Pasquale Amato
Nel rapporto fra certezza e verità, Emanuele Severino coglie la chiave di lettura della storia della filosofia per Hegel, un rapporto che si articola nella progressione di tre diversi atteggiamenti:
- dapprima il pensiero filosofico è affermazione immediata dell’identità di verità e certezza;
- poi è affermazione dell’opposizione di verità e certezza;
- e infine è il superamento di questa opposizione, ossia è l’affermazione mediata dell’identità di verità e certezza.[1]
Per certezza intendiamo ciò che è saputo, ciò che è pensato, la nostra percezione delle cose: in quanto pensiero, la certezza è una determinazione soggettiva, uno stato del pensare. Per verità, invece, intendiamo ciò che è, le cose in sé: in quanto determinazione oggettiva, la verità è uno stato delle cose, è l’essere.
Teniamo preliminarmente conto anche della notazione che assimila il senso comune al realismo: la filosofia realistica non è altro che la riflessione sulla corrispondenza diretta tra certezza e verità, corrispondenza che l’uomo comune, prescindendo da una visione filosofica, dà per scontata. Il realismo filosofico è dunque affermazione dell’identità immediata di verità e certezza, e il senso comune, poiché reputa ovvia e sottintesa tale identità, esprime un realismo ingenuo.
Il realismo – ingenuo o filosofico che sia – presuppone che il mondo in cui viviamo sia esterno alla nostra mente ed esista in sé: noi siamo convinti, allora, che le cose esistono a prescindere dalla percezione e dalla coscienza che ne abbiamo, cioè indipendentemente dal fatto che le pensiamo (“Non è il pensiero che crea la verità, esso solo la scopre: la verità esiste quindi in sé anche prima che sia scoperta”, dice Agostino). Non abbiamo dubbi, inoltre, sul fatto che, pur non conoscendo tutto del mondo, ciò che conosciamo appartiene effettivamente al mondo che osserviamo e sul quale riflettiamo: il «mondo è sì indipendente ed esterno alla nostra mente, ma si mostra alla nostra mente, ossia è conoscibile in certi suoi tratti»[2], perciò è per noi ovvio «che la realtà, indipendente dalla mente e ad essa esterna, sia peraltro accessibile alla nostra conoscenza»[3].
In prevalenza, la filosofia greca e quella medioevale erano filosofie realistiche, basate sugli stessi presupposti, sulle stesse convinzioni espresse, anche oggi, dal senso comune, dal modo di pensare ordinario, non filosofico. Sulla base dell’identificazione immediata tra certezza e verità, le filosofie antiche affermavano che il pensiero (certezza) può conoscere la realtà (verità): la ragione umana può, superata l’opinione ingannevole (doxa), essere illuminata dall’episteme e riconoscere il vero (aletheia). La realtà coincide con il contenuto del nostro pensiero, con l’idea che della realtà abbiamo; la certezza combacia quindi con la verità. Il mondo vero, cioè esistente in sé, è ciò che il pensiero pensa; la cosa percepita e pensata dall’uomo corrisponde alla cosa in sé.
Poi arriva Cartesio.
Cartesio si domanda: se è vero che la realtà in sé delle cose, l’essere del mondo, è indipendente dal nostro pensiero, allora come possiamo essere sicuri dell’identità di certezza e verità? Per primo, separa la certezza dalla verità, le pone in opposizione problematica e, in atteggiamento critico verso la tradizione realistica, ingenua e filosofica, si chiede: come essere sicuri che le cose pensate siano le cose stesse? Pur negando la corrispondenza immediata tra certezza e verità, però, non ne esclude la possibile affermazione mediata e, contro la negazione scettica di qualsiasi verità, riconosce una verità originaria da cui partire: cogito, ergo sum. Dubito di tutto, quindi penso perché, proprio nel rendermi conto che certezza e verità potrebbero non coincidere, verifico che il mio pensiero esiste e, assodato che penso, io esisto e quindi sono.
Conviene qui soffermarsi sul concetto di idea, e sulle differenti sfumature che lo caratterizzano nella prospettiva realistica e nella visione moderna.
Per il realismo, l’idea (il pensiero) è ciò con cui si conosce (id quo conoscitur), è una certa determinazione della realtà che alla realtà nulla aggiunge – per il senso comune, infatti, un’idea esiste solo nella nostra mente, non è realtà –, e tuttavia corrisponde direttamente, immediatamente alla realtà, alle cose che, fuori e indipendenti dal nostro pensiero, esistono in sé.
A partire da Cartesio, invece, e in generale per la filosofia moderna fino a Kant, l’idea è il contenuto immediato del pensiero, è ciò che è conosciuto (id quod conoscitur). Cioè a dire: la filosofia moderna afferma che l’uomo può conoscere solo la rappresentazione, il pensato, l’immagine soggettiva della realtà (per Cartesio, l’“essere oggettivo”), ciò che corrisponde – solo mediatamente – alla realtà in sé (l’“essere formale”). Le cose che stanno davanti e intorno a noi, le cose che costituiscono il nostro mondo, per la filosofia da Cartesio a Kant, sono pertanto tutte idee – e perciò le cose in sé costituiscono un problema –; e sono sempre idee, ma di tipo diverso, la realtà e l’idea (cosa non reale) in senso realistico.
Per la filosofia moderna il “mondo esterno” è la verità opposta alla certezza; per il senso comune il “mondo esterno” è il contenuto immediato della certezza. Ormai è chiaro che il “mondo esterno”, così inteso (inteso cioè come questo mondo che ci sta davanti), è interno alla coscienza, sì che il vero mondo esterno è ciò che sta al di là delle nostre rappresentazioni, e la cui struttura si pone dunque come un problema.[4]
Secondo la prospettiva del senso comune e realistica, allora, l’uomo è una cosa tra le cose, uno tra gli elementi che costituiscono il mondo. Nella visione moderna, rivoluzionaria rispetto a quella prospettiva, il mondo non è qualcosa che contenga l’uomo, ma è invece l’insieme (soggettivo) delle percezioni sensibili che l’uomo ha delle cose. Severino richiama Schopenhauer e ribadisce che il mondo è rappresentazione dell’uomo: «il mondo è mia rappresentazione nel senso che la sterminata serie di eventi che lo costituiscono è il contenuto della mia coscienza»[5]. Il presupposto del nuovo punto di vista rimane comunque la passività dei sensi nel rapporto con la realtà esterna, la passività (o recettività) del soggetto: la realtà è causa delle nostre percezioni, e le sensazioni del soggetto sono effetto degli stimoli che vengono dall’esterno.
Con Kant, successivamente, la sensibilità conserva il suo ruolo passivo, in quanto prende dalla realtà esterna i propri contenuti, ma assume anche – grazie all’attività sintetica dell’intelletto – il ruolo attivo di riordino dell’esperienza nello spazio e nel tempo (forme a priori della conoscenza). In più, Kant postula l’Io penso quale principio supremo della conoscenza, unificatore del molteplice nel pensiero tramite i giudizi, i quali si basano a loro volta sulle categorie, che risultano pertanto indispensabili perché un oggetto possa essere pensato.
Quindi la scoperta di Kant era che, invece di esperire il mondo come esso realmente è là fuori, noi esperiamo la nostra versione personalmente elaborata di quello che si trova là fuori. Proprietà quali lo spazio, il tempo, la quantità, la causalità sono dentro di noi, non là fuori: noi le imponiamo alla realtà. Ma, allora, qual è la realtà pura, non elaborata? Che cos’è realmente là fuori, quell’entità grezza prima che sia elaborata da noi? Quella rimarrà sempre inconoscibile per noi, affermava Kant.[6]
Per Kant, perciò, l’esperienza non è solo effetto della realtà che agisce sul soggetto. C’è sì la passività dei sensi, ma i dati sensibili vengono elaborati dall’intelletto attraverso le sue forme a priori, quindi sono gli schemi mentali del soggetto a determinare la percezione dell’oggetto. Il criticismo kantiano – brillante superamento dello stallo dualistico tra razionalismo (Cartesio) ed empirismo (Locke, Hume, Hobbes), e dell’inconciliabile contrasto tra le loro posizioni che Kant definisce “dogmatiche” – opera una “rivoluzione copernicana” che sovverte la prospettiva filosofica tradizionale – non è il soggetto ad adeguarsi all’oggetto, ma l’oggetto ad adeguarsi alla natura del soggetto – e continua a presupporre l’esistenza dell’in sé, del noumeno, ma lo dichiara inconoscibile. In quanto realtà metafisica, indipendente dal pensiero, infatti, a differenza del fenomeno, non può essere oggetto d’esperienza, ed è quindi fuori della possibilità conoscitiva del soggetto. Kant parla di noumeno negativo, in riferimento alla sua inconoscibilità, e di noumeno positivo considerando il suo essere pensabile (e supposto conoscibile solo per intuizione intellettuale – non sensibile –, di cui l’uomo è incapace). L’opposizione problematica tra certezza e verità della prospettiva moderna diventa allora, con Kant, opposizione definitiva. Certezza e verità non coincidono, né immediatamente né mediatamente: la verità (noumeno), semplicemente, non può essere conosciuta dall’uomo, anche se può essere pensata.
Ricapitoliamo:
- Per il senso comune, la nostra percezione delle cose è identica alle cose in sé, è veritiera: il mondo che percepiamo, il mondo che conosciamo, il mondo di cui siamo certi, è vero. Certezza e verità coincidono immediatamente.
- Per la filosofia antica, anche, ma non lo dà per scontato: i filosofi antichi riflettono sulla questione e la approfondiscono, ma arrivano alla stessa conclusione. Certezza e verità coincidono immediatamente.
- Per la filosofia moderna, invece, certezza e verità sono in opposizione. Cartesio si accorge che non c’è modo di verificare la corrispondenza tra la nostra percezione della realtà e la realtà in sé, e il loro rapporto si rivela pertanto problematico. In breve, l’opposizione problematica tra certezza e verità non arriva ad annullare l’identità tra la nostra percezione delle cose (rappresentazione) e le cose in se stesse, ma ne smentisce l’immediatezza. Certezza e verità coincidono mediatamente.
- Per l’illuminista Kant, l’opposizione tra verità e certezza diventa definitiva. Il fenomenismo kantiano conserva la convinzione realistica che la verità sia esterna al pensiero e da esso indipendente, e la radicalizza: la cosa in sé, il noumeno, è inconoscibile. L’uomo può conoscere soltanto il fenomeno, non la verità. Il mondo è rappresentazione, il pensiero non può uscire da se stesso e varcare i confini della rappresentazione, le cose in sé non sono conoscibili: la metafisica – scienza che vorrebbe conoscere la cosa in sé – è impossibile. Non ci è dato sapere se certezza e verità coincidano.
Come per Aristotele e Cartesio, per Kant è indiscutibile che, indipendentemente dalla conoscenza dell’uomo, esista il regno delle cose in sé: «Anche il fenomenismo kantiano è dunque un realismo – ossia è affermazione che la res, la cosa, è indipendente ed esterna rispetto al conoscere»[7]. L’idealismo, però, si configura come superamento (“oltrepassamento”, dice Severino) del realismo, perché rileva che la “cosa in sé”, in quanto concetto, è concepita, cioè pensata e conosciuta, e dunque, proprio perché pensata e conosciuta, non può essere in sé. Il concetto di “cosa in sé” è perciò contraddittorio, e la cosa in sé congetturata da Kant è un assurdo: le cose in sé non esistono.
Non solo: il “toglimento della cosa in sé” è il risultato, oltre che della contraddizione messa in luce nel concetto, anche della confutazione idealistica del procedimento con il quale Kant e prima di lui Cartesio argomentano l’esistenza della cosa in sé, l’uno basandosi sulla nozione di “fenomeno”, l’altro applicando il principio di causalità all’idea. In entrambi i casi, la dimostrazione «è soltanto apparente, un circolo vizioso, una petizione di principio (cioè, appunto, un presupporre come vero, sin dall’inizio, ciò che si presume dimostrare)»[8].
Ma se la cosa in sé è un concetto contraddittorio, che la filosofia fino a Kant ha tenacemente affermato sulla scorta di «un unico gigantesco presupposto»[9], vuol dire che il fenomeno, non più circostanza soggettiva, è la realtà stessa che si manifesta, è la realtà in sé che appare; dunque, certezza e verità, pensiero ed essere, tornano a corrispondere. E non c’è alcunché al di là del contenuto del pensiero, perché nulla potrebbe esistere se non come qualcosa di pensato, che starebbe quindi nel pensiero e non al di là. Conseguentemente, «ciò che appare nel pensiero è la vera realtà, il vero essere»[10]. Tutto ciò che è è nel pensiero, «il pensiero è il Tutto, […] il Tutto è l’Essere che viene pensato dal pensiero»[11].
L’idealismo perviene dunque, osserva Severino, a una metafisica che è episteme del Tutto inteso come unità di Pensiero ed Essere. L’idealismo ripropone così l’identità tra certezza e verità, non però immediata come nel realismo, bensì mediata dalla negazione di qualsiasi realtà in sé, esterna, indipendente e indifferente rispetto al pensiero.
È quindi chiaro che, con l’idealismo, la metafisica non ha più nemmeno il carattere della metafisica razionalistica (quella spinoziana compresa), che si proponeva di raggiungere e di cogliere il senso del Tutto, inteso come cosa in sé, esterna, indipendente e indifferente al pensiero. Quella idealistica è stata chiamata “metafisica della mente”, per distinguerla dalla “metafisica dell’essere”, dove l’“essere” è inteso appunto come quella realtà esterna al pensiero. Ma se si lascia cadere il presupposto che l’“essere” debba coincidere con siffatta realtà, allora la “metafisica della mente” è insieme “metafisica dell’essere” – dell’“essere”, cioè, che si costituisce e si rivela all’interno dell’apertura infinita del pensiero.[12]
[1] Emanuele Severino, Istituzioni di filosofia, Morcelliana, Brescia 2010, p. 9.
[2] Ivi, p. 11.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 22.
[5] Ivi, p. 44.
[6] Irvin Yalom, La cura Schopenhauer, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 383.
[7] Emanuele Severino, La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984, p. 205.
[8] Ivi, p. 209.
[9] Ivi, p. 210.
[10] Ivi, p. 211.
[11] Ivi, p. 212.
[12] Ivi, p. 213.