Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 10

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (IV)

3.1. L’uomo fallibile (III)

3.1.3. La fragilità affettiva

È arduo ripercorrere in maniera succinta l’impegnativo studio che Ricœur intraprende nell’affrontare il momento in cui si costituisce l’aspetto più intimo della dimensione umana, l’espressione conflittuale della soggettività vissuta: il sentimento. Ce ne suggerisce la profondità una definizione ricœuriana dalla quale prenderemo il via: «interiorizzando la dualità che fa la nostra umanità, [il sentimento] la esprime in conflitto; con il sentimento la dualità polemica della soggettività risponde alla sintesi solida dell’oggettività»[1].

Abbiamo seguito Ricœur in un percorso riflessivo il cui centro di interesse, la coscienza, veniva osservata, alla luce della sproporzione che le è propria, secondo una prospettiva inizialmente teorica che la coglieva, in quanto sproporzione sulla oggettività della cosa, come coscienza in generale, mentre la riflessione pratica ci proponeva, come coscienza di sé, la sproporzione sulla umanità della persona. Ricœur ci fa notare che il nostro scopo di restituire al discorso filosofico la tematica che il patetico della miseria ci proponeva in un linguaggio mitico, non è stato ancora raggiunto pienamente, né dalla riflessione trascendentale, né da quella pratica: il bilancio della riduzione operata evidenzia, per un innegabile guadagno in rigore, notevoli perdite in spessore, in profondità.

Ci siamo spinti, in altri termini, alla soglia del mistero, ne abbiamo distinto gli elementi costitutivi, ma nell’adempiere a questo pur necessario impegno, abbiamo dovuto rinunciare ad abbracciare, viva, la «sproporzione per sé»[2]. Ricœur varca quella soglia per esplorare, ora, il misterioso «legame indiviso della mia esistenza con gli esseri attraverso il desiderio e l’amore»[3].

Si apre qui lo spazio di una analisi del momento affettivo, di una filosofia del sentimento che si assume il rischio di colmare lo iato tra miseria vissuta, esperienza viva della sproporzione, e riflessione trascendentale su di essa.

Abbiamo, finora, proceduto a ritroso nel fatto di vivere, abbiamo scisso per conoscere, quando, viceversa, il sentimento si rivela come esercizio della funzione «di collegare; esso collega ciò che la conoscenza scinde; mi collega alle cose, agli esseri, all’essere»[4]. L’oggettivazione è un movimento attraverso cui mi stacco dal mondo per tentare di definirlo; con il sentimento, interiorizzando tutte le sproporzioni, metto in atto l’unione paradossale dell’intenzionalità verso il mondo (che mi porta fuori di me) e dell’affezione dell’io (che mi fa sentire di esistere). Il sentimento, dice Ricœur, «è anche sempre al di qua o al di là della dualità soggetto-oggetto»[5].

Il “non coincidere” dell’uomo è stato precedentemente colto nell’immaginazione trascendentale, agente sulla cosa, e nel rispetto, inerente la persona. Le due sintesi ci dicono, in chiave teorica e poi pratica, la fragilità umana connessa alla sproporzione. La conflittualità del sentimento, il darsi come strana intenzionalità «che da un lato indica qualità sentite sulle cose, sulle persone, sul mondo, dall’altro manifesta, rivela il modo in cui l’io è intimamente colpito»[6], l’esprimere insieme «una mira trascendentale e la rivelazione di una intimità»[7], dimostrano che il sentimento è la cifra della fragilità dell’uomo.

Ma la sproporzione è anche qui, nella dualità di ragione e sentimento, se con Ricœur prendiamo atto che l’una genera l’altro nell’estendersi verso un orizzonte di totalità, mentre il secondo, nell’interiorizzare la ragione, la personalizza. In più il sentimento, letto come desiderio sensibile, è proiettato verso il piacere, in cui placa la sua tensione vitale ad una forma finita di perfezione; la ragione, invece, apre l’ideale di una perfezione infinita, desidera la felicità, si protende nella spirituale ricerca della beatitudine. Ed ecco ancora il conflitto, il dislivello, la polarità di finito e infinito che si presenta come «una nuova scissione, tra sé e se stessi»[8], che trova, stavolta, il suo luogo di mediazione in quel qumóV platonico, termine di mezzo tra ragione (come Eros) e sensibilità, tra vita organica e spiritualità, tra ricerca del piacere e voglia di felicità. Luogo intermedio e nodale della sproporzione, il qumóV, «l’animo, è il momento fragile per eccellenza; il cuore inquieto»[9]. Ma è anche il “misto”, a testimoniare che il conflitto attiene all’umanità dell’uomo, alla sua più originaria costituzione. È per questo, riassume Ricœur, che non potremmo interiorizzare i conflitti esterni, quelli di cui la realtà ci fa partecipi, se non fosse già celato in noi un conflitto tra noi e noi stessi che li fa nostri, conferendo loro la sua originaria nota di interiorità. Noi siamo «già la sproporzione del bíoV e del lógoV di cui il nostro “cuore” soffre la discordia originaria»[10].

La nostra affettività è la conflittuale sproporzione delle sproporzioni: «l’oggetto è sintesi, l’io è conflitto»[11].

[1] ivi, p. 194.

[2] ivi, p. 164.

[3] ivi, p. 173.

[4] ivi, p. 224.

[5] ivi, p. 224.

[6] ivi, p. 166.

[7] ivi, p. 166.

[8] ivi, p. 225.

[9] ivi, p. 164.

[10] ivi, p. 225.

[11] ivi, p. 224.

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