Gilles Deleuze: nel Fuori assoluto

Fabio Vergine

 

Esistono quesiti di fronte ai quali la lucidità dell’intelletto non è sufficiente a trarsi d’impaccio. Esistono delle questioni che scavano un solco profondo nella presunzione di saperne, così che non si possa far altro che sprofondarvi per non riemergerne mai più. Per questo, il filosofo è anche colui che fugge dalla risposta ad una domanda che lo fa arrossire, che lo consuma di vergogna, che lo irretisce e lo rinchiude nell’impasse. In fondo non c’è impertinenza più sconsiderata che chiedere ad un filosofo che cosa sia la filosofia, se egli ha saputo essere tale proprio perché è stato in grado di tacere a domande sbagliate. In Gilles Deleuze. Credere nel reale (Feltrinelli, Milano 2015), Rocco Ronchi

non interroga direttamente la filosofia, ma il concetto, quel concetto in forma d’evento che, della filosofia, è simultaneamente padre e figlio, quel concetto, cioè, che tutela dal rischio di formulare domande inopportune, ma che costituisce innegabilmente il vortice immobile della filosofia di Gilles Deleuze.      Creazione di concetti: è questa la formula più abusata per l’identificazione della filosofia deleuziana. Ma in fin dei conti, il concetto è proprio ciò che non si lascia costruire, che oppone resistenza all’accumulazione scriteriata, alla successione lineare e sistematica di un sapere ordinante e ordinato. Fuori dal senso, dall’intelligibilità di una strada senza intoppi, dal dogmatismo di un discorso che deve filare, il concetto è un ponte senza approdo, è il sintomo di un evento del pensiero che rompe il fil rouge. Ed è proprio nelle incalcolabili deviazioni aperte dal concetto che Ronchi porta in superficie, dall’intimità spesso inintelligibile della prosa-evento deleuziana, un incedere filosofico che non teme di allearsi con il paradosso, la distruzione e l’immoralità, piuttosto che con i dogmatismi compassati e moralistici dell’armonia e dell’equilibrio.

In fin dei conti non si tratta che di stravolgere l’Immagine del pensiero, quell’immagine che, rispondendo alla logica del senso comune, ne impone i più gretti dogmatismi. È necessario, per il pensiero, rinunciare all’Immagine, perché si dia filosofia. E così, malgrado la loro difformità e refrattarietà alla successione e all’ordine lineare, i concetti costruiscono un piano, il piano di un pensiero “puro”, senza Immagine, un piano di immanenza che si faccia terreno di cominciamento per una filosofia che sia davvero trascendentale, poiché, come ricorda Ronchi, per il filosofo francese non se ne dà alcun’altra forma.

La filosofia deleuziana insegue la veggenza e, per mezzo dei concetti, costruisce uno sguardo sovrannumerario, quello che Ronchi definisce come un “terzo occhio artificiale”, inattuale, fuori dal tempo. Trascendentale, proprio perché può e deve fare a meno dell’uomo e del mondo, deve confliggere con essi senza timore di soccombere nell’agguato contro la doxa, contro il senso, contro il Chronos che non ritorna. Del resto non si tratta che della realizzazione filosofica di un occhio non umano, del Kinoglaz di Dziga Vertov, di un occhio insito nelle cose, nel cinema e nella fotografia stessi quali protesi di quell’Essere che è in grado di vedere senza sguardo alcuno.

La filosofia crea concetti, e i concetti sono gli operatori della veggenza, quelli che Rocco Ronchi individua come responsabili della creazione di quell’occhio veggente che si dà quale condizione trascendentale di tutti gli sguardi possibili. Ecco perché forse, allora, la filosofia di Deleuze può veramente incarnare la veggenza dell’Essere e del suo occhio trascendentale e orfano di qualsiasi riferimento all’uomo e al mondo.

I concetti operano nell’intuizione filosofica per mezzo di un’incessante atto creativo, un atto puro che rispecchia il farsi della vita stessa e che, in fondo, ad essa persino vi si identifica: filosofia e vita sono il rovescio della stessa medaglia, la filosofia è la vita che riflette su sé stessa nel suo infinito atto in atto, è vita che in essa si auto-riflette, che incespica nel cammino per tornare a vorticare irrimediabilmente su di sé, in virtù della variazione infinita, o dell’eterno ritorno. E in fin dei conti c’è qualcosa, nel trascendentalismo deleuziano, che fa sì che la vita non si conceda alla cronologia, ma solo ad essere colta nel divenire del suo atto senza posa, nella paradossalità dell’eterno presente di un atto in atto; qualcosa, cioè, che impedisce alla vita di costituirsi come un fatto compiuto, segnato dall’incombente gravità di una cronologia che lo redimerebbe nella risoluzione della fine. Secondo Ronchi, allora, filosofia e vita, in Deleuze, non rispondono alla logica della narrazione e della loro consunzione nell’orizzonte della fine. Un tempo altro le caratterizza, un tempo pre-ontologico, condizione d’esistenza e fondamento puro di quella vita che scorre come una narrazione e che ha bisogno di trovare nel tramonto il suo ultimo senso. Filosofia della variazione incessante, dunque, filosofia come un atto colto nel suo eterno farsi, giacché l’evento stesso è variazione, il cui statuto risiede in quel frammento di Reale tra l’essere e il non essere. Per questo Ronchi, riferendosi spesso al pensiero gentiliano, è sostanzialmente concorde nel definire la filosofia deleuziana come una filosofia dell’evento, come la filosofia di un puro atto in atto.

E se filosofia e vita disconoscono il medesimo orizzonte cronologico, in fin dei conti è proprio all’opera di Giovanni Gentile che Ronchi si riferisce quando ricorda che l’unico tempo in cui la filosofia esprime sé stessa nella sua storia è il presente eterno in cui il pensiero pensa, in cui, cioè, l’atto del pensiero si trova nella pienezza del suo svolgimento.

Si tratta, allora, di intercettare, nei pressi del tempo cronologico, il suo fondamento non cronologico, quello che Ronchi definisce il “grado zero” che fa scorrere il Chronos, un tempo che sia il Fuori assoluto, fuori dai cardini che ne reggono il flusso. Un tempo assolutamente Fuori che sancisca il frenetico ritmo del tempo dentro; quel tempo che il Deleuze di Cinema 2 scorgeva nelle sconvolgenti rifrazioni dell’immagine-cristallo e della situazione ottica e sonora pura, quel tempo che, nella Logica del senso appariva nel suo sconfinato potere di tranciare il continuum del passato-futuro per mezzo della sua lama sottile e impalpabile, quell’istante perverso e capovolgente dell’Aion, eterna fondazione del tempo.

E in fondo, che altro è l’Aion se non la temporalità dell’evento stesso, del puro accadere di qualcosa colto nell’istante eternamente dilatato del suo puro accadere? Che altro è se non l’incarnazione del paradosso megarico dell’uomo calvo? Dov’è, infatti, la soglia che distingue l’accadere dall’accaduto, il presente dal passato, se non nell’evento stesso, nell’essere nient’altro che la ripetizione inarrestabile di un infinito atto in atto? Che altro indica, infine, la temporalità dell’evento se non un divenire puro, assoluto?

Se, infatti, la ripetizione è ciò che caratterizza la temporalità dell’evento nel suo puro accadere, ciò significa che, utilizzando le parole di Rocco Ronchi, il processo, o meglio ancora, il divenire assoluto della variazione incessante deleuziana, è il mezzo. «Ogni nuovo soggetto d’indagine si innesta nel mezzo: essere sempre nel mezzo, cominciare dal mezzo e finire nel mezzo», dice Ronchi. Si è sempre nel mezzo: e nel mezzo di uno di quei soggetti prediletti della filosofia trascendentale deleuziana che è l’esperienza pura, immersa nel puro divenire, l’unico presente possibile è il presente del suo accadere senza fine, to exaiphnes, come ricorda Ronchi: l’indefinitezza di un avverbio, dunque, e non certo l’indiscutibilità di un tempo verbale. È in virtù di questa “presenza del presente”, allora, che il divenire assoluto non vive alcuna cristallizzazione o sedimentazione di sé negli istanti del tempo che scorre, ma si coglie nella sua stessa presenza che schiva il presente e insegue i getti simmetrici di sé stesso nel passato e nel futuro, ovvero la cesura senza spazio né tempo del momento Aion.

     Così, allora, la filosofia di Deleuze è una filosofia trascendentale dell’esperienza pura, di quell’esperienza, cioè, che si riferisce ad un piano di immanenza assoluta in cui, prima di qualsiasi individuazione e intenzionalità fenomenologica, la coscienza è una coscienza impersonale. Di “uomini, piante, ostriche, mosche, stelle ed elettroni”, poiché nell’univocità del Reale non si può che attestare l’infinita uguaglianza degli enti. Un solo e medesimo clamore dell’Essere, ricordava Alain Badiou leggendo Deleuze, affinché sia chiaro che il Reale possiede la stessa voce per tutti gli essenti, i quali altro non sono se non differenze individuanti, o per meglio dire, gradi di intensità dell’Essere-Uno che, pur nella loro distinzione, portano con sé il medesimo senso dell’Essere di cui si dicono.

E se ha ragione Ronchi nell’aver definito il ’68 come un’intrusione del Reale puro, il Reale stesso, in virtù della ripresa della tesi deleuziana sull’univocità, è il più puro fuori-senso, un eccesso la cui perfezione non indica nulla, e il cui statuto si installa al di qua della significazione e del giudizio di valore. Così come la filosofia di Deleuze è un evento essa stessa, allora, persino il Reale è un evento, e l’evento è il senso medesimo, il senso di ciò che è fuori dal senso, di ciò la cui lettera “è insignificante”. E ancora, se l’evento è il puro accadere di ciò che accade, allora è anche il segno di ciò verso cui non ci si può mostrare affatto indegni.

Conciliazione di pluralismo e monismo, univocità del Reale, immanenza assoluta: è questa la realizzazione fondamentale dell’ontologia deleuziana, un’ontologia che, pur nel suo empirismo trascendentale, non rifugge l’infinito, ma lo pone nell’atto in atto dell’evento. Ricorda Ronchi, infatti, che «l’infinito è sempre in atto nell’evento». E se l’infinito è davvero l’orizzonte generale da cui osservare la filosofia di Deleuze, non si può che coglierne l’insistenza attraverso la veggenza speculativa della costruzione di concetti, e non certo in un Idealismo dogmatico.      E nel tentativo di inseguire ancor più nitidamente la veggenza speculativa dei concetti nella prosa intrigante, pungente e spesso disorientante di Gilles Deleuze, Rocco Ronchi ha visto il limite senza soglia dell’evento, il piano dell’immanenza assoluta come un Fuori assoluto, al di qua del giudizio, al di qua di un senso che non sia l’evento stesso. Ha visto il punto inesteso dell’istante Aion che fonda e divide il tempo. E l’infinito nella pura immanenza della vita.

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