Sulla soglia di casa di Carla Stroppa: una (non) recensione

Pasquale Amato

Ho letto Sulla soglia di casa di Carla Stroppa[1]. Fossi un esperto di psicoanalisi, scriverei una vera recensione, ma non lo sono, e le mie conoscenze su Jung sono sommarie, devo ammettere. D’altronde, l’incontro con la psicologia analitica ha inciso significativamente sul mio modo di esistere, e quindi ho voglia di condividere alcuni stimoli che le riflessioni di Stroppa mi hanno dato. Seguirò l’istinto, e senza troppo strutturare un percorso, mi permetterò di sintetizzare alcune sue pagine che hanno fatto risuonare in me emozioni (ri)conosciute.

“Vado a casa”, diciamo quando siamo stanchi, e sottintendiamo la voglia di rilassarci, di ricaricarci. “Mi sento a casa” vuol dire che siamo in un posto che ci piace, in cui ci sentiamo al riparo, senza tensioni, sereni: casa mia, casa mia… Carla Stroppa punta il compasso sull’idea di casa, e in tante direzioni ne sviluppa il senso, disegnando cerchi diversi ma concentrici, a quell’idea riconducendo esperienze analitiche di vario rilievo che le ispirano pensieri pratici, di buonsenso psicoanalitico.

Partiamo dalle basi. La casa prospetta un dentro e un fuori. È rifugio che ci accoglie, o prigione che ci spaventa: «La casa è una necessità essenziale e, né più né meno, è un pericolo essenziale»[2]. Implica, in ogni caso, una soglia da varcare in entrata o in uscita. “Sulla soglia di casa” si sta nella possibilità fisica di uscire o entrare, di perlustrare il dentro o il fuori, si sta in una metafora della scelta (a cui la vita continuamente ci costringe) tra il partecipare al mondo assumendone i rischi e l’esplorarsi dentro assumendone i rischi. A questa immagine metaforica l’autrice riconduce le esperienze dei suoi analizzati, individuando e interpretando le difficoltà psichiche sottintese nei loro racconti. Ecco la sintesi (bella, così senza una virgola, tutta d’un fiato) di quelle esperienze: «Ci si può perdere sia rimanendo sempre dentro che cercando sempre fuori e sia dentro che fuori ci si può salvare»[3].

I tanti che, non riuscendo a rispecchiarsi nei canoni di comportamento dell’epoca contemporanea, si perdono e si ritrovano “senza casa” pur non mancando di capacità pratiche e intellettive, sono verosimilmente stati vittime di traumi infantili che hanno causato una scissione intrapsichica. Disconosciuti nella propria identità, corrono il rischio reale di un disadattamento che li rende «inetti e malati, pieni di aggressività non riconosciuta, persino disposti a morire o a uccidere»[4] e quindi pericolosi per se stessi e per gli altri. A loro (e a chiunque vada in analisi), l’autrice suggerisce si dedichi un assetto analitico che concili le spiegazioni archetipiche con la loro storia individuale, criticando quegli interpreti di Jung che assolutizzano l’approccio mitopoietico (approccio a cui pur attribuisce un’indiscutibile ricchezza formativa) e che trascurano l’esperienza di vita dell’analizzato.

Ogni cosa è vera ed è vero il suo contrario: il riduttivismo che non tiene conto della complessità può essere mortale come l’astrazione archetipica che non tiene conto delle declinazioni della storia individuale, tuttavia entrambi questi sguardi offrono una chiave di lettura importante e ineludibile. Si tratta di capire quando deve prevalere l’una o l’altra e come si intrecciano fra di loro.[5]

È necessario accettare, peraltro, che l’analisi non può restituire tutto l’amore materno perduto, ma l’autentico interesse per i vuoti affettivi che l’altro in qualche modo racconta può generare una compensazione almeno capace di rimettere in moto lo slancio vitale in lui sopito. «Conta soprattutto l’autenticità dell’interesse umano per chi ci si trova di fronte»[6], si ribadisce più avanti, e questa “umanistica” impostazione del rapporto analitico ritorna, costante, nella narrazione che si snoda capitolo dopo capitolo, sempre connessa alle diverse declinazioni dell’idea portante di casa.

Mi preme dire sin d’ora che, in tutto il testo, la riflessione ricca e stimolante dimostra (prevedibilmente) la profonda conoscenza del pensiero junghiano da parte dell’autrice, ma anche una solidità e una serenità intellettuale che le permettono di metterne a fuoco sfumature critiche, e di proporre in merito – senza riserve – ritocchi considerevoli ai fini analitici.

Inconsciamente impegnato nella ricerca impellente di una “casa accogliente e rassicurante” che compensi l’infantile dolore per la mancanza di una madre “sufficientemente buona” – «sto proprio parlando di mancanza di cure primarie, abbandono, solitudine dell’infante di fronte al mondo»[7] –, il soggetto cui fu negato un “buon latte materno” continua, da adulto, a cercarlo negli altri, spesso a discapito dell’impulso erotico che un normale interesse sessuale dovrebbe liberare. Chi ha subito tale privazione, allora, compie l’errore di aspettarsi dal proprio partner, con dispetto e pressione crescente, l’amore incondizionato che solo un genitore avrebbe potuto dargli e che, implicando simbiosi, ostacolerebbe gli effetti erotici di una libera curiosità per le differenze dell’altro.

La soluzione, ammesso e non concesso che sia sempre possibile, sta nel guardarsi dentro e nel rendersi conto che tutta quella carica di rancore e di richiesta non può essere destinata al partner che da parte sua ha tutto il diritto di essere quello che è, con i suoi pregi e i suoi limiti.[8]

L’esito positivo del difficile e delicato passaggio dall’essere bambino all’essere adulto richiede l’incontro con adulti equilibrati, che sappiano conciliare la logica con la capacità analogica di un bambino. Bisogna insomma diventare adulti senza perdere quella visione che richiede «il senso della totalità, della creatività e quella sensazione di essere realmente vivi che si prova»[9] da piccoli. È nondimeno auspicabile un’apertura alla vita che faciliti il cammino “verso casa”, ovvero il conseguimento di una piena coscienza di sé attraverso il “sacrificio” sereno e consapevole di possibilità alternative alle scelte che definiscono la propria identità. Scegliere, d’altro canto, richiede la capacità di combinare i criteri della realtà con quelli dell’immaginazione, il sogno con la realtà, per riuscire a “pensarsi e progettarsi”, per raggiungere l’autentico sé e farlo crescere nello scambio con gli altri.

Avviene anche in analisi: le storie vere si intrecciano a quelle inventate e lo sappiamo. Operiamo sempre a partire da questa consapevolezza che nulla toglie all’autenticità del percorso: siamo animali simbolici e corteggiamo sempre la vocazione poetica a cantare la verità del sé attraverso l’intreccio tra verità storica e finzione narrativa. Lì siamo a casa nostra.[10]

Eh, sì: se posso dire, lì mi sento a casa anch’io.

E così via, passando attraverso tante altre raffigurazioni di case, tanti giardini in cui riflessioni variamente colorate fioriscono, profumate di emozioni diverse, toccanti.

Penso alle pagine, a me particolarmente care, in cui la scrittura letteraria – «Lo scrittore invita nella sua casa le quattro funzioni psichiche che Jung ha descritto con geniale maestria: il sentimento, la sensazione, l’intuizione e il pensiero.»[11] – è acutamente intesa come gioco associato all’elaborazione onirica, tramite il quale il narratore declina «la propria “equazione individuale”»[12]. Laddove la gratificazione del logos ottenuta con la scrittura erudita può causare – Jung insegna – una scissione tra il zigzagante muoversi del pensiero emotivo e il procedere rettilineo dell’intelletto, e dunque un assottigliamento della propria identità, la cui pienezza esige quel “sapere dell’anima” che ci disponga anche a tornare nella «casa in cui il danno psichico si è prodotto»[13].

E penso alle annotazioni sulla comprensione improvvisa e illuminante di un nesso originario tra la persona che siamo e la casa della nostra infanzia in quanto «fonte di ogni nostalgia, teatro del dispiegarsi dell’immaginazione dove accadono le cose migliori e le cose peggiori che imprimono il loro marchio nella personalità»[14].

E ancora ai brani in cui Carla Stroppa suggerisce, prudente, di considerare il contesto analitico come un laboratorio alchemico in cui sperimentare «quelle idee che formano un possibile orizzonte di senso della psiche individuale e della società»[15], anziché come luogo dove cercare esemplari modi d’essere di società e individuo, riaffermando a tal proposito la conciliazione necessaria tra realtà e immaginazione, ma anche promuovendo la percezione unitaria dell’anima individuale e dell’anima del mondo.

Oppure all’allegoria delle ali che a volte, a persone particolarmente sensibili e creative, “spuntano davvero”, perché possano stazionare «sulla soglia della casa dell’Angelo che altro non è che la casa dell’Anima»[16]. Qui si inserisce l’idea di «doppio binario tra psicologia individuale e psicologia della collettività»[17], con un riferimento a quelle sofferenze psichiche delle quali Jung approfondì la ricerca fino a riscontrarne il rispecchiamento in ambito sociale e culturale.

Trovo fondamentale e sempre attuale l’intuizione secondo la quale in certi individui, particolarmente percettivi, la nevrosi personale, lungi dall’esaurire le proprie ragioni all’interno delle cause legate al romanzo familiare, si fa specchio e risonanza della nevrosi del tempo storico in cui si trovano a vivere.[18]

Colgo un ultimo pensiero di Stroppa che, citando Metamorfosi di Franco Rella (Moretti & Vitali, Bergamo 2013) e, in particolare, il capitolo “Due mondi, cioè due verità”, riflette sulle difficoltà con le quali ogni individuo abita “coscientemente la contraddizione” tra immanenza e ricerca di trascendenza, richiamando le diverse modalità in cui l’uomo contemporaneo insegue qualcosa che vada oltre la concretezza del mero vivere quotidiano, e altresì paventando le alterazioni psicologiche cui una distorta idea di trascendenza può condurre. «L’essere umano ha bisogno di una casa terrestre e una celeste»[19], ci ricorda, ma tenersi in equilibrio tra i bisogni materiali della pura sopravvivenza e le spinte cui l’immaginazione ci sottopone esige la capacità matura di un “doppio sguardo” che sappia vedere «il dritto e il rovescio delle cose, o se vogliamo il loro lato destro e quello sinistro nella loro pregnanza simbolica»[20].

Penso sia proprio giunto il momento di concludere questa mia escursione, volutamente breve e frammentaria. Perché non ho dubbi: meglio non perdere tempo con le mie chiacchiere, e passare prima possibile alla lettura dell’originale.

 


[1] Carla Stroppa, Sulla soglia di casa, Moretti & Vitali, Bergamo 2019.

[2] Ivi, pag. 16.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, pag. 58.

[5] Ivi, pag. 60.

[6] Ivi, pag. 66.

[7] Ivi, pag. 67.

[8] Ivi, pag. 69.

[9] Ivi, pag. 80 (nota 45: M.L. Von Franz, L’eterno fanciullo, Red. Como 1970, p. 24).

[10] Ivi, pag. 86.

[11] Ivi, pag. 98.

[12] Ivi, pagg. 98-99.

[13] Ivi, pag. 99.

[14] Ivi, pag. 100.

[15] Ivi, pag. 135.

[16] Ivi, pag. 159.

[17] Ivi, pag. 162.

[18] Ivi, pag. 160.

[19] Ivi, pag. 222.

[20] Ivi, pag. 225.

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