La forza affettiva di un incontro creativo

L’importanza dell’immagine-affezione oltre il cinema, nel complesso della riflessione filosofica di Deleuze
Alessio Tommasoli

  1. Introduzione

Nel complesso della riflessione filosofica di Gilles Deleuze, i suoi due saggi sul cinema – Cinema 1. Immagine-movimento e Cinema 2. Immagine-tempo – sembrano presentarsi come una parentesi evasiva da quello che appare essere un complicato continuum riflessivo nel quale autori disparati trovano, seppur in maniera speculativa, una correlazione. In realtà, è esattamente questa complessità a presentarsi come la natura stessa della filosofia deleuziana: i concetti di pensatori quali Kant, Spinoza, Bergson e Peirce, infatti, si incontrano nel suo percorso filosofico come elementi differenziali di un unico piano concreto – un «piano d’immanenza», come vedremo – che vive “divenendo” proprio in virtù di tali differenze.

In questo senso, allora, il cinema è tutt’altro che una parentesi evasiva. Anch’esso, infatti, si presenta come un elemento differenziale di quel piano che partecipa, come e anche più degli altri elementi, al complesso filosofico di Deleuze. I due saggi sul cinema, dunque, risulterebbero impossibili da comprendere nella loro profondità filosofica se non venissero letti alla luce di testi come Differenza e ripetizione, Il Bergsonismo, Logica della sensazione, La piega e Millepiani.

Ma più di essi, e quindi più degli altri elementi che vanno a comporre il piano filosofico deleuziano, questi due saggi offrono un’analisi materiale del cinema, realizzandone la scomposizione in oggetti concreti, le immagini e i segni cinematografici che le compongono. In questo modo Deleuze sembra offrirci la possibilità di cogliere l’origine, il momento esatto in cui ha inizio il movimento del piano dell’arte (come anche della filosofia) nel suo divenire, attraverso il quale esso si arricchisce di qualcosa di nuovo, di una creazione.

Nei suoi saggi sul cinema Deleuze ci offre questa possibilità, descrivendo la forma esperienziale dell’incontro tra l’opera cinematografica e lo spettatore sullo sfondo di un’immagine particolare, l’immagine-affezione. Ma lo sforzo che si propone questo articolo è quello di porre in relazione i vari elementi differenziali presentati in questi saggi con il complesso della riflessione filosofica deleuziana, così da permettere la traduzione in termini esistenziali di questo atto creativo come il risultato di un incontro tra una materia fluttuante e il soggetto sullo sfondo di una essenziale “affezione”.

  1. La concezione deleuziana di opera darte

In un saggio dal titolo piuttosto evocativo, Che cosè la filosofia?[1], Gilles Deleuze (insieme con Felix Guattari) tenta di fornire una teoria della conoscenza fondandone la struttura sull’elemento basilare della sua riflessione filosofica, il «piano d’immanenza». Scienza, Arte e Filosofia sono le tre “discipline della conoscenza” alle quali lavorano, in maniera del tutto concreta, quasi “manifatturiera”, rispettivamente lo scienziato, l’artista e il filosofo. Il loro lavoro, come detto, è manuale, pratico e concreto, e riguarda la creazione di veri e propri oggetti che prendono il nome di proposizioni scientifiche, opere artistiche e concetti filosofici.

Non c’è nessun cielo, nessuna trascendenza dietro di essi, che li sorregga come fossero derivazioni di idee platoniche o corpi celesti essi stessi, perché questi oggetti della conoscenza, come scrive Verdesca, «devono essere creati, sgrossati e intagliati con la stessa competenza artigianale che riscontriamo nel falegname quando lavora il legno»[2]. Simili oggetti sono le parti, singolari ed eterogenee, di un Tutto la cui sostanza è univoca e, al tempo stesso, impossibilitata alla staticità, in virtù della ripetizione differenziale delle sue stesse parti che lo pongono in divenire.

La particolarità di questo Tutto non è altro che la particolarità stessa del «piano d’immanenza» sul quale si “esprime” la conoscenza. Quest’ultima, infatti, è, secondo Deleuze, “espressione”: con questo concetto di derivazione spinoziana, il filosofo francese intende indicare un’azione la cui complessità è pari soltanto alla sua ricchezza, quella di uno “svolgimento” e, al tempo stesso, di un “coinvolgimento”[3]. In questo senso, dunque, proposizioni, opere d’arte e concetti sono espressioni della conoscenza, in quanto ne svolgono un aspetto particolare e ne coinvolgono la totalità, rimandando ad essa.

Per questo, ognuno di questi oggetti viene prodotto sotto l’influenza degli altri: essi svolgono e coinvolgono la conoscenza, al tempo stesso in cui sono svolti e coinvolti da essa, in un «piano d’immanenza» sul quale ogni differenza disciplinare produce un movimento singolare che spinge o viene spinto dagli altri movimenti singolari, componendo il costante movimento della conoscenza stessa.

All’interno di Che cosè la filosofia?, Deleuze e Guattari analizzano questo movimento espressivo della conoscenza, entrando nello specifico delle tre discipline e delle loro relazioni, fino a giungere ai tre oggetti e alle loro reciproche influenze. Nel settimo ed ultimo capitolo di questo saggio, i due autori si dedicano definitivamente all’arte e ne forniscono una definizione che libera l’estetica da ogni teoria convenzionalista: l’opera d’arte è un «blocco di affetti e percetti puri».

La sostanzialità inequivocabilmente immanente di un «blocco» sostiene due concetti, «affetto» e «percetto», che potrebbero tradire un rimando alla dimensione trascendente, soprattutto se sostenuti dal concetto di «purezza». In realtà, si tratta di due concetti la cui origine è sempre inscindibile dalla sensazione, dalla dimensione dell’aisthesis, eppure in una forma pura e totalmente slegata da ogni soggettività, da qualsiasi soggetto percipiente che ne faccia affezioni e percezioni proprie. Si tratta di quella formula inedita della filosofia, per la quale si fa riferimento ad un empirismo sviluppato attorno a un soggetto trascendentale, nei termini deleuziani (che approfondiremo in seguito) di una rivisitazione della filosofia critica di Kant. In questo senso, parliamo di un “empirismo trascendentale” per il quale l’opera artistica, come un paesaggio, deve essere concepita al di là del dato immediato, oltre la percezione e la sensazione, in modo che i concetti di «affetto» e «percetto» distinguano totalmente una simile dimensione da quella di un vécu, in cui al dato aderisce un’istanza soggettiva, un’esperienza, una vita.

La prospettiva vitalistica di Deleuze, dunque, la sua idea di cogliere la vita come una “intensità”, si pone in una correlazione fondamentale con la dimensione artistica, laddove essa non è rappresentazione delle cose, né loro conservazione, bensì conservazione di percezioni e sensazioni. Grazie a questa sua sostanza immanente, l’opera d’arte è qualcosa di indipendente che, fondato sull’equilibrio della propria composizione interna, si dà nel mondo dove incontra il soggetto con il proprio vissuto: «Il filosofo francese – scrive Locicero – si oppone all’idea che l’arte sia assimilabile al vissuto, sia esso reale o immaginato, in quanto il suo rifiuto per la trascendenza lo porta a sostenere che la consistenza artistica sia provocata da blocchi solidi di affetti e sensazioni che non abbiano altro soggetto se non se stessi, e sono irrelati ad un ipotetico referente nel vissuto»[4].

  1. Il soggetto fruitore

Abbiamo accennato a un concetto che sostiene perfettamente lo sforzo immanentista di Deleuze, l’empirismo trascendentale, dal quale emerge l’idea di opera d’arte come blocco di affetti e percetti. Si tratta di un concetto derivato dall’empirismo metafisico di Schelling, autore rispetto al quale Deleuze fa grande riferimento, in particolare nella determinazione del proprio soggetto ontologico e per dimostrare di esso il carattere essenziale di potenza[5]. Sebbene non sia un concetto chiaramente esplicitato da Deleuze (si ritrova soltanto due volte in tutta la sua produzione[6]), esso riassume la speculazione interpretativa del filosofo francese nei confronti della Critica kantiana: con l’empirismo trascendentale, infatti, si legittima il passaggio da un modello originale di “riconoscimento” a quello di un “incontro (rencontre)” tra le facoltà kantiane. In questo senso, «il pensiero – come scrive Sauvagnargues – si individua a contatto con l’esperienza»[7].

La lettura deleuziana di Kant[8], infatti, spinge il sistema della Critica verso il concetto di “creazione” che emerge dall’esperienza del sublime in cui la disarmonia tra le facoltà rivela la propria capacità produttiva. In questo senso, all’interno della Critica del Giudizio, accanto alla trattata «Estetica dello spettatore», Deleuze scorge un’inedita «Estetica del creatore». Si tratta di un ambito della terza critica che resta sommerso, secondo il filosofo francese, e che è reso possibile grazie alla rivoluzione operata dal concetto kantiano di “trascendentale”: Deleuze sostiene che, per mezzo di Kant, si compie il superamento della scissione in due sostanze del soggetto cartesiano nella direzione contraria di una scissione in due forme di un’unica sostanza, una passiva e ricettiva (immaginazione) e una capace di elaborare le percezioni (intelletto e ragione).

Fin qui, la lettura deleuziana della filosofia critica sembra seguire perlopiù l’interpretazione tradizionale, individuando come caratteri della scissione la sensibilità passiva dell’Io penso (moi) e l’attività elaborativi dell’Io sono (Je). Già nel suo primo incontro con Kant (La passione dellimmaginazione), Deleuze, pur non arrivando a negare che la relazione armonica tra queste due forme renda il soggetto un soggetto cognitivo, ritiene tuttavia molto più notevole il momento del loro disaccordo, nel quale il soggetto è impedito alla conoscenza e l’immaginazione segue le Idee della ragione procedendo al suo fallimento, perché, in quanto facoltà del sensibile, non potrà mai cogliere simili idee di natura soprasensibile. La grandezza individuata da Deleuze nell’esperienza del “sublime” sta, allora, proprio nel tentativo dell’immaginazione di rappresentare simili idee attraverso una produzione analogica, rendendo così il soggetto trascendentale un creatore. Come afferma Hjorth, infatti, «Deleuze trova l’immaginazione importante precisamente per il suo rivolgersi ad una facoltà superiore che è ciò che ci rende genuinamente creativi, muovendo oltre i limiti del presente sensibile»[9].

Nel suo secondo incontro con la filosofia critica kantiana (Fuori dai cardini del tempo), forte di un’impostazione immanentista, Deleuze arriva a negare la corrispondenza tra la relazione Io penso-Io sono e la relazione indeterminato-determinazione, per la quale l’indeterminatezza del sensibile viene sussunta sotto una categoria conoscitiva data a priori. Deleuze non concepisce una determinazione trascendentale univoca, bensì reciproca: l’esperienza del trascendentale, come detto, non è “rappresentativa”, ma “affettiva”, in quanto la forma dell’Io sono affetta la forma dell’Io penso al modo stesso in cui quest’ultima affetta la prima. In questo senso, il soggetto trascendentale vive una autoaffezione, o, come la definisce Deleuze, una «affezione di sé per sé».

La relazione tra Io sono e Io penso, allora, più che incentrarsi sull’aspetto della conoscenza, possiede per Deleuze un valore produttivo. Si tratta della medesima produttività insita nell’esperienza del sublime, in quanto una riconciliazione formale della scissione che costituisce la sostanza del soggetto trascendentale (una determinazione trascendentale) può avvenire soltanto nel momento limite di questa stessa scissione, nella distanza massima tra l’Io sono e l’Io penso. Quella sofferenza patita dall’immaginazione al principio dell’esperienza del sublime, allora, è vissuta interiormente dal soggetto trascendentale stesso, che, di conseguenza, arriva a vivere anche la produttività analogica dell’immaginazione nel suo tentativo di rappresentare le idee soprasensibili della ragione. In questa prospettiva, dunque, l’esperienza del sublime corrisponde all’esperienza di un “incontro” tra l’Io penso e l’Io sono che realizza una reciproca affezione creativa.

Nelle parole di Treppiedi troviamo tutta l’innovazione interpretativa di Deleuze nei confronti della critica kantiana, incarnata, come detto, nel concetto di “empirismo trascendentale” e nel motore produttivo della violenza: «Deleuze intende sostituire alla cifra della “ripartizione equa” e alla forma del “senso comune”, come criteri complementari del rapporto tra facoltà, quella di un loro “accordo discordante”: la dottrina delle facoltà correlata all’empirismo trascendentale si basa sul principio del loro “esercizio trascendente”, secondo cui ognuna di esse non è mediata nel suo operare da un’istanza di comune convergenza con le altre sull’oggetto del riconoscimento, presupposto essere lo stesso per ogni esperienza, ma è spinta dalla violenza di un proprio incomparabile oggetto, quello dell’incontro, ad un esercizio straordinario che non rientra nel campo dell’“esperienza possibile” kantiana»[10].

In questo senso, il soggetto trascendentale, che vive su di sé l’esperienza del sublime, diviene un soggetto creatore. Ed è la propria stessa composizione sostanziale, quella che inizialmente si pone come una condanna, la scissione interiore, a permettergli la riconciliazione. Nella visione deleuziana, dunque, la condizione trascendentale corrisponde direttamente alla capacità produttiva, così che il soggetto trascendentale si presenta, in potenza, come un soggetto creatore.

Per questo, lo spettatore delineato nella trattazione kantiana relativa all’«Estetica dello spettatore», ci sembra non arrivare a mutare la propria sostanza, ma semplicemente, piuttosto che fermarsi alla dimensione “rappresentativa” diretta alla conoscenza, ci sembra sfruttare la potenzialità correlativa della propria scissione formale in una dimensione “affettiva”, il cui risultato è l’attività di una creazione. In questo senso, l’«Estetica del creatore» individuata da Deleuze propone un soggetto trascendentale come “spettatore attivo”.

Ponendo l’accento sull’esperienza del sublime, Deleuze riesce, quindi, a riempire la condizione trascendentale di un carattere puramente immanente, quello della produttività. In questo senso, da un lato, egli spinge la filosofia critica kantiana al di là della rappresentazione, al di là della sintesi armonica tra immaginazione, intelletto e ragione, al di là del bello, della conoscenza e della morale, e, in definitiva, al di là delle condizioni astratte dell’esperienza. Eppure, dal lato opposto, superando anche psicologia e fisiologia, l’“empirismo trascendentale” si spinge al di là delle stesse condizioni di ogni esperienza possibile, giungendo, infine, «alle condizioni concrete di ogni esperienza reale»[11].

Tuttavia, è necessario sottolineare che l’esperienza del sublime, e quindi l’esperienza dell’“incontro” tra Io penso e Io sono, non può avvenire se non in presenza di un evento specifico. In virtù di ciò che abbiamo detto, infatti, il sublime è quell’esperienza limite nella quale la scissione del soggetto trascendentale raggiunge il suo grado estremo facendosi lacerazione, così che solo a partire da questa violenza può generarsi un’attività creatrice.

Ma una simile esperienza è necessariamente il risultato di un altro “incontro” ad esso precedente: quello tra lo spettatore e un evento di natura incommensurabile. Nelle sue lezioni del ’78, Deleuze identifica questo incontro come il grado-zero della coscienza di sé, il momento originario dell’affezione di sé per sé, e lo definisce «momento di cesura».

L’esempio più celebre da lui riportato è quello dell’Amleto di Shakespeare. In esso il protagonista si trova a vagare per il mare, come disperso nella lacerazione massima della propria scissione sostanziale; egli pone fine a questo vagabondare soltanto grazie alla decisione della vendetta, come coscienza di se stesso («C’è in me qualcosa di pericoloso»), derivata dall’evento dell’omicidio di suo padre. Questa immagine narrativa ci dimostra come l’evento sia una sorta di paesaggio, una atmosfera di affetti e percetti puri che lo stesso Amleto incontra, rendendoli affezioni e percezioni soggettive dalle quali trae una reazione che dà luogo ad una creazione, nel senso di qualcosa di unico e nuovo. Deleuze raccoglie tutto il valore di questa creazione affermando che, dopo di essa, il passato e il presente non “rimeranno” più l’un l’altro e si istituirà la linea temporale di un “prima” e di un “dopo” l’evento. 

Questo esempio ci dimostra come la creazione di cui parla Deleuze non sia altro che una decisione presa rispetto alle condizioni concrete dell’esperienza reale, la creazione, cioè, di una condizione esistenziale nuova. In questo senso, vediamo legittimata la nostra definizione di “spettatore attivo”, in quanto, da un lato non si tratta più dello spettatore kantiano legato all’esperienza rappresentativa della conoscenza o della morale, mentre, dall’altro, non si può neppure parlare di creatore artistico, nel senso del genio kantiano. Rispetto a questa esperienza, infatti, il soggetto trascendentale resta spettatore, ma esercita la propria capacità attiva sulle condizioni dell’esperienza reale e, di conseguenza, sulla propria stessa condizione esistenziale.

  1. Laffezione artistica

Finora abbiamo analizzato la natura dell’opera d’arte deleuziana e la natura del soggetto che ne fruisce, addentrandoci, per mezzo di quest’ultimo, nell’analisi dell’incontro interiore e creativo tra Io penso e Io sono. Ma ciò che ora siamo chiamati ad analizzare sono i modi dell’incontro tra opera d’arte e spettatore attivo, un incontro fondamentale senza il quale non potrebbe avvenire alcuna creazione.

Per questo, in primis, è importante sottolineare come la nozione di evento in Deleuze sia sempre strettamente legata all’immanenza e si presenti, appunto, come condizione concreta dell’esperienza reale. La definizione deleuziana di oggetto artistico, in quanto blocco di affetti e percetti, ci sembra, per questo, porsi come analogo dell’evento stesso. Nella sua completa immanenza e nella sua totale indipendenza, infatti, l’opera d’arte “incontra” lo spettatore proprio come condizione concreta dell’esperienza reale, stimolando nella sua interiorità l’incontro tra la sensibilità dell’Io penso e l’attività dell’Io sono.

L’analogia tra l’opera d’arte e l’evento si fonda, infatti, proprio in relazione al soggetto, allo spettatore e alla violenza dell’incontro esteriore nell’esperienza reale che apre all’incontro interiore, ed è proprio quest’ultimo ad obbligarlo a pensare e a pensare “altrimenti”: «Allestire il nuovo evento delle cose e degli esseri, dare loro sempre un nuovo evento: lo spazio, il tempo, la materia, il pensiero, il possibile come eventi»[12].

Per questo, risulta interessante quanto scrive Sacchetti riguardo la letteratura, dimostrandoci la possibilità di estendere la sua riflessione ad ogni opera d’arte nel senso deleuziano: «La letteratura si mostra essenziale alla filosofia in quanto opera le proprie creazioni nella dimensione del possibile, fornendo al pensiero sperimentazioni gratuite e semplici composizioni “estetiche” che non pretendono nessuna finalità e nessuna verità, incarnando l’evento in una vita, in un corpo, in un universo, attraverso nuovi affetti e nuovi percetti che essa crea e che mette in circolo»[13]. È lo stesso Deleuze, infatti, in Che cosè la filosofia?, ad ammettere questa relazione tra l’esperienza artistica e il concetto di possibilità: «il possibile come categoria estetica, (“del possibile, altrimenti soffoco”)»[14].

Una simile relazione tra l’arte e il possibile, dunque, può realizzarsi soltanto in virtù della natura dell’oggetto artistico come blocco di affetti e percetti in grado di offrire un modello comune di esperienza estetica, una forma di sensibilità pura, in quanto priva di un contenuto soggettivo. Ciò permette allo spettatore di affrontare un’esperienza prettamente “estetica” dell’opera d’arte, nel suo significato più originario, quello di aisthesis, come sensibilità totalmente intatta da qualsiasi lettura artistica che possa darle una direzione determinata.

Proprio questa categoria estetica del possibile caratterizza una delle forme artistiche meglio analizzate da Deleuze, il cinema. Il filosofo francese dedica ad esso due saggi scritti nella prima metà degli anni ’80, distinguendo al suo interno due grandi aspetti compositivi nella relazione tra il tempo e le immagini: Cinema 1. Immagine-movimento e Cinema 2. Immagine-tempo. L’intento manifestato da Deleuze in questi saggi è tutt’altro che subordinare le immagini cinematografiche ai concetti filosofici, ma è piuttosto costruire uno spazio concreto nel quale concetti ed immagini si incontrano e lavorano in una reciproca correlazione, uno spazio che lavora esattamente al modo in cui lavora il «piano d’immanenza» che, come detto, Deleuze determina come luogo materiale di incontro e creazione della conoscenza.

Un simile intento risulta evidente in particolare nel primo dei due saggi, all’interno del quale il filosofo francese realizza, rielaborandola dalla classificazione generale dei segni di Charles Sanders Peirce, una tassonomia delle immagini cinematografiche e dei loro segni. Proprio la determinazione di questi oggetti del cinema avvalora l’idea del tentativo deleuziano di presentare il cinema come «piano d’immanenza»: essi, infatti, si presentano come parti singolari e differenziali di un tutto filmico in costante movimento, il quale è “espressione” (nel senso spinoziano detto sopra) delle singole immagini, al modo stesso in cui queste sono “espressione” del tutto.

In questo senso, Deleuze offre una traduzione cinematografica dell’ontologia spinoziana attraverso i due concetti di «Genesi» e «Composizione». Con «Genesi» egli indica una singola parte dell’opera nella sua indipendenza (l’immagine o il segno che la compone) e, al tempo stesso, il suo partecipare all’essenza del tutto filmico di cui è elemento genetico. Con il concetto di «Composizione», invece, Deleuze indica la rappresentazione del segno in un oggetto segnaletico unitario o in un tutto filmico e, al tempo stesso, seguendo il modo di esistenza dei corpi spinoziani, indica la sua condizione di esistenza come relazione composita delle sue parti che ne esprimono la sostanza. Come scrive Dawkins, «Deleuze identifica gli attributi con la genesi, chiamandoli “elementi genetici” […] e nota che un corpo esprime un elemento genetico della sostanza (attributo) attraverso la composita o complessa relazione delle sue parti. […] Un segno viene rappresentato quando una Composizione di elementi nel quadro cinematografico esprime una categoria dell’Essere caratteristica di una Genesi»[15].

In questo senso, dunque, già a partire da questa analogia tra l’ontologia spinoziana e l’opera cinematografica, il lavoro svolto da Deleuze sul cinema sembra avere l’obiettivo di scomporre il tutto filmico nelle sue singole parti, per dimostrare la loro relazione reciproca di “svolgimento e coinvolgimento” (espressione) rispetto ad esso. In realtà, in termini più generali, questa scomposizione analitica, ci permette di contemplare la composizione particolare di un’opera d’arte e le modalità con cui essa, come blocco di affetti e percetti, realizza il proprio incontro con lo spettatore.

Innanzitutto, però, per cogliere appieno queste modalità, bisogna comprendere quale sia il fondamento della riflessione di Deleuze sul cinema. Si tratta del superamento bergsoniano dell’opposizione tra movimento, in quanto realtà fisica esteriore, e immagine, in quanto realtà psichica della coscienza: «Nel 1896 Bergson scriveva Materia e memoria: era la diagnosi di una crisi della psicologia. Non si potevano più opporre il movimento come realtà fisica nel mondo esterno, e l’immagine come realtà psichica nella coscienza. La scoperta bergsoniana di un’immagine-movimento, e più profondamente di un’immagine-tempo, ha in sé ancora oggi una tale ricchezza che forse non se ne sono tratte tutte le conseguenze»[16].

Questo ci dimostra come l’opera filmica sia esattamente lo spazio nel quale la realtà fisica esterna del movimento si unisce alla realtà psichica della coscienza e come ciò avvenga grazie alla conformazione specifica delle immagini cinematografiche e dei loro segni ed è questo a permetterle di lavorare su un unico piano, come in un vero e proprio sistema. Proprio un simile piano si presenta, dunque, come il motore che connette due forme – movimento e immagine, realtà fisica e realtà psichica, mondo esteriore e coscienza – in una sola sostanza – immagine-movimento e immagine-tempo.

Si tratta di un sistema come piano sequenza che non è una semplice espressione della “durata di un tutto che cambia”, ma che è piuttosto un tutto esso stesso, qualcosa che permette alla variazione incessante della composizione dell’immagine di muoversi in un «tutto aperto – scrive Deleuze –, la cui essenza è costantemente di “diventare” o di cambiare, di durare»[17]. Entrambe queste immagini-tipo rispetto alle quali Deleuze divide il cinema sono immagini del tempo come durata e, per questo, sanciscono un superamento del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa nella stessa direzione in cui, come abbiamo visto, Deleuze lo vede superato da Kant: due forme singolari e differenziali della stessa sostanza.

Il carattere differenziale di queste due immagini-tipo si rintraccia nel montaggio attraverso il quale esprimono il tempo: mentre l’immagine-movimento si fonda su un montaggio che esprime il tempo in modo indiretto, l’immagine-tempo è composta da un montaggio che esprime il tempo in un modo diretto. Tuttavia, intendiamo qui porre la nostra attenzione esclusivamente a quell’aspetto del cinema fondato sull’immagine-movimento, in quanto riteniamo che sia nella sua scomposizione che Deleuze esplichi le modalità essenziali dell’incontro tra le immagini e lo spettatore, anche per quanto concerne l’immagine-tempo. Quest’ultima, infatti, come emerge esplicitamente già nel finale di Cinema 1, sorge laddove si verifica la realizzazione dell’immagine-movimento, ovvero nel momento in cui l’oggetto cinematografico è stato pienamente interiorizzato dallo spettatore e il tempo del montaggio si è identificato completamente con il suo tempo reale in una dimensione psichica[18].

In questo senso, la conformazione stessa dell’immagine-movimento sembra modellarsi in base al trascendentale kantiano, offrendosi perfettamente alla condizione scissa che abbiamo visto propria del soggetto trascendentale deleuziano. Nella sua tassonomia, Deleuze, infatti, scompone questa immagine-tipo in tre ulteriori aspetti dell’immagine cinematografica, una di carattere «passivo e ricettivo», l’immagine-affezione, e due di carattere «attivo ed elaborativo», l’immagine-azione e l’immagine-relazione.

Seppure molti interpreti dell’analisi cinematografica deleuziana[19] ritengano che le immagini fondamentali in cui Deleuze scompone l’immagine-movimento siano, appunto, tre, risulta impossibile descriverne le modalità senza considerarle tutte nelle loro relazioni. È per questo che l’immagine-affezione non può essere descritta senza prima comprendere la funzione dell’immagine-percezione. Nel descrivere la tassonomia del cinema fondato sull’immagine-movimento, infatti, Deleuze parla di un «insieme [ensemble] acentrato di elementi variabili che agiscono e reagiscono gli uni sugli altri»: come abbiamo detto, un’immagine è in se stessa distaccata da ogni occhio umano, perciò il suo centro è lo «scarto tra un movimento ricevuto e un movimento eseguito, un’azione e una reazione (intervallo)».

Di conseguenza, l’immagine-percezione è il nome dato da Deleuze a quegli elementi che agiscono su questo centro e che cambiano in relazione ad esso. Essa è composta da tre tipi di segni che Deleuze rielabora, talvolta tradendone il significato originario, dallo stesso Perice. Il primo è il «Dicisegno» che indica «il segno della proposizione in generale» e che qui mostra lo stato generale della percezione (solido, geometrico e fisico) come «una percezione nel quadro di un’altra percezione». Il secondo segno è il «Reuma» che designa lo stato liquido della percezione, vale a dire «la percezione di ciò che attraversa il quadro o che scorre». In questo caso, è lo stesso Deleuze a preoccuparsi di non confonderlo con il termine «reheme» creato da Peirce per indicare la “parola”. Il terzo segno che compone l’immagine-percezione è il «Gramma» che designa «lo stato gassoso di una percezione molecolare», strettamente connesso al dinamismo che corrisponde all’elemento genetico dell’immagine-percezione: si tratta di ciò che Deleuze chiama «ingramma» o «fotogramma», qualcosa di profondamente differente rispetto a una fotografia.

Secondo questa divisione, l’immagine-percezione corrisponde esattamente alla cosa in sé, come una materia indipendente. Tuttavia, proprio questa natura dell’immagine-percezione le permette di aprire un divario tra un’azione e una reazione interiore che viene occupato da un‘immagine-affezione la quale “assorbe un’azione e reagisce all’interno”. In questo senso, l’immagine-affezione corrisponde all’incontro tra i percetti e gli affetti puri dell’immagine (immagine-percezione) e la sensibilità dello spettatore, offrendoli alla sua soggettività che ne trae percezioni e affezioni singolari, come reazioni interiori.

Come detto, anche l’immagine-affezione è composta da tre segni cinematografici rielaborati dalla tassonomia dei segni peirciani. L’«Icona» designa il risultato di un avvicinamento, «l’affetto in quanto espresso da un volto, o un equivalente di volto». Il secondo segno è il «Qualisegno» che viene usato da Deleuze per «designare l’affetto in quanto espresso (o esposto) in uno spazio qualsiasi». Il terzo segno è un neologismo deleuziano, il «Dividuale», che è lo stato di ciò che «è espresso in una espressione», un’immagine che «si divide (o si riunisce)» da un cambio di natura (cambiamento qualitativo).

La funzione che possiedono le due immagini-tipo “passive e ricettive” dell’immagine-movimento è quella di offrire un centro all’insieme a-centrato dell’immagine-movimento stessa, così da realizzare una transizione da un’azione a una reazione possibile. La «reazione del centro all’insieme» è definita da Deleuze immagine-azione. Si tratta della prima delle due immagini-tipo di natura “attiva ed elaborativa”. Attraverso di essa, infatti, la reazione sull’interno (immagine-affezione) all’azione esterna (immagine-percezione) diviene una reazione esterna: «la forza o l’atto», come scrive Deleuze.

Differentemente dalle immagini-tipo precedenti, questa è composta da quattro segni che il filosofo francese traduce dalla tassonomia di Peirce. Il primo è il «Sinsegno», «insieme di qualità e di potenze in quanto attualizzate in uno stato di cose, che costituisce di conseguenza un ambiente reale [milieu] attorno a un centro, una situazione in rapporto a un oggetto». Il secondo segno è l’«Impressione» che designa un legame all’interno tra situazione e azione. Il terzo segno è l’«Indizio» attraverso il quale Deleuze indica il legame tra un’azione e una situazione non-data (o equivoca e reversibile). Il «Vettore» o la «linea di universo» è il quarto segno che compone l’immagine-azione: si tratta di una «una linea spezzata che unisce punti singolari o momenti notevoli al vertice della loro intensità».

Come possiamo notare, le tre immagini-tipo descritte finora compongono una struttura dell’immagine-movimento che risulta in grado di sostenersi perfettamente come un oggetto indipendente proprio del mondo materiale. Al tempo stesso, però, la sua stessa struttura le permette di essere colta, in modo altrettanto perfetto, da un occhio, quello dello spettatore. E ancor più, questo occhio ha la capacità di elaborare l’immagine-movimento portandola alla sua definitiva realizzazione, in quanto lo spettatore è potenzialmente uno spettatore attivo. Si tratta di due immagini-tipo che coinvolgono in maniera diretta l’elaborazione mentale dello spettatore: l’«immagine-trasformazione» e l’«immagine-mentale».

L’immagine-trasformazione, è definita da Deleuze come una «riflessione»: un termine ambiguo e ricco che può significare, da un lato, il ritorno della luce attraverso un’immagine, e, dall’altro, l’azione del pensiero. Essa è composta da un segno particolare, la «Figura», «un segno che, invece di rinviare al proprio oggetto, ne riflette un altro (immagine scenografica o plastica); oppure che riflette il proprio oggetto, ma invertendolo (immagine invertita); oppure che riflette direttamente il proprio oggetto (immagine discorsiva)».

Una Figura sembra riferire l’immagine-movimento all’attività dello spettatore, così come all’elaborazione del soggetto trascendentale. Attraverso l’immagine discorsiva lo spettatore può percepire l’armonia tra immagine e riflessione, come l’accordo tra l’immaginazione e l’intelletto. All’opposto, attraverso un’immagine invertita e un’immagine scenografica o plastica egli può sentire il collasso di ogni accordo cognitivo, la disarmonia che permette la nascita dell’esperienza del sublime e che rende lo spettatore un creatore.

La creazione che egli realizza è supportata dall’immagine-mentale. Questa è composta da cinque segni peculiari. Il «Simbolo», che indica un legame tra le immagini come indipendenti dalle loro relazioni naturali (relazioni astratte). L’«Opsegno» e il «Sonsegno», che sono immagini pure, rispettivamente ottiche e sonore; un’immagine che «rompe i legami sensorio-motori, oltrepassa le relazioni e non si lascia più esprimere in termini di movimento, ma si apre direttamente sul tempo». La «Marcatura», che indica le relazioni naturali tra le immagini collegate da una abitudine, e la «Smarcatura», che designa un’immagine in grado di rompere le relazioni naturali della «Marcatura».

L’immagine-mentale è definita da Deleuze come una «relazione», vale a dire la connessione di segni e riflessione realizzata da uno sforzo mentale dello spettatore. Perciò l’immagine-mentale si presenta come l’attività mentale dello spettatore che lo rende capace di creare qualcosa di esteriore rispetto all’immagine-movimento stessa, come un pensiero o un’azione che segue quel pensiero.

  1. L’affezione come incontro

Sempre all’interno del primo dei due saggi sul cinema, Deleuze scrive: «L’immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto. Eisenstein suggeriva che il primo piano non era soltanto un tipo di immagine tra le altre, ma dava una lettura affettiva a tutto il film. Ciò è vero per l‘immagine-affezione: è al contempo un tipo di immagine e una componente di tutte le immagini»[20].

Nella spiegazione offerta dal filosofo francese, il primo piano, anche se di un oggetto, è sempre un volto che lo spettatore guarda e dal quale è guardato. Se seguiamo la definizione di affetto fornita da Bergson, come fa lo stesso Deleuze, ovvero «una tendenza motrice su un nervo sensibile», il primo piano in quanto affetto presenta la sua funzione in due direzioni, una interna all’opera cinematografica e una esterna verso lo spettatore.

Deleuze descrive il primo piano, infatti, come una correlazione tra due poli, una superficie immobile riflettente e riflessa e una tendenza di movimenti intensivi ed espressivi. L’esempio filmico riportato da Deleuze è il primo piano generico di un orologio a pendolo che, da un lato, possiede il quadrante come lastra unitaria ricettiva e, dall’altro, delle lancette in movimenti virtuali di serie intensive. In questo modo l’immagine possiede un corpo ricettivo e una tendenza di movimento che si sviluppa intensivamente.

L’esempio relativo allo spettatore, invece, si trova all’interno di un film specifico, La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock: il protagonista, immobilizzato su una sedia a rotelle, è un vero e proprio «nervo sensibile» sul quale si riflettono dei movimenti virtuali di omicidio, e lo spettatore è immobilizzato sulla sua poltrona cinematografica, «nervo sensibile» a sua volta, spinto per questo a immedesimarsi con il protagonista stesso e a tracciare insieme a lui la serie intensiva di movimenti. Lo spettatore è, così, un soggetto che, passivamente, riceve immagini pure e che, attivamente, le fa proprie con il pensiero.

È esattamente questa, secondo Deleuze, la grandezza del cinema di Hitchcock: il blocco artistico di affetti e percetti puri, che Deleuze definisce  cinematograficamente immagine-percezione, si offre in modo perfetto all’esperienza soggettiva dello spettatore che, nell’immagine-affezione, li assorbe e ne fa affezioni e percezioni personali; esse, però, nell’immagine-azione, si accordano o si scontrano con delle reazioni espresse dai personaggi del film, come gesti estremi che costruiscono dei momenti in cui la tensione arriva a chiamare in causa la mente stessa dello spettatore che, nell’immagine-relazione, si attiva in una elaborazione dell’opera. In questo senso, allora, partendo dall’incontro tra opera e fruitore, e giungendo all’attività creativa di quest’ultimo, il cinema di Hitchcock realizza l’immagine-movimento stimolando il suo spettatore a produrre un «concetto».

Questo significa che nell’analogia deleuziana tra l’ontologia di Spinoza e l’opera cinematografica, lo spettatore è esattamente parte del tutto filmico: una particolarità che partecipa all’universalità differenziale e in divenire dell’opera – attraverso le immagini, ma anche come le immagini – in quanto lo esprime e ne è espressione, lo svolge e da esso viene svolto, lo coinvolge e ne è coinvolto.

La funzione decisiva giocata, nel cinema, dall’immagine-affezione e, nell’arte in generale, dal momento dell’affezione, può essere compresa nell’equivalenza avanzata dallo stesso Deleuze tra le tre immagini-tipo che fondano l’immagine-movimento e le tre categorie peirciane di «Firstness», «Secondness» e «Thirdness»[21].  La traduzione della classificazione dei segni di Peirce, infatti, trova un fondamento profondo nell’origine stessa della semiotica peirciana, tanto che la base su cui si regge l’idea di Deleuze di un cinema come «piano d’immanenza» è la stessa natura immanente delle tre categorie peirciane. È attraverso di esse che diviene possibile concepire il cinema come un luogo di esperienza, di incontro spontaneo e assolutamente indeterminato da alcuna trascendenza.

In questo senso, la riflessione di Peirce parte dal presupposto che ogni cosa nell’universo sia divisibile seguendo le tre categorie e che, di conseguenza, anche il segno segua questa divisione: in primis, il segno è qualcosa in se stesso ed è quindi ciò che Peirce chiama «Representamen»; ma il segno è anche qualcosa che si pone in realazione con un oggetto, presentandosi per qualcosa di altro da sé e che Peirce chiama «Object»; infine, il segno, o meglio, la relazione segno-oggetto («Object»), si presenta per essere interpretata ed è ciò che Peirce definisce come «Interpretant».

Per questo, la «Firstness» peirciana può trovare una forma concreta nel cinema come immagine-affezione. La difficoltà nella spiegazione di questa categoria peirciana da parte dello stesso Deleuze non è altro che un modo attraverso il quale l’autore intende dimostrare la ricchezza di un’immagine che è «più sentita che concepita». Quel «qualcosa in se stesso» che Peirce chiama «Representamen» è una qualità o una potenza pura, assolutamente indipendente da qualsiasi oggetto, totalmente indeterminata rispetto alla determinazione di uno spazio-tempo. Si tratta di un “possibile”, e non di un esistente, di un “virtuale”, e non di un attuale; non sensazione, né sentimento o idea, ma coscienza immediata come qualità di una sensazione possibile, di un possibile sentimento o della possibilità di un’idea. Affezione è, dunque, l’espressione del possibile e non la sua attualizzazione, lo svolgimento e il coinvolgimento del possibile da parte di un soggetto percipiente, la possibilità di un movimento su di un «nervo sensibile» come lo spettatore, una tendenza dinamica su una lastra riflessa e riflettente, patente e agente, passiva e attiva.

Per questo, l’immagine-affezione è l’incontro indeterminato tra lo spettatore e l’opera cinematografica, il momento zero di una percezione che anticipa la coscienza, una «anticipazione della percezione»[22]. Come scrive Montanari, infatti, «firstness innanzi tutto come affezione, oltre che come momento di percezione di una “qualità”»[23].

Se nella teoria delle categorie di Peirce «Firstness» e «Secondness» non possono darsi senza la «Firstness», nel cinema deleuziano dell’immagine-movimento non c’è immagine-azione e immagine-relazione senza l’immagine-affezione, in quanto essa determina le proprietà materiali di un particolare ed effettivo incontro a partire dal quale esse si fondano.

È per questo che l’immagine-azione, resa equivalente da Deleuze con la «Secondness» peirceana, può dirsi categoria dell’attuale e dell’esistente, in quanto si tratta dell’immagine fondata sulla relazione tra il segno e l’oggetto, o meglio, sulla loro opposizione: «tutto ciò che esiste solo opponendosi, come un duale»[24], scrive Deleuze. In essa lo spettatore vede individuarsi la possibilità della sua coscienza immediata in una determinazione spazio-temporale: il movimento intensivo sul «nervo sensibile» che esso rappresenta acquista una direzione, una forza e una durata. L’immagine-affezione si presenta, dunque, come l’«Object» peirceano che è, come scrive Dawkins, «il dominio degli oggetti reali nello spazio reale: essa è il dominio del Realismo»[25].

Allo stesso modo, l’immagine-relazione non può darsi se non a partire dall’incontro che avviene attraverso l’immagine-affezione: la riflessione logica dello spettatore come categoria peirceana della «Thirdness» corrisponde all’elaborazione del dato sensibile da parte delle facoltà attive, ed è, in un senso “deleuzianamente-kantiano”, la creazione trascendentale o, in un senso “deleuzianamente-peirciano”, l’«Intepretant».

  1. Conclusione

Al principio della nostra riflessione, abbiamo esposto lo sforzo compiuto da Deleuze nel cercare di fondare l’intera conoscenza umana su un «piano d’immanenza». Tuttavia è il titolo stesso di uno dei suoi lavori più celebri a dimostrare la complessità di questa fondazione all’interno di una prospettiva filosofica che risulta sempre legata all’ontologia spinoziana, per cui il «piano d’immanenza» della conoscenza è un universale composito di una molteplicità potenzialmente infinita di parti singolari, i «Millepiani», la cui differenzialità ne determina il costante divenire.

In questa prospettiva, l’Arte, come visto, insieme a Scienza e Filosofia, è un «piano d’immanenza» a sé, ma a sua volta composito da altri piani d’immanenza, le singole arti, che si esprimono nell’oggettività delle loro opere artistiche, le quali, a loro volta, sono scomposte in altri piani di composizione, a loro volta ancora scomposti.

«Mille piani», abbiamo detto, come quelli che esprime e di cui è espresso il cinema, rispetto al quale Deleuze ci offre la sua analisi come esempio pratico di una simile scomposizione: il «piano d’immanenza» del cinema è scomposto in immagini che, come piani d’immanenza a loro volta, sono scomposte in segni cinematografici. E il metodo logico attraverso il quale si realizza questa scomposizione, l’equivalenza con le tre categorie peirciane, ci dimostra la relazione stessa fra tutti i piani: l’indipendenza di ognuno di essi si fonda su quel concetto spinoziano di espressione, come svolgimento e coinvolgimento di e in un Tutto; differenzialità il cui incontro diviene creativo.

E l’incontro decisivo, il momento zero della creazione di un «piano d’immanenza», non è quello che avviene tra corpo e mente, tra l’oggetto e il pensiero, tra materia e memoria, ma si inscrive ancora prima, nella possibilità di questo incontro, laddove la percezione e l’affezione del soggetto tendono al blocco artistico di affetti e percetti. Nei termini del cinema deleuziano è il momento della «Firstness» in cui l’immagine-percezione passa all’immagine-affezione, un processo essenziale che ci permette di «apprezzare un’opera d’arte o un brano musicale senza capirne nulla», perché – come prosegue lo stesso Deleuze – «so bene che sarebbe meglio una percezione competente, ma penso che ogni cosa che conti al mondo, nell’ambito dello spirito, sia suscettibile di una doppia lettura».

Come l’oggetto di ogni piano d’immanenza, dunque, le immagini sono blocchi concreti, materia attiva nel mondo che possiede, rispetto al piano stesso, una indipendenza e, contemporaneamente, una capacità rappresentante e referente che le rende soggette ad interpretazione, in un universo del sensibile alla cui base si trova l’affettività come percezione di qualità e intuizione di una possibilità di senso.

In questa direzione, possiamo notare l’identità tra lo spettatore e il soggetto: il primo, di fronte all’immagine-affezione, è un «nervo sensibile» che riceve una vibrazione capace di indurlo ad avvertire intensivamente la possibilità di un movimento, la cui realizzazione avrà il carattere estensivo di una relazione; mentre il secondo, nell’esperienza affettiva, è un soggetto passivo che riceve dall’oggetto l’intuizione di una possibilità di superamento della scissione che lo compone, la cui realizzazione avrà il carattere estensivo di una creazione.

L’Io penso e l’Io sono si trovano in un costante movimento parallelo la cui spinta è dettata per entrambi da uno sforzo desiderante, da un conatus che cambia di segno gli affetti e li spinge dal patire all’agire, dalla passività all’attività attraverso la quale il soggetto affetta il mondo facendosi soggetto trascendentale, al modo stesso in cui lo affetta lo spettatore facendosi spettatore attivo.

 


Bibliografia

  • Bouaniche, Gilles Deleuze. Une introduction, Pocket, Paris 2007.
  • De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Bulzoni, Roma, 1996.
  • Colombat, A Thousand Trails to Work with Deleuze, in «SubStance», Vol. XX, n. 3, pp. 10-24 (Special Issue: «Deleuze & Guattari», University of Wisconsin Press, 1991).
  • Colombat, Deleuze and Signs, in Aa. Vv., Deleuze and Literature, a cura di I. Buchanan e J. Marks, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000, pp. 14-33.
  • Dawkins, Deleuze, Peirce and the Cinematic Sign, in «Semiotic Review of Books», 2005, n. 2, 2005, pp. 8-12.
  • Deledalle, Théorie et pratique du signe, Payot, Paris 1979.
  • Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
  • Deleuze, Cinema 1. Immagine-movimento, trad. it. J.-P. Manganaro, Ubulibri, Roma 1993.
  • Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli 1997.
  • Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. G. Guglielmi, Cortina, Milano1997.
  • Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di S. Palazzo, Mimesis, Milano 2004.
  • M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1981.
  • Hjorth, Imagination – Fabulation, Key note présentation at the ESU Conference, Benevento 2009 (8-13 settembre).
  • D. Locicero, Gilles Deleuze. Cosè la filosofia?, in «Imago. A Journal of the Social Imaginary», 2005, n. 6, pp. 210-219.
  • Montanari, La lettura deleuziana di Pierce. Fra presunte distorsioni e nuove interpretazioni: per una teoria delle immagini, in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2015, numero speciale, pp. 70-80.
  • Paolucci, Strutturalismo e interpretazione, Bompiani, Milano 2010.
  • S. Peirce, Collected Papers, 8 voll., Harvard University Press, Cambridge 1931-1958.
  • Sacchetti, Divenire-altri tra filosofia e letteratura. La creazione concettuale in Deleuze e Tournier, in «La Deleuziana. Rivista online di filosofia», 2014, n. 0, pp. 158-170.
  • Sauvagnargues, Deleuze. Lempirisme transcendental, Puf, Paris 2010.
  • Treppiedi, Le condizioni dellesperienza reale. Gilles Deleuze e lempirismo trascendentale, Clinamen, Firenze 2016.
  • Verdesca, Il piano di immanenza deleuziano: immagine e orientamento, in «Itinera. Rivista di Filosofia e Teoria della Arti e della Letteratura», nov. 2005 (<http://www.filosofia.unimi.it/ itinera/ mat/ saggi/ verdescav_deleuze.pdf>).

Note

[1] G. Deleuze F. Guattari, Quest-ce que la philosophie? (1991), tr. it., Che cosè la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.

[2] V. Verdesca, Il piano di immanenza deleuziano: immagine e orientamento, in «Itinera», nov. 2005, p. 7.

[3] Cfr. A. P. Colombat, Deleuze and Signs, in Aa. Vv., Deleuze and Literature, a cura di I. Buchanan e J. Marks, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000, pp. 14–33.

[4] G. D. Locicero, Gilles Deleuze. Cosè la filosofia?, in «Imago. A Journal of the Social Imaginary», 2015, n. 6, p. 219.

[5] «Il mondo intenso delle differenze, in cui le qualità trovano la loro ragione e il sensibile il proprio essere, è proprio l’oggetto di un empirismo superiore, che ci insegna una strana “ragione”, il multiplo e il caos della differenza». Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetzione, tr. it. G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997, p. 80.

[6] In ivi, pp. 79-81 e in un articolo intitolato Limmanence: une vie… in Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995, tr. it. Limmanenza: una vita…, in «aut aut», 1996, n. 271-272, pp. 4-7.

[7] A. Sauvagnargues, Deleuze. Lempirisme transcendental, Puf, Paris 2010, p. 11.

[8] Si possono distinguere due “momenti” nella lettura dedicata a Kant da Deleuze. Il primo è quello relativo ai primi anni ’60: cfr. G. Deleuze, La philosophie critique de Kant. Doctrine des facultés, (1963), tr. it. La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli 1997; G. Deleuze, La Passion de l’imagination. Idée de génese dans l’esthétique de Kant (1963), tr. it., La passione dellimmaginazione. Lidea di genesi nellestetica di Kant, a cura di T. Villani e L. Feroldi, Mimesis, Milano 2000. Il secondo momento è quello relativo alle lezioni tenute da Deleuze presso l’Université VIII de Paris Vincennes-Saint-Denis, in particolare a quelle tenute nel 1978, raccolte in G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di S. Palazzo, Mimesis, Milano 2004.

[9] D. Hjorth, Imagination – Fabulation, Key note présentation at the ESU Conference, 2009, Benevento 2009 (8-13 sett.), p. 3.

[10] F. Treppiedi, Le condizioni dellesperienza reale. Gilles Deleuze e lempirismo trascendentale, Clinamen, Firenze 2016, p. 18.

[11] M. Bouaniche, Gilles Deleuze. Une introduction, Pocket, Paris 2007, p. 67.

[12] G. Deleuze F. Guattari, Che cosè la filosofia?, cit., p. 22.

[13] S. Sacchetti, Divenire-altri tra filosofia e letteratura. La creazione concettuale in Deleuze e Tournier, in «La Deleuziana. Rivista online di filosofia», 2014, n. 0, p. 165.

[14] G. Deleuze F. Guattari, Che cosè la filosofia?, cit., p. 178.

[15] R. Dawkins, Deleuze, Peirce and the Cinematic Sign, in «Semiotic Review of Books», 2005, n. 2, p. 10.

[16] G. Deleuze, Cinema 1. Immagine-movimento, tr. it. J.-P. Manganaro, Ubulibri, Roma 1993, p. 11.

[17] Ivi, p. 37.

[18] L’uso differente del montaggio che caratterizza l’immagine-tempo la avvicina sensibilmente al movimento psichico, rendendola una contrazione o una dilatazione dell’immagine in se stessa, attraverso il tempo passato e presente. Per questo, al cospetto di un immagine-tempo lo spettatore non traduce l’immagine cinematografica in un’azione, ma, al contrario, viene da essa costretto a ritirarsi in se stesso in virtù di un movimento interiore di inglobamento dell’immagine attraverso il tempo passato e presente. Sulla differenza tra immagine-movimento e immagine-tempo rimandiamo a R. De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Bulzoni, Roma 1996.

[19] Tra questi ricordiamo Dawkins, il quale, come vedremo, realizza una interpretazione speculativa. Cfr. R. Dawkins, Deleuze, Peirce and the Cinematic Sign, cit.

[20] G. Deleuze, Cinema 1. Immagine-movimento, cit., p. 109.

[21] Su questa concezione emerge ancora lo studio deleuziano di Peirce attraverso Deledalle che si distanzia proprio su questo punto rispetto all’interpretazione prevalente nella quale si pone l’accento decisivo sulla dimensione logica sopra quella affettiva. Cfr. G. Deledalle, Théorie et pratique du signe, Payot, Paris 1979.

[22] Si tratta di un’espressione che Deleuze trae da Kant e con la quale il filosofo tedesco indica la sola cosa che si possa dire a priori della percezione, la sua determinazione a priori, cfr. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., pp. 80-95.

[23] F. Montanari, La lettura deleuziana di Peirce. Fra presunte distorsioni e nuove interpretazioni: per una teoria delle immagini, cit., p. 75.

[24] G. Deleuze, Cinema 1. Limmagine-movimento, cit., p. 120.

[25] R. Dawkins, Deleuze, Peirce and the Cinematic Sign, cit., p. 10.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 12. Contrassegna il permalink.