Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 7

  1. Finitudine e Colpa (I)

Il secondo momento della Filosofia della volontà si presenta come un diverso approccio: la neutralità dell’ontologia fondamentale dell’uomo – innocente o meno – aveva richiesto una sospensione della colpa che ora, rientrando in gioco, induce la trasformazione dell’analisi in una empirica dell’uomo finito e colpevole, e impone un adeguamento del metodo.

Ricœur prospettava in tal senso una Poetica della volontà, una mitica concreta, ma ora ammette che il mito mal si addice al discorso filosofico, e si domanda quale sia un modo che possa avvicinare le due prospettive.

I miti che ci parlano della colpa e del male, a cui si può accedere mediante lo studio comparato delle tradizioni religiose, resistono a una diretta trasposizione nel discorso filosofico, rivelandosi elaborazioni secondarie di un linguaggio in cui le espressioni che significano la colpa sono sempre indirette, sono sempre figurate. Ricœur individua il fondamento del racconto mitico nel linguaggio della confessione, la cui peculiarità è di essere «da cima a fondo un linguaggio simbolico»[1].

Il filosofo che si addentri nei «miti della caduta, del caos, dell’esilio, dell’accecamento divino»[2], deve prestare allora attenzione a questo linguaggio che, pur parlandogli in codice, si offre ad una possibile comprensione.

Quella che Ricœur stesso aveva prospettato come mitica della volontà malvagia assume, dunque, le dimensioni più ampie di una simbolica del male, permettendo «l’inserimento dei miti nella conoscenza che l’uomo acquista di sé»[3] attraverso una ermeneutica filosofica che ne consenta la decifrazione.

La considerazione della colpa fa emergere la fallibilità come debolezza costituzionale dell’uomo e introduce la consapevolezza della possibilità del male. Il concetto di fallibilità si connota come fascia di confine tra l’antropologia filosofica e la simbolica del male, così come la simbolica del male fa da tramite fra mito e discorso filosofico; in questa zona intermedia si comprende l’ingresso del male nel mondo ad opera dell’uomo stesso, ma oltrepassando tale limite «inizia l’enigma di un punto di insorgenza, e il discorso non può essere che indiretto e cifrato»[4]. L’origine del linguaggio della confessione, quindi, sembra situarsi nell’enigma di una incapacità per l’uomo di inoltrarsi nella sua profondità se non in termini di analogia, «come se la coscienza di sé potesse esprimersi alla fine solo per enigmi»[5], sottraendosi, per costituzione, ad una lettura che non fosse interpretazione.

L’unità dialettica di volontario e involontario trova, nella simbolica del male, una collocazione più idonea come «struttura di mediazione tra il polo della finitezza e quello della infinità dell’uomo»[6], la cui essenziale fallibilità risulta concetto centrale di una teoria che non può essere metodologicamente omogenea all’eidetica della volontà e che, per poter accedere ad un contesto che è simbolico, deve ricorrere all’ermeneutica.

La simbolica del male, in conclusione, «indica come si possa rispettare la specificità del mondo simbolico di espressione e al tempo stesso pensare, non “dietro” al simbolo, ma “a partire” dal simbolo»[7].

La ricerca nell’ambito dei temi mitici del male sembra comunque collegata alla considerazione – che va ad integrare l’ontologia fondamentale dell’uomo – del servo arbitrio inteso come libero arbitrio ostacolato dal non-essere specifico del male. Per poter comprendere in maniera completa il problema del male nell’uomo, osserva Ricœur, la riflessione filosofica dovrebbe effettivamente esaurire quella visione etica del mondo verso cui viene proiettata dall’assunzione della simbolica del male, dovrebbe cioè spingersi più a fondo possibile nella comprensione del male per mezzo della libertà e, viceversa, della libertà mediante il male.

Una difficile impresa, questa, conseguente alla «decisione di entrare nel problema del male attraverso la porta stretta»[8], cioè alla scelta di una prospettiva che, pur non togliendo il dubbio di un’origine umana o non umana del male, ne considera comunque l’umanità come spazio di manifestazione. Anche questa è libertà, ci dice Ricœur: libertà che si mostra responsabile attraverso il riconoscimento dello spazio in cui il male si manifesta, «che dichiara di considerare male il male commesso, e confessa che dipendeva da lei che non lo fosse»[9]. È attraverso questa confessione che l’uomo si mostra, oltre che come luogo, anche come autore del male.

Confessando la sua responsabilità, e quindi prendendone coscienza, la libertà si attribuisce il problema del male e può raggiungerne i confini dell’origine radicale, qualunque essa sia.

Ma, in più, l’uomo accede così ad una significativa comprensione di sé e della propria libertà: «la confessione della colpa è al tempo stesso la scoperta della libertà»[10]. L’ammissione di colpa, ci persuade Ricœur, fornisce maggiore spessore alla coscienza che, oltre al futuro aperto dallo slancio del progetto, scopre il passato del rimorso che le procura la «certezza di una possibilità di rigenerazione»[11]; l’io acquista, inoltre, un suo senso di continuità, anche perché la coscienza di colpa, facendo «appello all’io originario»[12] attraverso il riferimento alla sua «causalità totale e semplice»[13], ne ricostituisce, al di là dei suoi atti singoli e, nel contempo, in quegli stessi atti (poiché lo rendono accessibile), il senso di integralità cui aspira.

In tutte queste articolazioni della coscienza di colpa risiede la «grandezza della visione etica del mondo»[14], mentre proprio una simbolica del male ne mette in luce il limite: è vero che l’uomo pone il male nel mondo, ma, d’altro canto, «lo pone solo in quanto cede all’urto dell’Avversario»[15].

Questa simbolica del male, nello stesso modo in cui il simbolo “fa pensare”, fa pensare «la grandezza e il limite di ogni visione etica del mondo»[16]: essa è l’evocazione di un uomo vittima quanto colpevole.


[1] Ricœur P., Filosofia della volontà ii. Finitudine e Colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 57.

[2] ivi, p. 56.

[3] ivi, p. 56.

[4] ivi, p. 58.

[5] ivi, p. 57.

[6] ivi, p. 58.

[7] ivi, p. 59.

[8] ivi, p. 61.

[9] ivi, p. 62.

[10] ivi, p. 63.

[11] ivi, p. 63.

[12] ivi, p. 64.

[13] ivi, p. 63.

[14] ivi, p. 64.

[15] ivi, p. 65.

[16] ivi, p. 65.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 21. Contrassegna il permalink.