A. Foladori: Recensione

Recensione: AA.VV., Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti, a cura di E. Grazioli e R. Panattoni, Moretti & Vitali, Bergamo 2016.

 

Alessandro Foladori

 

Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti è il secondo volume della collana Imm’ – cultura dell’immagine, progetto editoriale diretto da Elio Grazioli, Riccardo Panattoni e Marco Belpoliti.

Quella di Imm’ è un’iniziativa coraggiosa che finora si è proposta di curare dei montaggi di testi e immagini non privi della loro autonomia, utilizzando come fil rouge una tematica propria per ogni volume. A sua volta ognuno di tali volumi prende il suo posto all’interno di un contenitore il cui proposito è quello di offrire al panorama italiano uno strumento di indagine e riflessione sul tema delle immagini intese nel senso più ampio del termine, e in generale sulla cultura visuale. Ciò va a raccogliere la sfida di quella pictorial turn annunciata dopo e contro la linguistic turn di Richard Rorty, e che può contare tra i suoi pensatori più noti nomi come Georges Didi-Huberman, Hans Belting e William J.T. Mitchell, tanto per citarne tre di differenti nazionalità.

«L’analfabeta del futuro – è stato detto – non sarà chi non sa scrivere, ma chi non conosce la fotografia»[1], diceva Walter Benjamin citando László Moholy-Nagy, ed è per questo – per il fatto che sempre più sembriamo incarnare la generazione additata da quel «futuro» – che il proposito di Imm’ mostra tutta la sua urgenza e la sua contemporaneità, cercando tramite le immagini una via non pretestuosa di accesso al presente. Una lente per guardare il reale. Questo, però, con la piena consapevolezza che non è un oggetto facile – e forse nemmeno un oggetto –, quello che qui si intende interpellare:

L’immagine è infatti un fenomeno complesso, viene trattata come un documento, come se questo fosse un fatto scontato, ma al tempo stesso l’immagine non rappresenta, non sta al posto di altro, non testimonia, ma indica, lascia intravedere, deforma, porta al limite, introduce pensiero, svela lo sguardo, si stacca dal reale come un profumo, uno spettro, un desiderio, come un enigma. Richiede così un supplemento di attenzione alle sue opacità, ripetizioni, raggiri[2].

Non è un caso allora che Imm’ si concentri su dei media come la fotografia e il cinema, che faticano a trovare la propria collocazione, tra chi prova a legittimarne il carattere estetico e assegnare loro un posto nella classificazione semiotica di Peirce[3]; e chi invece ne cerca lo statuto ontologico e infine fallisce, alludendo forse al fatto che esso non esiste[4]. Tali immagini sono dunque inassegnabili, implicando uno spazio e un tempo complessi e intricati, così come una funzione e un valore d’uso molto differenti da quelli di un segno in senso lato, cioè come qualcosa che sta al posto di altro e vi rinvia rappresentandolo. E anche se si potrebbe dire, giocando un po’ con le parole di Bergson, che le immagini assomigliano a quei «centri di indeterminazione» che egli chiama corpi, le cose non diverrebbero più semplici. Infatti l’immagine non è il supporto su cui si staglia, il suo “corpo” materiale, e tuttavia non potrebbe esistere senza di esso: «i quattro angoli del foglio sono più che un semplice limite fisico, sono delle premesse logiche»[5] o delle condizioni di possibilità, esse stesse condizionate dall’immagine che ospitano. Decentrate, sfasate, insintetizzabili: le immagini intrattengono un difficile rapporto tanto con loro stesse quanto con i nostri sguardi che richiamano come un canto muto di sirena, lasciandoli vagare sul loro corpo senza smembrare le proprie vittime, ma anche senza concedere la pacificazione di una risposta. Continuano a piegarsi e ripiegarsi su di sé, sfuggendo ogni attribuzione e ricostellandosi tra loro in modi nuovi e imprevedibili. Tra le immagini, gli sguardi e i corpi così implicati si intesse tutto un gioco di prensioni, di scarti, di innesti e di memorie. Condivisione senza appropriazione.

In tutte le immagini e i testi, molto eterogenei tra loro, raccolti in questo secondo volume di Imm’ sembrano intrecciarsi proprio tali tematiche, già preconizzate da titolo e sottotitolo. Compresi in quest’ultimo non avrebbero sfigurato lemmi quali “soglia” o “montaggio”. Se Roland Barthes poteva sostenere che la didascalia non è una contingenza della foto, bensì un suo elemento strutturale, una delle sfide che qui viene lanciata si spinge ancora oltre e cerca di pensare la compresenza, la sovrimpressione, tra immagine e testo posti in reciproca deterritorializzazione, là dove l’immagine non si limita ad essere il commento già saputo – la cui visione è quindi superflua – di una scrittura da capire, e le parole non significano più ciò che paiono dire, portando con ciò ad un tentativo di decostruzione del potere di quello che Jacques Lacan avrebbe potuto chiamare «registro del Simbolico». All’interno di un progetto che già nel suo “manifesto” ha la pretesa di non prendere le immagini come illustrazioni opportune per spunti teorici già formulati, ma di far emergere la scrittura dalla visione, dedicare un tomo a questo tema è quasi un gioco di scatole cinesi, a testimoniare anche in questo senso uno scarto nel cuore di ciò che appare il medesimo e, che in questo stesso movimento, si carica di intensità.

Così il libro si può leggere nell’ordine proposto dai curatori o, in altro modo, si può rileggere e trovare i propri percorsi tra le immagini e le parole. Qualcosa si fisserà e altro scivolerà via. Resterà comunque l’esperienza del percorso fatto e il sospetto di quelli possibili e non intrapresi. Con necessarie elisioni, si intende comunque proporre in breve una modalità di lettura, proprio a partire dal confronto-scontro tra scrittura e immagine accennato poc’anzi.

Forse tale tema è interpellato nel modo più radicale dal contributo di Nicola Turrini e dalle ultime battute di quello di Gianluca Solla. Quest’ultimo, dopo aver condotto l’analisi di Entracte di René Clair, si sofferma quasi fuori tempo massimo, qualche pagina dopo la conclusione delle quattordici tesi programmaticamente dedicate al film, sugli ultimi fotogrammi della pellicola in cui «la scritta FIN viene lacerata da un attore (il mago) che attraversa dal retro il foglio su cui è tracciata, andando verso la cinepresa per essere poi ricacciato da una pedata dietro al fondale che si ricostituisce integro»[6]. Questa breve sequenza da sola basta a creare una vertiginosa mise en abyme in cui testo e immagine cadono assieme, pur senza mai coincidere. Se infatti il testo è al contempo leggibile e filmato, sdoppiandosi in quanto lettera e fotogramma e schizzando altrettanto l’occhio di chi legge, d’altro canto il foglio viene strappato da un attore. Verrebbe da chiedere se il corpo di qualcuno che per definizione agisce laceri assieme al foglio e alla possibilità di lettura anche il significato di FIN, oltre al quale non dovrebbe accadere più nulla. Parrebbe di sì, dato che l’azione prosegue, e contemporaneamente no, poiché la scritta viene ricostituita e il cortometraggio si conclude. Testo e immagine qui si confermano e smentiscono a vicenda, in una reciproca cattura e sospensione che non vede vinti se non gli spettatori, nei cui occhi lo spettacolo continua ancora un poco dopo la fine.

Di tenore quasi opposto il testo di Turrini sembra suggerire la possibilità di un divorzio assoluto tra le sfere dell’immagine e del significato. Egli si concentra sul lavoro di Fernand Deligny, che dagli anni ’60 ha sperimentato modalità di approccio con bambini autistici basate sul rifiuto di qualsiasi impostazione psichiatrica e psicanalitica. Quelle di Deligny erano comunità prive di intenti quali il recupero o l’integrazione sociale, bensì dei luoghi di «presa in carico in cui veniva offerto ai bambini uno spazio vitale, rispettoso del proprio ritmo, compatibile con il loro modo d’essere singolare, con la loro specifica forma-di-vita»[7]. È in questi anni che a Deligny viene restituita con forza l’esperienza di un’accessibilità nulla del mondo autistico per il tramite del linguaggio e deve così «assumere l’evidenza spaventosa del crollo del proprio sapere e della propria lingua»[8]. È probabilmente per questa stessa ragione, per l’impossibilità di dire quello che vedeva, che Deligny non era portato a descrivere o raccontare la vita in comunità. Piuttosto girava dei film o disegnava delle cartografie. Nei primi la cosa che salta all’occhio con più forza è la giustapposizione senza comunicazione tra gli adulti e i ragazzi: è come vedere la compresenza di mondi che non si possono incontrare – separati forse dal Simbolico –, ma che possono funzionare assieme. Indimenticabile da questo punto di vista la scena in cui è necessario pesare dei quantitativi di impasto e viene data la bilancia a un ragazzo autistico. Questi sembra quasi diventare il fulcro in un vero e proprio innesto macchinico che nell’arco di tempo di qualche fotogramma rende fluido il confine tra persone e cose e solleva quindi delle domande sui processi di soggettivazione, su cosa faccia un soggetto. D’altronde è forse la sottotraccia più forte del testo quella che si interroga su che luce lanci la comprensione – meglio si direbbe la visione – dell’autistico sui soggetti normotipi. A loro volta le cartografie riportano ciò che Deligny chiamava linee derranza, ovvero il percorso quotidiano dei bambini. Nel sovrapporsi delle linee, nella loro stereotipia e nelle loro deviazioni immotivate, quello che emerge è l’immagine fissa e muta di una vita in movimento.

I rapporti tra testo e immagine diventano anche la testa di ponte per indagare il funzionamento della memoria e i suoi rapporti con la Storia soprattutto nello scritto di Christian Delage e Vincent Guigueno, da un lato; e dall’altro in quello di Muriel Pic. Rispettivamente i primi si interrogano sulla relazione d’amicizia e l’intreccio dei lavori dello scrittore Georges Perec e del cineasta Robert Bober, mentre la seconda ripercorre l’utilizzo delle fotografie nell’opera letteraria di Winfried G. Sebald. En remontant la rue Vilin di Bober è un film che cerca di avvicinare l’amico alternando testi da lui scritti a riprese e fotogrammi per risalire la via in cui Perec sa di aver vissuto i primi sei anni della sua vita. Se già lo stesso Perec per tutto il corso della sua esistenza ha lottato contro l’oblio e la riappropriazione di quella via d’infanzia può fare da sfondo a un imponente impegno letterario, il lavoro di Bober si configura al contempo come omaggio e soccorso postumo prestato allo scrittore. È un prendere possesso dei pezzi di puzzle lasciati indietro e incompiuti per rimetterli assieme in altro modo: la vera e propria creazione di una memoria. L’attualizzazione di qualcosa che non è stato vissuto dal fondo di un altro tempo. Anche in questo caso si può parlare della necessaria confusione tra il vero e il falso, ma questa volta è lo scorrere della sabbia nella clessidra che, con gli anni, metamorfizza i ricordi e stringe un patto con la dimenticanza, aprendo così lo spazio alla potenza della fabulazione. Un progetto incompiuto di Perec, Lieux, prevedeva la descrizione di dodici luoghi parigini con una tecnica tale che, in capo a un anno, avrebbe avuto per ognuno due scritti: uno “in presa diretta”, e l’altro in forma di ricordo. La cosa si sarebbe dovuta ripetere per dodici anni e i testi sarebbero stati letti tutti insieme solo alla fine. Per Perec questo era il sistema letterario per restituire la misura del tempo che passa, includendo in esso il tempo della scrittura. Sarebbero invecchiati i luoghi, sarebbe mutato lo stile dell’autore e la sua memoria di quei posti. «La presenza del passato prende una piega inattesa, quella di un luogo che si rivela nella sua lenta agonia, una “scrittura tenace” che rifiuta di sparire»[9]. E così il riavvicinamento (che è anche creazione) all’infanzia non può fare a meno della decrepitezza di luoghi maltrattati dal tempo e in esso congelati.

Nel suo contributo Muriel Pic cerca di seguire la caccia ossessiva a una memoria probabile di un altro letterato: Sebald. In questo caso però è in gioco una dialettica continua di movimento e fermo immagine, come quando il protagonista di Austerlitz cerca di rivedere sua madre in un filmato trovato in archivio, ma non riesce a coglierla nello scorrere della pellicola, rimanendone invece catturato quando esamina le immagini al rallentatore. Eppure un’immagine che sia davvero esperienza dello sguardo deve poter essere rimessa in moto, deve essere immagine dialettica come direbbe Walter Benjamin. In sé e nel montaggio fulmineo con un’altra immagine, che va così a generare lo spazio di un rapporto infinito. Qualcosa di simile aveva provato a fare Jean-Christophe Bailly in un bellissimo libro[10] che prendeva lo spunto da un fatto autobiografico: una fotografia di Fox Talbot gliene aveva fatta rammemorare un’altra, scattata a Hiroshima. Stessa esperienza nel lavoro di Pic su Sebald, dove l’immagine di un’ombra di farfalla richiama la sagoma di un velivolo da guerra sullo sfondo delle luci del cielo notturno di Amburgo:

Montare l’immagine della farfalla e quella di un apparecchio di distruzione bellica significa cogliere l’orrore della guerra nello choc tra due realtà, due immagini radicalmente opposte e, tuttavia, somiglianti. Per evitare l’iconoclastia di ogni grande distruzione della vita l’immagine deve quindi restare lì, nello sguardo catturato da una somiglianza, lo sguardo che, capace di empatia, può ricordarsi, non dimenticare, far sopravvivere[11].

Della manipolazione e riattualizzazione della immagini si occupano anche i testi di Daniela Angelucci e Mark Godfrey: la prima ragiona sui film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, coppia di artisti che rifilma e rimonta pezzi d’archivio senza restaurazione e soprattutto a tematica bellica, mostrando con lo scorrere della pellicola anche lo scorrere del tempo e producendo nella messa in relazione di tali immagini lo stesso choc visto a proposito di Sebald. Il secondo analizza Floh, libro d’artista composto da Tacita Dean che raccoglie fotografie riscoperte nei mercatini delle pulci, collezionate e poi assemblate con il solo criterio del fascino esercitato su Dean stessa. Questo tipo di manipolazione, apparentemente tanto soggettiva da risultare individualistica, in realtà rivela qualcosa di profondamente comune nel momento in cui chiunque sfogli il libro vi può trovare i propri percorsi, i propri incanti, i propri affetti.

Un po’ come si può fare con questo volume di Imm’, di cui alcuni motivi si sono qui fin troppo brevemente riassunti e che resta una scommessa editoriale di notevole portata. Dalla memoria alla Storia, dall’aspetto esistenziale a quello sociale e politico, tutto può essere avvicinato e approfondito dal punto di vista delle immagini, ed è per lo stesso motivo che farlo sembra essere al contempo necessario ma non privo di rischi. Un’operazione collettiva di simile portata potrebbe dunque essere colta attraverso una frase tratta dalle Note sull’infrasottile di Duchamp, cioè come una «società anonima dei vettori d’ombra rappresentata da tutte le fonti di luce»[12].

Note

[1] W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., Aura e choc, Einaudi, Torino 2012, p. 244.

[2] E. Grazioli – R. Panattoni, Introduzione a Aa. Vv., Not straight. Documento, piega, inganno, a cura di E. Grazioli e R. Panattoni, Moretti & Vitali, Bergamo 2015, p. 7.

[3] Cfr. R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, B. Mondadori, Milano 2000.

[4] Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.

[5] R. Krauss, Linconscio ottico, B. Mondadori, Milano 2008, p. 45.

[6] G. Solla, Divenire doppia: Entr’acte e lapparizione dellimmagine. 14 tesi + una, in Sovrapposizioni, cit., p. 41.

[7] N. Turrini, Come lacqua e la pietra, in Sovrapposizioni, cit., p. 91.

[8] Ivi, p. 93.

[9] Ch. Delage – V. Guigueno, Ciò che è dato a vedere, ciò che possiamo mostrare, in Sovrapposizioni, cit., p. 87.

[10] Cfr. J.-Ch. Bailly, Listante e la sua ombra, B. Mondadori, Milano 2010.

[11] M. Pic, Immagine-farfalla e rallentatore: W.G. Sebald o lo sguardo catturato, in Sovrapposizioni, cit., pp. 122-3.

[12] M. Duchamp, Note sullinfrasottile, in Sovrapposizioni, cit., p. 45.

 

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