sul linguaggio, ogni possibile localizzazione della sua essenza che non dimori immediatamente ed esclusivamente presso l’orizzonte dell’umano. Nella Metafisica invero, lo Stagirita, nell’ammonire circa l’impossibilità di sostenere e non sostenere indifferentemente errore e verità, giacché, così facendo, nello stesso tempo si compie e non compie asserzione, giudizio, enunciazione di senso, definisce coloro che non sono in grado di formulare apofansi o semplici sintagmi predicativi, indifferentemente pensando e non pensando, loquendo e tacendo, omoíos phytõn. Pensiero, giudizio ed espressione puntellano dunque l’essenza dell’ente semovente-loquente e vi coimplicano la localizzazione dell’essenza del linguaggio stesso.

Nondimeno, pur certamente preconcedendo validità alla relazione bicondizionale che immorsa uomo-e-linguaggio, tale per cui senza l’uomo non vi sarebbe articolazione fonomorfologica alcuna, né tanto meno l’uomo potrebbe essere, dunque sé essere, e non parlare affatto, Heidegger ci ricorda come “resta da riflettere su cosa significhi: l’uomo”.

Ed è proprio rivolgendo la prospettiva che con-rela uomo e linguaggio che, infatti, il pensatore svevo principia questa sua riflessione: l’uomo non parla attraverso il linguaggio, bensì è il linguaggio a parlare, attraverso l’uomo, suo pastore in perenne ascolto con-rispondente. È presso il linguaggio stesso pertanto che occorre con-locare il nostro interrogarne il luogo dell’essenza, per lasciar-essere (sein-lassen) il suo dire iniziante (Sagen) e creativo (Dichtung).

In che modo è e opera il linguaggio come linguaggio? Rispondiamo: il linguaggio parla […]. Il riflettere sul linguaggio esige pertanto che noi ci inoltriamo entro il parlare del linguaggio per prendere dimora presso il linguaggio: nel suo parlare, cioè, e non nel nostro. Soltanto così possiamo raggiungere quel dominio entro cui può riuscire, come può anche non riuscire, che il linguaggio ci riveli la sua essenza. È al linguaggio che va lasciata la parola.

Ma dove, anzitutto, occorre elettivamente volgerci all’ascolto del parlare del linguaggio? Presso ciò che resta, e ciò che resta – è lo stesso dichter Hölderlin a istituirlo – lo fondano i poeti.

Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato. Il parlare non finisce in ciò che è stato detto. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito. In ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare e ciò che grazie ad esso perdura – il suo perdurare, la sua “essenza” […]. Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché prendere a caso una parola qualsiasi, scegliere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire, che è carattere costitutivo della parola detta, si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la poesia.

E la parola pura, la parola che accennerà al farsi E-vento (Ereignis) della Quadratura (Geviert), la parola già detta, la pro-nuncia qui Georg Trakl, in Una sera d’inverno (Ein Winterabend):

Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.

Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
Dalla finestra linfa della terra.

Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.

Wenn der Schnee ans Fenster fällt,
Lang die Abendglocke läutet,
Vielen ist der Tisch bereitet
Und das Haus ist wohlbestellt.

Mancher auf der Wanderschaft
Kommt ans Tor auf dunklen Pfaden.
Golden blüht der Baum der Gnaden
Aus der Erde kühlem Saft.

Wanderer tritt still herein;
Schmerz versteinerte die Schwelle.
Da erglänzt in reiner Helle
Auf dem Tische Brot und Wein.

E-venire all’Ab-senza, presentarsi alla Lontananza

Il nominare, o piuttosto l’e-vocare, il sus-citare, chiama ciò che è chiamato, nella parola, conducendolo presso la presenza della chiamata, ma tale presentazione non distoglie il distante dalla sua lontananza, bensì lo avvicina proprio giacché non-vicino. Senza il nominare, senza il cenno a venire-presso la presenza, il nominato non sopraggiungerebbe mai alla presenza, ossia non si dimostrerebbe mai in essa, non mai epperò ci sarebbe. Nonpertanto, è questo stesso presenziare – egualmente entificare – che consente al chiamato alla presenza di permanere-presso la lontananza dalla presenza.

Ciò significa forse che, ante la chiamata, il chiamato dimorava – già – presso la Non-presenza, ossia nella Lontananza, e che la chiamata fa si che vi per-manga, quasi che senza la chiamata si perderebbe e financo disperderebbe nella Lontananza, allontanandosi da essa? Sia; e, nondimeno, occorre comprendere che cosa significhi sub-sistere – cioè vigere, essere – nella Negazione-della-presenza, e cosa implichi il per-manervi. Dimorava forse – già – come una presenza? Ovvero, dimorava così come esso è e si mostra – dipoi – nella Presenza, in modo che il presenziare ne rappresenti semplicemente una trans-mutazione di luogo, dal luogo della Non-presenza al luogo della Presenza? Certamente no, proprio perché il chiamare presentativo non “sottrae alla lontananza” il chiamato, bensì, al contrario, è precisamente questo cenno di chiamata a consentirne il permanere nel Lontano.

Dobbiamo dunque intendere la chiamata come una “duplicazione” del chiamato, che per una parte si porta nella presenza e per un’altra permane nella lontananza? Egualmente no, poiché se è la presentazione a mantenere nella Lontananza il chiamato, senza essa, o ante essa, il chiamato non potrebbe essere nel Distante: ciò che già e da sempre è presso qualcosa, non abbisogna di alcuna azione per permanervi.

Se, quindi, è la chiamata alla presenza che mantiene nel Lontano il chiamato, il chiamato non può essere già presente presso la Non-presenza come e giacché presenza, e la chiamata non può essere una con-duzione dall’Ab-senza alla Presenza. Inoltre, il per-manere qui non può non avere un significato differente dall’assenza di cambiamento, dalla continuità, dalla stasi, giacché è in conseguenza di un’azione, di un evento, che detto peculiare permanere si realizza e concreta, si fa a punto presenza e atto.

Ebbene, se il chiamare presentifica, fa essere presente – cioè semplicemente fa essere – il chiamato, conferendogli dimora presso la Lontananza, allora il chiamato non può essere presso la Non-presenza, ante la chiamata, se non come nulla. Ma essere come nulla significa non-essere e non-essere affatto alcunché. Allo stesso modo, se è la presentazione a consentire il restare presso la Lontananza di ciò che è condotto alla presenza, allora il permanere principia precisamente dalla chiamata: se e fintantoché qualcosa è chiamato alla presenza, esso può stare presso la Lontananza, può a punto permanere in essa.

E, pertanto: il chiamato non-era presso l’Ab-senza-di-Presenza, poiché qui non vi è presente (Enérgeia) alcun chiamato o chiamabile (Dýnamis). Il chiamato va presso l’Ab-senza-di-Presenza, egualmente presso la Lontananza-in-sé, e vi permane, in seguito alla chiamata presso la Presenza: entificare o attuare, presenziare o dimostrare (Deίknum), non altro epperò significa se non porre presenza nella presenza-della-Lontananza, ovverosia incontraddittorietà nella contraddittorietà-della-Contraddizione, parimenti positività nella positività-del-Negativo.

Solo parlando le cose sono, e sono giacché custodite nell’essere-del-Non-essere, dunque, in linguaggio heideggeriano, nella Temporalità dell’Essere, ebbene, egualmente, per noi, nella Storia del Destino o Sentiero del Giorno, nel disvolgersi ovvero diatetico e nell’escato-teleologico disvelarsi per deissi catafatica della Trascendentalità originaria o Tutto apofatico-prolettico, potenziale-sottrazionale, anticipazionale-ultimorizzontale della Presenza o dell’Atto, enantiodromicamente ordinantesi e da principio o costitutivamente (katà tò Chreṓn) strutturantesi secondo successione della partizione eidetico-distintiva (arithmòs kinéseos katà tò próteron kai ysteron) o tassonomia dell’inividuazione onto-identitaria (katà tḕn toũ Chrónou Táxis).

Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il nominare avvicina ciò che chiama […]. Si tratta di un chiamare a sé, in virtù del quale, quel che ancora non era stato chiamato vien fatto vicino. Solo che questo chiamare a sé è appello nella lontananza, nella quale ciò che è chiamato permane come l’ancora assente. Chiamare è chiamare presso. E tuttavia, quel che è chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza […]. Cosa chiama la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire. Dove? Non certo qui nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente […]. Il luogo dell’arrivo, che è con-chiamato, nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza. È questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire. Il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini.

Das Geviert

La caduta della neve porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte. Il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al Divino. Casa e tavola vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi, un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose. L’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro essere e operare come cose, dispiegano il mondo […]. Le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla dell’atto che dice alle cose di venire.

Se e solo fintantoché il linguaggio parla, le cose nominate possono con-chiamare alla presenza – ovvero, ancora, all’essere e all’atto – il Tutto-delle-cose, ossia il Mondo, ebbene la co-implicazione del Ni-ente e dell’Essere, del pari l’essere-del-Ni-ente, o piuttosto, ancora in linguaggio heideggeriano, l’Essere, che il filosofo, da un certo punto del proprio interrogare dell’Essere (Phainómenon, Anwesenheit), chiamerà Geviert, la Quadratura o il Quadrato dei quattro: Götter und Sterbliche, Himmel und Erde. Ad-unare e trattenere qui hanno, infatti, il medesimo senso del per-manere già incontrato: non già, ante il con-venire alla presenza delle cose nominate, i Quattro dimoravano presso unità, non già il Mondo stava fermo (nella presenza), come se, senza il sopraggiungere alla presenza delle cose chiamate dal linguaggio, i Quattro potessero in qualche modo disperdersi e dileguare da quella fermezza e da quell’unità (= da quella presenza) in cui già si trovavano, dimodoché l’evento del con-venire alla presenza delle cose avesse il compito di mantenere la Quadratura, ovvero il Mondo, nel proprio status – già in essere – di fermezza e unità, come se, altrimenti a dirsi, il Mondo e i Quattro del Mondo fossero e fermi e uniti, ma costantemente sotto la minaccia della molteplicità e della concussione, e le cose, evocate dal linguaggio alla presenza, giungessero in qualche modo a salvarli, consentendo loro di rimanere ciò che – già e da sempre – sono (Phýsis aeì sōizoménēs).

No, la Quadratura (il Mondo) non può essere se non e una e ferma. La Quadratura (il Mondo), non può essere, ossia è nulla (nel senso del nihil absolutum) se le cose non sono: se e solo fintantoché le cose sono, il mondo è.

Come il chiamare, che nomina le cose, chiama presso e rimanda lontano, così il dire, che nomina il mondo, è invito a questo a farsi vicino e, al tempo stesso, lontano. Esso affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo. Il mondo concede alle cose la loro essenza. Le cose fanno essere il mondo. Il mondo consente le cose.

Il chiamare, nominando le cose, le conduce alla presenza, immettendole nella Lontananza. Allo stesso modo, il dire che nomina il mondo, lo rap-presenta, ma non, come detto, ri-portandolo presso la presenza dalla lontananza in cui remoto era relitto, bensì proprio scagliandolo nel Distante.

Ovvero, solo dimorando presso il Ni-ente – tanto originario quanto trascendentalmente estremo il tutto-dell’ente-sopraggiuntente pre-avvolgente e sempre nella propria principiale escatia o Discostamento inseitale –, cose e mondo, nella loro co-implicazione necessaria, possono essere, solo dimorando nel Lontano possono farsi presenti.

Perché, invece, cose e mondo non possono essere intese come già e sempre dimoranti presso la Remotezza (= il Ni-ente) per semplicemente passare (Ubergang, Epamphoterizein) al Vicino (= all’Essere) nel tempo dell’e-vocazione della chiamata che nomina? Poiché dimorare presso il Ni-ente-della-dimorabilità significa non essere affatto alcunché, poiché, così pensato, il passaggio dal Nulla all’Essere (dal Remoto al Vicino, dalla Potenza all’Atto) pre-suppone il già esser-ci del transitante, il suo già essere ovvero qualcosa, ebbene il già essere questi una determinatezza (haecceitas), un’identità, (o, con Heidegger, il suo già essere appropriato [Eignen] a sé), un’individualità semplicemente abbisognante della proprietà della sostanza, dell’atto, della vicinanza.

No, la chiamata conferisce fondamento, atto e presenza, e alle cose del mondo e al mondo che contiene le cose solo poiché e solo fintantoché le conduce e pertiene presso l’essere-del-Niente, la vicinanza del Remoto, l’attualità del Possibile, e non dal Nulla assoluto all’Essere-dell’ente. Ciò che, nonpertanto, occorre ora portare alla preclarità della presenza, è che cosa significhi essere-presso-il-Ni-ente, essere-presente-nella-Lontanza o, parimenti, quale co-implicazione immorsi il Nulla assoluto, l’essere-del-Ni-ente e l’Essere-degli-enti-in-totalità.

Das Zwischen und der Unter-Schied: il Fra-mezzo e la Dia-ferenza

Mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi i Due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il framezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. L’intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel framezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco. L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del framezzo, è nella dif-ferenza (Unter-Schied).

L’Essere e gli essenti, il Tutto e le determinazioni del Tutto, sono fintantoché – al contempoe si compenetrano vicendevolmente, intimamente, ossia sono condotti nell’unità-dei-due, e si dis-tinguono, nettamente, ovvero in essa dif-ferenza o diadità sono pertenuti. Pertanto, mondo e cose del mondo, per essere, debbono, da un lato, con-vergere presso quell’unità che è comune a entrambi, che con entrambi stringe relazione e che tutti e due con-rela e mantiene nell’unità cor-rensponsiva col proprio disporsi coalescente tra l’uno e l’altro, dall’altro, di-vergere l’uno dalle altre. Ebbene, quest’Uno con-relativo dei due deve avere sia qualcosa che lo accomuna a entrambi (Mondo [A] = X; X = Cose del mondo [B]), per potersi disporre quale fondamento della loro unione o intimità, sia qualcosa che lo differenzia da entrambi (A ≠ X; X ≠ B), per potersi disporre quale fondamento della loro differenza o estraneità, diversità o distanza. Quest’Uno, ulteriormente, deve dunque sia farsi “cosa del mondo” (en tô Kósmo), altrimenti non potrebbe essere-nel-mondo e correlare e mondo e cose, sia essere diverso e dal mondo e da ogni cosa del mondo (ouk ek toû Kósmou), ebbene deve essere cosa nel mondo, essente nell’Essere, come l’Altro da ogni cosa del mondo e dal Mondo stesso (Das Ganz-Anderes).

Questo essere come l’Altro da tutto e dal Tutto compatto  stesso deuteriore (Émpleón [estin] Eóntos, Én, Synechés, Á-pauston, A-kínēton, An-ólethron) noi lo chiamiamo l’essere-della-Dif-ferenza, l’esserci ossia come il Non-essere-ente-alcuno, neppure come l’Essere-dell’ente-in-totalità (Pãn [estin] Omoĩon, Ólon); quest’Enadità-in-se-stessa-Divisa (Én-Dia-Phéron-Eautõ) o contro-se-stessa immanentemente rivolta (Én-Stasiázon-Pròs-Eautò), questa Relazione immediata altresì o Mediazione assoluta tra Essere-e-Nulla, noi l’appelliamo Soglia, Limes, Diácrisis, Partizione originaria (Ur-teilung).

La Dif-ferenza, di cui si parla, esiste solo come quest’una. È unica. La Dif-ferenza regge – non però con essa identificandosi – quella linea mediana, nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità […]. La Dif-ferenza porta il mondo al suo essere mondo, porta le cose al loro essere cose. Portandoli a compimento, li porta uno verso l’altro. La composizione operata dalla Dif-ferenza non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la Dif-ferenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La Dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità.

La Dif-ferenza fa essere – e le cose del mondo, e il mondo delle cose – giacché porta a compimento, ossia compone i differenti portandoli uno-verso-l’altro: far essere significa dunque distinguere, ovvero conferire quell’identità contraddistintiva esclusivamente in grazia della quale ogni cosa può essere ed essere sé se e solo fintantoché non è l’unità-del-non-sé, la propria alterità egualmente o contraddittorietà (contro-)coalita o (enantio-)adunata esattamente dalla posizione dell’identità distintiva o unitaria del sé, dell’ecceità sua.

La Dif-ferenza assoluta (Pólemos) è l’Unità originaria del mondo e delle cose del mondo, ossia è l’autentico fondamento comune (Hypo-keiménon) tanto del molteplice – ulteriore –, quanto del Tutto-del-molteplice – deuteriore.

La Differenza tra mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La Dif-ferenza non è né distinzione né relazione. La Dif-ferenza è semmai la dimensione di mondo e cose. Ma in questo caso “dimensione” non significa una regione a sé stante, dove questo o quello può prendere dimora. La Dif-ferenza è la dimensione, in quanto misura nella sua interezza, facendolo essere nella sua propria essenza, lo spazio di mondo e cosa. Il suo instaurante misurare dischiude, evocandolo all’essere, il vincolo di distacco e di indissolubilità tra mondo e cosa. Tale evocante dischiudere è il modo secondo il quale qui la Dif-ferenza misura nella loro interezza l’uno e l’altra. La Dif-ferenza, come linea mediana, di mondo e cose, rappresenta, generandola, la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza. Nel nominare, che chiama cosa e mondo, quel che è propriamente nominato è la Dif-ferenza.

Ossia il Ni-ente, l’essere-del-Ni-ente, quale sfondo – dia-fano/apo-fatico (Keraunós) – dell’Essere, dell’Essere-dell’ente.

Nella prima strofa l’invito è rivolto alle cose che, in quanto se stesse, generano il mondo. Nella seconda l’invito è rivolto al mondo che, in quanto se stesso, consente le cose. Nella terza l’invito è alla linea framezzo mondo e cosa: a ciò che fonda e compie l’intimità.

Gli essenti, giacché se stessi, generano l’Essere-degli-essenti. L’Essere-degli-essenti, consente agli essenti di essere. L’essere-del-Ni-ente, la Storia della Dia-ferenza (l’entificazione o impressione di incontraddittorietà progressiva al contraddittorio della Prolessi archea o Contraddittorietà autoctica, egualmente, nel nostro dire), originariamente fonda e porta a compimento e l’Essere-degli-essenti, conseguentemente, e tutti gli essenti, ulteriormente e infine, secondo necessità.

La Soglia e il Dolore

La soglia è l’impalcatura che regge il complesso della porta. Essa costituisce il punto nel quale i Due, l’esterno e l’interno, trapassano l’uno nell’altro. La soglia regge il framezzo. Alla sua fidatezza si adatta ciò che nel framezzo entra ed esce. La fidatezza di tale framezzo deve essere ferma e uguale in ogni direzione. Il potere di reggere e comporre del framezzo esige qualcosa che duri, e pertanto qualcosa di solido e valido. La soglia, come quella che regge il framezzo, è dura, perché il dolore l’ha pietrificata. Ma il dolore che si è fatto pietra, non si è solidificato nella soglia, per irrigidirsi in essa. Il dolore permane nella soglia come dolore. Ma che è il dolore? Il dolore spezza. È lo spezzamento. Ma esso non schianta in schegge dirompenti in tutte le direzioni. Il dolore, sì, spezza, divide, però in modo che anche insieme tutto attira a sé, raccoglie in sé. Il suo spezzare, in quanto dividere che riunisce, è al tempo stesso quel trascinare, teso in opposte direzioni, che diversifica e congiunge ciò che nello stacco è tenuto distinto. Il dolore è ciò che congiunge nello spezzamento che divide e aduna. Il dolore è la connessura dello strappo. Questa è la soglia. La soglia regge il framezzo, il punto in cui i Due si staccano e s’incontrano. Il dolore salda lo spezzamento della Dif-ferenza. Il dolore è la Dif-ferenza stessa […]. L’intimità della Dif-ferenza di mondo e cosa – questo sarebbe dunque il dolore? Certamente […]. Il dolore ha fatto la soglia atta al reggere che le compete.

Questa nuova immagine del dolore che pietrifica la soglia, dello spezzamento che riusce e aduna nel dividere e nel distinguere, per quanto poeticamente eccelsa, concettualmente non si discosta da quanto sin qui posto: ciò che tutto con tutto congiunge e inserta (e anzitutto il Tutto con tutte le cose del Tutto) è la stessa Dia-lacerazione (assoluta o in se stessa) di tutto con tutto. Questo è l’Essere che fonda e l’Essere e gli enti, questo è il Dolore autentico del mondo e delle cose del mondo.

Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.

Dove splende la pura luce? Sulla soglia, nel dolore che fonda e compone. È la cesura della Dif-ferenza che fa risplendere la pura luce. Il suo congiungere illuminante de-cide quel rischiararsi del mondo, per il quale il mondo si fa mondo. La cesura della Dif-ferenza porta il mondo a quel realizzamento della sua essenza di mondo, che consente le cose. Schiarandosi così il mondo e giungendo esso al suo aureo splendore, anche pane e vino pervengono al loro splendore.

Il mondo si rischiara, consentendo alle cose del mondo, pane e vino, di apparire, alla luce del mondo, nella loro luce, ma la luce del mondo non è il chiarore originario, la “pura luce”. Essa è fatta risplendere dalla Dif-ferenza. Gli essenti hanno fondamento nell’Essere, ma l’Essere (degli essenti) non è l’Originario, bensì riceve esso stesso fondamento dall’essere-del-Ni-ente, nell’essere-del-Ni-ente prendendo sopraggiunta dimora, localizzazione ossia contro-mediata o deutero-dedotta dall’immediata auto-entificazione rifrattiva dell’Originario in-sé Ni-ente, Dolore, Dif-ferenza, Soglia, Fram-mezzo (Zwischen, ΔΙΆ), Contraddizione, Alterità.

L’originario chiamare, che si volge all’intimità di mondo e cosa e a questa dice di venire, è l’autentico chiamare. Questo chiamare è l’essenza del parlare. Nella parola della poesia è il parlare. Questo è il parlare del linguaggio. Il linguaggio parla. Parla dicendo a quel che chiama, cosa-mondo e mondo-cosa, di venire nel framezzo della Dif-ferenza. Ciò che in tal modo è chiamato, mentre è sollecitato a muovere dalla Dif-ferenza (presso cui dimora) per portarsi qui, è insieme affidato alla Dif-ferenza.

Ma dimorare (= essere) presso la Dif-ferenza non altro significa se non dimorare nella Storia dell’Essere, ossia nella storicizzazione (Geschehen) dell’essere-del-Non-essere, ebbene, e altrettalmente, nella Storia dell’Uomo (Mensch-Geschichte), per questo, ciò che è qui alla presenza portato dalla chiamata, affida contemporaneamente il chiamato alla Differenza, alla Lontananza, poiché non lo depone nell’Essere-dell’essente, bensì in quell’Essere autentico, immorsato nella sua stessa essenza en-dia-dica, che del Ni-ente autoctico e autoprincipiativo è la co-implicazione necessaria e co-originaria, in quell’Essere archeo altresì e abissale in cui il medesimo Essere-dell’essente diviene deuteriormente deposto trovando-vi la solo propria dimora.

La Dif-ferenza è la Chiamata dalla quale soltanto ogni chiamare è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile chiamare appartiene. La Chiamata della Dif-ferenza ha già sempre raccolto in sé ogni chiamare […]. Il chiamare che raccoglie in sé ogni possibile chiamare, la Chiamata, identificandosi con la quale la Dif-ferenza chiama mondo e cose, è il suono della quiete. Il linguaggio parla in quanto la chiamata della Dif-ferenza chiama mondo e cose alla semplicità della loro intimità. Il linguaggio parla in quanto suono della quiete. La quiete acquieta, portando mondo e cose alla loro essenza. Il fondare e comporre mondo e cosa nel modo dell’acquietamento è l’evento della Dif-ferenza. Il linguaggio, il suono della quiete, è, in quanto Dif-ferenza è come farsi evento. L’essere del linguaggio è l’e-venire della Dif-ferenza.

La Quiete, in sé, altrimenti a ostendersi il Medesimo già differentemente datosi, null’altro è se non il Ni-ente, e il Suono della Quiete, il Linguaggio, null’altro è se non l’essere-del-Ni-ente. Ogni umano dire, ovverosia ogni ente storico, non può che dunque risuonare entro questa Dia-lacerazione (Hiatus) originaria che tutto e avvolge e fonda.

Der Herr und der Hirt: l’Uomo e l’Essere

Il suono della quiete non è nulla di umano. Certo l’uomo è nella sua essenza parlante. Il termine “parlante” significa qui: che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. In forza di tale e-venire, l’uomo, nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza, continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete. Tale evento si realizza in quanto l’essenza del linguaggio, il suono della quiete, si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto suono della quiete. Solo in quanto gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni […]. Il parlare dei mortali ha il suo fondamento nel rapporto col parlare del linguaggio […]. Il modo con cui i mortali, quando la Dif-ferenza li chiama a sé, a loro volta parlano, è il cor-rispondere. Il parlare mortale presuppone l’ascolto della Chiamata, identificandosi con la quale la quiete della Dif-ferenza chiama mondo e cose nella cesura della sua semplicità. Ogni parola del parlare mortale parla sul fondamento di questo ascolto e solo come questo ascolto. I mortali parlano in quanto ascoltano. Essi prestano attenzione al richiamo della quiete della Dif-ferenza, anche quando non lo conoscono […]. Il linguaggio parla. Il suo parlare chiama la Dif-ferenza, la quale porta mondo e cose nella semplicità della loro intimità, consentendo loro di essere se stesse […]. L’uomo parla in quanto cor-risponde al linguaggio. Il cor-rispondere è ascoltare. L’ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza.

Certo, l’uomo, per Heidegger, come è noto almeno a partire dalla Lettera sull’Umanismo del 1947, “non è il padrone dell’ente”, e l’Essere non è nella piena disponibilità utilizzante dell’uomo come lo è qualsivoglia semplice presenza: “il suono della quiete non è nulla di umano”, pertanto. Ma neppure l’uomo – l’Esserci ovvero quell’ente che è quest’esistenza sempre nostra – è, in essenza, una semplice presenza utilizzabile (Mensch ist das transcendens schlechthin), giacché è pur egli “il pastore dell’Essere” – ossia, come già a quest’altezza sappiamo, dell’Essere –, colui epperò a cui l’Essere stesso demanda e affida la salvaguardia e la custodia della propria Verità (pertanto del proprio gregge [tà ónta, tà pánta] dispiegantesi per ordinamento d’ecceità nel Tempo dell’Essere, ovvero nell’orizzonte di impressione d’incontraddittorietà per successione elenctica del tutto dell’affermazione o entelechia della contraddizione alla sive della Contraddizione originaria), attraverso il “suo” pensiero, egualmente attraverso il “suo” linguaggio, ove il genitivo (suo = dell’essere), è a un tempo sia oggettivo che soggettivo: il pensiero è pensiero dell’Essere poiché gli appartiene; il pensiero è pensiero dell’Essere poiché – anzitutto o presuntivamente – lo pensa.

Ecco dunque che tra Uomo ed Essere, tra Uomo e Linguaggio, si instaura – e da sempre –, come qui in principio indicato, bicondizionalità: l’uomo, consentaneamente con quanto posto e da Aristotele e da Humboldt, è essenzialmente ente di pensiero e parola, ma è tale giacché e solo poiché con-risponde a un parlare più originario del proprio, ossia al parlare del Linguaggio stesso. Solo in quando gettato nella disponibilità originaria dell’Essere, di questo Essere, all’uomo possono venire incontro gli enti (utilizzabili e intra-mondani). Nondimeno, questo stesso Linguaggio, la sua essenza, ossia il Suono-della-Quiete (l’Essere-del-Non-Essere) “si avvale” dell’uomo per “essere percepito”, per di-venire condotto a destinazione completa, a estremo adempimento.

Non ha alcuna importanza proporre una nuova concezione del linguaggio. Quel che solo conta è imparare a dimorare nel parlare del linguaggio. Perché ciò sia possibile, è necessario un continuo esame di se stessi per vedere se e fino a che punto siamo capaci di un autentico cor-rispondere: di prevenire la Chiamata permanendo nel suo dominio.

Il compito (die Aufgabe) dell’uomo pertanto, per Heidegger, in definitiva, consiste nell’insistere presso l’ascolto della chiamata, dimorando nel dominio del parlare del Linguaggio, ossia, egualmente, nel persistere presso il pensiero dellEssere.

Ciò che rimane purtuttavia sullo sfondo nel discorso heideggeriano (sul Linguaggio come sull’Essere), è precisamente il fondamento di necessità di quell’avvalersi dell’uomo, di cui il Linguaggio ha esigenza, per essere percepito, egualmente per essere, ossia, ancora portandoci nella co-implicazione di esistenza umana (Dasein) ed Essere, il ruolo che l’Uomo ha nella Seinsgeschichte.

In questa prolusione al Ni-ente autentico, preferiamo lasciare che sia il discorso heideggeriano a emergere, trattenendo il nostro sullo sfondo. Ci limitiamo nonpertanto, in clausola, ad accennare, a mo’ di epiclesi, quanto segue: se l’Essere è autenticamente concepito come essere-del-Ni-ente, tale Ni-ente, per esserci, ossia per farsi evento, deve necessariamente attraversare tutta la vicenda del proprio Dolore, tutta epperò la teoria della propria Dia-lacerazione particolarizzantesi, deve ovvero realizzare e concretare, attuare ed entificare, la Storia completa altresì della propria contraddittorietà o negazione (dunque della propria attualità e medesimezza, positività e coerenza, presenza e identità, egualmente sotto differenti categorie inquadrando il sempre Medesimo), disvolgendo completamente la successione o l’ordinamento del suono della Quiete.

L’uomo, pertanto, è l’agente del Dolore, il suo pastore (der Hirt), si magis placet: ogni sua azione, ogni suo pensiero, ogni sua parola, e anzitutto ogni sua parola poetica, ossia creatrice, incide la Quiete, egualmente imprime concretezza allo stare in principio presso prolettica concretezza del Negativo, così consentendogli in ultimo di essere Non-essere compiutamente o in pienezza d’essere (Entelécheia).

Ma questo Non-essere è l’a-bisso stesso dell’Uomo, di cui egli – e solo egli – è padrone (der Herr), e l’essere-del-Non-essere è la sua stessa – e solo sua – Storia, il solo e sempre proprio E-vento trascendentale e terribile (Tremendum), inaudito (Deinós), maliardo (Fascinans) e meraviglioso (Thaumásios). Con-stituisce infatti, in ultimo, e viepiù determina (Bestimmung) o conduce a destinazione il Destino stesso dell’Uomo (*Klèwos *Ndhgwitom, Geviert, Ólympos Éschatos, Kléos Ouranòn ikánei, Héros-Theós), l’affidare e da principio l’Uomo – categoriale (Olympikoí, Göttern, Athánatoi) – all’uomo – individuale (Chthónioi, Sterblichen, Thetoí).


[1] Edizione italiana: Il linguaggio, in, In cammino verso il Linguaggio, a cura di Alberto Caracciolo, Ugo Mursia Editore, 1973.

Pubblicato in Numero 20 | Commenti disabilitati su Goezia del Negativo e parola poetica in Martin Heidegger

Sigmund Freud

Irene Milazzo

1. Un’intricata situazione familiare

Sigmund Freud nacque nel 1856 in Moravia, nella cittadina di Freiburg, dove visse fino al suo terzo anno di vita per trascorrere poi la sua intera vita a Vienna, da cui si sposterà solo nel 1938, anno precedente alla sua morte.

Era figlio di Jacob Freud, un commerciante di lana ebreo e della sua terza moglie, Amalia Nathanson. Del passato del padre precedentemente al suo terzo matrimonio poco sappiamo. Dalla prima moglie ebbe due figli, Emanuel e Philipp, che alla nascita del piccolo Freud, erano già grandi; il primo era sposato con figli ed era più vecchio della matrigna, mentre il secondo era scapolo e aveva un anno di meno; la situazione era dunque molto complicata: il padre, di vent’anni più grande della sposa (il matrimonio avvenne nel 1855) sembrava il nonno, mentre i fratelli maggiori sarebbero potuti essere i suoi genitori. Inoltre sulla madre di Freud, che visse molto a lungo, non sappiamo molto ma, secondo quanto riporta lo studioso Ellenberger, le fonti concordano su tre punti: “la sua bellezza, la personalità autoritaria e la sconfinata ammirazione per il primogenito”[1].

Freud fu infatti il prediletto della casa fin dalla nascita; secondo quanto narra la sorella Anna egli fu l’unico ad avere sempre una sua stanza piena di libri; inoltre, poiché era infastidito dal suono del pianoforte, quest’ultimo fu venduto ed ella dovette privarsi di tale tipico piacere borghese. Nell’“Interpretazione dei sogni” Freud racconta che, quando era piccolo, una vecchia contadina aveva detto alla madre di “aver messo al mondo un grand’uomo”5. Inoltre, quando aveva circa dodici anni, un poeta si avvicinò al loro tavolo mentre stavano seduti in uno dei ristoranti del Prater, e disse che un giorno sarebbe divenuto ministro. La carriera politica era un buon auspicio per una famiglia borghese come quella di Freud.

Un’altra persona che indica gli strani rapporti familiari che dovette affrontare il piccolo Freud, è la presenza di suo nipote e suo compagno di giochi John, che aveva un anno in più di lui. Tale rapporto fu alla base delle nevrosi che si portò nelle amicizie.

2. Le condizioni di vita degli Ebrei

Prima dei moti del 1848 gli ebrei vivevano in gruppi diversi: alcuni venivano tollerati, altri ghettizzati in alcune zone della città; altri ancora godevano della protezione del sultano, provenendo da Costantinopoli e Salonicco. Essendo gli unici mercanti delle città, lavoravano duramente e rispettavano il sabato e le feste ebraiche in maniera ortodossa. La tipica famiglia ebraica era patriarcale e la mentalità tendeva a reprimere gli impulsi.

Dopo il 1848 iniziò un periodo di politica liberale e nel 1867 gli ebrei ottennero parità di diritti politici. Molti si trasferirono nelle città e mutò il loro modo di vivere.

Il 1873 fu un anno particolarmente difficile: era appena stata inaugurata un’esposizione universale a Vienna quando il colera colpì la città e molti visitatori dovettero fuggire; inoltre il crollo della borsa comportò una violenta depressione economica e morale. Gli ebrei furono usati come capro espiatorio e ci furono molte manifestazioni antisemitiche. Freud narra di essere stato molto deluso da suo padre quando seppe che da giovane, mentre camminava per le vie di Vienna, era stato provocato da un gentile che gli aveva buttato il berretto in terra urlando “giù dal marciapiede, ebreo!”; di fronte a questo episodio il padre aveva semplicemente raccolto il berretto andandosene. Questo portò Freud a vedere suo padre già da allora in modo ambivalente, come un uomo senza dignità e orgoglio. Gli abitanti ebrei a Vienna aumentarono in modo vertiginoso e verso il 1880 almeno la metà dei giornalisti, medici e avvocati erano ebrei.

3. La scelta di Medicina

Secondo quanto riporta Freud egli scelse di intraprendere la facoltà di medicina dopo aver ascoltato una conferenza del professor Carl Brül, in cui lesse un saggio di Goethe “Sulla natura”, che tra l’altro fu male attribuito al poeta tedesco in quanto sembra non essere una sua produzione.

Inizialmente era propenso per gli studi giuridici. È però in verità più probabile che tale decisione stesse già maturando nella mente di Freud.

Nonostante la sua libera scelta, nell’ “Autobiografia” scriverà di essere stato mosso più che altro da una sorta di “brama di sapere”[2]. Inoltre nel 1924 sosterrà “in quegli anni giovanili non sentivo alcuna predilezione speciale per la professione medica, né ebbi del resto a sentirla in seguito”7.

Freud iniziò i suoi studi nel 1873 ma li terminò solamente il 31 marzo 1881. Questo ritardo ci sorprende in quanto Freud riporta di essere sempre stato il primo della classe durante tutti i suoi precedenti studi. Possiamo però trovare una causa soddisfacente per giustificare tale rallentamento negli studi nel suo eclettismo.

Il primo anno lo dedicherà infatti a seguire corsi umanistici, in primo luogo i corsi di filosofia di Brentano. La filosofia tornerà sempre nel pensiero di Freud, che nelle lettere la descrive come “il suo primo obiettivo, [la sua, n.d.r.] originaria ambizione, prima di sapere per quale fine fossi al mondo”[3]. Brentano era un ex prete che credeva in Dio ma rispettava Darwin. I suoi scritti rimarranno impressi nella mente di Freud.

Nel periodo in cui frequentò l’università, la facoltà di medicina era piena di figure emergenti, tra cui Carl Claus, Ernst Brücke e molti altri.

Nel 1875 Freud lavorerà nel laboratorio di Claus, il quale lo inserì in una spedizione di ricerca per Trieste, dandogli così l’opportunità di mettersi in luce. Freud portò avanti i suoi studi e alla fine riuscì a trovare l’organo di Syrski nelle anguille, motivo del suo viaggio. Nonostante ciò Freud non menzionerà mai Claus con parole di gratitudine, tanto che egli non viene mai nominato nei suoi scritti autobiografici.

Dopo due semestri si trasferì nel laboratorio di fisiologia di Brücke. Qui Freud troverà un po’ di soddisfazione e di “tranquillità”9; gli occhi del maestro vengono spesso assimilati a quelli di Freud.

Freud ricorderà i suoi penetranti occhi azzurri che lo rimproverarono per essere arrivato in ritardo nel laboratorio. Qui Freud imparerà l’autodisciplina e conoscerà Josef Breuer, in cui trovò un amico paterno che lo sostenne spesso anche dal punto di vista economico. Quando i rapporti con lui si deterioreranno, Freud sentirà molto il peso del debito in denaro.

A Breuer Freud dovette molto di più che una somma in denaro; egli gli insegnò il metodo psicoterapeutico della catarsi e gli si accostò come padre e collega. Freud chiamerà sua figlia più grande come la moglie di Breuer e dedicherà a quest’ultimo il suo primo libro su “L’afasia”.

La collaborazione tra i due cessò nel 1894, tanto che Freud dovette fare molte pressioni sul collega per convincerlo a pubblicare insieme i casi clinici su cui avevano lavorato. Il motivo principale della loro rottura fu il fattore sessuale che, se in Freud stava divenendo sempre più importante per indagare l’etiologia delle nevrosi, per Breuer non era poi così fondamentale. In realtà l’atteggiamento di quest’ultimo fu particolarmente ambiguo; in alcuni momenti sembrava sostenere le teorie di Freud, mentre in altri si dimostrava ostile. Ad esempio nelle “Considerazioni teoriche” leggiamo “riconosciamo già nella sessualità una delle grandi componenti dell’isteria”[4] e ancora “una parte degli elementi patogeni sessuali…conduce, secondo la scoperta di Freud, non all’isteria, ma alla nevrosi d’angoscia”[5].

Torniamo ora alla sua carriera medica. Dopo aver lavorato per sei anni nel laboratorio di Brücke, nel 1882 ci fu una “svolta”[6]; decise, su consiglio del suo maestro, di lasciare la carriera scientifica e di esercitare la libera professione di medico. Probabilmente questa decisione fu dettata dal fatto che nel 1882 si era fidanzato con Martha Bernays e desiderava guadagnarsi i soldi per poterla sposare. Lavorò per tre anni nell’ospedale generico di Vienna, spostandosi da un reparto all’altro e scalando varie posizioni fino a giungere al rango di Privatdozent, posizione di prestigio ma senza stipendio. È il primo passo verso l’ottenimento di una cattedra propria.

Iniziò con due mesi di pratica nel reparto di chirurgia per poi lavorare con il grado di aspirante nel reparto di Hermann Nothnagel. Nel 1883 verrà assunto come Sekundärarzt nel reparto psichiatrico di Meynert. Sono questi gli anni delle ricerche sulla cocaina; iniziò a lavorarvi nel 1884, scoprendo che tale sostanza poteva essere molto efficace contro i sintomi nevrastenici. Parlando con i colleghi Koller e Königstein, accennò al fatto che la cocaina produceva un intorpidimento della lingua; Freud non andò avanti in questo campo e Koller, a partire da questa conversazione, riuscì a scoprire le proprietà anestetiche della sostanza. Più avanti Freud scoprì, a spese di un suo amico, che il farmaco, se assunto in dosi eccessive, poteva portare tossicomania.

4. Due idealizzazioni

Nel marzo 1885 Freud fece domanda all’università per una borsa di studio valida per un viaggio di sei mesi e, in particolare grazie all’intervento di Brücke, la ottenne; dopo una vacanza di sei settimane a casa della fidanzata, partì per Parigi, dove incontrò Charcot. Quest’ultimo rientra, insieme a Fliess, nelle figure che influenzarono e affascinarono la personalità di Freud tanto da fargli perdere parte dell’obiettività nel giudicare.

Charcot era in quegli anni al culmine della sua fama; egli aveva classificato l’isteria tra le malattie e aveva sostenuto che essa colpisce gli uomini non meno delle donne. Inoltre aveva usato l’ipnosi per guarire le paralisi isteriche. Freud si avvicinerà a Charcot proponendogli di tradurre un suo libro.

Quando nel 1886 tornò a Vienna, Freud presentò alla Gesellschaft der Ärzte un rapporto sull’isteria maschile, comunicando le scoperte di Charcot, la sua distinzione tra isteria grande e piccola, la tesi secondo la quale i pazienti isterici non erano malati immaginari. Il punto di discussione principale era dato dalla distinzione tra isteria maschile classica accettata da tutti e isteria traumatica di Charcot, successiva a traumi o incidenti. Quello che più irritò fu il fatto di sentir elogiare le tesi di Charcot come scoperte uniche, di cui non si era mai parlato prima. In realtà che l’isteria non era né una malattia simulata né il risultato di disturbi degli organi genitali, era a Vienna già noto da tempo. Probabilmente Freud era sotto il fascino della figura di Charcot, che aveva idealizzato. Nel 1893 scriverà un elogio funebre per quest’uomo attribuendogli una teoria dell’isteria che in realtà apparteneva già in larga parte ai suoi predecessori.

Qualcosa di molto simile, ma in modo ancora più esteso, avverrà con la figura di Wilhelm Fliess, con cui Freud intrattenne una forte amicizia che andò avanti per più di dieci anni. Fliess era un otorinolaringoiatra di Berlino che nel 1887 si recò a Vienna per proseguire i suoi studi. Su consiglio di Breuer, seguì alcune lezioni di neurologia di Freud, a partire dalle quali iniziò il rapporto tra i due, che andò sempre più approfondendosi. Fliess era convinto che il naso sia l’organo che regola nell’uomo salute e malattie; credeva inoltre nella bisessualità degli esseri umani e nell’esistenza in ogni individuo di un doppio ciclo, nella femmina di ventotto giorni e nei maschi di ventitre. Questi periodi determinavano secondo lui le fasi della nostra crescita, l’epoca delle nostre malattie e la data della nostra morte.

Freud si lascia trasportare da Fliess in un modo che stupisce noi come all’epoca stupì i suoi contemporanei. Il Freud razionalista aiuta Fliess a ricercare i suoi numeri, probabilmente anche per il fatto che un po’ di superstizione fu in lui sempre presente.

Fliess è colui a cui Freud può dire tutto: gli invia i suoi manoscritti e le sue scoperte, gli comunica i suoi sentimenti personali, la sua nevrosi. Per alcuni aspetti sembra conferirgli un ruolo analogo a quello dell’analista.

Ernest Jones tratta in modo approfondito il rapporto tra i due e cerca di mostrarci cosa trovò Freud in Fliess, tanto da arrivare ad idealizzarlo in tal modo, difendendolo anche nei casi in cui aveva torto.

L’approfondirsi del rapporto tra i due è parallelo allo sciogliersi del legame tra Freud e Breuer. Sembra quasi che Freud volesse trovare un sostituto per quel collega paterno che tanto gli aveva dato. Poteva sembrare il suo successore con due pregi in più:

  • l’importanza data alla sessualità.
  • la disinvoltura e l’entusiasmo nelle sue idee; Breuer era più cauto e riservato e probabilmente più realista.

Inoltre Freud e Fliess avevano vari punti in comune:

  • avevano una posizione nella vita molto simile: medici specialisti, provenienti da un ceto medio ebraico e miranti a farsi una clientela per mantenere la famiglia.
  • avevano ricevuto un’educazione umanistica, che sapevano ben riutilizzare.
  • Avevano una formazione scientifica quasi uguale; entrambi erano cresciuti con l’insegnamento della scuola di fisica e fisiologia di Helmholtz.

Fu proprio negli anni di Fliess, all’incirca tra il 1890 e il 1900, che Freud soffrì di una psiconevrosi abbastanza forte, di cui riuscì a liberarsi solo tramite l’autoanalisi, che lo aiuterà anche a vedere Fliess per ciò che realmente era e a rompere con lui tutti i rapporti. La sua nevrosi, di cui era perfettamente consapevole, consisteva in bruschi cambiamenti d’umore, in rari attacchi di paura di morire e nell’ansia per i viaggi in ferrovia. È proprio a causa di tali disturbi nevrotici che Ellenberger sostiene l’ipotesi che “l’autoanalisi di Freud sia stata uno degli aspetti di un complesso processo…e che tale processo costituisca un esempio di quella che si può chiamare malattia creativa”[7]. Essa si può ritrovare in varie situazioni e, quali che siano i sintomi presentati, essi vengono sentiti in modo penoso, come qualcosa di opprimente, con un’alternanza di momenti di sollievo e peggioramento. Anche se il soggetto continua a mantenere i suoi rapporti sociali, si chiude in isolamento interno e spesso esce dalla malattia con una personalità diversa. Tutte queste fasi sembrano ritrovarsi nella vita di Freud, testimoniate anche dalle sue lettere a Fliess. La sua viene vista come una “disperata ricerca di una verità sfuggente”[8] e il sua dipendenza da Fliess rientrerebbe nel bisogno di una guida che lo aiuti in questa ricerca.

Lo scontro tra i due avvenne nell’estate del 1900, dopo il quale non si rividero più. Vi fu però un ultimo strascico nel 1904; Fliess aveva scritto a Freud per comunicargli che Otto Weininger aveva pubblicato un libro dove la sessualità svolgeva un ruolo preponderante. Freud era accusato di aver fatto giungere le sue teorie fino all’orecchio di Weininger tramite un suo allievo. Alla fine Freud confessò di essere stato trascinato dalla voglia di privare Fliess della sua priorità su tali teorie. Ci fu poi un ultimo strascico nel 1912, ma oramai il rapporto tra i due era già stato sepolto. Freud bruciò tutte le lettere inviategli da Fliess, mentre quest’ultimo le conservò. Poco dopo la morte di Fliess, nel 1928, la vedova, rendendosi conto del valore rappresentato da quelle lettere, decise di venderle ad un libraio di Berlino insieme ai manoscritti e agli appunti di Freud, a condizione però che esse non giungessero nelle mani di quest’ultimo, per paura che egli le avrebbe distrutte. Le lettere fecero un lungo viaggio, passando dalle mani di Marie Bonaparte, che ne mise al corrente il suo analista Freud, il quale si irritò moltissimo; nonostante ciò ella decise di non fargliele pervenire e di depositarle in una banca a Vienna. Da qui esse passarono a Parigi e furono infine messe in salvo a Londra, dove furono tradotte da Anna Freud e Ernst Kris, che scelsero quelle adatte alla pubblicazione.

5. La sua vita in breve dopo l’autoanalisi

Dopo aver lasciato l’Ospedale generale di Vienna, si dedicò alla neurologia puramente clinica. Assunse l’incarico nella clinica di Kassovitz, dove visitò i bambini affetti da paralisi cerebrale e divenne un esperto nel campo, tanto che Nothnagel nel 1897 gli affiderà la trattazione di tale materia nel suo “Manuale di terapia generale e speciale”.

Il matrimonio con Martha Bernays avvenne nel 1886, dopo un fidanzamento di quattro anni durante il quale i due poterono vedersi pochissimo. Per quel che ne sappiamo fu un legame felice dal quale nacquero sei figli, e non ci sono prove riguardo ad una vita extra – coniugale di Freud, che sembra essere stato un marito fedele. Martha fu però sempre vista come una perfetta donna di casa e un’amabile madre, ma mai come una confidente. Freud non la teneva quasi per nulla al corrente del suo lavoro scientifico né delle sue scoperte. Questo ruolo sembra essere stato più affidato alla cognata Minna.

Dopo la psicoanalisi e la rottura con Fliess, la vita e la personalità di Freud iniziarono a cambiare. Nel 1897 i professori Nothnagel e Kraft – Ebing chiesero al collegio dei professori di proporre Freud per il titolo di professore straordinario. Ottenerlo realmente fu però qualcosa di molto lungo e faticoso, che richiese l’intervento dello stesso Freud. Solamente nel 1902 infatti l’imperatore Francesco Giuseppe firmò la nomina. La carriera di Freud fu sicuramente rallentata. I motivi per cui il governo fu riluttante a riconoscere i suoi meriti scientifici sono complessi e difficili da comprendere fino in fondo.

Nel 1902, dopo la realizzazione di questo suo ambito desiderio, ci fu per Freud un periodo di intensa attività. Egli riunì a casa sua ogni mercoledì sera un piccolo gruppo per discutere di problemi relativi alla psicoanalisi, che si diede il nome di “Società psicoanalitica del mercoledì”. Da qui in poi la sua vita fu legata in particolar modo agli sviluppi del movimento psicoanalitico.

Nel 1910 fu fondata l’Associazione psicoanalitica internazionale, ma vi furono dei dissidi interni che portarono alcuni membri all’allontanamento; tra questi vi era Adler che decise di fondare una società dissidente. A breve sarebbe avvenuta anche la rottura con Jung.

Allo scoppio della guerra Freud, come molti dei suoi connazionali, fu assalito dall’entusiasmo patriottico, ma la guerra e le difficoltà che essa portò cambiarono nuovamente la persona di Freud, che inizierà a inserire nel suo pensiero le cosiddette pulsioni di amore e odio.

Nel 1920 fu ufficialmente nominato professore ordinario ed espose le sue teorie rivedute in “Al di là del principio di piacere”.

Il 1923 fu poi un anno particolarmente doloroso: morì il nipote Heinerle Halberstandt e scoprì di avere il cancro al palato e alla guancia. Questa malattie lo sottopose a trenta operazioni che dovette subire fino alla morte avvenuta al Londra il 23 settembre 1939.

6. L’influsso di Fechner

Abbiamo parlato soltanto delle tappe mediche della sua carriera, ma tutto ciò è ovviamente collegato alla sua vasta produzione di opere, dove ritroviamo l’evoluzione di tutto il suo pensiero.

La prima opera di Freud riguarda l’afasia e fu pubblicata nel 1891. Fino ad allora il campo era dominato dalle scoperte di Wernicke e di Lichtheim, che avevano scoperto l’esistenza di aree specifiche nel cervello dove venivano conservate le immagini sensoriali, la cui lesione portava particolari tipi di afasia.

Le opere più importanti di questi anni sono “Gli studi sull’isteria” in collaborazione con Breuer e il “Progetto per una psicologia”, poi abbandonato da Freud, di cui parleremo in seguito in modo più esteso.

Per ora basti dire che tra le fonti più importanti del “Progetto” vi è Fechner, che si ritroverà anche alla base di “Al di là del principio di piacere” (1920).

Gustav Fechner viene considerato il fondatore della psicofisica e con il suo lavoro ha sicuramente influenzato Freud e la psicoanalisi. Egli aveva già collegato il principio di piacere – dispiacere con l’idea “dell’avvicinamento e allontanamento della stabilità approssimata”[9].

Egli distingueva infatti tre tipi di stabilità:

  • assoluta, quando le parti di un tutto si trovano in uno stato di immobilità permanente.
  • completa, quando i movimenti delle parti di un tutto sono talmente regolari da far sì che esse ritornino nello stesso punto a intervalli precisi.
  • approssimata, quando vi è una tendenza più o meno perfetta delle parti a ritornare nello stesso punto.

“Non può lasciarci indifferente il fatto che un ricercatore dell’acutezza di G.T. Fechner abbia sostenuto una teoria del piacere e del dispiacere che coincide sostanzialmente con le conclusioni a cui il lavoro psicoanalitico ci costringe”[10]. Leggiamo queste parole in “Al di là del principio di piacere”, libro in cui più si fa riferimento alle tesi di Fechner; qui Freud supera la regola basilare, esposta anche nel “Progetto”, secondo la quale si tende a ricercare piacere ed evitare il dispiacere, e aggiunge a ciò la coazione a ripetere. Questo libro è molto vicino alla filosofia e riprende le tesi che aveva esposto nel “Progetto per una psicologia” ampliandole e rivedendole. È curioso che questo libro, che verrà pubblicato postumo, non venga nominato neanche in tale opera, che è quella che, a distanza di più di vent’anni, più gli si avvicina. L’opera è inoltre molto vicina alle tesi esposte nel settimo capitolo dell’ “Interpretazione dei sogni”, non a caso quello considerato più filosofico e di cui più avanti ci occuperemo in modo ampio.

Siamo nel periodo in cui Freud tenta di definire la sua “metapsicologia”, sistema che deve descrivere i fatti psicologici da tre punti di vista:

  • topico, nel senso della distinzione tra inconscio, preconscio, conscio.
  • dinamico, riferito alle forze psichiche in conflitto l’una con l’altra.
  • economico, il quale considera la regolazione delle forze mentali fondata sul principio di piacere – dispiacere.

Il cosiddetto “principio di costanza”17, che nel “Progetto” viene chiamato “principio di inerzia neuronica”, viene definito da Freud come un caso particolare del più generale ‘principio della tendenza alla stabilità’ di Fechner; “il principio di piacere deriva dal principio di costanza”18.

Anche nell’”Autobiografia” Freud cita tale pensatore tra le sue fonti principali: “sono stato tuttavia sempre attratto dalle idee di G.T.Fechner, al cui pensiero, in effetti, ho fatto riferimento per alcuni importanti punti della mia dottrina”[11].

Nel 1896 Freud abbozzò la sua nuova classificazione delle nevrosi e chiamò il proprio metodo “psicoanalisi”. Distinse le nevrosi in nevrosi attuali, le cui fonti sono rintracciabili nella vita presente del paziente, e psiconevrosi, le cui fonti sono invece riconducibili alla sua vita passata. Uscì in quest’anno l “Etiologia dell’isteria”.

7. Dall’ipnosi al metodo delle associazioni libere

Nella sua “Autobiografia” Freud descrive il percorso che lo ha portato alla fondazione della psicoanalisi e del metodo delle libere associazioni su cui essa si basa. Inizialmente egli si approcciò ai suoi pazienti isterici utilizzando il metodo di Breuer della catarsi, che prevedeva la liberazione dei pazienti dai loro sintomi tramite l’esposizione a parole della scena da cui essi avevano avuto origine. Freud abbandonò tale metodo dopo il 1889, anno del suo viaggio a Nancy, in cui vide Bernheim utilizzare sui suoi pazienti una tecnica non dissimile dalla vita vigile, che conduceva, anche se con più fatica, agli stessi risultati dell’ipnosi. Si riuscivano a recuperare, tramite la guida del terapeuta e l’aiuto della pressione della sua mano, quei ricordi che erano apparentemente stati rimossi dalla vita psichica del paziente. Quando il paziente, uscito dal suo sonnambulismo, asseriva di non ricordare nulla, il terapeuta doveva insistere e ripetere che in verità egli era perfettamente a conoscenza di ciò che sosteneva di non sapere e, tramite l’ausilio della sua mano sulla fronte, doveva indurlo a ricordare tutti i fatti verificatesi durante quello stato. “Questo procedimento appariva naturalmente più faticoso di quello ipnotico, ma era presumibilmente più istruttivo”[12]. Fu così che Freud abbandonò l’ipnosi di cui mantenne solo la posizione supina; il paziente doveva sdraiarsi sul divano ma, se prima poteva vedere il terapeuta, ora quest’ultimo si trovava seduto dietro di lui in modo tale da vedere il paziente ma non essere a sua volta visto. Secondo quanto riporta lo stesso Freud, in tal modo riuscì a pervenire alla teoria della rimozione, elemento base per la comprensione delle nevrosi, nelle quali “l’Io si era per così dire ritratto al primo incontro con il moto pulsionale sconveniente, gli aveva sbarrato l’accesso alla coscienza, nonché alla scarica motoria diretta; nel contempo, però, il moto pulsionale aveva mantenuto intatto il proprio investimento energetico. È questo il processo che chiamai rimozione”,ovvero un meccanismo di difesa primario. Adesso però il compito del terapeuta non era più l’abreazione dell’affetto, bensì il mettere a nudo le rimozioni sostituendole con l’accettazione o la condanna di ciò che all’epoca era stato ripudiato e respinto nell’inconscio. “In considerazione di questa nuova visione delle cose denominai il mio metodo d’indagine e di terapia psicoanalisi, in sostituzione del termine catarsi”[13]. Il passo successivo per giungere alla formulazione definitiva di tale metodo fu l’indurre il paziente a lasciarsi andare alle “libere associazioni”, esponendo tutto ciò che gli veniva in mente, anche quello che riteneva superfluo o inadeguato. Fondamentale in tale metodo è la cosiddetta “traslazione”, ovvero il rapporto che si instaura tra il paziente e lo psicoanalista. Essa viene considerata come il principale strumento della tecnica psicoanalitica; è infatti necessario individuare e isolare la traslazione, nel momento in cui essa si trasforma in passione o in ostilità verso il medico e diviene dunque il principale strumento tramite cui si attua la resistenza. Questo non era stato compreso dall’ipnosi, tanto che Breuer, nel caso di Anna O., non comprese se non quando ciò fu evidente, che la sua paziente aveva sviluppato verso di lui uno stato di amore di traslazione. Ritorneremo su tale caso in seguito.

Ellenberger riporta che “il metodo psicoanalitico è la creazione di Freud, e costituisce la più intima originalità della sua opera. Freud fu l’inventore di un nuovo modo di occuparsi dell’inconscio…questa è l’incontestabile innovazione di Freud”[14].

8. Una passione che non morirà

Come abbiamo già accennato in precedenza, Freud fu sempre legato alla filosofia, fin da giovane quando leggeva i testi di alcuni filosofi o ascoltava le lezioni di Brentano all’università.

Tra i filosofi che lo affascinavano molto, almeno inizialmente, vi era Feuerbach, che si avvicinava molto al suo definirsi uno “studente di medicina senza Dio”23. L’intento di Feuerbach era infatti trasformare la teologia in antropologia, mostrarne le radici umane. La religione è un’illusione che bisogna smascherare e Freud ben si identificava in un distruttore di illusioni. L’uomo ha proiettato delle qualità che gli appartengono, in quanto appartenenti al genere umano, al di fuori di lui; le ha alienate da sé, “rese straniere”, così come si può comprendere analizzando l’etimologia della parola tedesca “Entfremdung” (alienazione), che al suo interno contiene il termine “Fremd”, che significa proprio “straniero”. Inoltre Feuerbach non era critico solo nei confronti della teologia, ma anche verso la filosofia e non dobbiamo stupirci nel sapere che anche Freud aveva con essa un rapporto di amore – odio. Era molto critico ma senz’altro riprese molto del pensiero di alcuni filosofi a lui precedenti.

Peter Gay ci riporta che il fatto che “a Freud piace descrivere la propria carriera medica come un’ampia digressione che partendo da una passione adolescenziale per i più profondi enigmi filosofici, ritorna alle speculazioni di fondo di un vecchio dopo un lungo e indesiderato esilio tra i dottori”[15]. Anche se spesso disprezza e critica i filosofi e la filosofia, egli perseguirà per tutta la vita le mete filosofiche. Nella lettera a Fliess del primo gennaio 1896 scrive “vedo che, per le vie traverse della medicina, ti stai sforzando di raggiungere il tuo primo obiettivo, la comprensione fisiologica dell’uomo, mentre io nutro segretamente la speranza di arrivare per le stesse vie al mio primo obiettivo, la filosofia. Perché questa fu la mia originaria ambizione, prima di sapere per quale fine fossi al mondo”[16].

9. Una panoramica delle sue fonti

Per capire Freud fino in fondo e riuscire a distinguere ciò che realmente rappresenta una sua innovazione, dobbiamo collocarlo nella cultura e nell’ambiente dell’epoca. Ellenberger, come già abbiamo detto, ritiene che l’origine delle più importanti nozioni della psicoanalisi sia stata data a Freud dalla sua malattia creativa. Indipendentemente dal sapere se ciò sia vero o meno, è incontestabile che le fonti di Freud furono innumerevoli e che molte di esse sono probabilmente ancora ignote. Freud era un uomo di elevata cultura e un accanito lettore.

Tra i primi maestri che ebbe ritroviamo sicuramente i nomi di Brücke, Meynert ed Exner. È dalle loro idee e dall’opera di Fechner, di cui abbiamo già parlato, che Freud trasse gran parte del materiale per la stesura del “Progetto per una psicologia”.

Colossale fu poi l’influsso di Breuer, di cui abbiamo già avuto modo di parlare; dobbiamo poi citare il nome di Herbart, la cui psicologia era predominante in Austria ai tempi della giovinezza di Freud: egli aveva già creato una soglia tra il conscio e l’inconscio, distinguendo tra rappresentazioni che lottano per giungere alla coscienza e rappresentazioni che vengono rimosse ma tendono a ritornare o a produrre un effetto indiretto su di essa.

Secondo Ellenberger inoltre, la personalità di Freud può essere paragonata a quella di un romantico. Tale tendenza si può rintracciare nella sua appassionata relazione con Fliess, nelle cene tra amici, nella selezione di alcuni discepoli per difendere la psicoanalisi; era inoltre dotato di una forte curiosità intellettuale e della cosiddetta credibilità, consistente nella capacità di far credere plausibile anche la teoria più improbabile.

Tra i grandi scrittori dichiarava sue fonti Shakespeare, Goethe e Schiller, ma non possiamo trascurare Börne, il quale, in un saggio sull’arte di divenire uno scrittore originale, raccomandava di chiudersi per tre giorni con carta e penna e scrivere tutti i pensieri che venivano alla mente, spontaneità che non può non richiamare il metodo delle libere associazioni di Freud.

Tra le altre fonti letterarie Freud ammirava moltissimo Arthur Schnitzler, ebreo nato a Vienna nel 1862. Dopo essersi laureato in medicina, seguì le orme del padre dedicandosi alla stesura di articoli relativi al campo medico. Col passare del tempo però i suoi interessi si spostarono sempre più sul teatro e sulla letteratura, tanto che intorno al 1890 riunì un gruppo di giovani poeti e drammaturghi austriaci che si diedero il nome di “Giovane Vienna”. Il suo pensiero colpì molto Freud; Schnitzler sosteneva che nell’ipnosi e nell’isteria era presente un forte elemento di artificialità; inoltre, come Freud, era molto interessato all’ambito dei sogni.

Come sopra detto, Freud fu molto influenzato dalla filosofia, anche se tentò sempre di criticarla. La sua può considerarsi una sorta di filosofia materialistica, che tenta di smascherare l’illusione della metafisica. È forte in lui la “tendenza demistificante”, che ricerca l’inganno per riportare alla luce la verità sottostante. Ciò è sicuramente presente in filosofi quali Schopenhauer, Marx e soprattutto Nietzsche, di cui Freud possedeva l’intera opera, negando però per gran parte della sua vita di averla letta. “Le notevoli concordanze fra la psicoanalisi e la filosofia di Schopenhauer, il quale non solo ha sostenuto il primato dell’affettività e l’importanza preminente della sessualità, ma ha conosciuto addirittura il meccanismo della rimozione, non possono essere ascritte alla mia conoscenza delle sue teorie. Ho letto Schopenhauer molto tardi nella mia vita, e per un lungo periodo di tempo ho evitato di leggere Nietzsche, l’altro filosofo le cui intuizioni e scoperte coincidono spesso, in modo sorprendente, con i risultati faticosamente raggiunti dalla psicoanalisi”[17]. Abbiamo già sostenuto la vicinanza e l’influsso di Brentano sul pensiero freudiano, la cui nozione di intenzionalità è molto vicina a quella di investimento in Freud. Per entrambi la percezione non è un processo passivo, ma “un’attività dotata di energia psichica”[18]. Anche se non si trova tra le fonti più citate di Freud, egli sicuramente lesse Kant e trasse dalla sua filosofia l’importanza della sintesi.

Fondamentale è poi il clima positivista che il nostro autore si trova a respirare. Il positivismo è una corrente di pensiero sviluppatasi in particolar modo nella seconda metà del 1800; il nucleo fondamentale di questo pensiero è ritrovabile nell’idea di voler riportare tutto al linguaggio scientifico; la scienza viene esaltata e vista come lo strumento principale per risolvere tutti i problemi dell’umanità. Essa è la forma di sapere per eccellenza della modernità e deve regolare, non soltanto i rapporti tra soggetto – oggetto ma anche quelli tra soggetti (relazioni umane). Freud vuole infatti annoverare la psicoanalisi tra le scienze; come ogni scienza, essa deve riportare la verità e smascherare ogni illusione.

Tra le altre fonti, non meno importanti, abbiamo i suoi pazienti, Charcot, Janet e tutta la psichiatria dinamica a lui precedente. Con tale espressione indichiamo un indirizzo della psichiatria che, all’inizio del suo percorso, utilizzava l’ipnosi, metodo di cui per un periodo si servì anche Freud, e ebbe particolare attenzione per i casi clinici isterici, punto di partenza delle indagini freudiane. Inoltre essa delineò nel tempo due modelli di psiche, che corrispondono in parte a quelli riportati da Freud:

  • divisione tra conscio e inconscio; è il primo modello che delineerà Freud, inserendo come parte dell’inconscio anche il cosiddetto preconscio.
  • formato da un insieme di sottopersonalità; è quello che Freud delineerà nell’ “Io e l’Es” dove distinguerà nella psiche tre istanze psichiche che interagiscono tra loro: Io, Es e Super Io.

In un ultima analisi essa considerava il rapporto medico – paziente come qualcosa di basilare per la terapia, e ciò corrisponde alla traslazione in Freud.

È importante notare, per concludere questa panoramica, che spesso Freud è stato slegato dal contesto a cui apparteneva e molto spesso è stato anche distorto. Egli poté portare il suo grande contributo alla nostra cultura grazie all’ambiente in cui si trovò e agli spunti che prese dai suoi contemporanei e da molti pensatori che erano venuti prima di lui. Come fa notare Ellenberger fu “la rivoluzione radicata nei cambiamenti socioeconomici”[19] a coinvolgere Freud.


Note:

[1] Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri vol. 1, capitolo settimo, p.491 5 P. Gay, Freud, op. cit., p.12

[2] S. Freud, Autobiografia, tr. It. in Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p.76 7 Ibid.

[3] S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887 – 1902, Boringhieri p.103 9 S. Freud, Autobiografia, op. cit., p.77

[4] S. Freud, Studi sull’isteria, tr. It. in Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1967, p.387

[5] Ivi, pp.389 – 390

[6] S. Freud, Autobiografia, op. cit., p.78

[7] Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, vol. 2, capitolo settimo, p.515

[8] Ivi, p.516

[9] Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, op. cit., p.550

[10] S. Freud, Al di là del principio di piacere, Boringhieri, pp.18 – 19 17 Ivi, p.20 18 Ibid.

[11] Freud, Autobiografia, op. cit., p.126

[12] Ivi, p.96

[13] Ivi, p.98

[14] Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, op. cit., p.632 23 P. Gay, Freud, op. cit., p.27

[15] Peter Gay, Freud, op. cit., p.108

[16] Freud, Le origini della psicoanalisi, op. cit., p.103

[17] Freud, Autobiografia, op. cit., p.126 – 127

[18] Henri F. Ellenberger,La scoperta dell’inconscio, op. cit., p.623

[19] Ivi, p.631

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