L’estetica antropologica di Peter Sloterdijk

Giuseppe D’Acunto

Peter Sloterdijk, in Devi cambiare la tua vita1, aveva usato la formula di «imperativo etico» per designare quello sforzo di autodisciplinamento con cui l’uomo si sottopone a una prassi correttiva finalizzata al perfezionamento spirituale. Ora, nel momento in cui – nel libro che sottoporremo ad analisi – parla di «imperativo estetico», solo apparentemente egli sposta il suo discorso verso il dominio dell’arte2, in quanto già la formula richiamata all’inizio presentava un profilo marcatamente estetico. Si pensi, ad esempio, alla profonda affinità che corre fra la sua nozione di «antropotecnica» e quella di «estetica dell’esistenza» di Foucault.

Ci viene poi ricordato che l’“estetica” di Sloterdijk, essendo di impianto essenzialmente antropologico, prende le distanze dalla definizione istituzionale della disciplina in questione, per cui ecco come nella riflessione del filosofo tedesco il nesso fra etica ed estetica viene annodato nel segno dell’attitudine prettamente umana a raggiungere risultati trasformativi attraverso l’esercizio3.

Il fatto che etica ed estetica si presentino, in Sloterdijk, come strettamente congiunte è provato anche dal primo dei dieci testi che compongono il libro in questione: un saggio dedicato all’architetto Daniel Liebeskind, il quale, in quanto autore dello Jüdisches Museum di Berlino, si sarebbe fatto carico di un gesto artistico che si sostanzia di «un alto imperativo morale» (IE 2). Muovendo dalla dichiarazione dell’architetto appena menzionato secondo cui egli avrebbe lavorato sentendosi-parte dell’edificio progettato, Sloterdijk si richiama alle riflessioni di Merleau-Ponty e di Valéry circa il fatto che l’uomo non occupa semplicemente uno spazio, ma lo abita: vivendolo inclusivamente, non lo percepisce come un qualcosa che gli sta-di-fronte, ma intrattiene con esso un legame nel segno dell’appartenenza.

Il filosofo tedesco parla, a questo proposito, di un’«esperienza del sublime», intendendo quest’ultimo, però, non in senso kantiano, dove la natura è vista come una superpotenza che ci sovrasta, ma come una «presenza onnilaterale» prodotta dall’uomo e da lui esperita come un «ambiente integrale» (IE 5). Spontaneo è il paragone con il cinema, dove l’occhio si rende schiavo e da medium dell’osservazione a distanza si trasforma in «un organo dell’immersione in un milieu quasi tattile» (IE 6).

Per Sloterdijk, sublime è, inoltre, il fatto che, nell’edificio museale in questione, gli spazi pieni sono intercalati da spazi vuoti e lasciati liberi, i quali «tagliano la costruzione secondo un ritmo segreto» (IE 8). Nel segno di esso, lo spazio è pensato in modo tale che viene «salvaguardato il ricordo di avvenimenti che non possono rientrare nella piena disponibilità degli abitanti», così da «trattenere nella presenza» una dimensione che tiene conto di questa stessa inabitabilità. Il proposito non è, perciò, quello di edificare delle rassicuranti tombe, ma di alludere ai non-sepolti, a coloro che scomparvero nella catastrofe senza lasciare traccia: di operare «una radicale messa in forma del mondo dei morti dentro il mondo dei vivi». In tal senso, ciò che qui è in gioco è «una memoria del non rappresentabile»: un modo di partecipare a un qualcosa che si consegna all’assenza e che, di per sé, si sottrae alla partecipazione stessa.

Gli spazi vuoti permettono a ciascun osservatore di vedere i confini dell’osservare stesso: con giustizia sublime essi respingono ogni avvicinamento e trattengono tutti i visitatori nella medesima distanza; nessun singolo si può appropriare di questi spazi e farne il proprio punto di osservazione (IE 9)4.

Nel secondo saggio del libro, Sloterdijk si interroga sul tema della città, nel contesto di una riflessione improntata a una «politologia negativa» (IE 13). Negativa, in quanto l’elemento che si vuole evidenziare non è un mero fenomeno che caratterizza epoche tarde o decadenti, ma una condizione che, fin dall’inizio, accompagna lo spirito urbano occidentale:

la città europea paradigmatica non è tanto la somma dei suoi cittadini positivi, quanto la somma di coloro che vanno a costituire la città e di coloro che mirano a estraniarsene. La città […] è sempre qualcosa di più della totalità dei suoi abitanti attivi (IE 11-12).

Dopo aver interrogato Pindaro, circa l’idea antica di cittadinanza come presa di coscienza, da parte dell’uomo, di se stesso in quanto mortale, il filosofo tedesco si rivolge a Baudelaire, in uno dei cui poemetti de Lo spleen di Parigi trova un giudizio apolitico relativo alla città come l’unico luogo in cui è possibile vivere, nonostante essa comunichi un senso di stanchezza e di insofferenza.

Chi vede se stesso mentre si affaccenda nel vortice cittadino, costui si è elevato al di sopra della città e ne è divenuto un testimone trascendente: in un certo senso, un senza-città (IE 19).

Il terzo testimone chiamato in causa, dopo Pindaro e Baudelaire, è Platone, visto come il fondatore di una teoria di taglio non solo politico, ma anche apolitico. E apolitico nel senso che la città vagheggiata non ha, per lui, una collocazione terrena, ma iperuranica: si profila come un “altrove”, nel bel mezzo della polis esistente.

In quanto arte radicalmente sovversiva, essa [la filosofia] addestra le anime ad ascendere dalle loro proprie città in un esilio che sta al di sopra delle città (IE 22).

La morte stessa di Socrate segnerebbe una cesura fra la città e la verità, nel senso che la prima, dopo l’evento appena ricordato, fallisce miseramente in quanto luogo predisposto all’accoglienza del vivere buono.

Il percorso apolitologico di Sloterdijk poi prosegue visitando altri nomi (Diogene il cinico, Timone di Atene) e altre figure (l’anacoretismo, gli antichi culti misterici, il genere dell’idillio) fini ad arrivare, di nuovo, a Baudelaire, visto come colui che opera un sacrificio della città politica in nome di una difesa di tipo estetico della città stessa.

Nel terzo saggio del libro, Sloterdijk si interroga in merito all’essenza della musica partendo da un dato di antropologia acustica: quello per cui l’udito è una competenza acquisita molto precocemente, già nello spazio prenatale, in una fase, cioè, in cui il feto è immerso in un continuum sonoro interno, dominato da due emanazioni dell’ambiente materno (i battiti cardiaci e la voce).

L’orecchio è senza dubbio l’organo guida dell’approssimarsi umano al mondo, fin da quel momento dello sviluppo dell’organismo in cui l’individuo come tale ancora non “ci” è (IE 46).

La musica conserva così la capacità di evocare la nostra preistoria più intima e profonda, riportandoci allo stadio in cui non avevamo ancora guadagnato una distanza critica dal mondo. Ma a che condizione l’orecchio si fa sensibile alla musica? Esso, per quanto è un organo assoggettato a ogni presenza acustica che gli viene incontro, può, tuttavia, «incamminarsi verso un’altra forma dell’ubbidire» (IE 48). E ciò proprio regredendo anamnesticamente alla nostra condizione prenatale, di cui siamo stati inspiegabilmente privati. Non riuscendocene a fare una ragione, noi ci affidiamo all’ascolto, ora esterno, della voce materna: l’unica capace di rassicurarci, gettando «un ponte precario fra Allora e Adesso».

C’è la musica, perché gli esseri umani sono individui che insistono nel voler riavere di nuovo il meglio. […] [L]o specifico fascino dell’arte musicale […] è legato all’effetto di riattivazione di una presenza sonora che si credeva dimenticata (IE 49).

La ricognizione dell’essenza della musica prosegue introducendo il motivo per cui essa sarebbe l’«autentica religione della modernità». Anzi, di più, la musica sarebbe addirittura più religiosa della stessa religione. E ciò perché, proprio in virtù della sua «alleanza privilegiata con le disposizioni latenti dell’udito», nel passaggio dalla polifonia “orizzontale” all’armonia “verticale”, si è investita di una «potenza di annuncio» tale che ha surclassato la stessa religione. Dall’età moderna in poi, la musica esercita «un’irresistibile efficacia evangelica», in quanto dà prova di saper sviluppare «una superiore eloquenza in ogni tipo di elevazione ultraterrena» (IE 55). E dove la religione ha spesso predicato la fuga dal mondo e il ritiro dalle occupazioni mondane, la musica è riuscita, invece, a mettere a punto «un medium transizionale» in cui la «memoria di una ferita originaria premondana» è stata compensata da «un atteggiamento affermativo nei confronti del mondo» (IE 56).

Dopo il quarto, breve, saggio del libro, il quale si sviluppa come una riflessione sul mentire – mentire significa «vivere con debiti semantici» (IE 65), nonché «accende[re] un credito nel non-ancora-reale» (IE 64) –, il quinto, muovendo da una caratterizzazione dell’epoca in cui viviamo come il regno della competenza e della sconfinata potenza, individua nel principio del design ciò che, nel fissare i limiti della competenza del singolo, gli mette anche a disposizione «procedimenti e gesti per navigare da esperto nell’oceano della sua incompetenza» (IE 71). Ciò che ci viene dal design è, in poche parole, «una simulazione di sovranità» (IE 72).

Situazione, questa, tutt’altro che nuova, in prospettiva antropologica, in quanto ci riporta alla preistoria umana, ossia a quando l’homo sapiens si trovava immerso in una realtà naturale non ancora dominata dal punto di vista tecnico, così che, per lui, il non-potere era, in un certo senso, la sua prima natura.

La falla attraverso cui l’impotenza, il panico e la morte penetrano nella vita viene turata fin dai tempi arcaici grazie a rituali (IE 73).

E, proprio in questo senso, si può parlare della nascita del design dallo spirito del rituale, perché, per quanto il primo sia un fenomeno innegabilmente moderno, esso, tuttavia, affonda le sue radici in un substrato gestuale manifestamente simbolico.

Altri due tratti strutturali che caratterizzano il design sono poi dati, il primo, dalla convinzione secondo cui le cose non sono enti o creature, ma funzioni o azioni materializzate, in una parola: merci, mentre il secondo dal fatto che esso può definirsi come una «forma deviante di arte applicata».

Quanto all’arte applicata, essa è […] non solo una zona di contatto per coniugare tecnica e bellezza, ma anche un’esemplare incarnazione di un modo di procedere teso a rigenerare l’elemento dell’apparire in una vita bella (IE 81).

Il sesto saggio del libro, muovendo da un ripensamento del topos della meraviglia quale origine del filosofare, lo vede investito di un significato analogo a quello del sorgere della soggettività dall’estraneità del mondo.

Solo un completo sentirsi spaesati nei confronti del mondo in quanto c’è ed è così com’è può mettere in movimento quel colloquio dell’anima con se stessa che Platone ha determinato come il medium della filosofia (IE 91).

Configurando la museologia come una forma di xenologia, Sloterdijk stabilisce così uno stretto rapporto fra il museale e l’estraneo. Il museo non avrebbe, perciò, primariamente, una funzione didattica e conservativa. Piuttosto, attraverso di esso, il mondo ci si darebbe a conoscere come un qualcosa di estraneo: un «qualcosa che, benché conosciuto, ci rivolge uno sguardo straniero» (IE 92).

È con Hegel che nasce la «museologia filosofica» (IE 93): essa è così immanente alla sua filosofia della storia che, nel suo percorso lungo la storia universale, egli, nel ruolo di «segretario dello spirito del mondo», si trasforma nel «primo integrale visitatore di musei» (IE 94). E se il mondo può essere visto, per Hegel, come la fenomenologica esposizione universale del progresso, ecco come si dà, per lui, una piena coincidenza fra l’esponibile e l’assoluto.

Ora, l’essenza della museologia hegeliana altro non è che il concetto chiave della società borghese: l’appropriazione. Il fatto che lo spirito progredisca verso il pieno possesso della propria identità, richiede che esso assimili o distrugga o, meglio, assimili, distruggendo, tutto ciò che è altro da se stesso:

nella misura in cui è l’appropriazione a costituire il senso della storia, l’estraneo è destinato a farsi ridurre a un resto (IE 95).

Nel settimo saggio del libro, Sloterdijk inizia affermando che ciò che viene annunciato dallo Zarathrustra di Nietzsche è il «comandamento della sperimentazione» (IE 101). Siamo al paradigma del moderno, dove la scelta è sempre in funzione di un «incremento per via di esperimenti». Ma anche dove il caos è visto come un «istanza dello straordinario, nei cui confronti gli individui sono messi in tensione a partire dalla loro essenza ordinaria e finita» (IE 102). Il caos, fungendo da utero nella cui cavità «l’opera si forma in modo silenzioso e inavvertito», permette così di pensare il pro-durre in termini di nascita.

Nietzsche si comporta […] come ginecosofo delle arti (IE 103).

L’ottavo saggio del libro inizia rilevando che, prima dell’inizio della modernità, maggior peso e importanza avevano le cose sorte in modo naturale e spontaneo rispetto a quelle prodotte dall’uomo (comprese le opere d’arte). Con l’affermarsi del moderno, l’uomo assume, invece, sempre più la condizione di autore: comprende che il mondo è un qualcosa non semplicemente da interpretare, ma da trasformare a partire da un piano o progetto.

Così, l’opera d’arte moderna […] annuncia il superamento della natura attraverso la produzione (IE 107).

Ma, dove c’è produzione, essa richiede come suo pendant l’esposizione, perché senza il disvelamento dell’opera in uno spazio espositivo, «l’autorivelazione della forza creatrice non può giungere a compimento». L’esposizione si afferma così come l’«agenzia centrale del produttivismo epifanico» (IE 108).

Ma perché oggi viviamo un’inflazione dell’esponibile? Nella misura in cui si dà, non solo, una parallela inflazione nel campo del producibile, ma anche, più radicalmente, perché, se, da un lato, l’espressione e la costruzione non conoscono più confini, dall’altro, si assiste a un illimitato ampliamento del concetto di arte e, quindi, a un incremento dell’arbitrio.

L’arte dei nostri giorni presenta, inoltre, un dato inconfondibile: ha preso congedo dalla galleria e si è insediata nel territorio. In tal senso, non ha più nella virtuosità e nella padronanza tecnica dei mezzi il suo presupposto assoluto. Di riflesso, anche l’esposizione cambia statuto, non funge più da momento epifanico, ma mostra feticci, seconde scelte. Si rende necessaria così una «nuova ecologia del mostrare» che metta capo a «una diversa regola espositiva» (IE 116).

Nel nono saggio del libro, Sloterdijk tratteggia una metafisica del cinema d’azione: riconosce anche a quest’ultimo una valenza formativa, ma «non tanto nel senso dell’umanizzazione, quanto piuttosto in quello dell’ominazione» (IE 127). Ai due universali del cinema d’azione, correre e sparare, corrispondono, infatti, proprio quei due scenari dai quali viene fuori l’homo sapiens, in quanto animale che corre e che attacca o che si difende con pietre o bastoni.

L’unità gestuale del mettersi in fuga, girarsi e lanciare qualcosa all’indirizzo dell’aggressore è il più antico modello di azione dell’umanità (IE 128).

L’ultimo saggio del libro solleva la difficile questione relativa al futuro dell’arte. Ebbene, porre la domanda intorno a questo punto significa, essenzialmente, interrogarsi sul «futuro dell’elemento dolente nella società» (IE 150), tenendo conto che le forme di vita odierne si indirizzano sempre più verso l’alleanza fra prassi estetica e prassi terapeutica:

in questa alleanza di arte, arte medica e arte di vivere si decide un futuro per le società occidentali (IE 151).

Nel finale del saggio, Sloterdijk, chiedendosi su che cosa si fondi «l’occasionale indispensabilità dell’esperienza estetica attraverso l’arte», risponde che quest’ultima dà prova di una tale indispensabilità quando e nella misura in cui si procura un accesso alla «dimensione della presenza mentale [Geistesgegenwart]» (IE 160), detta anche «attenzione consapevole [Gewahrsamkeit]» (IE 165). Per quest’ultima, egli intende un qualcosa sul modello di quegli esercizi meditativi attraverso i quali noi dissipiamo «l’illusione della prospettiva psichica centrale di un Io strategico» (IE 161).

La vorace transitività dell’azione produttiva e del pensiero rappresentativo viene fermata e si converte nell’intransitività dell’evento irrappresentabile. Chi conosce questo, conosce anche il magico sfavillare dell’essere-presente (IE 162).

Sloterdijk afferma di aver imboccato questa via già da tempo, fin da quando, cioè, all’altezza della sua Critica della ragion cinica (1983), si era attivato per «far avanzare la filosofia nella direzione di una scuola della presenza mentale».

La filosofia dopo la fine della filosofia diventa prassi di meditazione e meditazione teorica (IE 165).

Chiude il libro una «Postfazione» (pp. 169-188) di Peter Weibel, dove si puntualizza che l’arte viene vista, dal filosofo tedesco, come una «forma eterodossa del sapere», ossia come un luogo in cui gli oggetti conosciuti, apparendoci sotto una luce inedita e trasformandosi in «fonti di stupore», acquistano così «una seconda esistenza» (IE 171).


Note

1 Sullantropotecnica, ed. it. a cura di P. Perticari, Cortina, Milano 2010.

2 Limperativo estetico. Scritti sullarte, a cura di P. Weibel, ed. it. a cura di P. Montani, Cortina, Milano 2017 (citato, d’ora in avanti, direttamente nel testo, con la sigla IE, seguita dall’indicazione della pagina).

3 Cfr. P. Montani, «Prefazione» in ivi, pp. IX-XVII.

4   Un giudizio critico analogo sullo Jüdisches Museum di Berlino è venuto da uno dei massimi storici dell’arte italiani: G. Dorfles, Paesaggi e personaggi, a cura di E. Rotelli, Bompiani, Milano 2017. Anch’egli ha visto nel suo stile un carattere «sconcertante», in quanto «specchio della situazione anomala e spesso tragica del popolo ebraico». Vi ha colto un gesto di omaggio e, al tempo stesso, di commemorazione. Sui vuoti che «interrompono l’articolazione normale dello spazio», ha poi aggiunto che essi danno all’edificio l’impronta di «una decisa asimmetria», nonché di «uno slivellamento, sia longitudinale che trasversale» (p. 144).

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