Saggio su Martin Buber (1^ parte di 3)

Appunti per la ricerca di una Direzione
Saggio su Martin Buber
(1/3)
Maria De Carlo

Pubblichiamo, su concessione dell’autrice, il saggio
Maria De Carlo, Appunti per la ricerca di una Direzione. Saggio su Martin Buber,
Grafie ed., Potenza 2013 (ISBN 97-888-96295-12-0).
(Sono omesse la Prefazione, l’Introduzione e le Note)

Premessa (a cura dell’autrice)

Dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui. (Buber)

Buber muove fondamentalmente da una critica al pensiero moderno che, a partire dal cogito cartesiano, ha esaltato l’io considerandolo come colui che genera l’essere, rendendo “irreali Dio e ogni assolutezza”. in questo modo Dio è diventato oggetto – esso – del suo stesso pensare e non più il tu con cui dialogare. Un Dio che non ha nulla a che vedere con l’esperienza reale poiché “lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l’assolutezza e l’assoluto”.

Di conseguenza, l’uomo si è sostituito a Dio diventando egli stesso giudice di ciò che è bene e di ciò che è male (come si legge nel racconto biblico del Genesi), e così Dio, che ha abdicato alla sua potenza in favore della libertà dell’uomo, si è eclissato. Ma “l’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritrarsi”, afferma Buber che vede nella relazione con l’altro sé la vera completezza dell’uomo.

Colui che si è “pensato” padrone assoluto si trova, al contrario, smarrito dietro pseudodivinità, schiavo e soffocato dalle sue stesse opere in un rapporto alienante e frustrante tanto da diventare oggetto di se stesso. Il problema del male lo accompagna, poiché l’anima lo sperimenta, come afferma Buber, in tutta la sua profondità.

I due istinti, quello buono (della direzione) e quello cattivo (della non-direzione), creati per essere destinati ad agire in coppia (per meglio servire Dio), vengono separati dall’uomo che ha smarrito la via che conduce a Dio, al Bene; l’uomo così non riesce (perché non decide di intraprendere il cammino verso la giusta direzione) a dominare l’impulso cattivo. Chiuso nel suo ego, l’uomo non sa più dialogare, non unificato non è capace di relazioni autentiche e immediate, egli tocca le più alte vette della solitudine, e della disumanizzazione. Sordo ad ogni appello resta imprigionato nelle maglie dell’impulso “cattivo”. Il rapporto con il mondo è irreale, non vive il qui e ora; nessuna conferma del suo esser-quest’uomo.

Alla luce di queste considerazioni, la filosofia dialogica di Buber (e il suo insegnamento) è un sentiero possibile – e comunque urgente – quale risposta ad un’umanità assetata di verità e ferita dal male che non riesce più a controllare, pervasa com’è da quell’ospite inquietante, il nichilismo, tempo in cui manca il fine, manca la risposta al perché, come diceva Nietzsche, e i valori perdono ogni valore.

L’uomo è invitato a riprendersi in mano, a “possedersi”, solo così sarà in grado di prendere “decisioni” secondo il proprio cammino (per questo non c’è nessuna formula precostituita, poiché possono essere molteplici le vie che conducono a Dio. A ognuno la sua!), e solo così potrà poi “spossedersi”, poiché capace di relazioni autentiche con l’altro. Un dialogo che l’uomo deve cominciare a far partire da sé; ma un “io” che non potrà mai pronunciare senza il “tu” che lo rivela. L’uomo a cui si fa riferimento è quello che non ha bisogno di rinnegare Dio per affermare se stesso, al contrario. Quanto più l’uomo si scopre essere-in-relazione, capace di guardare l’altro da sé, tanto più conferma la sua autentica natura. L’uomo contemporaneo vive una crisi antropologica non indifferente. Saltate le sicurezze e i grandi idealismi, anche le strutture sociali (una volta rifugio) non reggono all’urto del disorientamento.

“Tale è l’ora presente”, afferma Buber, quasi masticando con amarezza queste parole. E alla domanda: “Ma come sarà la prossima?”, Buber non soccombe in un pessimismo; certo “ogni età è la continuazione di quella precedente – asserisce -; ma una continuazione può essere conferma oppure rinnegamento”.

Ecco allora riapparire sulla scena l’uomo in tutta la sua libertà e responsabilità, capace di vincere il male soggiogandolo al bene.

Con il seguente racconto chassidico, dal titolo “il male”, invito il lettore a lasciarsi condurre dal maestro Martin Buber lungo un percorso che conduce a una direzione possibile. A Buber, che ha saputo fare della sua vita una continua esperienza dialogante, rivolgo un pensiero di profonda gratitudine.

“Uno scolaro chiese al Magghid di Zloczov: «Il Talmud afferma che il bambino, nel seno della madre, contempla il mondo intero e conosce tutti gli insegnamenti, ma che, nell’istante in cui viene a contatto con l’aria della terra, un angelo lo colpisce sulla bocca, sicché dimentica ogni cosa. non ne comprendo il motivo: perché conoscere prima ogni cosa e poi dimenticarla?». rispose il Rabbi: «Nell’uomo resta una traccia, tramite la quale egli è messo in grado di riacquistare la conoscenza del mondo e degli insegnamenti e rendere così il giusto servizio a Dio». Quello però insisteva: «Perché l’angelo deve colpire l’uomo? Se non lo facesse, il male non esisterebbe». «Ma se non esistesse il male» rispose il Rabbi «non ci sarebbe neppure il bene, perché questo non è che l’altra faccia del male. un piacere che dura eternamente non è un piacere. ecco come dobbiamo interpretare l’insegnamento secondo il quale il mondo è stato creato per il bene delle creature che lo abitano. ed ecco perché sta scritto: ‘non è bene che l’uomo’, intendo il primo, quello creato da Dio, ‘stia solo’, cioè senza l’effetto contrario e l’ostacolo rappresentato dall’inclinazione al male, come era prima della creazione del mondo. infatti non c’è bene senza che esista anche il suo opposto. leggiamo poco dopo: ‘Voglio farlo in modo che possa aiutarsi’ per indicare che la lotta del male contro il bene consente all’uomo di vincere, di rifiutare il male e di scegliere il bene. Soltanto così il bene esiste veramente e in modo perfetto»”.

I.  L’ombra del malessere

Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. (Buber)

L’esistenza, fin dal grembo materno, è accompagnata in ogni suo sospiro dalla luce e dalla notte. Nell’oscurità l’uomo è messo a dura prova. L’immaginazione prende il sopravvento e la visione delle cose è condita dal malessere. Questo perché l’esistenza è sempre più autentica quanto più è illuminata dalla verità. Il mito della caverna ci insegna che la luce ci permette di vedere le cose nella loro effettiva realtà, la luce ci conduce a una consapevolezza più piena di ciò che siamo. Ma la vita di ogni uomo è attraversata anche dalla notte, dalle tenebre: buio che confonde e procura malessere. Ognuno di noi può dare un nome a quel male che procura disagio, che toglie il respiro annebbiando la vista e facendo smarrire la serenità.

Non vi è mai capitato di mettere in discussione ogni certezza raggiunta, come pure la sensazione di venire soffocati da una insoddisfazione? Ciò è simile a una presenza fastidiosa o pungente come l’ortica. La domanda “dove mi trovo?” acquista un senso se ad essa facciamo seguire una riflessione e un approfondimento del mio sé in relazione a un universo di uomini e cose che mi circondano. Cosa ho fatto? Quali le mie aspirazioni? Cosa penso di me? Come vengono vissute le mie relazioni con gli altri? So prestare l’orecchio a ciò che mi risuona nel profondo?

La pienezza dell’uomo e del suo essere va oltre il confine dell’immediato, oltre tutto ciò che lo coinvolge nelle “cose” poiché: “Tutto questo e cose di questo genere insieme fondano il regno dell’esso”. Nelle cose che lo circondano e di cui l’uomo si circonda “i tanti lui, lei, esso” (che Buber non rigetta, anzi il mondo dell’esso, cultura, scienza, tecnica, istituzioni, etc. – è necessario per dare “continuità e durata ai frutti della relazione”) rientrano in quel dinamismo profondo dell’essere che trova radice nell’inquietudine esistenziale, nel suo esistere in quanto coppia, relazione io-tu. Un equilibrio che, se infranto, sprofonda l’uomo nel baratro della frammentarietà. L’uomo così si è perso: “Dove sei?” è la domanda che Dio rivolge ad Adamo “o a chiunque altro”: “Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità”.

Interrogarsi, mettere in discussione le proprie certezze è solo l’inizio di quel processo che va sotto il nome di “ricerca”. Ed essa è propria dell’uomo che si interroga e si pone infinite domande. C’è una sana inquietudine che accompagna la nostra ricerca. E questo è un bene. Ma altrettanto salutare è trovare di volta in volta, di ricerca in ricerca un senso a ciò che facciamo, un senso che si rinnova, così come la nostra esistenza è in continuo cambiamento ed evoluzione. Trovare un senso (o uno scopo-significato) diventa vitale per la propria sopravvivenza ed equilibrio. Il vuoto interiore o esistenziale, come lo chiama Victor Frankl, blocca il flusso della vitalità e della “presenza”. Il senso poi trova maggiore significazione se affonda la sua radice nell’essere mistero e nell’avere a che fare con il mistero, e se abbiamo chiara in noi la “Direzione”. Sapere dove andare equivale a dare senso a ogni nostro gesto, a ogni nostro incontro, a ogni nostra scelta. Quando ciò viene a mancare ecco allora prendere piede in noi quel malessere o male che trova nella sua piena realizzazione il buio e la notte, la perdita di direzione – il non vedere. E’ male tutto ciò che non ci fa stare bene. Non sapere (o non vedere) dove andare e brancolare nella notte procura malessere: male-essere, che ben si traduce con “stare nel male” o “stare male”, ma anche “essere-male” ovvero ciò che è “male per me”.

Siamo chiamati a fare delle scelte, la vita ci pone di fronte, a partire dalla quotidianità, situazioni che ci interpellano e richiedono una scelta, e anche la non scelta (apparente) diventa scelta essa stessa. E proprio questo decidersi, la scelta di ciò che potrà avvenire, e quindi del futuro, dell’ignoto, procura e genera angoscia. Disperazione e angoscia che sono strettamente legate e sono proprie della struttura dell’io. Noi tutti dobbiamo fare i conti con questa struttura. Søren Kierkegaard ci parla di disperazione dell’io, sia che voglia essere sia che non voglia essere se stesso. Egli parla di malattia mortale, cioè il vivere la morte dell’io: “è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta”. Per combattere la disperazione è necessaria la possibilità, e solo a Dio tutto è possibile, afferma Kierkegaard: “per quanto disastrosa o disperata la situazione in cui un uomo viene a trovarsi, Dio può sempre trovare per lui, per questo singolo uomo, una possibilità che gli dia respiro e lo salvi. Ma Dio può far questo perché ha a sua disposizione infinite possibilità che gli diano respiro e lo salvino. Se l’uomo si trovasse nella stessa situazione, non avrebbe, ovviamente, bisogno di Dio”. Ecco allora trovato, per il credente, “il contraveleno”. E se la disperazione è peccato, suo opposto è la fede che procura speranza e fiducia in Dio.

Credo che l’esperienza di Kierkegaard possa essere un incentivo a guardare dentro di noi. Egli scrive: “Ciò che in fondo mi manca, è di veder chiaro in me stesso, di sapere “ciò che io devo fare” (…) e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole che io faccia, di trovare una verità che sia una verità per me, di trovare l’idea per la quale io voglio vivere e morire”. Kierkegaard rifiuta un “sistema” e introduce il concetto di una soggettività della verità. Dunque anche per noi: “ciò che conta è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per cui io voglia vivere e morire”. La verità è tale se tiene conto dell’esistenza concreta del soggetto, ciò che spinge a compiere determinate azioni o decisioni.

Ma cos’è il male che ci accompagna fin dalla nascita e di cui non riusciamo a liberarci? Perché esso è il compagno fastidioso che ci rende infelici anche se allo stesso tempo può trasformarsi in opportunità di riscatto? Il male può diventare una risorsa quando trovandoci in un baratro tanto profondo da sfiorare il limite della non-possibilità, del non-ritorno, esso diventa, nella notte oscura (perdita del proprio senso esistenziale), l’occasione (che siamo liberi di cogliere o meno) dello sprigionarsi di quella forza vitale che spinge l’uomo alla piena consapevolezza di sé per la conquista della felicità autentica. E’, quindi, nella paura e nel buio che si può “ri-sorgere”, è qui che avviene il riscatto per la vita nuova, l’uscita verso la luce come una seconda nascita. Solo così è possibile trovare la Direzione. E’ necessario un incontro autentico, come insegna Martin Buber, a partire da se stessi, ricordando che non ci si salva da soli.

Un punto, questo, fondamentale per la comprensione del pensiero dialogico dell’autore. Per Buber l’uomo è nella relazione (una relazione che dovrebbe essere segnata dalla autenticità e reciprocità ma che talvolta è malata in quanto l’uomo, soprattutto nella modernità, per l’altro è solo un “esso” da strumentalizzare per propri scopi), ed è nella pronuncia di quel “tu” che egli comprende il proprio “io”. Da un tu orizzontale a un tu verticale, poiché “la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio”. Relazione che nell’epoca moderna si è oscurata (come scrive ne L’eclissi di Dio) per effetto dell’ipertrofia dell’io-esso cioè di quel rapporto che vede l’altro come oggetto. Una prospettiva, quella proposta dal filosofo ebreo, che si discosta da una visione moderna che considera l’uomo in termini di “individuo”. Al liberalismo individualistico e al collettivismo – per Buber due atteggiamenti esistenziali – si oppone la via della “comunità vera”, luogo di molteplicità di persone e di reciprocità. Si tratta della Comunità (Gemeinschaft) dove si costruiscono relazioni io-tu. In Ich un Du Buber afferma: “La vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca. La seconda condizione scaturisce dalla prima, ma non si dà ancora solo con quella. Una vivente relazione reciproca comprende i sentimenti, ma non deriva da essi. La comunità si costruisce a partire dalla vivente relazione reciproca, ma il costruttore è l’operante centro vivente”.

Dunque il male è proprio questo non volersi dirigere verso l’incontro autentico. E allora la domanda: E’ possibile il recupero del rapporto autentico? Certo. Esso si può trovare in un cammino che parte dal dialogo con se stessi – ritorno, conversione (teshuvah), un ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino – per aprirsi poi all’incontro con l’altro: “Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!” come Buber riporta in un racconto: “Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”, che così commenta: “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno (…)”.

L’io è incomprensibile senza il tu. Non si può parlare dell’io escludendo il tu. Buber afferma: “Quando si dice tu, si dice insieme l’io della coppia io-tu”. L’assenza di questa relazione è causa di inquietudine che l’Io-Esso non può colmare poiché “la parola fondamentale Io-Esso non può mai essere detta con l’intero essere”. Il tu che l’uomo pronuncia lo apre all’infinito. E nella pronuncia del tu l’uomo si affaccia alla sua vera realtà, quella relazionale: “Chi dice tu – afferma Buber – non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella Beziehung (relazione)”. E’ necessario pertanto ripensarsi uomo in termini di relazione io-tu. L’io ha coscienza di sé solo mediante l’incontro con il tu. Relazione dialogica. E relazione è reciprocità; l’io si dà nella realtà proprio mediante la relazione, un rapporto con l’altro che è costitutivo dell’essere. Ma questa relazione con l’altro può essere, dice Buber, autentica quando si vede nell’altro il “tu” (l’Io-Tu: santa parola fondamentale del dialogo) e ciò è pienezza del proprio essere; oppure relazione non autentica quando, nella sfera dell’Io-Esso, si vede l’altro come “esso”, cioè si vuol ridurre l’altro ad una cosa, ad uno strumento da utilizzare per propri fini, ad un oggetto su cui esercitare il proprio potere o un oggetto da voler rendere a propria immagine e somiglianza, allontanandosi così dalla Gegenseitigkeit (reciprocità). Secondo Buber, nell’epoca moderna il rapporto io-esso ha conseguito un netto predominio sulla relazione io-tu. Di conseguenza, la vita dialogica – sia della relazione con l’altro uomo che con il Tu eterno (relazioni che per Buber sono interdipendenti poiché solo chi è capace di relazione autentica con il tu può anche invocare il Tu Eterno) – è in crisi; l’uomo della tarda modernità è “senza casa”, senza relazioni e perciò solo; di fronte a questo uomo che vive un forte disagio spirituale, che non è capace di pronunciare “tu” e quindi non riesce a vivere relazioni autentiche, Dio si è eclissato. Poiché ad avere la meglio è stato il rapporto Io-Esso cioè un primato dell’ego che considera “altri” in termini di oggetto. “Senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo”. Ciò che Buber condanna è il prevalere del mondo dell’esso sulla possibilità delle relazioni autentiche. E comunque l’uomo può sempre sottrarsi al mondo dell’esso, rifugiandosi in quello della relazione con la conseguenza che “solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. E nell’atto della decisione, della scelta, avviene l’opzione fondamentale della conversione-direzione che si oppone alla non-direzione cioè al male, poiché esso è il permanere nella non-scelta. L’uomo può entrare in relazione, oltre che con il suo simile, anche con gli esseri della natura e con le “essenze spirituali”. Relazioni tutte che se autentiche – ovvero caratterizzate dall’immediatezza e dalla reciprocità – aprono al mistero, al “tu eterno”, al rapporto con Dio poiché “ogni singolo tu è una breccia aperta sul tu eterno”. Buber parla di quel “tu” che: “non è un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definitive. Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce”. Il tu, la sua luce pervade tutto l’essere, è il tutto che si presenta e mi incontra per grazia non si trova nella ricerca; afferma Buber: “Il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire”. C’è una risposta al tu che si svela, c’è una scelta che spetta all’uomo, la disponibilità ad accedere alla relazione: “L’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu, diventando io, dico tu. Ogni vita reale è incontro”.

E ancora sul ritorno – che è al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo – Buber afferma che: “ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. Il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie”. La virata di cui parla Buber rinvia al tema della “direzione-decisione” che l’uomo deve intraprendere per abbandonare il male. “In una predicazione pronunciata all’apertura del giorno dell’espiazione, il Rabbi di Gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘Allontanati dal male e fa’ il bene’, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”.

Il ritorno alla relazione è fonte di bene: “Solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. Si fa appello alla decisione dell’uomo di scegliere. Una visione, questa, che attiene al profetismo e responsabilizza l’uomo di fronte al suo destino. Il male dunque è inteso come “forza senza direzione”, ovvero “istinto cattivo” che si contrappone all’“istinto buono”. Buber afferma: “… se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi”.

Interessante al riguardo il volume di Martin Buber Immagini del bene e del male (Bilder von Gut und Böse), per una possibile pista di riflessione che rinvia a una vita “pienamente” spirituale o religiosa nel senso di una relazione personale con l’altro, il Mistero, il Divino, che nel pensiero buberiano è il Dio di Abramo.

Attraverso Martin Buber intendo approfondire la questione del male in relazione alla nostra esperienza di vita, alle nostre domande. Buber, più che una soluzione al problema del male, fornisce “una descrizione sintetica del male in atto per aiutarne la comprensione”, per approdare poi a una possibile risposta al problema: “la battaglia deve cominciare dalla nostra anima; tutto il resto si svilupperà da lì”. Un pensiero ben esplicitato nel racconto Gog e Magog, che vuol essere una risposta a quanto aveva detto il filosofo Berdjaev sul male: “Impossible de le résoudre, ni même de le poser de manière rationnelle, parce qu’alors il disparait”. Si tratta di una risposta che Buber elabora nel volume Immagini del bene e del male.

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