Sul concetto del riconoscimento in Hegel

Amelia Forte

È il momento dell’essere altro che genera e commuta la propria identità di sé. E non è neppure la semplice relazione che intercorre tra le due identità. Non è solo il progetto distintivo che in una dimensione particolare-universale e sovra-individuale connette i molti uno. Non è la distinzione che genera le identità, e quindi non la relazione, ma prima ancora della relazione che comunque non può non procedere dalle identità, prima dell’identità vi è la negazione[1]. Se fosse semplicemente una filosofia della relazione o distinzione, si avrebbe prima ancora della relazione, l’identità, le ipostasi, gli enti che in seguito si relazionerebbero l’uno all’altro. Viene prima la relazione, fermo restando che essa non è un semplice riferimento dialogico e postumo che connette dall’esterno la molteplicità degli oggetti che pone in essere, e quindi attraverso una soggettività riflettente dal di fuori crea una polarità relazionale tra gli oggetti. La relazione è carne, è sangue, è essenza degli oggetti stessi. E quindi questi sono appunto nel loro fondo identitariamente parziali con sé e quindi sono presi dal negativo. È chiaro che lo Spirito è quella dimensione naturale (a partire dalla natura) che non è una dimensione altra dallo Spirito. Non è essa un terreno creato dallo Spirito. Lo Spirito, che è appunto l’auto-movimento progressivo dell’autocoscienza, e lo Spirito inteso come elemento fondante della determinazione materiale, ma fondante non nei termini fondativi, ma fondante nel senso di “essenziale” alla determinazione materiale che in quanto tale, cioè in quanto materia, non può non accogliere obbligatoriamente dentro di sé la determinazione universale. Poiché la determinazione formale è il processo per cui l’autocoscienza diventa assoluta attraverso un continuo alterarsi e trasformarsi da configurazioni sempre meno povere, parziali, precarie, fino ad un completo e conchiuso rinvenimento di sé presso se stesso ma con tutte quelle determinazioni altre che la coscienza ha attraversato. Quindi l’autocoscienza assoluta è sintesi di sé mediante l’altro, raggiungendo quella circolarità incondizionata in sé e per sé. Ma tale movimento è nelle cose stesse del reale, è la vita stessa, poiché ogni determinazione materiale, che sia organica o inorganica, ed ogni tipo di esperienza del genere umano non può non risultare internamente come auto-movimento di sé rispetto all’altro. Sul piano della filosofia naturale, lo Spirito in Hegel non crea la natura. Questa dimensione totalizzante, sintetizzante, come vettore immanente alle cose e alle azioni non crea natura. Non è presente un atteggiamento creazionistico o emanatista o di scaturigine. Lo Spirito non è un demiurgo o una dimensione ontoteologica che permea di sé il reale, ma è quello stesso obbligatorio, impossibile da non ritenere vero: ossia il riferimento dell’altro mediante sé. Poiché in sé non può trarre la propria identità da se stesso, in quanto altrimenti lì ci sarebbe effettivamente un sospettoso movimento auto-fondativo idealistico-spinoziano. Mentre lo Spirito appunto non è idealistico. Lo Spirito di Hegel non pone la realtà. Non è lo Spirito fichtiano. Ma la dimensione naturale, in quanto povertà di Spirito semmai, in quanto la Natura è altro dallo Spirito. Ma non altro in senso fondamento-fondato, ma nel senso di una dimensione non emancipata, non affrancata dall’elemento materiale. La determinazione materiale nel naturale rimane imprigionata in se stessa attraverso una sorta di autoconvincimento per il quale essa è bastevole a se stessa, attraverso questo concetto d’identità tautologico, vuoto, di medesimezza con sé, di auto-eguaglianza di sé, di ipseità o stessità con sé, ma appunto questo creerà ben presto dei problemi. Poiché se la verità costitutiva del soggetto è quella di destinarsi all’altro, questa dimensione che il determinato materiale cercherà di superare ma in realtà riuscirà solo a rimuovere, verrà reincarnata in un’altra dimensione estranea ed estrinseca. A volte anche attraverso una maschera fantasmagorica, spettrale[2]. Ma questo qualcosa che è l’altro ed è ciò che permette di dire all’identità con sé di porsi come coincidente con sé, nel momento in cui viene rimosso da quella stessa identità, anche in modo implicito, fa sì che questa si sbricioli e possa crollare. Ma non in quella negazione determinata mediante la negazione della negazione, ma attraverso una continua ed indefinita alterazione detta cattiva infinità, in indefinite e indeterminate trasformazioni, figurazioni di sé, senza che poi questa soggettività possa piegarsi, curvarsi e tornare in sé e per sé. Senza soluzione di continuità l’autocoscienza naturalistica o individualistica astrattamente universale subirà una serie di rovesciamenti e metamorfosi, alterazioni che non controllerà e che destinalmente la porteranno al fallimento, a soccombere. E questa è la tematizzazione di quello che il giovane Hegel, sin dal 1797-1798 chiamerà ancora Destino. Che non è altro per l’Hegel del 1803-4, già negli abbozzi del Sistema della Fenomenologia dello Spirito, in Logica e Metafisica di Jena, appunto chiamerà dialettica. Il cuore della dialettica è la negazione o contraddizione. Ma fin tanto che quella determinazione particolare-naturale rimarrà in un ambito esclusivo, repulsivo nei confronti della dimensione universale del vettore immanente, del principio dell’auto-movimento dello Spirito in quanto identità con sé, nel momento in cui appunto la coscienza si pone come tale soltanto mediante l’altro da sé, è chiaro che venendo meno l’altro da sé la sua identità già immediatamente così povera, fragile e gracile crollerà e si rovescerà nel suo opposto. E questo suo opposto si tramuterà in potenza estraniata o eteronoma, tanto che alla fine soccomberà, e vedrà quella stessa potenza ritorcesi contro. Hegel terrà fermi degli esempi che farà fino alla maturità con le figure della Coscienza infelice o l’Anima Bella, Abramo, Cristo e gli esempi dei grandi eroi tragici come Antigone. Ma anche esempi storici come il cesarismo imperiale. Queste individualità o aggregati identitari autofondanti in se stessi, subiranno un destino atroce, poiché quel destino è il conto da pagare per aver rinunciato alla vera e propria identità con sé. Ed ecco che l’Enteusserung, cioè quell’uscire fuori da sé, quel farsi altro da sé, che è il primo momento del passaggio negativo inteso come negazione assoluta, o prima negazione, non sarà altro che il momento non del ritorno a sé attraverso la negazione della negazione, ma appunto dell’Entfremdung, cioè della Estraneazione. E del non ritorno in sé e per sé. Ed allora si ribadisce che quel mondo naturale o determinazioni naturali, organiche ed inorganiche, sono coincidenti con se stesse e non si muovono da quella coincidenza con sé, cioè non si sentono obbligati, sbagliando, a dover uscire fuori da sé, a sentirsi altro da sé, per intrinsecamente raggiungere la piena e perfetta coincidenza con sé. Non avvertendo questo bisogno intrinseco di padronanza di sé finale e reale, in quanto autocoscienze in sé e per sé assolute, rimangono essi sul dato tautologico-naturalistico-individuale, per cui si accontentano di essere ciò che sono ma senza avere coscienza dell’altro da sé e quindi senza chiudere la loro personalità in una reale dimensione assoluta e razionale. Un cane o un leone sostanzialmente si raccolgono e si limitano ad essere compresi nel loro genere animale-specie-individuale ad una condizione di perfetta coincidenza con sé. Ma appunto questa perfetta coincidenza con sé è quello stato immediato-naturale, per cui il leone continua ad essere leone e a fare il leone, ma senza che questo esser-ci o dimensione lo porti a considerare che egli è leone perché non è una pantera. Quindi se si è detto che la padronanza di sé di un’autocoscienza assoluta ed incondizionata è l’esito della negazione della negazione, per cui è l’altro che istituisce l’altrui identità, ossia è il NON che istituisce la propria perfetta coincidenza con se stessi, il leone non operando la sintesi di se stesso mediante l’altro, esso rinuncia alla padronanza di sé come autocoscienza. E quindi si può dire che a stretto rigore il leone non sa chi sia veramente e per puro caso avrà tutti i tratti caratteristici dell’essere leone. Ma tale elemento è del tutto naturale, poiché il nascere leone è dettato dalla natura della sua essenza leonina che ha immediatamente presso di sé. Con questo però si ribadisce che nella dimensione naturale o semplicemente naturalistica-individualistica organica-inorganica, la dimensione dello Spirito non è che sia assente. Lo Spirito è presente nella dimensione naturale come elemento sovra-individuale, sovra-determinato, universale, totalizzante, essenziale tanto quanto in una dimensione di un’autocoscienza a padronanza con sé. Quindi lo Spirito c’è nella natura, solo che non è obbligatoriamente, come è giusto che sia invece, nella dimensione realmente universale. Poiché appunto quelle determinazioni materiali si fermano ad una dimensione naturalistica. Ma questa condizione non permette di dire che la Natura è altro dallo Spirito, nel senso che lo Spirito in qualche modo crea la natura come qualcosa di più rigido e quindi di meno vero, o come qualcosa di subordinato o materico e quindi oscuro. Questa visione è idealistica e teologico-creazionistica. Ma la materia nella sua opalescenza, opacità resiste a quell’universalità. Ma non perché la natura sia fuori dallo Spirito, ma bensì perché quella determinazione materiale rimane e resiste nella propria parzialità ed opacità. Si può dire invece che lo Spirito è presente nella Natura in un aspetto sovraindividuale, sovradeterminato, ma senza rischiararsi a dimensioni coscenziali. La Natura non procede fuori dallo Spirito: è lo Spirito stesso, ma nella forma esteriore. L’altro da sé dello Spirito in una dimensione semplicemente naturalistica-esteriore-opaca[3]. Se si applica la dialettica come processo e struttura che conduce lo stesso soggetto dapprima in modalità esteriore, fino allo Spirito, quindi da una forma particolare e naturale-individuale ad una spirituale, in quanto Autocoscienza assoluta, ebbene questo movimento è il dialettico. E il motore di tale movimento e divenire dialettico è la negazione: ossia la contraddizione. Hegel per mostrare chiaramente che il movimento dialettico è ab intra, ossia è nelle cose stesse, come filigrana stessa ed ordito stesso del reale, per affermare questo Hegel dovrà sbarazzarsi del principio di identità e di non-contraddizione aristotelico, mutandolo da principio di non-contraddizione(laddove è interdetta la possibilità persino di pensare la contraddizione) a principio necessariamente della contraddizione. Abrogando quel principio stesso con il principio dell’identità degli opposti. Affermare che il soggetto di un predicato possa essere allo stesso tempo predicato e non predicato di qualcosa, sotto la stessa frazione di tempo e luogo spaziale, sarebbe stato un paradosso inaggirabile. Nella tradizione aristotelica, la contraddizione concerne l’ambito della formulazione logico-comunicativa del pensiero, per cui è impossibile che in un giudizio si possa predicare e non-predicare nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista di uno stesso attributo uno stesso soggetto, ossia è impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto ad una medesima cosa. E per fare questo Hegel commette una delle più grandi trasgressioni del pensiero occidentale (forse la più grande!) nei confronti dello stagirita. Infatti per Hegel non si trattava solo di sovvertire il principium firmissimum sul piano logico-predicativo-comunicativo (con le differenti predicazioni contraddittorie del giudizio) del pensiero, ma di entrare in una condizione di “sospensione” dello stesso sul piano esperienziale-fenomenico-pratico, percettivo e materiale (ossia nel determinato stesso) con la mostrazione dello stesso Hegel, che in quello stesso oggetto o soggetto contemporaneamente e sotto lo stesso punto di vista insista la determinazione-formale e la determinazione-materiale, e cioè a dire che consiste insieme l’Universale ed il Particolare, l’Infinito ed il Finito, la Necessità e la Contingenza. Hegel per questo non verrà mai veramente accettato, poiché afferma qualcosa di sbalorditivo trascinando il pensiero oltre le stesse colonne d’Ercole della filosofia e della Logica. Da qui i giudizi sull’Hegel di teologo, metafisico, oscurantista, neo-platonico, reazionario, ed anti-positivista. La scienza infatti che produce il proprio sapere su verità inconfutabili con giudizi logico-analitici, rifiutava il principio della possibilità del principio dell’identità degli opposti: uno o è uno o non è uno; non può essere uno e insieme non-uno, poiché legittimare il principio di contraddizione e quindi dell’identità degli opposti con il rovesciamento e spostamento soggetto-oggetto sarebbe stato inaudito. Quindi il legame d’essenza tra Spirito ed Autocoscienza è un legame d’Essenza reale e realizzato e che in una dimensione contemporaneamente ascensiva e discensiva, allo stesso tempo iscritti entrambi nella duplice teoria della verità circolare hegeliana agisce la dimensione dell’annullamento da parte di Hegel del principio d’identità di Aristotele, e quindi opera la dimensione dell’alterità e quindi la dimensione dialettica, in quanto momento sintetizzante formale e materiale. Motore della dialettica è il non essere del principio d’identità. Ossia è la Negazione, il Nulla, il Non, l’Errore. Osservando che, anche la determinazione materiale è una funzione a questo punto: cioè non è fissata la determinatezza, anche per essa e non solo per lo Spirituale (determinazione formale) vale lo scardinamento del principio d’identità. Il determinato è funzione poiché è dialettico, sciolto ed evaporato accanto e dentro la funzione del “non”, dentro la funzione abrogativa del principio d’identità. Il movimento è appunto insieme centrifugo e centripeto dello spirito: tanto più si ha una coincidenza verticale quanto più, sempre per l’annullamento del principio d’identità da parte di Hegel, lo spirito è fuori di sé, non coincide con sé e quindi è attività centrifuga orizzontale e verticale. Non solo appropriazione di sé come assoluta autocoscienza coincidente con sé o individualità assoluta, ma orizzontalità estrema. Questa dimensione del Geist agisce con tutta la sua potenza nella Logica. Questo ci porta dinanzi, in modo perentorio, alla vexata questio del COMINCIAMENTO in Hegel. Per introdurre il cominciamento logico di Hegel con la Logica dell’Essere (il volume qui tradotto di A. Leonard), occorre partire da un’attenta analisi della Filosofia della Natura. Ossia dall’Identità degli opposti fenomenico-esperienziale, giungendo a quella logico-predicativa, si dispiegano le tre archi-categorie: Essere-Nulla-Divenire. Perché è all’interno della Fenomenologia dello Spirito, con tutte le problematicissime questioni della sua collocazione nell’ambito del quadro sistematico di Hegel nella stessa Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, che si dischiude all’orizzonte, in una sorta di misteriosa propedeuticità, non facilmente coglibile, l’Inizio della Logica. Questa consustanziale presenza dell‘altro come istitutore del Sé in quanto esso non può essere tale e perfettamente coincidente con sé, se non mediante l’altro, porta a tutti i livelli sino all’organizzazione più ampia della soggettività (dalla dimensione empirico-privatistica, sociale e statuale, giungendo poi all’arte, alla religione e alla filosofia). A tutte le latitudini la filigrana dello Spirito è presente, non solo come espressione giustapposta tra ideale e materiale, spirito e natura, ma in una dimensione nella quale lo Spirito è l’insieme delle alterazioni delle figure sensibili, e queste sono a loro volta l’insieme delle trasformazioni di quest’ultima come ultimo momento conclusivo in quanto auto-impossessamento ed auto sapersi assoluto di Sé presso Sé. Questa è l’Idea. Questa è l’autocoscienza come Sostanza ma in quanto trama reale della Realtà. Le categorie non sono astrazioni dalla realtà, ma sono categorie organiche della realtà.

 


[1] Non viene appunto prima il relarsi tra il quaderno ed il libro, il fatto che poi si dica che qui c’è un quaderno e là un libro. Ma a stabilire e a statuire l’identità del quaderno e del libro, è il fatto che il libro per essere tale non può non essere negato e quindi poi affermato in sé e per sé dal quaderno.

[2] Pensando a Banquo, che Hegel cita nello Spirito del cristianesimo e che si eleva a spirito nelle notti e nelle veglie di Macbeth. Il carattere proprio della tragedia di Macbeth è la rappresentazione del dramma della vita quando essa pone di fronte a sé la morte come principio a lei estraneo. Macbeth uccide credendo cha la potenza della morte non appartenga alla sua stessa vita: egli stesso dunque evoca il fantasma di Banquo, reso oggettivo di fronte a sé dalla sua stessa concezione dell’essere della vita come cosa, oggetto cui è estranea la dinamica interna di nascita e morte, intesi qui piuttosto come il prodotto di una essenza esteriore. Nella logica della potenza, infatti, la forza appare la relazione esteriore tra cose, il dominio appare come un atto indipendente dall’essere reciproco del dominatore e del dominato. Così gli dei greci sono potenze interiori all’uomo ed alla vita; gli dei di Macbeth sono essenze esteriori, oggetti di cui egli si fa servo. Qui la bellezza non muore perché non è mai nata: la dinamica che la produce non è neppure stata avviata. Le due tragedie corrispondono alla duplice opzione dell’umanità di fronte alla natura insensata e violenta: dominarla o rappacificarsi con essa. L’essenza del tragico, in entrambi i casi, nasce dalla realtà della vita che è tanto in noi quanto nella natura.

 

[3] La chiave di lettura che legge in Hegel uno Spirito che precede (materia organica-inorganica) e trascende la Natura, che la pone, la crea (teologismo creazionista), intende interpretare Hegel medesimo in termini non “spirituali”, ma “spiritualistici”, ossia in un senso teologico-metafisico. Le critiche di Feuerbach e altri che giudicano Hegel come una sorta di teologo mancato e neoplatonico (esempio della Destra hegeliana che leggerà Hegel come un “onto-teologo”, parlando non solo di panlogismo, ma di una vera e propria teologia panteistico-sostanzialistica), non scorgono invece che la formulazione della dimensione naturalistica in Hegel è una res extensa cartesiana ma rifondata. Nel senso di una res extensa invece che calibrata sulle coordinate delle ascisse cartesiane, di modo che tutto ciò che esiste è dato analiticamente dai giudizi e dalle verità matematico-geometriche che tutto spiegano per l’oggetto che traendo le sue coordinate spazio-temporali fondandolo nella sua esistenza, mediante i concetti chiari ed evidenti, Hegel invece riformula la res extensa cartesiana in modalità logica-antropologico-fenomenologica. Cioè mentre le verità cartesiane esistono grazie al fatto che un Dio non ci inganna e che quindi sottendendo e regolando il reale ci consentono di capire il reale come insieme di punti spaziali-materiali in quanto matematici-geometrici, la verità dello Spirito invece è l’Autocoscienza stessa. Ma senza l’idealismo tetico fichtiano o trascendenza teistica ed emanatista cristiano-platonica, quasi che Hegel sia un neo-platonico del III sec. d.C., come se fosse Hegel produttore e profeta di principi metafisici astratti che scardinano il principio di individualità e di soggettività.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 21. Contrassegna il permalink.