Senza limiti

Tommaso Tuppini

 

«La più grande chiarezza è sempre stata per me la più grande bellezza», è un motto di Lessing che Heidegger scrisse a mano sulla copertina interna della copia di Essere e tempo che aveva regalato a Husserl: non è una fede fenomenologica o un pregiudizio illuministico o una “opinione”, ma dice di che cosa è fatta la passione filosofica in quanto tale. La “fatica del concetto” – cioè il lavoro della filosofia – significa grossomodo saper fare chiarezza nel panorama indistinto della vita. Il filosofo è sempre un poco paranoico: prova piacere quando riesce a dare un ordine a qualcosa che immediatamente sembra confuso, a mala pena comprensibile, forse inspiegabile. Gli piace leggere

un romanzo e formularci sopra un pensiero, guardare un film e scoprirne la struttura, vivere o guardar vivere gli altri e cavarne fuori un qualche significato. Il filosofo in cuor suo è convinto che sapere com’è possibile fare un’esperienza di bellezza è più interessante che fare un’esperienza di bellezza. Anche quando la sua ricerca mette capo a qualche cosa di difficilmente concettualizzabile o di “ineffabile” – tutte le forme di “filosofia negativa” – alla fine deve pur trovare un posto dove mettere questa indicibile chiazza d’ombra, deve cioè darle una funzione, per esempio quella di rendere possibile tutta la luce che circonda la chiazza e tornare così a vederci in modo chiaro. Gli strumenti che la filosofia ha a disposizione per fare questo lavoro sono due: l’analisi e la sintesi, l’unità e la differenza (oppure: l’uno e il due, l’identità e la molteplicità, ecc.) Far filosofia vuol dire separare e unire, distinguere e identificare, seguire il ritmo dell’andata e del ritorno delle cose che si differenziano le une dalle altre ma anche hanno qualcosa di comune (se non avessero niente in comune non potrebbero intrattenere neppure il rapporto della differenza, che è di per sé un tratto unario). La differenza sullo sfondo dell’unità e l’unità sullo sfondo della differenza sono gli elementi essenziali della vita filosofica, gli strumenti del suo desiderio di chiarezza. Ma la differenza e l’unità si producono sullo sfondo di che cosa?

Il desiderio di chiarezza risponde in modo polemico alla mancanza di chiarezza della vita. Il giovane Lukács parlava dell’«anarchia del chiaroscuro» dell’esistenza in cui «nulla si realizza totalmente, mai nulla giunge a compimento: continuamente s’inseriscono nuove voci, che creano confusione, nel coro di quelle che già echeggiano. Tutto continua ad affluire e a defluire nel tutto, senza impedimenti, in un indistinto rimescolio: tutto viene distrutto e disintegrato, nulla fiorisce fino allo stadio di vita reale». E cosa sarebbe mai questa “vita reale”? La vita che «viene vissuta fino in fondo». Nell’idea di Lukács si tratta di un’esistenza tragica. Un’esistenza tragica è infatti un’esistenza che vive-il-fondo, cioè che s’impossessa del proprio limite costitutivo, di ciò che la finisce e dunque la completa. L’esistenza tragica è un’esistenza al-limite, nella quale il limite funziona come un doppio legame: il limite fa finire, termina (qui la vita – appunto perché limitata – finisce) ciò che rende completo (qui la vita – appunto perché limitata – si dà come un tutto). L’esistenza tragica abita lo spazio di soglia su cui l’esistenza finisce e rimbalza su se stessa re-integrandosi, fa esperienza della negazione che le permette di affermarsi come esistenza completa. Esistenza tragica ovvero filosofica, nella quale il mescolamento chiaroscurale della vita si raccoglie su di sé e diventa ordinato, diventa un destino. Solo dopo l’accettazione del limite le differenze fra le voci del coro vengono riconosciute come i tratti di un’esistenza unica e l’unità diventa il foglio la cui filigrana permette di riconoscere le molteplici sfumature dell’esistenza. Unità e differenza, analisi e sintesi, diventano il ritmo di una vita che abbandona quella che Heidegger chiamava la Diesigkeit, la nebulosità dell’esistenza che non è mai in chiaro circa se stessa, che vive perché vive, non si fa troppe domande su come e che cosa vive, non distingue neppure fra sé e il “mondo-ambiente” facendo così di ogni gesto qualcosa di colloso, goffo, vago, un getto d’acqua dentro l’acqua. Ragion per cui è sempre molto difficile sentire la differenza, ad esempio, tra il braccio teso e l’aria che il braccio fende, la camminata e il suolo, il pensiero e il pensato, la vita e la comprensione della vita. Il limite ha la funzione di salvare l’esistenza da questa connaturata nebulosità o acquaticità e il dovere di tracciarlo può diventare la ragione di vita di qualcuno, il filosofo.


  1. Le nostre storie

Ma il limite e la chiarezza che esso porta nel panorama indistinto della vita non è la ragione di vita soltanto del filosofo. Tutti quanti siamo alla caccia dei nostri limiti per bucare la nebulosità della vita. Ci diamo dei limiti anzitutto e perlopiù parlando e sparlando di noi stessi e degli altri, al bar o all’università o dove più ci aggrada darci appuntamento per fare conversazione. Ci piace conversare, dialogare, parlamentare, monologare, ci raccontiamo ci e scriviamo, da buoni eredi dei Greci, la prima civiltà loquace che del logos faceva un merito incommensurabile a petto dei loro vicini d’Asia, silenziosi, superstiziosi e sottomessi. Parliamo per metterci al riparo dai casi della vita, o meglio per far rientrare tutti questi casi dentro un progetto esistenziale coerente, perché si possa anche noi passare da uno stato atomistico, sparpagliato ed “estetico” dell’esistenza all’unità di una vita “etica”. Ecco da dove viene il bisogno che sentiamo di raccontarci, di raccontare la nostra storia agli altri e anche, ultima vanitas vanitatum, di sentir la nostra storia raccontata dagli altri: perché tutti insieme ci si possa riconoscere nel coerente tessuto di segni verbali che ci cuciamo addosso.

Il libro della filosofa americana Marya Schechtman, Staying Alive (2014), è da questo punto di vista molto istruttivo. Compendia tutti i luoghi comuni della filosofia della narrazione che nasce da questo nostro bisogno: «essere una persona», scrive la Schechtman, «implica il concepire le nostre esistenze in modo olistico, fare esperienza di esse in ogni momento come delle integrità che si vanno compiendo [ongoing wholes]». Questo accade perché «le storie che raccontiamo possiedono una sorta di olismo diacronico» che assicura un’unità e una coerenza (psicologica, ontologica, ecc.) alla scoraggiante frammentarietà della vita di tutti i giorni. Questa costruzione di sé e degli altri attraverso l’autobiografia o la biografia che gli altri fanno di noi e noi di loro ha dunque un presupposto ben preciso: il dovere (o il piacere) di generare «la profonda unità diacronica dell’autocoscienza che serve a supportare la capacità di azioni responsabili»: saperci raccontare serve per fare un “tutto” – non necessariamente marmoreo, monumentale, forse anche sfrangiato e aperto – della baraonda chiaroscurale di cui è fatta la vita. Questo “tutto” serve a non impazzire e vivere una vita che ha un qualche senso, invece di esplodere in un fuoco d’artificio che si perde nel nero della notte. Ciò, alla fine, vuol dire che siamo riusciti a diventare persone “responsabili”, cioè che rispondono di quel che fanno, cui si possono imputare senza troppi problemi le azioni, le idee, i sentimenti di cui siamo stati, siamo e saremo i protagonisti. Il “tutto” della vita – per quanto aperto, indefinito, in progress – siamo “noi” e a “noi” le azioni, le idee, i sentimenti  devono appartenere in modo non troppo diverso dalle nostre macchine, le case, i quattrini. Grazie alla virtù “olistica” e responsabilizzante dello storytelling abbiamo adempiuto ai desiderata della mamma, del papà e anche della maestra di scuola: pensa con la tua testa ma fatti degli amici, parla con loro, parla con noi, dicci come hai passato la domenica, descrivi il tuo fratellino e il compagno di banco. Un paradigma di storytelling è il tema che viene inflitto durante la ripetizione di italiano al bimbetto de I pugni in tasca: “Sulla terrazza: chi e che cosa vedo”. Ma in terrazza, invece delle colline piacentine e di edificanti scene di vita agreste pronte per essere raccontate, c’è Adriana Asti che prende il sole discinta e il bimbetto ha una certa difficoltà a dire “chi e che cosa” vede. Forse perché non lo ha capito neanche lui. E anche se lo ha capito non gli interessa poi troppo riuscire a dirlo, gli basta averlo visto.


  1. Le parole, il limite

Un filosofo come Deleuze avrebbe gioco facile a mostrare che nessuno di noi fa necessariamente esperienza di se stesso e degli altri come di un “tutto” o come una “persona”. Ad esempio: dov’è il bambino che poco dopo la nascita già succhia il latte? È difficile dire che nei primi mesi di vita c’è “un bambino” e forse anche che c’è “una mamma”, perché quello che i due vivono durante la poppata è simile a un collage di oggetti parziali, a uno stare insieme di forze intensive, cioè di intensità1, più che all’incontro di due “persone”. Nei primi mesi di vita non c’è ancora “un bambino” che succhia il latte dal seno (questo lo si deve concedere: “un bambino” siamo noi spettatori a metterlo in scena, ma lui – di per sé – non c’è ancora), e anche la mamma in questo momento, forse, è “tutta-seno” come Fabullo diventa totum nasum grazie all’unguento della puella. Prima di approfondire la descrizione di questa scena, immaginiamo che si potrebbe subito controbattere: i corpi del bambino e della mamma saranno pure in qualche modo “disintegrati” in oggetti parziali e flussi lattei durante il momento della poppata. Però è un dato di fatto che più tardi quei corpi si formano come entità singolari, distinte, “integre”, che possono/devono diventare i supporti di una vita responsabile e sensata: quando è finita la poppata, il seno diventa o è già diventato proprietà della mamma (“il seno è mio e lo gestisco io”) e la boccuccia suggente diventa l’organo di un pupetto che – se tutto va bene – un giorno andrà all’università e si farà strada nella vita, cioè diventerà “qualcuno”, nella migliore delle ipotesi qualcuno di “integerrimo”. Questo senz’altro può accadere, anzi è statisticamente molto probabile. Ma se accade, è perché c’è la parola a rendere “integri” quei corpi, a farli reciprocamente distinti e assegnare a ciascuno una psiche responsabile capace di mettersi in relazione con un’altra psiche. Come ha scritto Carlo Sini: «è così che il linguaggio frantuma il mondo, lo analizza e lo mette in successione. Il bambino che succhia dal biberon non ha successione».

La parola è l’inizio delle cose: il bambino, la mamma, il seno, la bocca, il biberon. Attraverso lo stacco della parola le cose vengono al mondo, vengono strappate al rapporto d’intensità che le tiene insieme e prendono così una fisionomia definita. Quella parola che, ragione della nascita delle cose in quanto distinte, è anche il loro limite, cioè la loro morte. Chi parla o viene nominato è nato al mondo, ma ha per ciò stesso avuto in regalo la morte come possibilità. La potenza mortifera della parola è un topos della filosofia post-hegeliana: Kojève, commentando la Fenomenologia, dice che la parola “cane” uccide il cane che gironzola per casa, e per Blanchot se dico “fiore” «il profumo che mi attraversa ma non respiro, la polvere che m’impregna ma che non vedo, un colore che è traccia ma non luce» li ho in qualche modo perduti per sempre. Che cosa ho guadagnato se comincio a parlare, e dico “cane” e dico “ fiore”? La possibilità di di riconoscere questa cosa come un cane, quest’altra come un fiore, di fare esperienza di me e delle cose come singolarità “tutte d’un pezzo”, come in-dividui. Ma un fiore è più delle sue parti componenti per la semplice ragione che può appassire, perché l’appassimento è il limite circoscrivente del fiore-tutto che – così circoscritto – diventa qualcosa in più rispetto alle parti o manifestazioni parziali di cui è fatto. Infatti, prima di essere nominato non c’era un fiore, ma, appunto: il profumo che mi attraversa, la polvere che m’impregna, un colore che è traccia… La parola raccoglie il fiore nel giardino autunnale in cui deve poter appassire per essere incontrato e riconosciuto in quanto (als) fiore. Lo stesso avviene con i cani che dal momento in cui sono nominati possono (prima o poi, ahimè, devono!) finire nei laboratori di vivisezione e nelle teche dei tassidermisti. Dire “cane” vuol dire strappare al cane che corre, beve e mangia, il senso complessivo del suo correre, bere e mangiare, quindi anche ucciderlo. Se il cane non lo facciamo morire, se non mettiamo il senso di quello che fa nell’archivio pubblico della voce e nei libri di zoologia, non potremo mai avere davanti a noi un cane, cioè un qualunque cane come il cane: l’unità mortale del carattere canino alla quale si deve adeguare qualsiasi esperienza-di-cane io faccia.

La parola confina ogni cosa dentro i limiti del suo corpo, mai così chiari come quando una cosa muore, e così la mette al mondo. Perché in realtà non c’è differenza tra la nascita e la morte, entrambe funzionano come i limiti costitutivi di una vita. Husserl dice nei manoscritti che «nascita e morte» sono i «limiti del nostro potere [Können]», e anche per Heidegger il Dasein esiste sempre gebürtig, “nativamente”, cioè nella provenienza intrascendibile della propria nascita cui risponde un destino, altrettanto insuperabile, di morte – ed è grazie al ricordo e all’anticipazione di questi limiti che il Dasein può «poter-essere-un-tutto». L’unità dell’esperienza cosale e personale è una funzione della parola e del limite mortale che la parola traccia addosso a noi e alle cose.

Le cose sono i punti che si disegnano all’incrocio degli assi della parola e della fine. Le cose, le persone, gli animali, cioè i luoghi dell’esperienza, ci sono solo se vengono nominati, riconosciuti e per ciò stesso fatti finire. Le cose sono caduche come gli uomini: prima questa cosa c’è, è stata prodotta, poi non c’è più, è stata distrutta oppure si è allontanata, da qui si è spostata là e non posso più toccarla, mi è sgusciata via dalle mani, non riesco più a vederla, proprio come un’amante traditrice o il babbo morto. La parola traccia i limiti delle cose e le mette al mondo. In questo modo lo spazio del mondo diventa la dimensione della distanza: il mondo, infatti, è la pulsazione della distanza («il mondo», ha scritto Roberto Esposito, «sembra niente altro che la faglia naturale attraverso la quale le persone acquisiscono, o perdono, le cose»). Una volta che qualcuno ha cominciato a parlare, il mondo funziona come una soglia fatta di nulla, un transito invisibile e impossibile da afferrare attraverso cui accade tutta la visibilità e l’afferrabilità che si presentano nel mondo. Quindi solo un’umanità che si racconta le proprie avventure e perciò perde le cose che guadagna, e perciò – anche – muore, può pensare che l’esperienza è fatta di tante cose e persone, ciascuna solidale con se stessa e distinta dalle altre, incompossibili le une con le altre: le persone e le cose non possono occupare insieme lo stesso luogo e occupano lo stesso tempo solo a certe condizioni, per esempio alla presenza di un terzo termine che è  l’ombrello sotto cui si raccolgono tutti i luoghi delle cose e che chiamiamo “mondo”. Ma prima della soglia del linguaggio non c’è mamma e non c’è bambino, non c’è a rigore neppure la bocca e il seno oppure il biberon, e neanche il “mondo” come luogo totale in cui stanno le cose. Prima della parola c’è soltanto la tensione delle forze della suzione, un’intensità impersonale, un’oscillazione di elementi su cui s’infrangono tutte le nostre immaginazioni linguaggio-centriche e mondane.


  1. Intensità e mancanza

Com’è già stato detto da altri, accanto a una filosofia platonico-cristiano-tedesca, la quale culmina nella fenomenologia di Husserl e Heidegger e che crede nella intrascendibilità del linguaggio e della morte, c’è una tradizione stoico-spinoziano-bergsoniana, che viene ereditata da Deleuze, che vuole sgomberare l’esperienza dal “negativo”, cioè dal limite e dalla morte, e mette davanti a un panorama ontologico tutto pieno, soltanto affermativo. Ma, in ultima analisi, cosa vuol dire sgomberare l’esperienza dal negativo? Vuol dire pensare una realtà non verbale, muta, dove nessun gesto o movimento, appunto, ha il carattere della negazione, perché la negazione è una creazione del linguaggio. Come scrive Paolo Virno, «la negazione è una prerogativa esclusiva del pensiero verbale. Essa non ha precursori di sorta nell’esperienza sensibile e nei trambusti emotivi: a meno che, beninteso, non si voglia considerare il vomito o la fuga una forma aurorale di proposizione negativa», cosa che però non si può ammettere perché anche la fuga e ogni forma di disgusto rimangono ancora troppo attaccati a ciò che fuggono e a cui si oppongono per poterne significarne la negazione.

Ripensiamo all’esempio della poppata: se prima della parola non ci sono a rigore due corpi che s’incontrano, due corpi che si mettono in relazione a distanza, che si fronteggiano separati da un limite fatto di niente, sembra che ci siano soltanto frammenti, «determinazioni slegate, membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalle, occhi senza fronte», come scrive Deleuze all’inizio di Differenza e ripetizione. L’ombra del nulla non si sparpaglia forse tra questi frammenti molto di più di quanto non faccia nell’esperienza della parola e nella ricerca autobiografica della propria integrità? No, perché quello che a noi – cioè dal punto di vista del linguaggio – fa l’effetto di uno spazio infranto, una scacchiera che è andata in pezzi, un tracciato ingarbugliato in cui non distinguiamo più nessun percorso o figura, di per sé è invece una continuità senza scarti, fatta di forze in istato di reciproca tensione, uno spazio intensivo, quindi, e non estensivo, non ancora segnato da limiti, né interni né esterni.

Cos’è un’intensità? Intensità indica una tensione, un’oscillazione. Pensiamo all’atto del succhiare, dove la tensione degli elementi (bocca-seno) risulta «da due forze precedenti, ripulsione e attrazione, e dall’opposizione di queste due forze» (Deleuze definisce gli elementi costitutivi dell’intensità allo stesso modo di Empedocle: philotes e neikos, attrazione e discordia). Il coinvolgimento della bocca nel seno e del seno nella bocca, ma anche lo staccarsi della bocca dal seno e il togliersi del seno dalla bocca, non sono movimenti che attraversano una distanza, non s’incontrano su una soglia di nulla che non è né bocca né seno, perché seno e bocca sono fatti di movimento, sono fatti di una tensione, sono momenti dello stesso movimento oscillatorio. Anche il distacco della bocca dal seno e del seno dalla bocca sono forme della tensione, un grado di tensione in cui attrazione e repulsione sono mescolati in modo diverso rispetto a prima, quando erano incollati. Ma anche il distacco rimane un’oscillazione intensiva, un’affermazione senza negazione di ciò ch’è coinvolto nell’oscillazione.

Questo movimento sul posto, cioè senza spostamento perché non pone ancore i luoghi delle cose come gli estremi del movimento, cancella sempre i confini delle cose. I confini vengono dati alle cose quando il nostro occhio di spettatori dice: ecco dove finisce la bocca, queste mucose rossastre ed estroflesse sono il limite della bocca, e l’aureola del capezzolo indica chiaramente il limite del seno. Solo davanti a questo sguardo diventa vero che omnis determinatio negatio est, perché – come tutti ben sappiamo – nessuna cosa è tutto, ogni cosa è limitata, è fatta di una mancanza. Porre la mancanza, porre il limite delle cose, per poi scavalcare la mancanza, superare il limite, è il dovere dell’esperienza che il pensiero platonico-cristiano-tedesco vuole compiere, il tragitto della sua Erfahrung: «Qualche cosa viene saputo, vale a dire sentito come limite, mancanza, nel momento stesso in cui si è già andati oltre», scrive Hegel nell’Enciclopedia. Hegel indica così quell’infinito in cui la limitatezza, la deficienza dell’esperienza, la platonica Penìa, si trova accolta per essere redenta e che giustifica il lavoro del concetto: «La privazione (la steresis), posta al cuore del cambiamento, è sempre stata il cavallo di Troia grazie al quale l’intellettualismo è penetrato nella cittadella dell’esperienza, soggiogandola e relativizzandola a un fondamento extra-empirico», ha scritto Rocco Ronchi. Se poi il fondamento extra-empirico ce lo dà il buon dio, oppure lo psicanalista dietro il lettino, oppure il discorso dell’amico o dell’amante che, davanti a una birra, sta raccontando la storia della nostra vita e pretende pure che lo si stia ad ascoltare, non fa poi una gran differenza.

Ma le cose, di per sé, sono finite così come noi abbiamo l’abitudine di pensarle e di dirle? Le cose sono davvero fatte dal loro limite?


  1. Inter-esse ed enunciazione

Facciamo esperienza delle cose come finite perché è utile alle nostre esistenze di grandi operai del mondo. Dire che le cose sono finite non è un’asserzione rigorosa dal punto di vista della filosofia, e forse neppure da quello della scienza, ma solo per i nostri progetti di uomini capaci di dominare l’ambiente, di fare un uso preciso di ciò che ci circonda: «Siccome ci è utile fissare il luogo che occupa una cosa nel punto esatto in cui potremmo toccarla, i suoi contorni tangibili diventano per noi il suo limite reale, e cominciamo così a vedere nella sua azione un qualche cosa di misterioso che si stacca da essa», scrive Bergson in Materia e memoria. Per il pensiero del limite l’azione e la forza diventano un attributo della cosa nella quale l’azione e la forza sono contenute come una luce dentro la scatola. La parola fissa l’unità della cosa che integra tutti i suoi attribuiti, la sua capacità d’azione, in primis la cosa più cosa di tutte, cioè il corpo dell’uomo (il Leib della fenomenologia). Ma all’inizio la situazione è diversa. Cosa vuol dire “all’inizio”? Un tempo in cui non c’è il “mondo”, cioè la massa delle cose non ha ancora trovato il suo oriente, non si raccoglie a cerchio intorno a un punto-zero (il Leib) che agisce sui punti 1, 2, 3… che gli sfilano davanti in bell’ordine. All’inizio l’universo è fatto come una «fotografia […] già presa e scattata dall’interno le cose e in tutti i punti dello spazio». In questa fotografia scattata da e verso tutte le direzioni, le cose non si rapportano le une alle altre secondo la misura del limite di ciascuna e riempiendo con la forza delle azioni lo spazio vuoto che le tiene separate. In questo universo a-centrato, senza capo né coda, fatto soltanto di materia e senza “spirito”, le cose si attraversano come tante luci, dice Bergson, flashes che non smettono di lampeggiare gli uni sugli altri. Ma che cos’è questo universo fatto d’intersezioni luminose? Una fantasia, un delirio metafisico? È sicuramente una visione, ma non necessariamente un delirio: è la visione dis-interessata della filosofia, la flânerie di uno sguardo sovraeccitato che si perde nella trama delle cose e segue l’intersezione dei loro tragitti, perché le cose stesse sono fatte di questo sguardo vagolante, impersonale, anonimo, e sono attaccate le une dalle altre come i fili del nodo in cui le rose di Rilke sentono «il vago influsso delle lontane stelle» (Ludwig Klages, una specie di Bergson tedesco, parlava appunto dell’Urknäuel – il nodo originario – delle “immagini” che precede la forma oggettuale dell’esperienza).

Questa visione bergsoniana significa il modo in cui si comporta la materia prima di ogni percezione cosciente. È l’alba del mondo prima che ci sia un mondo e prima che si dia qualche cosa come una percezione in senso proprio. Dalla materia pura fatta di scatti fotografici presi gli uni sugli altri si passa alla percezione quando uno degli scatti-flash si macchia di opacità e invece di farsi attraversare semplicemente da un altro flash, comincia a rifletterlo, a rifrangere il suo arrivo secondo la misura del proprio oscuramento parziale. Allora uno scatto-flash diventa un setaccio che “taglia” l’altro scatto, e l’attraversamento di quest’ultimo nei confronti del primo diventa ciò che noi chiamiamo “percezione”. Ad esempio, se il mio scatto-flash prende la forma di una mano (prima era tutto-presa, adesso prende solo secondo un modo specifico), gli altri scatti-flash che si avventano sul mio vengono lasciati cadere in tutti quei punti e superfici che al momento non interessano il mio flash-mano (come dice Husserl: si adombrano e vengono percepiti prospetticamente). È per questo venuta meno la continuità che tiene insieme tutti gli scatti-flash? No. Bergson dice che tra l’una e l’altra condizione (quel che lui chiama “azione reale” della materia e l’“azione virtuale” di un’effettiva percezione) c’è soltanto una differenza di grado e non di natura. Si tratta dunque di due stati della continuità: nell’uno, letteralmente, non ci sono limiti, ci sono solo raggi che si attraversano. Nell’altro ci sono dei limiti, per esempio lo spigolo di questo tavolo quando ci sbatto addosso col ginocchio. Ma questi limiti non sono limiti dove la cosa finisce, perché il limite è in questo caso la serie dei punti su cui ha presa il raggio del mio tatto, il quale non fa altro che continuare lo spazio della cosa che mi viene addosso. Non c’è “uno” e non c’è “due” in questo prolungamento reciproco delle cose, c’è soltanto continuità. Non c’è “due”, perché l’heteron del ginocchio rispetto allo spigolo è solo la continuazione, l’alterazione dello spazio dello spigolo, cioè il prolungamento della sua agenza spigolosa secondo il modo del dolore del ginocchio. Ma non c’è neanche “uno”, perché lo spigolo e il ginocchio che lo continua non per il fatto di continuarsi anche si confondono o implodono nella medesima entità. L’aggetto e la sporgenza del tavolo coeriscono con il dolore del ginocchio. Se vado a sbattere contro il tavolo, in questo momento il tavolo è fatto soltanto del suo inopportuno sporgere – non c’è differenza tra il tavolo-cosa e la sua azione su di me – e questa azione ingrana all’istante con il dolore di cui sono fatto. Il ginocchio dolorante continua l’aggetto dello spigolo come una svolta stradale – per quanto brusca – prolunga il rettilineo. Non avrebbe certo senso chiedere: ma il rettilineo e la svolta sono uno oppure due? Oppure: dove finisce il rettilineo? Dove comincia la svolta? Né soglie di rottura, né ambigui empiétements separano ovvero uniscono lo spigolo e il ginocchio: le azioni percettive, semplicemente, si continuano così come la curva continua il rettilineo.

La continuità smette di essere continuità, vi si inscrive la misura di una distanza, solo quando la percezione diventa interesse, inter-essere, posizione di uno spazio neutro tra le cose. Come dice Bergson, per noi, di solito, «è utile fissare il luogo di una cosa», fissare il siège, cioè il recinto in cui la cosa “siede”, sta. L’inter-esse fissa il luogo. Il “luogo” funziona come un limite interno ed esterno: separa la cosa inerte dall’azione di cui è capace e anche dalle altre cose. Solo dopo la fissazione del luogo pensiamo che “naturalmente” le cose hanno limiti nello spazio e nel tempo, e così la cosa “interessa”, serve il mobile punto-zero del nostro corpo agente. L’inter-esse di cui parliamo non è però qualunque gesto con una qualche valenza pragmatica di contro a una ipotetica percezione disinteressata. Se prendo in mano un martello, il martello diventa una protesi della mia mano e la mia mano è una protesi del martello. Il martello è “alla mano” perché ne continua l’azione e rende così la mia mano “al martello” perché ne porta il peso. Questo è un bell’esempio di continuità disinteressata, anche se di certo un qualche valore pragmatico può averlo. Ciò che produce qualcosa di inter-essato non è un valore d’uso che si aggiungerebbe a gesti che ne sono di per sé privi, come ad esempio sedersi sulla spiaggia e fissare lo sguardo soporoso sul sole che tramonta. Sia il martellare che il guardare l’orizzonte di per sé sono disinteressati (non accadono secondo la misura della distanza) ma diventano gesti d’inter-esse se vengono pensati come azioni che ineriscono al punto-zero del Leib. I gesti inter-essati sono insomma quelli che vivono se stessi come una parte specialissima che secede dal resto dello spazio e si affermano nella insuperabile differenza tra sé e ciò che li circonda. Questi punto-zero dell’inter-esse sono il centro di gravità di uno spazio che gli si dispone intorno popolato da oggetti più o meno inerti (il martello, lo spigolo, il sole). L’inter-esse è insomma fatto della differenza ontologica tra il punto-zero del Leib cui io sono rivettato come un ferro di cavallo allo zoccolo e che mi porto sempre appresso, e il resto del mondo. Questa differenza ontologica è appunto la distanza, cioè l’eterogeneità tra il punto-zero del corpo agente e i luoghi del mondo. Questa distanza è l’inter-esse. Ma prima dell’inter-esse non c’è un luogo del martello agìto che separa il martello dal punto-zero della mano agente. C’è semmai l’azione mano-martello, che però non è fatta da luoghi o limiti o soglie, ma dalla continuità “manomartello”: la mano guida il martello e il martello grava sulla mano secondo il dinamismo oscillatorio di quell’azione che è il martellare. Dove finisce la mano e dove comincia il martello? Dove comincia la propriocezione e dove la percezione esterna? Propriocezione e percezione esterna sono il lato A e il lato B della soglia imprendibile dell’azione – come pensa la fenomenologia – oppure quel che accade nel martellare è un’oscillazione intensiva in cui non è ancora possibile distinguere l’un lato dall’altro e, dunque, la soglia non c’è?

Si può vedere facilmente come la morfologia del punto-zero della percezione-azione pensato dalla fenomenologia è una versione dell’opera limitante e annullante della parola. Come ha scritto Didier Franck parlando della corporeità fenomenologica, il Nullkörper, il punto-zero del mio corpo riesce a costruire l’unità di molteplici prospettive perché di per sé significa l’assenza, la catastrofe di tutte le prospettive. Permette di orientarsi nel mondo perché è la cancellazione di ogni orientamento, perché in sé non ne ha alcuno. Nel punto-zero del mio corpo mi ci perdo come dentro un testo scritto in bianco che però apre a infinite interpretazioni: il punto-zero è cieco e in-orientabile perché è l’inizio di ogni possibilità di orientamento e visione. È questa progressiva restrizione, l’appannamento della possibilità di orientarsi a mano a mano che si regredisce verso il proprio corpo, a permettere di collocare tutti i luoghi del mondo, quindi di orientarsi, facendo il movimento inverso, cioè progredendo dal punto-zero del corpo verso il fuori del mondo. Ma è soltanto lo schema apocalittico della parola, che mette il molteplice dell’esperienza davanti al limite del nulla per poterlo farlo comparire come un molteplice, a fare ciò che ci illudiamo sia il corpo a fare. Il mio corpo di per sé non è il sestante della terra e del cielo e lo diventa soltanto quando viene reso effettivamente identico a un punto-zero del mondo dall’azione negatrice della parola. Solo dopo il limite del linguaggio siamo capaci di immaginare un corpo che diventa la vuota e originaria langue di uno spazio fatto di tutte le prospettiche paroles che lo riempiono e in cui la langue s’invera.

Che cosa può mettere in discussione l’apparente naturalezza di questa verbalizzazione del mio corpo – cioè la necessità di assegnare al corpo le stesse virtù della parola, del limite, dell’inizio e della fine? Da una parte c’è l’evidenza empirica di chi sotto effetto di sostanze allucinogene, come l’ayauasca e l’LSD, oppure sotto ipnosi oppure, più semplicemente, in sogno, sgancia la percezione e l’azione dal punto-zero del proprio corpo per non privilegiare nessuna prospettiva spaziale e non facendo altro che prolungare l’una prospettiva nell’altra. Questa è una prova difficilmente confutabile circa il carattere non necessitato dell’esistenza di quel punto-zero dello spazio che sarebbe il mio corpo. D’altra parte: per quanto sobri si possa essere, è proprio vero che noi percepiamo-agiamo anzitutto perché siamo ontologicamente diversi dal percepito-agìto? Quando appoggio il piede sul pavimento, la tensione, la durezza, la scivolosità che accadono, appartengono al piede o al pavimento? Appartengono al punto-zero o al mondo? La tensione, la durezza, la scivolosità sono qualità della cosa-pavimento che vengono intese e scoperte a partire dalla prospettiva-zero del mio poter-essere corporeo? È possibile fare una differenza tra l’uno (il punto-zero del mio piede) e l’altro (i caratteri del pavimento)? Se appoggio il piede per terra e cammino sento qualcosa di duro che poi – mentre sto per sollevare il piede – diventa più inconsistente e vuoto, più o meno scivoloso e produce più o meno attrito. Queste esperienze percettive appartengono alla tensione dei muscoli del piede o alla consistenza del pavimento? Né all’uno né all’altro, perché in realtà non c’è né il piede né il pavimento. Tensione, durezza, scivolosità ecc., sono invece ciò di cui è fatta la continuità del “piedepavimento”, che non è né uno né due, né tratto unario né schisi tra me e mondo. Ciò di cui si fa esperienza in modo immediato non è il mitologico “rapporto” tra piede e pavimento, un inesistente spazio d’intercapedine, una distanza metafisica tra A e B, ma uno scivolare che poi si riequilibra e diventa attrito, un attrito che cede e ridiventa scivolare, un’oscillazione di forze, una forza che oscilla.

Dire che le cose ci riguardano solo secondo la misura dell’inter-esse, cioè che per fare esperienza c’è bisogno di una distanza tra noi e le cose, è tutt’altro che una teoria pura, è invece una comprensione dell’universo e dell’ambiente funzionale al suo padroneggiamento. Il paradigma di questo padroneggiamento è la libertà di parola, cioè l’indipendenza del soggetto dell’enunciazione rispetto al corpo del linguaggio e a ogni testo. La distanza dell’inter-esse corporeo che agisce nel mondo non fa che tradurre in termini fisici l’indipendenza ontologica del soggetto dell’enunciazione. Ci sono cose inerti e “a disposizione” là dove le mie facoltà percettive, pratiche e intellettuali possono accerchiare le cose senza farsene coinvolgere o frastornare e così assegnargli il limite del luogo. «Alcuni filosofi», scrive Aristotele nel libro Z della Metafisica «ritengono che siano sostanze i limiti dei corpi: per esempio superficie, linea, punto e unità; e che siano sostanze a maggior ragione che non il corpo e il solido» e questi filosofi siamo noi. Pensa infatti così tutta la moderna metafisica del limite. L’analisi della cosa nelle sue parti componenti, sostanza e accidente, cosa e proprietà, corpo e azione (che Nietzsche metteva a tema pochi anni prima di Bergson, quando diceva che le nostre abitudini linguistiche interpretano un lampeggiare nel cielo come “un lampo che fa luce”, come un’azione che proviene da una sostanza di per sé inerte e se ne distingue come la conseguenza dalla causa) è solidale con la funzione del limite che separa una cosa dal mio punto-zero e dalle altre cose: le nostre cose sono le cose finite, limitate, che si mettono in relazione tra di loro e con noi solo scavalcando con l’azione il limite che le e ce ne separa.


  1. Le tre vie della relazione

Se ci abituiamo a pensare lo stare assieme delle cose dando per scontata la loro limitatezza, per venire a capo di questa situazione e rendere ragione del fatto che comunque le cose e le persone, per quanto separate, hanno effettivamente a che fare le une con le altre, abbiamo solo tre scelte possibili: 1) le cose stanno insieme tendendosi la mano attraverso lo spazio della distanza. Ma come potrebbero incontrarsi due cose che non hanno nulla in comune? In che modo potrebbero riguardarsi due entità che hanno in comune soltanto lo spazio della distanza, vale a dire il nulla, cioè che non condividono alcunché? Il limite, per diventare termine di riferimento condiviso e permettere la comunicazione dei differenti, deve essere riempito d’essere, deve essere “qualcosa”. Per esempio: io riesco a toccare la corteccia dell’albero che mi sta di fronte perché in realtà sia io che l’albero siamo fatti della stessa carne del mondo. Il limite apparentemente vuoto tra me e l’albero è invece uno spazio pullulante di cui io e l’albero siamo le estroflessioni. Ma in questo modo, se il limite diventa “qualcosa” allo stesso titolo delle cose che deve mettere in congiunzione e far comunicare, rimane da capire in che modo questo terzo termine positivo possa rapportarsi agli altri due, rilanciando senza fine il problema della relazione, proprio come accadeva nell’argomento aristotelico del terzo uomo. Oppure 2) lo stare assieme delle cose significa la loro compenetrazione reciproca: schizofrenia, senso indebolito del corpo proprio, incapacità di distinguere sé dall’ambiente, con-fusione di ciò che dovrebbe fare differenza, ribollimento di tutti i limiti in cui il mondo va a fondo. Compassionevole “tat tvam asi”, consolante entropatia o uno-patia tra le singolarità del mondo, ma anche torace esploso, pelli lacerate, punte conficcate nelle carni. Se le cose e i corpi hanno “naturalmente” dei limiti, trasgredirli, farli comunicare, significa sprofondare nell’orrore. O ancora 3), come vuole l’ontologia plurale nata dalle ceneri dello strutturalismo, il limite tra le cose è quel “rapporto senza rapporto” in cui “si raccolgono senza raccogliersi” i pezzi frammentari di una totalità mai stata. Le cose hanno in comune il fatto di non avere niente in comune ed è per questo provvidenziale statuto di estraneità reciproca che possono avere a che fare le une con le altre in quanto singolarità ben distinte. Separate dalla consistenza nulla del limite, le cose si diventano le une alle altre novità eccezionali che bucano la scorza dell’abitudine e amorosamente si fanno carico dei brividi e delle avventure – di solito politicamente molto corrette – dell’Altissima Alterità Assoluta (carezze, figli, darsi del Lei anche tra amici, chiamare in causa testimoni, e altri modi di passare il tempo convincendosi che non sia tempo sprecato). Nelle parole di Blanchot, che ha inaugurato questo lessico (rimanendo, sia detto per inciso, a una distanza teoretica abissale da quelli che – in quegli anni o più tardi – hanno cercato di imitarlo): «l’uno dopo l’altro, l’uno senza rapporto con l’altro, l’uno rapportato all’altro da quello spazio bianco indeterminato che non li separa, non li riunisce, ma li porta al limite che essi designano». Cos’è questo limite, il quale ci dovrebbe far uscire dalle due aporie della relazione sopraelencate? Il limite della parola e della morte che dà sempre nuove forme all’assemblea dei frammenti, intrascendibile discontinuità, «il Fuori dove parla l’ininterrotto, la fine che non finisce» (ancora Blanchot). Questo Fuori è la morte che non finisce di finire le cose. Questo Fuori limitante è bianco, neutro, impalpabile e indicibile, perché è il Dire stesso, la morte e la vita del nostro mondo fatto apparentemente di cose, in realtà fatto di parole o di cose verbalizzate. Ma fuori da questo Fuori insiste «il continuo della vita», come lo chiama Felice Cimatti proprio commentando Bergson, il continuo «delle soggettività non individuate eppure ognuna inconfondibile, degli infiniti nessi che legano ogni vivente ad ogni altro ente. […] Poi, appunto, arriva la parola, e tutto di colpo cambia».


  1. La continuità

È possibile pensare le cose senza i limiti? Che razza di mostri sarebbero le cose che non hanno limiti? Ogni forma di continuità ha qualche cosa del centauro e del cyborg, «ironico mito politico fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo. […] L’ironia riguarda contraddizioni che non si risolvono dentro insiemi più grandi, neppure dialetticamente, riguarda la tensione che mette insieme cose incompatibili», per citare Donna Haraway. Gli estensori di The 3D Additivist Manifesto sono dei veri continuisti quando reclamano «oggetti biologici e sintetici che possano diventare protesi reciproche, tra cui i. Cablaggio Skeletal, ii. Inserti del sistema nervoso, iii. Tubo neurale lenticolare, iv. Porte universali e orifizi». Ma non c’è bisogno di pensare creature fantascientifiche, mitologiche o più bizzarre di quelle di cui facciamo esperienza tutti i giorni. Anche la “manomartello” e il “boccaseno” sono dei cyborg. Allo stesso modo, lo spettacolo continua la vita del pubblico in sala e il pubblico che esce dal teatro o dal cinema comincia a vivere come una protesi della scena o dello schermo (i futuristi celebravano il teatro di varietà dove «l’azione continua alla fine dello spettacolo, fra i battaglioni di ammiratori, smoking caramellati che si assiepano all’uscita per disputarsi la stella»).

La difficoltà di pensare adeguatamente la continuità senza-limite delle cose è dovuta al fatto che noi immaginiamo il senza-limite come un limite esploso, pensiamo l’illimitatezza delle cose come una trasgressione della limitatezza. Dobbiamo invece cercare di immaginare una non-limitatezza assoluta, cioè uno stato di cose in cui il limite non è stato trasgredito, per il semplice fatto che il limite non c’è ancora. Il suo nome è continuità.

Cose senza limiti sono appunto quelle coinvolte nell’oscillazione intensiva. Le cose “si tengono” senza bisogno di attraversare lo spazio vuoto che si spalcherebbe tra i loro limiti. «My hair – it’s fur, you know? It’s tendrils reaching out into space and times. I’ve watched it touch many stars», a dirlo è un ospite del party wahroliano di Midnight cowboy. L’ospite è chiaramente sotto effetto di sostanze stupefacenti. Quindi, dire che i miei capelli toccano le stelle è il pensiero di un drogato? Forse anche sì: non c’è dubbio che certi stati d’intossicazione, ma anche la condizione di chi è appena nato, «déjà-vu e appercezioni ipermnestiche dei moribondi sono tutte zone critiche dell’esperienza ad altissima densità speculativa», scrive Ronchi che sta commentando la nozione jamesiana di “esperienza pura”: «catastrofi del significato di breve durata che lasciano trapelare il reale che esorbita il piano del vero». Anche il modo di funzionare dei campi elettromagnetici porta a conclusioni simili circa una condizione di tangenza universale delle cose, se è vero che, come sostengono alcune ricerche, ogni volta che usiamo il tostapane, i campi che lo circondano agiscono, anche se molto debolmente, sulla carica di particelle che formano le galassie più lontane. Questa “esperienza pura”, questo “reale” non è fatto dei buchi e dei vuoti che danno spazio alle intenzioni e correlazioni del “mondo”. L’esperienza pura è fatta di continuità. Nello “spazio” e nel “tempo” della continuità, a rigore, non ci sono “rapporti”, ma oscillazioni, cioè movimenti di venuta e ritorno che si assolvono dal reticolo di un mondo messo in forma dalla distanza: «del corpo attraverso il corpo con il corpo dal corpo e fino al corpo. La vita, l’anima non nascono che dopo. Non nasceranno più. Tra il corpo e il corpo non c’è nulla…» (Antonin Artaud). Continuità “assoluta” perché si scioglie dalla relazione “terminologica” i cui estremi, cioè, sono termini, elementi finiti. Per questa ragione alle volte l’esperienza della continuità fa l’effetto di un’esistenza in fuga, incapace di entropatia cogli “altri” e senza Mit-sein: il sognatore aggrappato al proprio sonno, la solitudine dell’alcolista con il bicchiere, «il miliziano solo sul tetto, ma solo con la propria arma» (Jean Genet), che in un mondo dominato dalla distanza e pieno di buone “intenzioni” diventano gli esempi di un’intimità “immonda”.

La continuità dell’oscillazione non viene prodotta dall’addizione delle cose limitate, perché sono piuttosto le cose (bocca, seno, capelli, stelle) a prodursi più tardi – quando l’oscillazione finisce oppure qualcuno la osserva da fuori – come resti, residui riconoscibili di un movimento oscillatorio che si è fermato. Allora il linguaggio taglia corto con l’oscillazione e la trasforma in “rapporto” (quanto grigiore contrattualistico in questa parola! Nel “rapporto” – sociale, famigliare, sessuale, amicale, lavorativo – è prefigurata la iattura del “relazionarsi”, dell’“interazione” e anche dell’“interfacciarsi”).

È facile fare esperienza di questa continuità oscillatoria dal punto di vista della percezione. Quando noi vediamo, tocchiamo, ascoltiamo qualcosa, non facciamo mai l’esperienza di qualcosa di doppio, ma di una tensione senza segmenti. Guardo questo fiore rosso. Nessuno percepisce il proprio occhio e questo fiore. Nessuno percepisce a rigore un fiore, perché questo accade solo dopo che al fiore abbiamo dato un nome. Ma non ci hanno insegnato forse che «se andiamo alla fontana, se attraversiamo un bosco, attraversiamo già sempre la parola “fontana”, la parola “bosco”, anche se non pronunciamo queste parole e non ci riferiamo a nulla di linguistico»? È vero: per andare da qualche parte, per attraversare un luogo oppure lasciarsi alle spalle una cosa abbiamo bisogno della parola. È la parola che mi tiene a quella giusta distanza dalla cosa che mi permette di averci a che fare come un’entità altra da me. Il macro-spazio mondiale che contiene tutte le cose è la distanza della parola. Ma quella cui stiamo pensando è una situazione in cui la cosa non è ancora a distanza. Non c’è la cosa vista e non c’è l’occhio, ci sono solo radiazioni, sguardi che s’incrociano e il cui punto d’intersezione fa esperienza di sé. «Secondo l’antica teoria della luce», scrive Reiner Schürmann, «quando un raggio di sole illumina una superficie colorata, non ci sono due cose che brillano – da un lato la luce e dall’altra il colore –, bensì una sola cosa: non esiste più propriamente parlando, che l’evento stesso dello splendore rutilante, tutto brilla in un’unica unità». Stiamo dunque dicendo che l’esperienza – almeno quella percettiva, la sola che ci è servita fino a ora da esempio – è unità e non dualità, solidarietà e non frammentazione, vicinanza e non distanza? L’enfatica espressione eckhartiana adoperata da Schürmann (“unica unità”) potrebbe farlo pensare. In realtà non si tratta né di dualità né di unità, né di distanza né di vicinanza, perché i momenti dell’oscillazione devono essere prima istituiti, singolarizzati, cioè limitati, per poter partecipare della distanza o della vicinanza, per essere “uno” oppure “due”. Per il resto, l’esempio del raggio di luce e della superficie colorata è abbastanza fedele alla nostra esperienza immediata: non c’è qui un occhio e là un fiore, c’è soltanto l’“essere colpiti” da un rosso che fa macchia nel paesaggio. C’è il mio raggio visivo che vagola all’intorno e a un certo punto viene afferrato da un aggetto di rosso che mi viene addosso come lo spigolo di un tavolo e che tocca il mio sguardo proprio come il mio sguardo tocca lui. La continuità è una carica intensiva che non necessariamente deve attuarsi nella intenzione-del-fiore da parte del mio occhio e nell’oggetto del mondo. L’attenzione di cui è fatto lo sguardo viene sfidata dall’intensità di un colore, che è poi un’altra forma di at-tenzione, quella che proviene dal campo anziché dalla mia scatola cranica. L’occhio che guarda il fiore e il fiore che mi guarda in realtà oscillano insieme nella macchia in cui i loro sguardi s’incrociano. Allo stesso modo, chi succhia il seno non può dire di percepire la bocca, ma non perché – come vorrebbe la teoria dell’intenzionalità – la sua coscienza è tutta estroflessa e dunque percepisce il seno. Nella suzione non vengono percepiti né la bocca né il seno, ma solo la tensione del “boccaseno”, che di per sé non è né bocca né seno, e non è neppure un imprendibile fra-i-due, ma è l’auto-percepentesi vita della bocca e del seno in cui non ci sono ancora né bocca né seno.

Quel che c’è prima del linguaggio, è dunque una intensità che fa esperienza di sé: spinte e arrese, durezze e cedimenti, affondi e smarrimenti che assomigliano all’allungarsi e accorciarsi di un filo elastico (altro esempio bergsoniano) e che ha il senso del suo semplice esperirsi, farsi, senza il bisogno che qualcuno, per farlo accadere, attraversi le parole “bocca” o “seno” o “occhio” o “fiore”. È vero che senza le parole “campo” e “fontana” non possiamo attraversare il campo o andare alla fontana, ma questa è una prospettiva “odologica” sull’esperienza, secondo la quale l’esperienza è frayage e messa in forma, schematizzazione, attivo far-differenza in un panorama confuso, Weltbildung, costruzione di spazi e di tempi a partire dal punto-zero del corpo, viaggio linguistico che trasforma i momenti della tensione elastica in oggetti intenzionabili o intenzionanti (la intentio è la intensio cui si è aggiunta la misura della distanza). Invece noi siamo alla ricerca di quel che accade prima di tutto questo.

Abbiamo parlato della percezione, perché forse è l’esperienza più semplice da analizzare. Ma bisognerebbe mostrare in che modo la continuità assoluta e la sua oscillazione intensiva riguardano anche altre forme dell’esperienza: la memoria, l’arte, e moltissime altre2. Pensiamo al terzo movimento della prima sinfonia di Mahler: la melodia infantile Frère Jacques viene trasformata dai contrabbassi in una strascicata marcetta funebre, ripetuta a canone dal fagotto, i violoncelli, il basso-tuba e poi dall’intera orchestra, poi diventa una specie di danza ungherese-tzigana, poi una perorazione lirica e sognante (Mahler appiccica l’ultima parte del Lied Die zwei blauen Augen), poi ridiventa la marcetta funebre di prima… un esempio di quel Durchkomponieren, il comporre-continuo, che non si dà il tempo di prendere tempo, che non ammette pause o stacchi, la cui coerenza non ha nulla a che fare con l’omogeneità, perché è capace di combinare tutto con tutto, mette insieme il materiale più eterogeneo: le linee melodiche, le tonalità, i generi musicali. Anche questo patchwork è continuità. La continuità non è più affine all’organizzazione di un corpo vivente che a un collage dadaista. La di-versione, la svolta brusca, la digressione, il saltare di palo in frasca sono tutte forme di continuità e diventano forme della distanza solo per uno sguardo che non salta più con le cose e così si dà il tempo per separare gli spazi e i tempi, creare i luoghi, tracciare i confini. La continuità salva il bric-à-brac e i fuochi d’artificio dal frammentismo e salva le forme organizzate dall’unità: sia gli uni che le altre sono livelli della continuità, entrambi senza molteplicità e senza unità.

Ma la continuità non descrive soltanto l’esperienza dell’uomo: pensiamo alla critica che Jean-Luc Nancy fa alla teoria heideggeriana del tatto, che vuole fare di quest’ultimo un privilegio antropologico. Heidegger dice che la pietra non tocca la terra nello stesso modo in cui la nostra mano è appoggiata sulla testa di qualcuno. Ciò è vero – secondo Heidegger – perché la pietra, nel suo “toccare”, non ha accesso a un altro ente in vista della sua “manipolazione”. Niente per la pietra è zuhanden, cioè, nel caso della pietra, il suo stare e toccare il suolo non produce la differenza ontologica tra il punto-zero di un corpo agente e i punti 1, 2, 3… del mondo (ma è un poco ingeneroso prendersela sempre con Heidegger. È tutto il pensiero di matrice fenomenologica a vedere le cose così, vale a dire in maniera antropologica, pensiamo alle celebratissime analisi – invero un poco melense – di Lévinas circa la “carezza” che “cerca e fruga”). Nancy obietta che la pietra, anche prima di essere «urtata, lanciata o manipolata per o da un soggetto», se non altro pesa, ha un «peso […] che affiora o ruzzola soltanto sul suolo», c’è un «contatto della pietra con l’altra superficie», entrambe sono dentro un «reticolato di contiguità», cioè di continuità (anche se Nancy non accetterebbe questo “cioè”, perché è un pensatore eminente della finitezza e del “mondo” e per lui il senso del tatto disegna un reticolo di differenze e di scarti, di contiguità “al limite”, senza continuità). Per la prospettiva continuistica non c’è un privilegio umano da difendere come uno speciale accesso all’esperienza di cui le cose non-umane sarebbero sprovviste, appunto perché la continuità non è proprietà o un attributo di qualcuno, ma è essa stessa un possesso, un “tenersi”, un “avere” che nessuno stringe fra le mani.


  1. La differenza

Facciamo la proposta di chiamare “piacere” l’intensità dell’oscillazione bocca-seno, mano-martello. Il discorso della filosofia post-strutturalista, soprattutto francese, ci ha abituato a pensare a un piacere sempre e comunque debitore della differenza. Piacere essenzialmente filosofico, ontologico, se è vero che tutti gl’incontri delle cose si raccolgono nella «Differenza ultima e assoluta. È essa a costituire l’essere, a permetterci di concepire l’essere», come scrive Deleuze in Proust e i segni. Facciamo allora un esempio preso dalla Recherche che ci può aiutare a capire di che cosa stiamo parlando:

Abbiamo visto una fanciulla indifferente, insolente in riva al mare, abbiamo visto una commessa seria e attiva al suo banco, che ci risponde seccamente non foss’altro per evitare di farsi prendere in giro dalle colleghe, abbiamo visto una fruttivendola che ci risponde a malapena. Ebbene, non avremo pace finché non potremo sperimentare se la fiera fanciulla in riva al mare, la commessa sensibile alle dicerie, la distratta fruttivendola siano o no suscettibili, in seguito ad accorte manovre da parte nostra, di far deviare il loro atteggiamento rettilineo, circondando il nostro collo con quelle braccia che reggevano i frutti, chinando sulla nostra bocca, con un sorriso arrendevole, occhi dapprima gelidi o distratti – oh bellezza degli occhi severi durante le ore di lavoro, quando l’operaia temeva la maldicenza delle compagne, degli occhi che fuggivano i nostri sguardi assillanti e che adesso, adesso che l’abbiamo incontrata da solo a sola, lasciano che le pupille si pieghino sotto il peso soleggiato del riso quando parliamo di far l’amore! Fra la commessa, la lavandaia intenta alla stiratura, la fruttivendola, la lattaia – e la ragazzetta che sta per diventare la nostra amante, si realizza il massimo scarto, ulteriormente esteso ai suoi limiti estremi, e variato, da quei gesti di consuetudine professionale che fanno delle braccia, sinché dura il lavoro, la cosa più diversa che si possa immaginare, come arabesco, dai morbidi lacci che già ogni sera avvolgono il nostro collo mentre la bocca si prepara al bacio.

Sembra un passo citato apposta per contraddire tutto quello che abbiamo detto finora. Il piacere della seduzione viene definito da Proust come lo spazio del «massimo scarto esteso ai suoi limiti estremi». Apparentemente quanto di più lontano da un qualsiasi pensiero della continuità. Ma prima di arrivare a conclusioni affrettate, cerchiamo di mettere in chiaro i termini del problema. È come se Proust facesse una domanda: a che cosa è dovuto il nostro piacere della seduzione? Al fatto che mentre le braccia della commessa si allacciano al nostro collo ci ricordiamo di quando quelle braccia servivano soltanto a impacchettare le merci. E al fatto che il di lei sguardo, che prima fissava vitreo gli occhi dei clienti per intercettare le scelte e le intenzioni d’acquisto, adesso vacilla davanti alle nostre proposte indecenti. Il piacere della seduzione è la traversata di questo scarto, vivere l’incoerenza degli atteggiamenti altrui che noi abbiamo provocato. Siamo tentati di concludere: il piacere della seduzione è un piacere della differenza. Ma Proust dice anche: è il fatto che sia la stessa ragazza a non guardarmi, prima, e, adesso, ad arrossire, che mi eccita. Allora il piacere sembrerebbe una questione di identità e medesimezza: l’incoerenza e lo scarto sono eccitanti perché sono riempiti dagli atti della stessa persona. Proust più che dare una risposta alla domanda sull’origine del piacere della seduzione pone un problema: identità o differenza? Bisogna convenire che non c’è risposta alla domanda: perché l’identità potius quam la differenza? Oppure: perché la differenza potius quam l’identità? Infatti, né l’identità è potior, cioè più potente, della differenza né è vero il contrario. Identità e differenza si equivalgono sempre, insieme devono tenersi bordone, altrimenti cascherebbero per terra perché nessuna delle due è capace di stare in piedi da sola. Quindi diamo la seguente risposta alla domanda sul piacere della seduzione fatta da Proust: è la continuità a essere più potente, ossia l’oscillazione tra l’indifferenza di prima e l’amore di adesso. Il nodo del problema si scioglie se invece di saltabeccare dalla differenza all’identità e viceversa facciamo attenzione alla continuità.

Invece dell’oscillazione “spaziale” boccaseno, manomartello, stiamo adesso studiando un’oscillazione “temporale”: dall’indifferenza di prima all’interesse di adesso, il gesto meccanico di servire i clienti al banco diventa il movimento di un laccio amoroso intorno al mio collo. Ma quel che accade nel “tempo” è la stessa cosa di quel che accade nello “spazio”: la continuità delle cose, il collegarsi e prolungarsi delle esperienze in quello che siamo abituati a chiamare “tempo” non meno che in ciò che chiamiamo “spazio”. Dire che si tratta di un puro piacere della differenza sembra inadeguato. Ma con questo non stiamo dicendo che lo scarto di cui parla Proust è riempito da una continuità che in definitiva sarebbe identità (quella della ragazza). Stiamo dicendo invece che lo “scarto” in quanto tale è la continuità. L’abbraccio di adesso non smentisce, o nega, o fa cadere nel vuoto l’ostentata indifferenza di prima. L’abbraccio si aggiunge all’indifferenza, vale a dire: continua il comportamento dell’indifferenza. Lo scarto non è niente di negativo, è invece la tensione che non cede tra il prima e il poi. Allo stesso modo: la medesimezza della ragazza non è una qualche coerenza psicolo-ontologica che sopravvive all’incoerenza del comportamento ma, di nuovo, la continuità tra il prima e il poi. Questa continuità è l’intensità della seduzione, senza differenza e senza identità.

Quel che sorprende e incuriosisce il Narratore della Recherche è la trasformazione, la fluidità di questa metamorfosi: la linea seguita dalle braccia della ragazza, prima penzoloni e indifferenti o forse irrigidite, adesso forma una curva che avvolge il partner. Quando accade ciò? C’è un momento in cui ci accorgiamo che lo sguardo della ragazza vacilla e ha già preso un’altra direzione, un altro senso. Come scrive Proust, il cambiamento è segnalato da un leggero abbassarsi delle palpebre. Qui c’è un angolo dietro il quale – più o meno velocemente – la realtà fa una giravolta prima di cambiare aspetto: come i 1000 a cui l’acqua comincia a bollire o lo 00 a cui congela. Lo sguardo della ragazza ondeggia, inciampa, fa crack, e da quel momento abbiamo a che fare con “un’altra persona” (che poi è “la stessa di prima”). Intorno a questo punto di svolta cominciano a scorrere anche gli altri gesti del corpo, per esempio i movimenti delle braccia, che non sono più gli stessi: prima erano irrigidite e non ci toccavano, adesso si piegano amorevolmente verso di noi. Brusche, repentine, sorprendenti, oppure lente e lungamente preparate, queste svolte della realtà sono modi di quella continuità che si afferma attraverso le più aspre battaglie: «sarebbe arrivato un giorno in cui, per un certo periodo, Debussy sarebbe stato considerato fragile come Massenet e i trasalimenti di Mélisande abbassati alla stregua di quelli di Manon. Perché le teorie e le scuole, come i microbi e i globuli, si divorano tra di loro, assicurando per mezzo della reciproca lotta, la continuità della vita». Quel giorno, che arriva o arriverà, stabilisce la nuova regle du jeu che s’impone al gusto e alle passioni estetiche della buona società. Così come il fatto che adesso posso liberamente spupazzare la commessa al chiaro di luna, mentre prima potevo soltanto guardarla, significa che stiamo vivendo una nuova intensità dell’esperienza, un altro modo di stare insieme. Ma tra l’uno e l’altro modo, tra il prima e il dopo, non c’è proprio niente: non ci sono crisi o catastrofi del tempo che – per rendere conto di ciò che sta accadendo – mi costringerebbero a mettere insieme i pezzi di un mosaico sentimentale infranto. In realtà il “punto di svolta” tra il prima e il dopo è semplicemente il momento del dopo. Lo sguardo che si intenerisce e incespica negli occhi della commessa è già una parte del suo amore per me. C’è lo svoltare che la nuova situazione significa nei confronti della prima (come quando a Roma si dice di qualcuno che “ha svoltato” per dire che la sua situazione è cambiata in meglio), ma non c’è una soglia della svolta diversa dalla situazione stessa che – continuando la prima – effettivamente svolta. Prova ne è che non sappiamo mai dire esattamente quando la situazione è cambiata, ma sappiamo benissimo che è cambiata e che un’intensità dello stare assieme si è metamorfosata in un’altra. Non è forse questa continuità tra il prima e il dopo autosufficiente? Che cosa a rigore ci costringe alla ricerca di un atopico limite del tempo che decide, scava il vuoto e separa? Da dove piove questo limite della generazione e della corruzione in cui ci siamo abituati a riconoscere la “necessaria” catastrofe tragica del tempo? È solo il linguaggio a far funzionare in questo modo l’esperienza del cambiamento. Perché noi confondiamo l’imprendibilità della dizione dicente, l’in-esistenza del soggetto dell’enunciazione rispetto al discorso effettivamente proferito, con la continuità dei corpi.

C’è allora un’esperienza della continuità, un piacere della continuità, che non è un piacere della differenza o dell’identità. Deleuze ovviamente la continuità la conosce benissimo: ne L’anti-Edipo parla dell’intensità come di un «flusso senza fine, che scorre come un’immensa coscia di maiale», scorrimento di una hyle che «designa la pura continuità che ogni materia idealmente possiede», che significa cioè l’insieme mai completo, totalizzabile o chiuso dei flussi parziali. Solo che Deleuze si ostina a usare il termine “differenza” per la continuità della materia e nella sua filosofia il ritmo desultorio, barocco, frammentato del rapporto finisce per avere la meglio sulla continuità che diventa un concetto accidentale, un semplice attributo della differenza, se non addirittura – talvolta – un sinonimo dell’unità, dell’omogeneità, la pietra di volta della metafisica analogica che è la bestia nera dell’univocismo deleuziano.  A quanto pare neppure nelle sue forme più avanzate e sovversive l’ontologia può fare a meno dei suoi feticci: identità, differenza, identità e differenza, differenza senza identità, e così via. Più si è sostanzialisti, più ci si affeziona all’identità. Più si è deleuziani, più si è portati a cantare le lodi della differenza e del frammentismo: «Differenza ultima e assoluta. È essa a costituire l’essere, a permetterci di concepire l’essere», come abbiamo visto. Basti pensare alla visione estatica di cui è fatta la terza sintesi del tempo di Differenza e ripetizione e che è uno dei picchi speculativi di quel libro: lo sparagmòs di un soggetto «fatto a pezzi […], quasi che il portatore del nuovo mondo», che succede alla sintesi “presentificante” dell’abitudine e alla sintesi “sempre già stata” della memoria, «fosse spazzato via e sparpagliato dai colpi di molteplicità che ha fatto nascere».


  1. Avere senza essere

La continuità non è differenza né identità (né lo squartamento dell’anti-eroe deleuziano, né l’ongoing whole dell’album fotografico di famiglia), anzitutto perché non designa l’esperienza di un “essere”, non è un’esperienza ontologica, ma un’esperienza di possesso, coappartenenza, synechia, per usare il lessico di Aristotele. Per dirla con una formuletta sicuramente imprecisa ma che forse rende l’idea: la continuità ha molto più a che fare con l’avere che con l’essere e i sui protocolli (uno, due, analisi, sintesi, identità, differenza ecc.). La syn-echia è con-tinuità, la tenuta di un blocco esperienziale (percettivo, estetico, sociale, ecc.) che non è identità più di quanto sia differenza. La posizione dell’essere, ogni forma di “tesi” differenziante-identificante, presuppone un occhio che si svincola dalla situazione, un osservatore esterno che ha il tempo per fermare lo sguardo, dunque segmentare la continuità dell’esperienza secondo il tempo di questo arresto e dire: “da questa parte…, dall’altra…”, “questo e quello”, “questo è quello”, “questo o quello”. La continuità dell’avere, invece, non analizza il “questoquello” dell’intensità. Nella continuità intensiva non c’è ancora il tempo per concentrare lo sguardo, per mettere a fuoco, ed è così che i suoi elementi parziali, avendosi, pure, non-sono.

Ora, com’è possibile tenere insieme parti che non-sono? Non si tratta di un’evidente contraddizione, di una spaventosa ingenuità teorica? Sembrerebbe che per con-tenersi, prolungarsi e fare continuità, la prima condizione è che gli elementi in gioco, almeno, siano e non, invece, non-siano. In realtà non stiamo dicendo che i termini della continuità non-sono, quanto invece che non partecipano dell’essere e per questo non sono “termini”. Di solito qualcosa o qualcuno non-è, non partecipa dell’essere perché qualcuno o qualcosa d’altro – il detentore dell’essere in prima istanza – non concede la proprietà della qualità dell’essere. Qualcosa tende le mano per ricevere l’essere, ma l’essere non viene concesso. Quindi ciò che tende la mano invano, viene marchiato con il segno del non-essere. Il non-essere di qualcosa è una partecipazione (metechein) alla qualità dell’essere che viene negata. Ma non è di questa non-partecipazione che è fatta la continuità come synechia la quale, pure, “non è”.

La continuità “non è” perché, semplicemente, non partecipa della circolazione proprietaria. La circolazione proprietaria dell’ontologia è fatta di quattro termini perché per poter ingranare ha bisogno: (1) della qualità, cioè del bene che viene fatto circolare (nel nostro caso: l’essere ovvero il limite, il fatto di essere), (2) del termine proprietario in prima istanza (ad esempio: dio, il padre, l’idea di Platone, il linguaggio, ciò che custodisce e distribuisce l’essere, ciò che propriamente “è”), (3) di colui che riceve il bene (l’ente che è in seconda istanza, ciò che impropriamente “è”) e (4) di colui che non lo riceve (l’ente che “non-è”). Non partecipa dell’essere l’ultimo dei termini coinvolti nella circolazione proprietaria, ma anche qualcos’altro che si auto-esclude dalla circolazione perché non accetta di essere un “termine”. Va da sé che quest’ultimo modo di non partecipare (stiamo parlando della continuità, è la continuità a non partecipare) non ha niente a che spartire con la condizione del termine che partecipa della circolazione senza ricevere l’essere (l’ente che “non-è”), proprio come chi – pur avendolo desiderato ardentemente – non è stato invitato a una festa non è nella stessa condizione di chi, anche se è stato invitato, decide di non andarci. Si deve allora dire che la continuità “non è”, tenendo però presente che non si tratta di una deficienza ontologica, ma di uno statuto non-ontologico, di un’esperienza che è di qua dell’essere e del non-essere, che si esclude dal giro della distribuzione dell’essere.

Il tratto della synechia, cioè dell’“avere” in generale, del “tenersi” fra le cose, la loro intensità, non è ontologico, non partecipa dell’einai, quindi non ha nulla a che fare con il limite dell’essere e con l’essere in quanto limite. L’essere è qualche cosa di essenzialmente limitato e limitante. L’essere esprime una consustanzialità etimologica con il limite, se sono fondate le analisi che Carl Braig aveva condotto nel suo Vom Sein, Abriß der Ontologie (1896) che, come ricorda Heidegger, fu una lettura decisiva per la sua formazione filosofica. Secondo Braig il greco einai ha due radici: as, es che significano la regolarità del respiro, la stanzialità, il riposo, e bhu, fu, che invece significano l’abitazione e l’aver dimora. In ogni caso si tratta di esperienze che richiedono la tracciatura di limiti e confini su un terreno. L’essere è in definitiva una questione di economia agricola: “essere” vuol dire grossomodo prendere posto nel campo della presenza occupando un lotto dopo averne ricevuto l’usufrutto dal padrone del campo. Per prendere posto è però necessaria la discontinuità della distribuzione: io mi metto da questa parte, tu dall’altra. Nella pura continuità, invece, niente ha ancora avuto il tempo di stanziarsi, di collocarsi, di prendere posto, perché ogni parte è ancora coinvolta nella tensione di cui è fatta: la tensione è l’aversi delle cose prima che qualche cosa interrompa la tenuta di questo echein.

Se pensiamo a una synechia che non è fondata sull’ontologia, allora capiamo meglio di che tipo di continuità è fatta l’oscillazione: non si tratta di cose che “sono” ma di cose che “si hanno”, che si tengono. In questa tenuta non c’è a rigore l’una cosa e l’altra. Neppure l’una che è l’altra. C’è invece un movimento di risucchio che cambia continuamente la propria forma e i cui elementi vengono trasformati in limiti soltanto dopo la soglia del linguaggio. L’assolutezza dell’oscillazione è pensata meglio attraverso categorie echologiche3 – cioè che mettono capo all’esperienza dell’avere, dell’echein – come ad esempio quella di intensità, che non ontologiche, come unità e differenza.

D’altra parte ci stiamo accorgendo che anche l’essere è una declinazione dell’esperienza dell’avere. L’essere consiste nella trasformazione dell’avere e del possesso (echein) nella proprietà (ktaomai, ousia) e nella partecipazione (metechein). La comprensione analogica dell’ente – che è poi la forma vittoriosa dell’ontologia in Occidente, quella che nata con Platone e Aristotele è stata continuata dalla Scolastica ed è arrivata ai vari Trascendentalismi della modernità – dice sostanzialmente che l’essere è una funzione della proprietà. L’essere è la circolazione a quattro termini che abbiamo considerato più sopra. Ma una cosa è la circolazione proprietaria, dunque la partecipazione, il metechein in cui le determinazioni dell’essere (il Proprietario, la proprietà, il proprietario in seconda istanza, l’espropriato) trovano ciascuna la sua collocazione (e questo è il momento in cui l’echein diventa ktaomai ed einai). Altra cosa è il possesso, l’avere, l’echein in quanto tale, che coincide con l’elasticità intensiva. Potremmo dire, in modo molto sbrigativo, che la proprietà (ktaomai, einai) è la sospensione e la riduzione a principio (il principio che detiene l’essere e lo distribuisce), dunque la verticalizzazione discontinua, della continua orizzontalità del possesso (echein). Echein viene dalle radici vah che significa il movimento, vuol dire grossomodo “portare”, e sah che significa la forza di chi prende e trascina qualcosa con sé. La forma più primitiva dell’echein è forse quella del vestito, cioè il possesso di qualche cosa che aderisce a noi senza che neanche ce ne accorgiamo («L’avere si dice in più modi», scrive Aristotele ne Le categorie, «come avere le cose che avvolgono il corpo, ad esempio un mantello o una tunica»). È l’aderire del vestito al corpo, la “tenuta” che il corpo e il vestito hanno fra di loro – senza compenetrazione ma anche senza che il corpo percepisca il vestito come qualche cosa di altro da sé – a fare la prima hexis, la più elementare tra le habitudines.

Noi in un certo senso ci ostiniamo a muoverci nel mondo con lo stesso animo con cui s’indossa un vestito vecchio: con la massima indifferenza. La “nebulosità” che il giovane Heidegger vedeva come il doloroso punto di partenza dell’esercizio filosofico e l’“indistinto rimescolio”, che per l’altrettanto giovane Lukács, è il male di una vita cui si sottrae solo l’esistenza tragica, è possibile che siano soltanto una prospettiva gettata sulla vita da un luogo che ha già preso le distanze dalla vita e dalla sua echologica continuità. Nebulosità e rimescolio, le strade della vita che s’incrociano, cozzano le une contro le altre, si uniscono precariamente e si contraddicono, significano la prospettiva che il pensiero del limite ha sulla vita una volta che la rete del linguaggio è stata gettata e della continuità della vita è rimasto solo il ricordo ingiurioso. L’immediatezza della vita fa allora l’impressione di un cumulo di macerie, una somma incerta di progetti falliti, desideri frustrati, tensioni irrisolte. La “nebulosità” e l’“indistinzione” andrebbero invece indagate di per sé, cioè con assolutezza, per vedere se non possono anche avere significati differenti da quelli che gli dà la fenomenologia del limite, lo storytelling e ogni forma di pensiero tragico. Forse allora l’autentica – ammettiamolo – dabbenaggine con cui siamo abituati a convivere durante la gran parte della nostra giornata, l’ingenuità a volte preoccupante che ci fa dare per scontati la maggior parte degl’incontri, insomma tutto il bagaglio spesso ingombrante delle nostre habitudines, non sono poi una così gran colpa. Forse questa specie di sonnambulismo ed eccessivo agio che alle volte sentiamo mentre ci muoviamo tra le cose e con gli altri significa una tenuta dell’esperienza che ancora ignora se stessa e che potrebbe essere vissuta in ben altro modo, con maggior passione, più concretamente, in modo più avventuroso, se solo disponessimo delle categorie filosofiche capaci di dirla e non venisse ogni volta ricoperta dal lessico e dai tic verbali dell’ontologia del limite. Ma esiste poi un linguaggio della continuità?

Un pensiero della continuità mi sembra rimanere in qualche modo fedele alla passione teoretica con la quale nasce la filosofia. Una prospettiva radicalmente continuista è forse connaturata allo sguardo della filosofia. Quale sguardo? Non quello del tanto vituperato kosmostheoros che, al di sopra della mischia, detta misure e leggi al mondo. Quello della continuità è, al contrario, uno sguardo engagé, coinvolto, impegnato, assorbito nella vita delle cose. Anzi, dobbiamo sforzarci di pensare uno sguardo che coincide con questa vita: uno sguardo fatto di continuità, che segue dappresso la tenuta dell’esperienza, sguardo incapace di concentrazione e di raccoglimento, incapace di fare differenze e di identificare perché, radicalmente “distratto”, corre sui fili di cui sono fatte le cose come una scossa. Spazio-sguardo della filosofia, non più spazio dell’uomo. O forse «regno dell’uomo dal­le radici tagliate, dell’uomo moltiplicato che si mescola col ferro, si nutre di elettricità», come diceva Marinetti. Sguardo il cui il puro theorein abbandona la condizione antropologica e la cui parola diventa la «continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza la sosta assurda di virgole o di punti».


1 La nozione dell’intensità, che domina il pensiero di Deleuze, ha una lunghissima tradizione filosofica: ha un ruolo strategico nell’ontologia di Scoto e anche in Kant. Probabilmente la prima concettualizzazione rigorosa è quella di Nemesio, vescovo di Emesa nella Fenicia del IV secolo, che recupera parecchi elementi della filosofia stoica, e che parla appunto di una toniké kinesis, cioè di un legame motile, di un movimento che riguarda i differenti stati di uno pneuma che è essenzialmente tonos, cioè tensione, intensità. Per alcuni la toniké kinesis è una prima formulazione di quello che la fisica moderna concettualizzerà in modo rigoroso come “campo di forze”.

2 Non ovviamente tutte le forme dell’esperienza umana! Sartre, Sini e Virno hanno mostrato con sufficiente chiarezza in che modo, ad esempio, l’immaginazione sia intessuta di negatività e di nulla. Lo stesso vale per la speranza, e per tante altre condotte cognitive ed emotive. La prospettiva continuistica che stiamo illustrando non ha nessuna pretesa totalitaria. Va da sé che ci sono un sacco di esperienze segnate dalla negazione e dalla distanza, e sono appunto quelle linguisticizzate (non necessariamente expressis verbis) e di cui qui stiamo cercando di mettere a fuoco – con un’approssimazione e una cursorietà sicuramente colpevoli – il retroterra affermativo.

3 Emiliano Bazzanella aveva proposto qualche anno fa la parola “echologia” per indicare una nuova ricerca filosofica: «l’echologia non si basa soltanto sulla semplicistica sostituzione del verbo avere con il verbo essere, bensì si aggancia all’originaria determinazione del verbo greco echein, nel quale più forti sono i rimandi al “rimanere”, al “trattenersi” (da cui anche l’epoché, l’epoca), al registro etico dell’hexis o al formalismo (visibile) dello schema, oppure, ancora più essenzialmente, a un originario relazionarsi che prescinde da una pregressa suddivisione degli elementi» (Idee per un’echologia fenomenologica, 1999). È decisiva l’affermazione finale sulla relazione come esperienza che precede la separatezza dei relazionati (anche se noi preferiamo usare la parola “oscillazione”, perché la “relazione” e il “rapporto”, per quanto possano essere detti precedere gli elementi di cui sono fatti, è molto difficile pensarli senza i “termini” rapportati, mentre gli stati interni dell’oscillazione sono immediatamente inclusi nell’oscillazione stessa). Ma è discutibile che la “tenuta” dell’echein abbia a che fare con il “rimanere” (questo è appunto un significato ontologico, non echologico) e resta poi da vedere in che misura è possibile – come vuole Bazzanella – far rientrare un’echologia comunque intesa nello spazio speculativo della fenomenologia.

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