La negazione tra logica e psicologia – L’azione del ‘non’ sugli affetti

Pasquale Amato [1]

 

È chiaro, comunque, che si tratta di una bisnonna con Opinioni […]. Parole. A quanto pare quella donna è ossessionata dalle parole […], a Cambridge ha studiato lettere classiche e filosofia e chissà cos’altro con un professore che era una specie di genio pazzoide e si chiamava Wittgenstein ed era convinto che tutto sia parole. Sul serio. Non ti parte la macchina? È un problema di linguaggio. Sei incapace di amare? Sono le spire del linguaggio. Hai il raffreddore? Semplice: costipazione di sedimenti linguistici. A mio parere la cosa puzza enormemente di stronzata.
(David Foster Wallace, La scopa del sistema, Einaudi, Torino 2012, p. 89)

 

Introduzione

Nel suo romanzo del 1726, con satira pungente, Jonathan Swift critica la società settecentesca e il suo potere politico-giudiziario, oltre che alcune diffuse opinioni, compresa quella che considerava la lingua una pura convenzione in base alla quale le parole sono soltanto rappresentazioni degli oggetti:

Passammo poi alla scuola delle lingue, dove tre professori discutevano insieme sul modo di perfezionare l’idioma del paese. Il […] sistema di riforma più radicale doveva consistere, secondo loro, nel fare a meno addirittura delle parole […]. Ora, siccome le parole sono in conclusione i nomi delle cose, costoro proponevano semplicemente che ognuno portasse seco tutti gli oggetti corrispondenti all’argomento delle varie discussioni […]. Il solo inconveniente s’affacciava quando costoro dovevano trattare di parecchi e complicati argomenti, perché in tal caso erano costretti a portare addosso dei pesi enormi; a meno che non potessero permettersi il lusso di mantenere un paio di robusti facchini per codesto ufficio […]. E si noti che questo nuovo sistema aveva anche il sommo pregio d’essere universale, cioè di fornire un idioma comune a tutti i popoli civili, come sono loro comuni, press’a poco, tutti gli utensili e gli oggetti d’uso; né gli ambasciatori avrebbero avuto più bisogno, così, di studiare le lingue straniere per trattare coi principi e coi ministri degli altri paesi.[2]

Andrea Moro nota, oggi, che la proposta della “scuola delle lingue” swiftiana elude l’evidenza di come, in ogni lingua, sia indispensabile poter negare. Sarebbe altrimenti impossibile a chiunque – visto che «la “non mela” non c’è, non è un oggetto»[3] – “portare seco” qualcosa per esprimere «un semplice concetto come “non è una mela”»[4]. D’altronde, la negazione «is a sine qua non of every human language but it is absent from otherwise complex systems of animal communication. In many ways, it is negation that makes us human»[5].

Gli attuali studi che riguardano la relazione tra cervello e linguaggio sono oggetto dei lavori di Andrea Moro che, integrando sollecitazioni provenienti dalle aree disciplinari delle neuroscienze con le ricerche di linguistica teorica, comparativa e sperimentale, parla dei «confini di Babele»[6]: in riferimento alla Grammatica Universale, trama comune in cui Chomsky ipotizzava possano raggrupparsi tutti gli idiomi del mondo, Moro identifica, nella mappa neuroanatomica del cervello umano risultante dalle recenti scoperte, i limiti delle nostre potenzialità linguistiche, e avverte che il numero delle grammatiche possibili non è infinito, ma biologicamente limitato: «I “confini di Babele”, dunque, esistono e sono tracciati nella nostra carne»[7]. L’arbitrarietà dell’associazione tra significante e significato è l’unico elemento escluso dalla determinatezza e invarianza (anche se accidentali modificazioni sono possibili) di quelle strutture biologiche che sono le lingue naturali. Dalla ricerca sui neuroni “mirror”[8], Moro trae spunto per osservare i processi somatotopici, che mostrano reazioni delle aree del cervello preposte al linguaggio coordinate con quelle delle parti che controllano l’attività motoria, mostrandosi peraltro scettico rispetto alle ipotesi che riconducono tout court la nascita del linguaggio alle capacità umane di movimento organizzato (soprattutto delle mani).

A proposito della negazione, egli cita uno studio[9] che mostra come gli enunciati negativi inibiscano parzialmente i circuiti motori attivati nel cervello per interpretare frasi riguardanti azioni (affermative e negative, come per esempio “afferro il coltello” e “non afferro il coltello”), concludendo che è la negazione ad influire sui centri del controllo motorio e non viceversa. La premessa, avverte Moro, è che non esistono fatti negativi percepibili a livello sensoriale, ma esistono solo fatti: la negazione, pertanto, non è nel mondo, bensì appartiene alla rappresentazione linguistica del mondo. In classica contrapposizione, dice Moro, all’ipotesi che il linguaggio derivi dalla configurazione del mondo, quest’esperienza sulla negazione avvalorerebbe l’opposto punto di vista che sostiene una sostanziale indipendenza del linguaggio dal mondo: «la negazione non è l’“ombra” proiettata sul cervello di nessun evento fisico, semmai è il cervello che proietta ombre sul mondo»[10].

E in linea con la citazione di Horn, Moro ci fa «notare come la negazione non appartenga ad altri codici di comunicazione animale: certo un animale può opporre un rifiuto, e in questo senso costruire una forma di negazione, oppure può riconoscere che un dato evento non si verifica e comportarsi di conseguenza, ma è l’aspetto formale della negazione che manca […]. Per fare un esempio semplice, un essere umano non ha alcuna difficoltà a capire cosa significhi non credo di non farcela nel senso di “credo di farcela” dove le due negazioni si neutralizzano. Immaginare che un animale possa farlo è sicuramente possibile: pensare che sia plausibile decisamente meno»[11].

Molti altri autori, in ambiti diversi e con diverse finalità, hanno proposto nel tempo le loro riflessioni sull’argomento “negazione”. Lo scenario che ne risulta è tutt’altro che omogeneo e integrato, sia per la molteplicità dei campi di studio, sia perché ai diversi punti di vista corrispondono diverse convinzioni di fondo, anche influenzate dagli orientamenti più caratteristici del contesto storico-culturale in cui sono state formulate. Nel cercare di dar conto del progredire filosofico e degli sviluppi della linguistica, ho dovuto scegliere, naturalmente, tra i riferimenti ad autori che più significativamente, a mio parere, hanno contribuito a delineare un quadro concettuale efficace: ai due estremi temporali, Aristotele (c’era bisogno di dirlo?), nelle vesti di pioniere della logica, e Paolo Virno, con il suo recentissimo Saggio sulla negazione.

L’analisi storica condotta da Horn[12], sicuramente, mi dà un’autorevole traccia. Egli attribuisce a Platone il primato dell’approccio filosofico alla negazione linguistica, annotando come, prima di lui, nell’antica Grecia i Presocratici così come i primi Buddisti in India, avevano associato ai concetti negativi gli stati del non-essere in metafisica e ontologia. Nel Sofista, dice Horn, Platone arriva, con le argomentazioni dello Straniero, a identificare la negazione con la diversità – il non-p è ciò che è differente, distinto da p – e spinge l’attenzione su due temi ricorrenti nella storia della negazione: definita in termini positivi come diversità, la negazione è concetto di cui si può fare a meno nel contesto linguistico; in un certo senso, inoltre, le asserzioni negative, ritenute meno specifiche e poco informative, hanno minor valore di quelle affermative.

Ma primus inter pares è Aristotele (tra i suoi eredi, Horn ricorda Russell, Jaspersen e Montague), il cui studio sull’opposizione tra contrari e contraddittori è una questione psicolinguistica centrale e sempre attuale. Nell’Organon, molti sono gli spunti, validi ancora oggi, per il dibattito sulla negazione: l’individuazione dei diversi tipi di negazione tra termini e tra proposizioni; l’identificazione della negazione con la contraddizione piuttosto che con la contrarietà; la relazione tra predicati positivi e negativi; l’analisi delle espressioni negative quantificate e modali mappate sul “Quadrato delle Opposizioni”. Horn evidenzia infine, a conclusione del suo ponderoso studio, come i principi di non-contraddizione (LC, the Law of [non-]contradiction) e del terzo escluso (LEM, the Law of Excluded Middle) governino i vari modi di opposizione, di entrambe le leggi esplorando la natura formale e lo status teoretico.

L’essenza indubbiamente poliedrica della negazione è testimoniata, d’altronde, dal creativo uso fattone da scrittori che ne hanno colto le potenzialità, come Melville (del suo Bartleby parleremo più avanti), o Corneille, o Carroll.

Con quella che è conosciuta come “litote corneilliana”, l’autore di Le Cid ci offre un buon esempio della sospensione (voluta) in cui la negazione lascia, oltre che lo spettatore, il tormentato Rodrigue che, nel III atto, si sente esortato dall’ambiguo «Vas, je ne te hais point» dell’amata Chimène.

Don Rodrigo: Tenace punto d’onore! Qualunque cosa io faccia non potrò alla fine ottenere questa grazia? Nel nome di un padre morto o della nostra amicizia, puniscimi per vendetta o almeno per pietà. Il tuo amante infelice avrà meno pena a morire per mano tua che a vivere odiato da te.
Jimena: Va’, non ti odio affatto.
Don Rodrigo: Lo devi.
Jimena: Non posso.[13]

O ancora: un effetto paradossale, ottenuto giocando sul pronome indefinito nessuno[14] e su alcuni predicati, disorienta prima Alice, poi l’Alfiere del Re Bianco di Attraverso lo specchio.

«Quattromiladuecentosette è il numero esatto», disse il Re, consultando il taccuino. «Non ho potuto mandare […] i due Alfieri. Sono andati tutti e due in città. Dà un po’ un’occhiata lungo la strada, e dimmi se ne vedi almeno uno». «Nessuno», dichiarò Alice. «Vorrei solo avere degli occhi come i tuoi», osservò il Re in tono stizzito. «Essere capace di vedere Nessuno! E a una simile distanza, per di più! Diamine, è molto se riesco a vedere della gente vera, io, con questa luce!» […] «Chi hai sorpassato sulla strada?», proseguì il Re, tendendo la mano all’alfiere per avere un altro panino. «Nessuno», disse l’alfiere. «Esattissimo», ammise il Re. «Anche questa signorina l’ha visto. Sicché naturalmente Nessuno cammina più lento di te». «Io faccio del mio meglio», ribatté l’alfiere in tono imbronciato. «Sono sicuro che nessuno cammina più svelto di me!». «Non può essere», disse il Re, «oppure sarebbe arrivato prima […]».[15]

Sono solo assaggi, questi, della ricchezza enigmatica che lo studio sulla negazione ci riserva. E allora, ecco il percorso che seguirò.

Nella prima parte, i contributi di Aristotele e Kant mi permetteranno di spiegare, da un punto di vista logico, che cosa è la negazione, ma anche che cosa non è. Messa a confronto con i tipi di opposizione appartenenti all’ambito del reale, si configurerà come componente imprescindibile della contraddizione, unica opposizione di natura linguistica, fatta dunque di logoi, di discorsi: logicamente, negare è contraddire l’argomento di un’affermazione usando il non, e non affermarne il contrario. Infatti, sebbene delle opposizioni cosiddette reali Aristotele e Kant parlarono, come d’altronde sto parlando io, questo significa soltanto che, al pari di qualsiasi cosa, è possibile farne oggetto di discorsi. Ma le opposizioni reali non sono discorsi e, per di più, sono indifferenti alla legge di non contraddizione. Con “Nembo Kid è buono” e “Nembo Kid è cattivo” parlo di due cose contrarie, entrambe false visto che Nembo Kid non esiste. Ma i valori della contraddizione “Nembo Kid è/non-è buono”, cioè dell’affermazione e della rispettiva negazione, devono necessariamente essere vero/falso o falso/vero, sia nel fantastico caso che Nembo Kid[16] esista, sia nel caso, di fatto, della non esistenza: siamo nella dimensione linguistica, appunto, dove tertium non datur.

Imparata la logica del negare, leggerò autori che, da punti di vista diversi – filosofico, ma anche psicologico, e forse persino poetico –, si interrogano su possibili connessioni tra la negazione, alcuni stati d’animo (o «tonalità affettive», come le chiama, con bella suggestione, Franco Volpi, che traduce Stimmung da Heidegger[17]) e l’essere: che relazione c’è tra negazione e non-essere? Il non-ente, il ni-ente, è negazione d’essere; e negare l’essere significa sospenderlo, differenziarlo, ma non sostituirlo; il niente, perciò, come negazione d’essere, è comunque nell’essere implicato. Il niente, allora, nasce dal non? O genera il non? Heidegger e Sartre ci proporranno il loro parere, le loro diverse prospettive del nesso tra non-essere e umano essere, entrambi, su una base fenomenologica, riconoscendo all’angoscia un ruolo di spinta verso e oltre l’essere.

Avvierò poi, nella terza parte, lo studio delle interazioni tra i moti della psiche e il linguaggio, tra pathémata e legomena, cercando di cogliere le peculiarità della negazione e i suoi modi di intervenire nella prassi linguistica, soprattutto focalizzando quelle attitudini che, con il linguaggio, le consentono di incidere sugli affetti.

Infine, a partire da La negazione di Freud, approfondirò le varie modalità di interazione tra negazione e affetti, con l’intenzione – che il cielo mi aiuti[18] – di delineare, da diversi punti di vista e nel modo più chiaro possibile, il ruolo che la negazione assume nella realtà psicologica dell’uomo, nel suo vivere le proprie emozioni e i propri sentimenti.

CHE COSA (NON) È LA NEGAZIONE

La lettura di Aristotele e Kant ci fornirà un identikit logico e linguistico della negazione, che darà supporto alle ulteriori analisi, se non altro nei termini di una auspicabile pertinenza terminologica.

La capacità di negare apparirà costitutiva del nostro parlare, perfino coincidente con la facoltà di linguaggio che appartiene solo all’uomo.

Prima di tutto, impareremo che la negazione non è l’affermazione del contrario, ma un’asserzione che, in forza del ‘non’, ribadisce e sospende lo stesso contenuto semantico della relativa affermazione, genericamente indicando ciò che è diverso da tale contenuto.

Aristotele, De Interpretatione: lo statuto della contraddizione

Le asserzioni sono enunciati che possono essere giudicati veri o falsi.

Aristotele prospetta, in prima istanza, una linearità del nesso tra rappresentazioni mentali delle cose del mondo, espressioni verbali che di tali rappresentazioni sono simboli, e scrittura i cui segni sono a loro volta simboli del parlare. Lo Piparo, richiamando i riferimenti al sýmbolon e al katà synthékēn[19], fa notare come Aristotele smentisca poi la linearità prima teorizzata, mostrando invece la circolarità del nesso tra cose, affezioni mentali e verbalizzazione, in più rimandando al potere di significazione e al carattere pragmatico del linguaggio.

Aristotele stabilisce che, secondo una asimmetria (onto)logica, prima l’affermazione (asserzione positiva) attribuisce qualcosa a qualcosa, poi la negazione, che interviene solo su quanto già affermato, sottrae qualcosa a qualcosa: può esser negato, dunque, soltanto qualcosa che prima è stato posto, originariamente affermato. Eppure, Aristotele aggiunge che, sempre, l’affermato è negabile e il negato è affermabile, abbinando così all’asimmetria una mutua convertibilità, una costante specularità funzionale.

Per un’affermazione, esiste una sola negazione; e viceversa. Il principio di non contraddizione garantisce che, se è vera la negazione, è falsa l’affermazione, e viceversa, perché non c’è una terza opzione.

Le proposizioni a carattere universale o particolare (“Tutti gli uomini sono ricchi”; “Qualche uomo è generoso”) affermative e negative si oppongono, conformemente al quadrato delle opposizioni, per contraddizione (“Alcuni uomini non sono ricchi”; “Nessun uomo è generoso”) o per contrarietà (“Nessun uomo è ricco”; “Qualche uomo non è generoso”).

fig_02

Il Quadrato[20], i cui vertici sono indicati con le vocali A, I, E, O delle parole latine adfirmo e nego, richiama lo schema:

Qualità      Quantità     

A         (adfirmo)     Affermativa  Universale        Tutti gli S sono P

I          (adfirmo)     Affermativa   Particolare      Qualche S è P

E         (nego)          Negativa        Universale        Nessun S è P

O         (nego)          Negativa       Particolare       Qualche S non è P

in cui le quattro proposizioni dell’ultima colonna (S ≡ Soggetto, P ≡ Predicato) rappresentano altrettante relazioni[21]:

  • contraddittorietà – relazione corrispondente alle due diagonali del quadrato (AO, EI), caratterizzata dal rapporto logico: se di due proposizioni contraddittorie una è vera, allora l’altra è falsa
  • contrarietà – relazione corrispondente al lato superiore del quadrato (AE), caratterizzata dal rapporto logico: due proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false
  • subcontrarietà – relazione corrispondente al lato inferiore del quadrato (IO), caratterizzata dal rapporto logico: due proposizioni subcontrarie non possono essere entrambe false, ma possono essere entrambe vere (cioè: almeno una di esse è vera)
  • subalternazione – relazione corrispondente ai due lati verticali (AI, EO), caratterizzata dal rapporto logico: se l’universale è vera (A/E), allora la rispettiva particolare (I/O) è vera.

Lo schema chiarisce in modo definitivo la differenza tra contraddittorio e contrario, evitando la confusione tipica del linguaggio comune (e permettendo ad Aristotele di rappresentare formalmente il principio di bivalenza). La contraddizione (la negazione linguistica), in forza del principio del terzo escluso, risulta essere l’opposizione di massima intensità, la sola opposizione in cui il valore di verità delle asserzioni alterne è sempre definito e antitetico.

Aristotele dimostra, inoltre, che la negazione di un’asserzione (“Socrate è saggio”) è l’asserzione contraddittoria (“Socrate non è saggio”), non l’affermazione del suo contrario (“Socrate è stupido”), e che, quindi, una negazione conferma sempre il contenuto semantico della rispettiva affermazione.

Aristotele, Le Categorie: i logoi e le opposizioni

Aristotele definisce le quattro tipologie di opposizione tra: relativi, contrari, privazione e possesso, affermazione e negazione. A conclusione dell’analisi, stabilisce che la contraddizione, in quanto opposizione tra logoi, inevitabilmente verbale, è l’unica opposizione logica. Essa non va confusa con le altre opposizioni: solo la negazione (contraddizione), in quanto espressione «secondo connessione» (katà synthékēn), è sempre devota al principio del terzo escluso. Le altre opposizioni – tra relativi, tra contrari, tra possesso e privazione – possono anche essere oggetto di un discorso, ma non sono linguistiche (perché «dette secondo nessuna connessione» [13b10-13]), e non implicano pertanto valori di verità per forza alternati.

La Realrepugnanz di Kant

Il tema dell’opposizione viene ripreso da Kant nel 1763 con il Tentativo di introdurre in filosofia il concetto delle quantità negative[22] (ma anche nell’“Analitica Trascendentale” della Critica della Ragion Pura). Kant parla di opposizione logica, sostanzialmente equivalente alla negazione linguistica, quindi alla contraddizione aristotelica (negazione delle verità di ragione, che in base al principio di non contraddizione dà un risultato non rappresentabile – nihil negativum –, come quando dicessi che un corpo è contemporaneamente immobile e in movimento), e introduce la nozione di opposizione reale (Realrepugnanz) senza contraddizione (opposizione rappresentabile e dunque pensabile, che non soggiace completamente al principio di non contraddizione e non è riconducibile a una negazione puramente logica; i predicati sono opposti ma non contraddittori, entrambi positivi e rappresentabili; ne risulta il nihil privativum). Nell’opposizione reale, due forze contrarie operano sulla stessa realtà (p.es., piacere e dolore agiscono sul corpo: se hanno uguale intensità, si azzerano, e il corpo giunge a uno stato di quiete; opposizione e simultaneità delle due forze richiamano le caratteristiche della correlatività aristotelica).

Kant approfondisce e amplia la classificazione delle opposizioni già delineata da Aristotele, operando un confronto ancora più stringente che mette in netta evidenza le peculiarità della contraddizione logica. Il seguente schema riassume per differenza:

Opposizione Logica

PER CONTRADDIZIONE

Opposizione Reale

SENZA CONTRADDIZIONE

Contemporanea affermazione e negazione
del predicato di una cosa
Due predicati di una stessa cosa, diversi e opposti, ma non contraddittori, in sé positivi (solo il linguaggio assegna l’ordine negativo a uno dei due), le cui conseguenze si annullano
Si può indicare con A è non-A Si può indicare con A–B=0
Produce un nulla assoluto:
nihil negativum irrepraesentabile
Produce un nulla relativo:
nihil privativum repraesentabile
appartiene al piano linguistico
(negazione linguistica)
appartiene al piano pre-linguistico
(opposizione fisica, matematica, psicologica, …)
è una relazione a 2 termini:
affermazione (A) e negazione (non-A)
è una relazione a 3 termini:
(forza) A + (forza) B = (quiete) zero (= 0)
Kant la chiama DIFETTO (defectus, absentia),
in quanto assenza di alcunché di positivo
(perché logicamente impossibile)
Kant la chiama PRIVAZIONE (privatio),
in quanto il nulla risulta dall’azione privativa
di una cosa positiva su un’altra
Un predicato (A) viene sospeso dalla negazione (non-A), ma non sostituito da un altro predicato Un termine positivo (A) viene annullato
dall’entrata in scena di un diverso positivo (
B)

Kant sostiene inoltre che l’opposizione reale può essere attuale o potenziale:

Opposizione attuale – due forze uguali e contrarie, cioè l’una negativa dell’altra, che agiscono sulla stessa cosa o su due cose diverse, e si annullano a vicenda.

Opposizione potenziale – per esempio, quella di due forze uguali e contrarie applicate a due corpi che si muovono sulla stessa retta e si allontanano in direzioni opposte, senza urtarsi e perciò senza annullare la propria forza nell’altro.

Il pregio dell’analisi kantiana sta nella chiara distinzione tra opposizione e contraddizione, nel dimostrare dunque l’irriducibilità e la non sovrapponibilità delle opposizioni reali al negare linguistico.

Identificando e sottolineando lo iato tra negazione e opposizioni, Kant fa risaltare l’incommensurabilità tra linguistico e pre-linguistico: appare evidente che il linguaggio, privato della negazione, collimerebbe paradossalmente con la dimensione pre-linguistica, con l’esperienza pre-verbale.

Kant osserva che si può negare un’immagine mentale (una tigre) solo tramite una opposizione reale, cioè con un’altra, diversa rappresentazione mentale (uno sciacallo). Con Kant, concorderanno Wittgenstein («Si può negare un’immagine? No. E in ciò risiede la distinzione tra immagine e proposizione»[23]) e Magritte (“Ceci n’est pas une pipe”). Se poi escludiamo, con Platone, che gli eidola legomena siano uguali alle cose vere[24], siamo chiamati alla sfida di sciogliere lo stesso nodo in cui queste convinzioni si intrecciano.

NULLA E NON-ESSERE

Se il nulla è contraddizione dell’essere, che relazione c’è tra la negazione e il niente? Il non-essere è solo espressione linguistica, e dunque mero parlare, di ciò che non è?

Heidegger: all’origine del non, il niente

In Che cos’è metafisica? (1929), Heidegger propone una questione metafisica che di per sé mostrerà che cosa la metafisica sia. L’esserci scientifico, colui che “fa scienza”, ha come riferimento costante il mondo, cioè la totalità degli enti; è al servizio degli enti e nel contempo pretende di assumerne il dominio tecnico; irrompe, impegnato a conoscere il mondo, nella totalità degli enti, alla ricerca di se stesso. Riferimento, servizio e irruzione sono verso l’ente, «e al di là di questo nient’altro. […] Ciò che deve essere indagato è l’ente soltanto, e sennò – niente; solo questo e oltre questo – niente; unicamente l’ente e al di là di questo – niente»[25]. La scienza sa solo di non voler sapere niente di quel null’altro, ma allo stesso tempo lo evoca e gli chiede aiuto, chiude le porte in faccia alla metafisica, eppure pone implicitamente la domanda che della metafisica è propria. Bisogna allora porre correttamente la domanda e verificare se esista una risposta: Che cos’è il Niente?

Heidegger parafrasa Platone: il non-ente, il non-essere del ni-ente, è negazione d’essere (heteron e non enantion); la negazione è una specifica operazione linguistica, che sospende e differenzia il proprio argomento, ma non lo sostituisce. Il Niente, il non-essere, negazione dell’essere, ha comunque a che fare con l’essere, e Heidegger decide: all’origine del ‘non’, c’è il Niente.

Ma dove abbiamo già incontrato il Niente, perché da esso potesse nascere il ‘non’?

La negazione della totalità degli enti ci viene incontro proprio dal luogo del nostro esserci: in determinati momenti, meno preso dalle cose e da se stesso, il nostro esserci può incontrare il tutto dell’ente. Nella noia profonda, per esempio, o nella gioia dell’amore.

Nella vita quotidiana, l’esserci è sempre in bilico tra inautenticità e autenticità, tra comune condizione dell’improprio (Uneigentlich) e sporadica evenienza del proprio (Eigentlich), rara avventura in cui l’angoscia ci conduce al Niente. L’angoscia (Angst) – esperienza affettiva che non è ansietà (Angstlichkeit), ma paura dell’indeterminato – dà una strana indifferenza, uno spaesamento di fronte al “dileguarsi” della totalità degli enti. Incontriamo il Niente insieme alla totalità degli enti, respinti da questo Niente che pur ci rinvia all’ente. Esperiamo il Niente e, al contempo, esperiamo l’essere, benché nel suo dissolversi.

L’uomo, essere-gettato-nel-mondo, ente tra gli enti, pone la questione metafisica che lo mette in questione, e nell’angoscia incontra il Niente, in cui pure è permanentemente avvolto. Ma è anche l’esserci caratterizzato dal poter andare oltre la totalità degli enti, dal poterla trascendere.

Proprio la negazione dà prova dell’incessante palesarsi, anche se occulto, del Niente nell’esserci. Il manifestarsi del Niente, però, non può secondo Heidegger essere appannaggio esclusivo della negazione logica. Deve anche essere riverbero di quelle esperienze pre-logiche connesse alle forze che l’esserci poco può controllare, a quella negatività dell’agire implicita, per esempio, nell’ostilità, nel disprezzo, nel dolore del fallimento.

In conclusione, il Niente non è negazione indeterminata dell’ente, ma appartiene all’essere dell’ente. Se Platone aveva fatto combaciare il mé òn con l’esistenza del linguaggio, Heidegger legge invece la negazione, il ‘non’, come conseguenza del Niente svelato dall’angoscia, emozione non verbale, mero riverbero del non-essere.

Virno[26] mostra peraltro, richiamando Saussure, come il non-essere sia radicato nel linguaggio ed esprima il non-essere della lingua, pur senza istituirlo (a conferma di quanto sostenuto da Heidegger). L’angoscia heideggeriana sarebbe inconcepibile senza il riferimento alla facoltà di linguaggio e alle sue caratteristiche relazioni negative definite da Saussure. Heidegger è troppo sbrigativo, incalza Virno, quando ascrive la dimensione sentimentale a quella pre-linguistica. Il niente abita l’esperienza del linguaggio, e non quella affettiva dell’angoscia: richiamando Wittgenstein, Virno rileva come il connettivo linguistico ‘non’, con le sue dinamiche, oltre che darci conto della negazione e del non-essere, incarna e rende fattuali le passioni negative.

Sartre: la negazione e la mancanza d’essere

Mentre scrive L’essere e il nulla[27], Sartre ha ben presente Essere e tempo di Heidegger. Si convince che solo nel nulla l’uomo può andare oltre l’essere. La realtà umana è in permanente balia di una duplice nullificazione, quella della possibilità e quella in cui il mondo rimane sospeso. Da questo, l’angoscia: l’uomo è immerso nel nulla e nella possibilità che implica scelta, è condannato alla libertà, e non può eludere il suo essere responsabile che, lo voglia o no, incide sugli altri.

Il ‘non’ della negazione è la struttura essenziale del nulla. Il nulla è negazione d’essere, genera la negazione come atto, ne è fondamento e sorgente.

In Heidegger non è contemplata un’esperienza concreta della negazione: l’uomo emerge da un nulla trascendente, che non può generare le piccole negazioni presenti nel mondo. Né è l’essere (positività pervasiva) a poterle produrre. Da dove viene allora questo nulla, non rintracciabile né dentro né fuori l’essere, questo nulla che è non-essere, privo della forza per nullificarsi da sé? Il nulla può venire all’essere solo con l’uomo. Solo l’uomo riesce a pensare qualcosa che non appartiene al mondo, a proiettare verso un essere ciò che non è ancora e che potrebbe non essere mai. La coscienza, che differenzia l’uomo dagli altri enti e lo fa individuo, è nullificante per costituzione: nello scegliere quel che le interessa, nientifica ciò che dell’essere ritiene superfluo.

Bisogna distinguere il fenomeno d’essere dall’essere del fenomeno: il fenomeno d’essere rimanda sempre all’essere del fenomeno che è differente dal fenomeno.

Gli enti si fanno fenomeno per me che li intenziono: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, non ha un proprio contenuto. La mia coscienza c’è senza alcun atto conoscitivo, a differenza del fenomeno, non esiste per me come distinta e posta da me. La coscienza di sé non è coppia, non è sdoppiabile in conoscente e conosciuta, bisogna concepirla come rapporto immediato e non conoscitivo di sé a sé.

L’essere che diviene fenomeno per la mia coscienza è essere-in-sé, è sostanzialmente differente dall’essere della mia coscienza, che è essere-per-sé.

L’essere (in-sé) è compatto, pieno di sé, non cambia, non può non essere ciò che è, né essere ciò che non è, coincide senza resti con sé. Il nulla non può insinuarsi nell’essere-in-sé, non trova fenditure che possano ospitarlo.

La coscienza è per-sé, è sempre anche autocoscienza, non può essere in-sé. A differenza dell’essere-in-sé (che è pienezza d’essere, quindi è qualcosa), l’essere della coscienza si incrina, perde coincidenza con il proprio sé e si nullifica. Nullifica il suo essere-in-sé per essere se stessa, deve continuamente annullarsi per essere, l’essere della coscienza deve essere nulla, consiste proprio nel suo continuo nullificarsi e nel trascendersi nullificandosi.

La coscienza di sé (l’essere sé) richiede un distacco da sé che non può essere come il distacco dal fenomeno (si avrebbe un sé esterno alla coscienza, che produrrebbe l’assurda esigenza di una coscienza della coscienza di sé e così via, all’infinito). Eppure, una separazione deve esserci: la coscienza è per-sé proprio perché il suo essere richiede un incessante, convulso accordarsi tra unità e disunità, un continuo riequilibrarsi, che Sartre chiama presenza a sé. Perché avvenga il riconoscimento di sé (non cognitivo e pre-riflessivo), si crea una separazione, uno spazio – che è niente – tra coscienza e sé, che però subito si ricompone perché la coscienza (di) sé possa essere, in una dinamica e perenne alternanza tra unità e disunità. La fessura, che nel negare l’unità determina la separazione, è un negativo, è potere di nullificazione e nulla d’essere: è il nulla.

Il nulla arriva all’essere tramite l’essere singolare e specifico della realtà umana, si introduce nell’essere in molteplici circostanze e ambiti. Sartre ci racconta del suo mancato appuntamento con Pietro:

Io ho un appuntamento con Pietro alle quattro. Arrivo in ritardo di un quarto d’ora. Pietro è sempre puntuale: mi avrà aspettato? Guardo la sala, i clienti, e dico: «Non è più qui». C’è qui un’intuizione dell’assenza di Pietro, o la negazione è intervenuta solo con il giudizio? A prima vista sembra assurdo parlare qui di intuizione, perché, giustamente, non si può avere intuizione di niente e l’assenza di Pietro è niente. […] Quando entro nel caffè per cercarvi Pietro si forma un’organizzazione sintetica di tutti gli oggetti del caffè come lo sfondo sul quale Pietro è destinato ad apparire in primo piano. E questo costituirsi del caffè come sfondo è una prima nullificazione […] di tutte le forme […] è la condizione necessaria per l’apparizione della forma principale, che qui è la persona di Pietro […]. Pietro è assente da tutto il caffè; […] risalta come nulla sullo sfondo di nullificazione del caffè […]. Pietro assente frequenta questo caffè, è la condizione dell’organizzazione del caffè come sfondo. Mentre i giudizi che posso divertirmi a porre poi, come: «Wellington non è nel caffè, Paul Valéry neppure ecc.», sono delle significazioni puramente astratte, […] e non giungeranno mai a stabilire un rapporto reale tra il caffè, Wellington o Valéry: la relazione: «non è» è qui semplicemente pensata. Ciò basta a porre in luce che il non-essere non viene alle cose con il giudizio di negazione: è il giudizio di negazione, al contrario, che è condizionato e sostenuto dal non-essere.[28]

Il mondo è un concreto intrecciarsi di essere e non-essere, di essere e nulla. Il nulla, allora, è mancanza d’essere, e può essere nulla solo nello stesso senso dell’essere. Il non-essere non viene alle cose con il giudizio di negazione, è il giudizio di negazione, al contrario, che è condizionato e sostenuto dal non-essere. Anche Sartre sembra ignorare che il non-essere, il negativo, il nulla, diventa categoria metafisica solo in quanto esistente nel linguaggio come espressione del non-essere della lingua.

LA NEGAZIONE, IL LINGUAGGIO, IL PENSIERO

La natura linguistica del non-essere

Nel 1916, Charles Bally e Albert Sechehaye, allievi di Ferdinand De Saussure (Ginevra, 26 novembre 1857 – Vufflens-le-Château, 22 febbraio 1913), curano la pubblicazione del suo Corso di linguistica generale[29].

Basilare è la distinzione tra langue e parole: la langue, versante psichico dello studio di una lingua, è essenzialmente sociale e non dipendente dai singoli, e spiega il funzionamento del sistema di interrelazioni tra gli elementi di ciò che la gente dice, ovvero delle espressioni dei parlanti osservati nella parole, nel loro prendere la parola, cioè nell’utilizzo individuale, psicofisico, del linguaggio.

Saussure dà forte rilevanza al segno linguistico, considerato come associazione dell’immagine acustica e del concetto; tradizionalmente assimilato al significante (fumo = presenza del fuoco), il segno è invece, per Saussure, un’entità psichica a due facce. Le sue due componenti – significante, entità presente, e significato, entità assente –, intimamente unite, si richiamano a vicenda, come i due lati di una medaglia: i significati non esistono senza i rispettivi significanti. Di un foglio di carta «non si può ritagliare il recto senza ritagliare nello stesso tempo il verso; similmente nella lingua, non si potrebbe isolare né il suono dal pensiero né il pensiero dal suono»[30]. In ogni caso, «il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, e ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario»[31].

 

Un’indagine antropologica sulla negazione

Il ‘non’ e il distacco tra parola e mondo

Virno individua le due questioni che l’indagine filosofica sulla negazione ha principalmente studiato:

  1. Il nesso tra il non-essere e la negazione linguistica: tra il nulla e il connettore logico ‘non’, qual è originario? Il non-essere è presente nei nostri discorsi come elaborazione concettuale sulla base del ‘non’, o ha una propria autonoma sussistenza che nel ‘non’ della lingua trova espressione?
  2. Il confronto tra affermazione e negazione: c’è tra esse uno scarto logico tale da poter attribuire alla negazione un valore metalinguistico? La negazione dice cose del mondo, o parla del rapporto tra mondo e parola?

Saussure sostiene che «nella lingua non ci sono se non differenze […] senza termini positivi»[32]: ogni elemento della lingua è in rapporto negativo e differenziale con tutti gli altri (x non è y, non è w, non è z, …). Tra tutti gli elementi della lingua c’è differenza, non solo, ma da questa differenza essi sono generati: x esiste solo in quanto è non-y, non-w, non-z, … «La relazione negativa tra i fatti linguistici preesiste a questi stessi fatti e, anzi, provvede a istituirli»[33]. La lingua, osserva Virno, è simbiotica con la negazione. Il non-essere abita il linguaggio, e solo in esso il nulla si realizza empiricamente: le nostre enunciazioni (anche affermative o monosillabiche) costituiscono una prova ontologica dell’esistenza del nulla, sono la dimostrazione che il non-essere, a suo modo, è.

La lingua, insieme di valori esistenti solo per il loro mutuo contrasto, non si alimenta che di opposizioni. E proprio la realtà negativa del linguaggio, dice Virno provocatoriamente, comporta che del linguaggio umano non si possa fare scienza, ma solo filosofia. È l’approccio filosofico, che solo può dar ragione del non-essere, pena il perdere di vista – il linguista smarrendo i propri oggetti di studio – i fatti negativi costitutivi del linguaggio.

Per Saussure, è ragionevole definire negativo un fatto se esso ricava per intero la sua realtà dal rapporto di opposizione con altri fatti, se quel fatto non preesiste all’opposizione, ma ne è il risultato: la lingua è l’unico ambito in cui questa condizione paradossale sia soddisfatta.

Il ‘non’, dunque, caratterizza il linguaggio, ne designa la costituzione negativo-differenziale in cui la negazione ha origine. Il ‘non’ consiste, come qualsiasi altro segno, nell’essere opposto a tutti gli altri, nel suo non-essere ogni altro segno, ma è anche il segno che denota quel non-essere, quella differenza negativa che valida se stesso e tutti i segni. Se, quindi, prima che descrivere le cose del mondo e incidere su sentimenti e azioni, la negazione si riferisce all’origine dei segni (e perciò alla sua stessa), chi se ne occupa filosoficamente non fa altro che indagare sul non-essere della lingua.

La negazione, nel suo rimandare all’insieme di differenze eternamente negative come origine dei segni linguistici, si correda di tre specifiche proprietà:

  1. Conferma, pur negandolo, il contenuto semantico dell’affermazione correlativa. Tale principio funziona anche discutendo di fatti e di affetti: ogni psicoanalista sa che, nella mia asserzione “La donna del sogno non è mia madre”, permane, sconfessato eppure inalterato, l’esser mia madre della donna del sogno.
  2. È asimmetrica rispetto all’affermazione. La negazione linguistica è di livello logico superiore, asimmetrica rispetto alla descrizione che l’affermazione dà di un evento, dice qualcosa sul (giudica il) rapporto tra fatto e descrizione assertiva del fatto, ma non si pronuncia sui particolari del fatto in sé.
  3. Non è espressione del contrario, ma del diverso. I due poli di una contrarietà sono in opposizione reale (differenza tra termini entrambi positivi e predeterminati, come buono e cattivo, che sono già definiti, a prescindere dal metterli in opposizione), mentre la negazione linguistica (“non è bello”) non identifica, in opposizione a un termine (“è bello”), un sostituto altrettanto definito, ne sospende la determinazione, lo restituisce all’ambito delle relazioni negativo-differenziali che sottendono a tutti gli elementi della lingua.

Analogamente al denaro, che è la merce che dà conto del valore delle merci, il ‘non’ è il segno che dà conto del valore dei segni. In entrambi i casi, infatti, una parte funge da immagine del tutto: denaro e negazione rivelano la natura recondita del sistema di cui sono una semplice componente. Ne consegue la definizione di Virno: «la negazione è il denaro del linguaggio»[34].

Proviamo, ora, a risolvere le due importanti questioni prima proposte.

Abbiamo detto che per Saussure (dopo il Sofista platonico) il non-essere è implicito nella nostra facoltà di parlare. Non deriva da enunciati, né dal ‘non’ (che lo esprime ma non lo decreta), ma combacia piuttosto con l’essenza della lingua: «né autonomo dalla nostra facoltà di enunciare, né risultato di particolari enunciati, il non-essere coincide con la vita della lingua»[35]. Virno si chiede: ha senso interrogarsi su una gerarchia tra affermazione e negazione? L’originaria negatività della lingua, oltre che confermare l’asimmetria tra il negare e l’affermare, esclude di graduare logicamente la negazione al livello di un metalinguaggio. Quella che conta è la riflessività del ‘non’, derivante dal rappresentare un tutto in quanto parte di quel tutto (denaro), un ruolo da cui l’opzione del metalinguaggio rischia di distrarre l’osservatore. La negazione presiede al passaggio da quel che il linguaggio è a quel che il linguaggio esprime. Il ‘non’, facendo da «commutatore», porta la negatività differenziale, insita nel rapporto tra i segni linguistici, alle azioni e passioni espresse dalle parole. È in questo passaggio la chiave della lettura antropologica, operata da Virno, di come la negazione interviene nelle nostre esperienze pratiche e psicologiche. Una chiave che prospetta, oltre a quella empirica (la negazione pronunciata: “Il mare non è agitato”, per esempio), la negazione che Virno chiama ontologica, quella affine all’heteron, cioè, che designa l’essenza dei nostri logoi, e accoglie, nella zona franca che slega i segni dai significati e i significati dalle cose, quelli che Virno chiama i «sentimenti del distacco».

Virno respinge la scissione che Heidegger opera tra non-essere e negazione linguistica, perché dubita che la negazione sia il semplice riverbero di una dimensione pre-linguistica in cui abiti il Niente. Promuove invece, d’accordo con Wittgenstein, l’idea che l’uomo non padroneggi negazione e non-essere se non nel linguaggio: «Il ‘non’ è l’incarnazione […] di ostilità, ripulse, proibizioni, esclusioni propriamente umane»[36].

 

L’aleph e il ‘non’: una competenza comune

 

 

L’Aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico. Per la Qabbaláh, rappresenta la soglia tra potenziale e attuale, tra segreto e rivelato. Per alchimisti e cabalisti, è il punto che contiene tutti i punti: forse questo ispirò Borges che, nel suo racconto ironico e surreale del 1949, situò il microcosmo-aleph in uno scantinato della Calle Garay di Buenos Aires.

Si crede che, con l’aleph, Dio cominciò a scrivere i comandamenti (“Anochi […]”, “Io sono il Signore Dio tuo”). Spinoza, paragonò l’aleph al soffio appena percettibile emesso da chi si accinge a parlare, all’«inizio del suono nella gola, udibile quando essa si chiude»[37] try this web-site.

Heller-Roazen definisce l’aleph «oblio che inaugura ogni alfabeto»[38], vi intravede la memoria dell’ecolalia infantile, e lo assimila al «luogo vuoto» in cui è possibile la presa di parola.

«Simile per certi versi alla aleph dell’alfabeto ebraico è la negazione che chiamo primaria o ontologica»[39], osserva, dal canto suo, Virno. Assente dall’effettivo parlare, la negazione ontologica è bensì sempre implicata nei nostri discorsi. Nel determinare le proprietà del linguaggio, essa rimarca lo iato che separa il senso degli enunciati dalla denotazione e dalla capacità illocutoria, decreta cioè, silenziosamente, il distacco tra il parlare e gli eventi, tra il dire e il sentire psicologico. Presiede alla determinazione di ogni senso, ma mantiene il senso degli enunciati equidistante, a garanzia di neutralità, da affermazione e negazione, in equilibrio tra il e il no. Determina, nel linguaggio, la neutralità come non-luogo dello scarto tra senso e denotazione, dell’apertura alla possibilità, dell’equilibrio tra e no.

Il Bartleby di Melville sembra però opporsi all’indicibilità della negazione ontologica.

 

Negazione ontologica? Preferirei di no

 

La ripetuta formula di Bartleby, nel suo esprimere un’ingestibile modalità di sospensione dell’azione, mi sollecita a un confronto con il concetto di “negazione ontologica” proposto da Virno. In un certo senso, con il suo «Preferirei di no»[40], Bartleby “dice” la negazione ontologica, e dà così voce allo stato di potenzialità (potenza e impotenza) in cui ogni parlante si trova un attimo prima di rispondere alle richieste, alle domande che il mondo gli pone. Mi sembra, dunque, che Bartleby verbalizzi l’aleph dell’equidistanza tra affermazione e negazione. Se la negazione ontologica determina, nel linguaggio, il non-luogo della neutralità, dello scarto tra senso e denotazione, dell’apertura alla possibilità, dell’equilibrio tra il e il no, allora Bartleby, nel rispondere «I would prefer not to», non fa altro che nascondersi in quel non-luogo linguistico.

 

Tra semantica e psicologia

 

Le principali caratteristiche del linguaggio, impersonate proprio dalla negazione, sono: inattualità del senso e distacco dalle cose. Il ‘non’ assolve, come suo primo compito, a designare le due divisioni (diairéseis) – il senso non è la denotazione, il senso non è la forza illocutoria – presenti in ogni enunciato, a definizione generale dell’enunciato stesso e a ricordarci che «il senso non è alcunché di presente»[41].

Per Platone, le immagini sono negabili solo nella phantasía (Sofista). L’immaginazione è il territorio privilegiato dove parole e immagini si fondono. Grazie alla competenza logica con cui la negazione separa enunciati e fatti, la phantasía estende la «sospensione senza sostituzione» del ‘non’ alle affezioni dell’anima. La negazione, dice Virno, rende reprimibili e differibili gli affetti a cui viene applicata, solo perché “dice” l’inattualità del linguaggio (distacco dall’ambiente e scarto dal presente): l’immaginazione è il luogo deputato in cui il ‘non’ retroagisce sugli stati d’animo.

L’intrinseca riflessività del ‘non’ emerge dal suo essere specifico elemento della lingua, ma pure «significato di ‘significato’». La negazione è sempre inscritta nel significato perché ha il singolare potere di richiamare l’indipendenza del significato dai fatti – dalla denotazione – e dagli stimoli emotivi – dalla forza illocutoria[42]. Appare paradossale che non siano i segni dotati di un significato circoscritto (‘tristezza’, ‘brama’, ‘godimento’, ecc.) a modificare la fisionomia delle nostre passioni, ma il connettivo sintattico che condensa in sé ciò che fa di una parola una parola.

La phantasía, insomma, promuove la mescolanza di sensazioni e discorsi, e si avvale della negazione per mettere in rilievo la non identità tra enunciati e fatti.

Virno nota che la negazione si configura come una doppia interfaccia, perché (1) fa da soglia, ma anche da commutatore, tra l’ambito di quel che il linguaggio è e l’ambito di quel che il linguaggio esprime, e perché (2) separa e connette ciò che facciamo a prescindere dalle parole e ciò che facciamo con le parole. Ma è importante comprendere la peculiare articolazione tra (1) e (2): «la negazione è interfaccia nell’accezione (2) perché, e soltanto perché, è interfaccia nell’accezione (1)»[43].

Possiamo allora dire che la negazione consente la retroazione degli enunciati sulle emozioni soltanto perché traduce in una concreta operazione discorsiva quel distacco dall’ambiente e quello scarto dal presente che caratterizzano il linguaggio.

Nel mettere in rapporto il pensiero verbale con le esperienze psicologiche, la negazione retroagisce su di esse e ha dunque il potere di alterarle: fame e paura possono essere modificate dall’introiezione della negazione. Non le parole che ad essi sono connesse (tristezza, brama, piacere, …) incidono, condizionandoli, sugli affetti, ma il ‘non’ della negazione linguistica. Il ‘non’, il denaro del linguaggio, anziché descrivere il mondo, sovrintende all’interazione tra stati di cose e discorsi.

In sintesi, per Virno la negazione è il congegno logico con cui l’immaginazione opera nel riplasmare le pulsioni e i sentimenti.

 

 

LA NEGAZIONE E GLI AFFETTI

 

Abbiamo finora esplorato gli ambiti logici e linguistici della negazione e intrapreso letture filosofiche che la collocano in una zona di frontiera tra ontologia e psicologia, fino a coglierne i caratteri che sono inscritti nell’esistenza stessa del linguaggio, riflettendo sul potere che, in quanto principio costitutivo e contemporaneamente elemento operativo della lingua, le consente di retro-agire sugli affetti e modificarli.

Dino Ferreri dice: «Io sono Io perché non sono…»[44]. Il suo testo ci avvicinerà al pensiero freudiano.

 

 

Orientamenti della psicoanalisi

 

Ferreri: indagine filosofica Sulla negazione

 

L’obiettivo del saggio di Ferreri è delimitare, facendo perno sul tema della negazione, l’area di confine tra filosofia e psicoanalisi. Egli individua il contrasto di due orientamenti filosofici sulla negazione, uno mirato a distinguere nettamente tra logica ed esistenza (tra pensiero ed essere), l’altro alla ricerca di una loro possibile connessione. In particolare: alla logica viene riconosciuto, nel primo caso, un carattere normativo, respingendo l’idea che siano le strutture psicologiche a generarne le leggi; nel secondo, si studiano i modi in cui le forme logiche possano derivare dalle esperienze dell’uomo o siano con esse in eventuale correlazione. Su questo sfondo-confronto, la negazione si innesta assumendo di volta in volta profili diversi: (i) come connettivo linguistico, necessario a formare l’enunciato negativo; (ii) come rifiuto o diniego di una rappresentazione; (iii) come esistenzialmente fondata, secondo i due modelli di Heidegger e del pragmatismo logico di Dewey, che mutuava da Spinoza la concezione di «negazione come determinazione».

Il percorso storico-filosofico indicato da Ferreri prende il via da una concezione prettamente logica della negazione, considerata modulo grammaticale dell’enunciazione o, in termini mentalistici[45], «funzione dell’intelletto discorsivo»: il ‘non’, sostiene Frege, è una delle «costituenti logiche primitive», centrale nella teoria delle inferenze, necessaria alla costruzione delle proposizioni negative[46].

Il punto di svolta è la fenomenologia di Husserl, che eredita da Brentano, suo maestro, la nozione di intenzionalità. Solo nel 1929 però, con Che cos’è metafisica? di Heidegger, lo spunto fenomenologico arriva a consolidarsi, centrato com’è sul tentativo di cogliere nell’esperienza vissuta le costanti universali dell’esperire umano.

Il giudizio negativo, come sappiamo, viene ricondotto da Heidegger all’angoscia che accompagna l’uomo nell’originaria esperienza del nulla; la negazione deriva in tutte le sue forme esistenziali dall’esperienza del nulla (che è trascendenza per l’esserci). L’esercizio di composizione tra funzioni logiche e situazioni psicologiche accomuna Heidegger e Freud, entrambi ispirandosi alla tesi che i fenomeni affettivi rivelino il vero senso dell’esperienza. D’altronde, la fenomenologia, loro base comune, era nata proprio al crocevia tra logica e psicologia, ricorda Ferreri. Armata della teoria di Brentano sull’intenzionalità e divergendo dal riduttivismo psicologistico – che ricavava tout court le categorie logiche dalle attività psichiche, da una necessità psicologica soggiacente –, la fenomenologia riproponeva, nella sua tradizione, l’esigenza di fondare la logica nella coscienza.

Per introdurre il contributo hegeliano, Ferreri cita la netta distinzione tra essere (sostanza) e rappresentazione (figura), che Hegel, metafisicamente, sancisce facendo leva sulla spinoziana Omnis determinatio est negatio. La tesi secondo cui ogni cosa esistente è negazione di qualcos’altro implica per Hegel che anche il giudizio, determinazione «di qualcosa come qualcosa», è perciò negazione, che determina l’ente delimitandone il concetto.

La visione logico-metafisica hegeliana – affermazione e negazione sono dialetticamente coimplicate – confluisce nella lettura scientifico-pragmatica di John Dewey – l’affermazione e la negazione sono due azioni cognitive che, in un’indagine, mettono a confronto i dati d’interesse per decretarne l’inclusione o l’esclusione – riconducendo la funzione logica dell’affermare o negare alla funzione “organica” dello scegliere o rifiutare. Il linguaggio, dunque, produce un rinvio dell’azione esistenziale (scegliere o rifiutare) fino al completamento del processo di determinazione sugli oggetti in gioco.

Heidegger promuoveva in filosofia l’ermeneutica della ragione comune. Lo psicologismo e, appunto, l’ermeneutica della ragione comune segnano i confini entro i quali si colloca la psicoanalisi. Essa ha agito sul pensiero del ‘900 sia con «funzione di paradigma eversivo della logica ‘classica’», sia come «nuova ‘mitologia della ragione’»[47]. Oscilla, secondo Ferreri, in una dimensione prettamente filosofica, tra metafisica (in quanto rivolta alle origini trascendentali dei comportamenti esistenziali) ed ermeneutica (perché, per poter comprendere tali origini, postula la necessità di un lavoro di interpretazione delle tracce di inconscio che emergono alla coscienza).

La negazione, dunque, è un tema esemplificativo di riferimento per approfondire le radici filosofiche del sistema freudiano, che in particolare Ferreri individua in Hegel e nella sua dialettica.

 

La negazione per Sigmund Freud

 

«Quando si esamina il ruolo che la negazione svolge nelle vicissitudini sentimentali della nostra specie, occorre tenere nel massimo conto i modi cangianti in cui essa appare a chi se ne serve. […] È l’uso stesso della negazione ad alimentare le apparenze fallaci che sorgono al suo proposito. Ma è ancora l’uso che provvede a confutare, e poi a dissolvere, tali apparenze. […] A esserne capaci, bisognerebbe approntare una fenomenologia della coscienza negatrice»[48]. In realtà, Virno ha già, poco prima, gettato le basi della fenomenologia che sollecita, richiamando il paragrafo 244 delle Ricerche filosofiche, quello dove Wittgenstein spiega come il bambino – che, ancora poco avvezzo all’eloquio, grida perché si fa male – arriva ad allestire «un nuovo comportamento del dolore»[49]. Il parlante ingenuo, dice Virno, usa inappropriatamente la negazione. In ragione dell’uso si rende però conto che l’effetto peculiare e concreto del suo negare è rimanere, viceversa, «sempre in stretto contatto con ciò che voleva ardentemente scansare»[50]. Siamo ben consapevoli, sono ormai convinto, che infatti il ‘non’, pur nel rendere negativa un’asserzione, ne conserva intatto il contenuto semantico, non solo, ma ad esso aggiunge risalto. Virno argomenterà, individuandole nella prassi della negazione detta, ulteriori e decisive smentite all’illusione psicologistica di un’omogeneità genetica e funzionale tra negazione e sentimento negativo, tra logica e psicologia, tra linguaggio e immagini.

Freud identifica nella Verneinung il modo in cui, nel contesto delle libere associazioni, l’analizzando si difende da un pensiero che ha appena formulato forzandone la rimozione: «Comprendiamo che questo è il ripudio, mediante proiezione, di un’associazione che sta or ora emergendo. Oppure: “Lei domanda chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre.” Noi rettifichiamo: dunque è la madre»[51].

I due presupposti importanti, nota Ferreri, sono la rimozione e le libere associazioni. Per Freud, la nozione teorica di rimozione rappresentava una “pietra angolare” della psicoanalisi. La corrispondenza tra rimosso e inconscio, che è uno dei principali temi messi in discussione da Jung[52], resterà fondamentale per Freud almeno fino alla definizione più articolata del concetto di “difesa inconscia”.

L’analizzato assume una postura ambivalente di consapevole collaborazione e inconsapevole opposizione, la negazione irrompe – nella forma di una excusatio non petita – in linea con l’atteggiamento duplice del negante, in più trasgredendo a quella regola fondamentale che inibisce qualsiasi istanza critica del paziente riferita ai contenuti delle proprie associazioni spontanee[53].

Virno coglie nel saggio di Freud il riferimento alla scissione tra «processo affettivo» e «funzione intellettuale»: la negazione è il lasciapassare con cui il rimosso accede alla coscienza, e quindi alla conoscenza. La rimozione «è il sosia imperfetto o l’antenato meno evoluto»[54] della negazione, è la negazione originaria. Il ‘no’, dunque, costituisce un «certificato d’origine» del contenuto negato.

Virno vede emergere, in tale dinamica, la plurivocità del ‘non’. Dall’approfondimento speculativo del discorso psicoanalitico il potere della negazione risulta rafforzato: la similitudine tra rimozione e negazione nel perseguire l’annullamento di un affetto rivela il paradosso di un negare che implica un manifestare, l’ineluttabilità, nel dire ‘non’, di un presentarsi al cospetto nostro e del mondo. La negazione freudiana appare diversa solo per grado e non per natura dai casi dell’ordinaria attività linguistica.

Il contenuto rimosso (rappresentazione o pensiero) penetra nella coscienza a condizione di lasciarsi negare. La negazione, dice Freud, è un modo di prendere conoscenza del rimosso, è già una revoca della rimozione, ma non è un’accettazione: la funzione intellettuale, così, si scinde dal processo affettivo.

Il giudizio, prosegue Ferreri, è il conferimento, affermato o negato, di un attributo a un oggetto o di esistenza a un’immagine mentale; le sue forme sono riconducibili alle qualità di buono e cattivo, all’esperienza dell’incorporamento o dell’espulsione, del primordiale mangiare o sputare, alle idee di dentro e di fuori. L’indirizzo dato da Freud alla psicoanalisi verso una teoria della genesi dell’Io viene letto da Ferreri come proposta di un Io originario che, nell’aderire o rifiutare, persegue la propria definizione, in forza di una sorta di «logicizzare originario implicito» che discerne ciò che è bene (incorporabile) da ciò che è male (da espellere). Conseguentemente, la dinamica pulsionale è caratterizzata e direzionata dall’Eros e dall’istinto di morte, rispettive identificazioni dell’affermazione e della negazione primarie.

La psicoanalisi, aggiunge Ferreri, contempla una pragmatica teoria del pensiero, vicina al senso comune, secondo la quale l’individuo umano prima agisce senza pensiero e poi impara a pensare in funzione dell’azione: «Al principio era l’azione»[55], e pensare, perciò, equivale a procrastinare ed elaborare l’azione.

La Verneinung, dunque, mostra l’ammissibilità di un giudizio originario, pre-verbale, che implica l’atavica tendenza all’introiezione-espulsione: «Tuttavia, il compimento della funzione di giudizio è reso possibile soltanto dal fatto che la creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche dalla costrizione esercitata dal principio di piacere. Concorda assai bene con questo modo d’intendere la negazione il fatto che nell’analisi non si scopre alcun “no” proveniente dall’inconscio»[56].

Virno riconosce a Freud il pregio di aver fatto comprendere che, al condizionamento che la negazione semantica ha il potere di esercitare sui moti affettivi, è preliminare l’inibizione che attua nei confronti della negatività più primitiva, ossia di quella pre-linguistica.

La negazione frena la distruttività pulsionale, sostiene Virno, in due modi: omeopatico e polemico. Nel testo freudiano, rileva, mentre l’affermazione, associata all’Eros, viene tout court prospettata come Ersatz (sostituto) dell’assimilazione, la negazione, implicata nella pulsione di distruzione, è invece definita come Nachfolge (conseguenza) dell’espulsione. Ma la negazione, puntualizza, è una Nachfolge “reattiva”, che inibisce la pulsione a espellere, neutralizzando la propria premessa. E, sia nella negazione omeopatica, sia in quella polemica, sia in “Non sopporto il comportamento di Giovanni”, sia in “Non fuggo, benché ne sia tentato”, ciò che è respinto dal ‘non’ resiste alla soppressione: l’ostilità pre-verbale muove il «soggetto psichico» a liquidare (separarsi da) l’avversario, perché implica “esclusione”; la corrispondente negazione comporta (obbligatoriamente, per non fallire) l’“inclusione” dell’oggetto respinto. Il principio di piacere spinge perché venga allontanato quanto non gradito, lo rifiuta e lo esclude; la negazione, «rifiuto includente» in quanto detto, sospende o frena il «rifiuto escludente» pulsionale. Conseguentemente, la prima persona grammaticale, negando, disattiva la propria intenzione distruttiva, a patto di conservare (ostentare) il contenuto semantico: “Non fuggo, benché ne sia tentato” o “Non aggredisco Giovanni”. Virno chiarisce infine che l’annullamento pulsionale è intralciato, non prolungato, dall’annullamento semantico. Lo iato tra negazione verbale ed espulsione psicosomatica, inoltre, si mostra quando la negazione trattiene l’espulsione. E la riorganizzazione della nostra emotività da parte del linguaggio avviene soltanto quando il potere del ‘non’ si manifesta in discorsi che bloccano un affetto escludente-aggressivo, non dunque per sostituzione (Ersatz) con un affetto introiettivo-amoroso.

Anche Ferreri delinea due modalità di negazione, quella immediata e compulsiva della rimozione in funzione del principio di piacere, e quella linguistica, consapevolmente “motivata”, che accompagna un maturo giudizio della realtà. L’inconscio non è logico, non prevede il principio di contraddizione, pertanto il rimosso è frutto di un «inconsapevole prendere posizione» di rifiuto, in luogo del «consapevole prendere posizione» nel senso di giudicare. Il “paziente” che in analisi nega un certo contenuto, o ritiene non pertinente un certo significato, è come se stesse rimuovendo a un livello più elevato, consapevolmente guardando in faccia ciò che è da respingere.

Freud, afferma Ferreri, spinge il suo pensiero sempre più in direzione di un’aggressività legata al primordiale, inconscio piacere di negare, fonte del male radicato nel mondo, costante minaccia per la civiltà. Al contrario, connette la negazione verbale, comunque convinto che la negatività pulsionale ne rimanga l’origine, al consolidamento dell’Io e al contenimento delle pulsioni. Hyppolite dirà che la negazione è un Aufhebung (superamento e conservamento, ma anche revoca, sublimazione) della rimozione.

L’inconscio non logico, allora, non disponendo del ‘non’, sa negare o rifiutare solo attraverso la rimozione. Presentandosi indifferente a qualsivoglia valutazione, ignora ogni valore negativo e, conseguentemente, neanche crede alla propria morte[57].

Virno conclude che il ‘non’ riorganizza l’esperienza emotiva con un «nuovo comportamento»: approfittare della negazione per distaccarsi dal dolore. Parlo in prima persona del dolore, e negandolo a parole me ne discosto, facendone una «passione diversa», liberata e autonoma rispetto agli eventi scatenanti, e dunque più articolata e più estrema. La facoltà di negare, pertanto, svincolando l’‘io’ grammaticale dai limiti del soggetto psicologico, è responsabile di una maggiore complessità e radicalità della nostra vita emotiva.

Con la negazione, il soggetto fronteggia il rimosso “riorganizzandolo”, gli conferisce una “complessità” di cui l’analisi può tentare però l’interpretazione. A Freud, più che fondare psicologicamente il linguaggio, sta a cuore comprendere, secondo Virno, come la riorganizzazione problematica a opera del linguaggio deformi le dinamiche della psiche.

Freud ascrive all’analista «la libertà, nell’interpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto dell’associazione»[58], ma Virno annota che la libertà di cui Freud si vanta è procedura obbligatoria per qualsiasi uomo che, imbattendosi in un enunciato negativo, non può eludere la presenza del “che p” nel sentire “che non p”.

La norma generale è che, nell’incidere su un affetto, palese o rimosso, la negazione lo veste di semanticità: la negazione dà forma semantica alla nostra dimensione emotiva. Nella vita, un sentimento già noto viene rievocato negandolo, viene soppresso qualcosa tuttavia formulato; in psicoanalisi, una passione inconscia è resa cosciente perché il ‘non’ la fa dire e ne istituisce il significato, viene così formulato (esibito) qualcosa tuttavia soppresso: «Il ‘non’ consente di occultare un sentimento palese e di palesare un sentimento occulto perché introduce un distacco rispetto all’attualità dei processi psichici, ovvero perché sconnette il senso dei nostri discorsi dall’“adesso” in cui si insediano la percezione e la rimozione»[59].

Parafrasando Wittgenstein, nel dire “La donna del sogno non è mia madre”, l’analizzando mette in atto, sì, un «nuovo comportamento», ma del sentimento o del desiderio rimosso. Virno esclude con forza, non solo l’idea di un nesso genetico tra espulsione psicologica e negazione linguistica, ma anche la propensione freudiana per una tale tesi: all’opposto, Freud stima che la negazione consenta al pensiero di smarcarsi dai limiti che la rimozione induceva. Una negazione scissa dagli affetti, dunque, ma decisamente influente, che su essi retroagisce in quanto a carattere e orientamento, che li rende anche enigmatici: proprio perché nego il mio disprezzo per Sempronio, ora so di covare disprezzo per lui, sentimento che mi è perciò estraneo pur se familiare, familiare pur se estraneo, estraneo o familiare proprio in quanto familiare o estraneo. Mio perché non mio, insomma, ma anche non mio perché mio.

Ferreri ritiene l’indagine freudiana poco attenta alla intersoggettività implicita nella pratica psicoanalitica. In tale contesto, la negazione è intesa nei termini in cui Hyppolite la traduce: «Le dirò ciò che non sono; attenzione, è ciò che sono»[60]. Con la negazione, il paziente si sottrae al riconoscimento dell’analista e da lui si differenzia, in tal modo procedendo nella costituzione del proprio Io. Nella sintesi di Ferreri riferita a Hyppolite: «Freud non farebbe altro che rappresentare il mito della nascita dell’Io attraverso l’istituzione di un dentro e di un fuori»[61].

 

Brenner: il conflitto mentale e le difese

 

Nel suo The mind in conflict del 1982, Charles Brenner propose una rilettura delle categorie freudiane, rielaborandone le tradizionali definizioni teoriche con l’intento di renderle più agevolmente applicabili nella pratica terapeutica. Dell’importante e complesso testo, credo degna di nota una citazione che mi sembra renda esplicito un pensiero peraltro presente, tra le righe, in molti dei contributi qui raccolti.

Le modalità di difesa sono varie quanto la vita psichica stessa. […] Malgrado la loro natura eterogenea, c’è però qualcosa che tutte le modalità di difesa hanno in comune. […] spesso si dimentica […] che nella difesa c’è, per definizione, un elemento di negazione o rifiuto, nel senso corrente della parola. Ogni difesa contro un derivato pulsionale che susciti angoscia o sentimenti depressivi è un modo di dire «No» a qualche suo aspetto.[62]

In sostanza: quale che sia, il meccanismo di difesa è sempre una negazione.

 

Lacan con Freud

 

«Io non voglio essere capito». Chi ha frequentato i corsi di Lacan dice di aver sentito spesso questa frase, che riassume in maniera provocatoria il problema dello stile lacaniano.[63]

Pur con profondo rispetto del suo volere, e per di più consapevole – al di là dell’ironia – del rischio di un’eccessiva semplificazione, del pensiero di Lacan mi interessa il suo accentuare la co-implicazione tra psicoanalisi e linguaggio, implicazione inscritta, per tutto il corso della sua attività, nell’auspicio del ritorno a Freud, e ribadita anche quando, durante il suo ultimo seminario, già ottantenne, rivolge ai suoi allievi il monito: «Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano»[64].

Freud aveva, dice Lacan, stravolto il motto cartesiano in «Io penso dove non sono, dunque io sono dove non penso», formula che rappresenta l’intuizione di una soggettività individuale costituita su una base già pensante e parlante ma priva di coscienza. La psicoanalisi post-freudiana, non tenendone conto, ha considerato l’inconscio come mero retroterra mentale, e ha dunque ignorato la realtà di un «inconscio che parla» e che, a suo modo, comunica nel tentativo di rimediare alle mistificazioni dell’Io.

La misura linguistica di Lacan è quella strutturalista che va da Saussure a Jakobson. Lacan però, nell’affermare che «L’inconscio è strutturato come un linguaggio»[65] (ma anche che «L’inconscio è ciò che diciamo, se vogliamo intendere quel che Freud presenta nelle sue tesi»[66]), ribalta il nesso saussuriano tra significato e significante (recto e verso dello stesso foglio), perché attribuisce il primato ai significanti del particolare linguaggio dell’inconscio, nettamente svincolando, come due catene che scorrono indipendenti l’una sull’altra, significanti e significati, la rete dei significati rimanendo interdetta: mentre a livello conscio l’espressione significante (fonica) è sempre subordinata ai contenuti (ai significati da comunicare), nell’inconscio le espressioni si rimandano all’infinito l’una alle altre, sempre restando confuso e inarticolato l’ambito dei significati a cui i significanti (delle espressioni) mirano.

L’originalità del pensiero lacaniano sta allora nel sottolineare l’azione autonoma, ignota all’Io, dei significanti rispetto al significato, nonché il loro essere parti costitutive dell’inconscio che producono effetti sulla coscienza eludendo qualsiasi controllo mentale. Rifflet-Lemaire richiama l’esempio del bambino che vede due adulti fare l’amore: privo della maturità necessaria per dare alla scena il giusto significato, la acquisisce nell’inconscio in forma di “significanti puri”, analogamente a come si coglie “alla lettera” un discorso. L’autore fa peraltro notare che l’insistenza di Lacan sui nessi tra linguistica e psicoanalisi va considerata alla luce della problematicità dell’animo umano: il paziente è un poeta che tenta di comporre, partendo da significanti inediti e privati e spinto da motivazioni personali, il poema della propria storia psichica. La linguistica, perciò, vede le proprie teorie, grazie all’interesse di Lacan, immergersi nella dimensione umana e assumere nuovi colori. L’idea di una linguistica “colorata” perché umanizzata, nota Rifflet-Lamaire, sarebbe d’altronde condivisa anche da Chomsky, le cui osservazioni provano «che è necessario tenere conto della categoria del pensiero nell’analisi linguistica»[67], analisi che introduce novità «perfettamente conciliabili con la psicoanalisi lacaniana»[68].

Secondo Lacan, l’uomo afferra il significato attraverso una «spirale ricorrente», il «point de capiton», nodo in cui si legano significante e significato per dar vita a una significazione[69]: i points de capiton puntano alla verità, ma non riescono a raggiungerla, quindi «il linguaggio è un inganno riguardo alla comprensione interumana e principalmente riguardo alla verità»[70], ed è impossibile che l’uomo catturi mai la realtà.

Passiamo dall’essere animali all’essere uomini perché entriamo in un ordine simbolico impersonale – evento che Pagliardini connota come «il trauma del linguaggio»[71] –, ma proprio in quel momento si determina la scissione tra l’Io cosciente e l’inconscio. La definizione dell’Io, così, ha come contropartita la strutturazione dell’inconscio. Tali genesi sono entrambe basate sulla parola, ma mentre l’Io si costituisce nell’esprimere verbalmente significati, l’inconscio si struttura introiettando il sistema della lingua, ossia della rete dei significanti che appartengono a una specifica comunità culturale. Pur consentendo all’Io di parlare, il sistema della lingua non ha tuttavia accesso alla coscienza, in quanto è un prodotto culturale caratterizzato dall’essere sociale e dunque impersonale.

L’ordine simbolico si identifica, per Lacan, con il «Nome del Padre» (che implica legge e linguaggio), figura diversa dal vero padre. Il padre reale è solo incarnazione della funzione paterna repressiva del desiderio della madre nel bambino, che così è incentivato ad accedere alla dimensione del linguaggio, quindi all’ordine simbolico.

Secondo Lacan, pertanto, il linguaggio struttura l’inconscio e induce nell’Io un’identità che, prodotta sulla base di significanti impersonali, risulta immaginaria e illusoria. Il linguaggio, dice Lacan, non è il semplice, versatile strumento espressivo dell’uomo, ma una specie di gabbia che lo imprigiona, un sistema che, seguendo le proprie leggi strutturali, preordina ogni espressione del soggetto. Solo la psicoanalisi, evidentemente, può assumersi l’onere di indagare su quelle leggi, definirle e, quindi, recuperare parola e linguaggio come propri fondamenti: Freud, insiste Lacan, aveva già compreso che l’onirico (come in generale l’inconscio) ha un linguaggio con proprie regole, ignote al paziente, ma a cui solo mediante la parola del paziente (che è «parola del sintomo») l’analista può accedere per risalire al rimosso e ai contenuti latenti di qualsiasi manifestazione psichica: «Il soggetto […] inizia l’analisi parlando di sé senza parlare a voi, o parlando a voi senza parlare di sé. Quando potrà parlarvi di sé, l’analisi sarà terminata»[72].

I segreti sono sempre latenti e dissimulati, suggerisce Lacan nel noto Seminario su «La lettera rubata»[73], lezione imperniata sul testo di Edgar Allan Poe. Il titolo originale del racconto pubblicato sulla rivista The Chamber’s Journal nel 1845, The purloined letter, verrà tradotto da Baudelaire in La lettre volée, La lettera rubata. Lacan rileva che purloined allude al tragitto deviato, prolungato, della lettera e, in un’accezione dell’ambito postale, indica la lettera giacente, e quindi sofferente: ognuno di questi riferimenti richiama sfumature della particolare lettura proposta.

Lacan distingue due scene di cui equipara lo svolgersi, una «primitiva» e l’altra, «seconda», ripetizione della prima, nei due casi la lettera consistendo in ciò che muove i presenti. Il re, la regina e il ministro, nel salotto del re, così come la polizia, il ministro e Dupin, nell’ufficio del ministro, occupano i posti definiti dalla lettera. In entrambe le scene: uno dei soggetti (il re; la polizia) non vede la lettera; chi la vede si illude che l’altro non la veda (la regina; il ministro) e che il suo contenuto sia nascosto; chi la nota, perché lasciata in bella vista dall’altro che crede di cavarsela, se ne appropria indisturbato (il ministro; Auguste Dupin).

Lacan punta soprattutto a evidenziare che le posizioni dei personaggi sono determinate dal loro disporsi nei confronti della lettera: «Il significante ha questo potere di indirizzare la sorte del soggetto, condizionandone i presunti fattori costituzionali o sociali»[74].

A giudicare dalle sue produzioni, logicamente e non casualmente organizzate, l’inconscio non è il caotico pre-verbale, regolato dall’Io, ma sottostà alle regole che la struttura di un linguaggio impone, e allora è «luogo della ragione»[75], del logos. Il soggetto, dice Lacan, è «a bagno» nel linguaggio, immerso «nella struttura» e da essa predeterminato, e questa struttura è l’Altro, cioè il campo del linguaggio, di cui il soggetto subisce le leggi. L’essere umano, sostiene, nasce già «nel campo dell’Altro», e così l’Altro agisce sul bambino prima ancora che la madre possa interagire con lui. Il significante modella l’uomo fin dalla nascita, lo introduce nella società e nella cultura, ma è in relazione con il significato solo arbitrariamente, e non ha un proprio contenuto, perché assume valore unicamente nel raffrontarsi agli altri significanti, insieme ai quali costituisce la «catena strutturata dei significanti» che si connota come «ordine simbolico». L’accesso del soggetto nella dimensione sociale e culturale coincide pertanto con l’alienazione, in quanto perdita di una compattezza originaria, cioè dell’originaria conformità tra significanti e significati biologici.

Faccio ancora riferimento agli Scritti, e in particolare, al commento di Hyppolite su La negazione di Freud. Hyppolite attribuisce al testo di Freud una rilevanza filosofica, chiave che porta ad interpretare la situazione analitica, descritta nel saggio, nei termini di una «negazione della negazione», di un’asserzione esclusivamente intellettuale perché negata (perché linguistica, diremmo noi), del contenuto rimosso, di una rimozione non ancora superata. L’analizzando, commenta Hyppolite, presenta ciò che è attraverso ciò che non è, «Prima tappa: ecco ciò che non sono. Se ne è concluso ciò che sono. La rimozione sussiste sempre sotto forma di denegazione»[76] (avevamo, sopra, già riportato un brano analogo: «Le dirò ciò che non sono; attenzione, è ciò che sono»[77]), ed è obbligato dall’analista ad accettare quanto appena negato, ossia a riconoscerne razionalmente l’enunciazione, comunque psichicamente perseverando nella rimozione.

Freud dice che la negazione, esplicitata nel suo simbolo linguistico, nel ‘non’, porta a compimento la funzione di giudizio del soggetto. La denegazione (così Hyppolite traduce Verneinung), insomma, genera il proprio simbolo che, lui soltanto, consente un’interazione con l’inconscio, a prescindere dalla persistenza della rimozione.

Hyppolite chiude il proprio commento ribadendo che, in psicoanalisi, non troviamo alcun ‘non’ nell’inconscio, ma rileviamo una possibilità per l’Io di osservare l’inconscio, una conoscenza in forma negativa, rifiutata, «ma il riconoscimento dell’inconscio dal lato dell’io mostra che l’io è sempre misconoscimento»[78]mais la reconnaissance de l’inconscient du côté du moi montre que le moi est toujours méconnaissance»[79]; altrove si legge, più lontana dalla lettera e più sfumata, ma proprio per questo a mio parere più “ariosa”, la traduzione: «l’io è sempre ignoranza»[80]).

 

Kugler: associazione verbale e assonanza fonetica

 

Paul Kugler, analista junghiano – presidente dal 1993 al 1997 della Inter-Regional Society of Junghian Analysts, e attualmente membro della IAAP (International Association for Analytical Psychology) –, pubblica nel 1982 The Alchemie of Discourse[81], opera sull’approccio archetipico al linguaggio, ma soprattutto su come l’aspetto fonetico della lingua incida sul lavoro analitico e, comunque, sulle attività della psiche. La descrizione dell’inconscio, essenzialmente costituito da rappresentazioni pre-verbali dell’esperienza di vita del soggetto, viene da Jung integrata nel senso di comprendere in tale raccolta, non solo immagini collettive, ma anche quelle componenti archetipiche “sonore” che definisce «immagini acustiche».

Kugler sottolinea come Jung, per i sogni e per le fantasie inconsce, sia giunto a definire lo stretto rapporto tra immaginazione e fonetica, e quindi tra immagine e suono, e così ad arricchire la teoria psicolinguistica di due importanti contributi:

1) Il linguaggio di un individuo è dominato da gruppi autonomi di associazioni a tonalità affettiva al cui centro c’è un’immagine psichica; 2) il processo associativo inconscio è guidato da un criterio fonetico. […] Il processo mattutino dello scrivere un sogno comporta la traduzione di un’immagine psichica in una struttura verbale, in uno scritto fonetico. Per mezzo delle parole le nostre fantasie si spostano dall’immagine al suono.[82]

L’autore osserva – e poi mette in questione – che Freud era arrivato a considerare casuali (sia ne L’interpretazione dei sogni, sia in Totem e tabù) le associazioni di parole dal suono simile, e perciò arbitraria la somiglianza fonetica.

La netta e casuale somiglianza delle parole violet [viola, violetta] e violate [violentare] – nella pronuncia inglese si differenziano soltanto per la diversità d’accento dell’ultima sillaba – viene usata dal sogno per esprimere ‘con i fiori’ il pensiero della violenza nella deflorazione… Bell’esempio di quei ponti di parole sui quali passano le vie che portano all’inconscio.[83]

Non è casuale che Kugler citi Lacan e la sua teoria sullo stadio dello specchio: la concezione junghiana di un’influenza fonetica inconscia sui processi associativi rimanda, evidentemente, oltre che all’arbitrarietà del segno stabilita da Saussure, alla considerazione lacaniana del primato dei significanti sulla rete dei significati: le assonanze fonetiche – l’associazione inconscia tra suoni, tra “segni” sonori –, dissimulate sotto la “copertura” di nessi tra significati, eludono la coscienza logico-linguistica del nostro pensiero.

Convinto che Jung e Kugler indichino un orizzonte verso il quale sarebbe interessante volgere l’attenzione, chiudo qui questo inciso, brevissimo ma interessante almeno per i riferimenti alla coimplicazione che Lacan teorizza tra inconscio e linguaggio, oltre che alla saussuriana arbitrarietà dei segni linguistici.

 

Ricœur interprete di Freud

 

Nel suo saggio su Freud, Ricœur identifica il breve testo freudiano con una “economica” della negazione, discostandolo da un parallelo con Hegel, visto che l’inizio della Fenomenologia dello spirito, ricorda, prospetta invece una “dialettica” tra verità e certezza.

Freud non associa l’istinto di morte esclusivamente all’aggressività («clamore»): anziché chiudersi su di essa, si apre sulle silenziose espressioni del «lavoro negativo». Negazione annessa al giudizio, gioco del fort-da, e creazioni di Leonardo rimandano al comune intento di ritrovare i perduti oggetti del piacere primordiale, le cui rappresentazioni sorgono da un orizzonte di assenza e mancanza, intento che è anche tentativo di convincersi che tali rappresentazioni diano prova della reale presenza di quegli oggetti.

Nell’introdurre il proprio saggio, Ricœur diceva: la «consistenza del discorso freudiano è il mio problema»[84]. Un discorso, esplicitava poi, la cui interpretazione – che è problematica in senso epistemologico, filosofico-riflessivo e dialettico – pone le questioni che, per Ricœur, delineavano il «lungo cammino», da intraprendere da lì a poco, per approfondire lo studio del rapporto tra ermeneutica dei simboli e riflessione concreta, già avviato nella sua precedente opera, La symbolique du mal[85].

 

 

Ancora sul ‘non’

 

La negazione e gli affetti “benevoli”

 

La nostra indagine sulla negazione freudiana traeva impulso dall’invito di Virno ad uno studio fenomenologico della coscienza negatrice. Nel suo maturare linguistico, l’uomo si fa sempre più consapevole del singolare potere della negazione: la riproduzione a parole della repulsione, che gli muove l’anima contro un oggetto o uno stato di cose, è destinata a saldamente conservargli un contatto con quell’oggetto o stato di cose. Stabilito questo, la prassi della negazione dimostra, secondo Virno, che non c’è nesso genetico né operativo tra la negatività psichica e il negare sintattico, tra una negazione logica e un moto psicologico, tra il ‘non’ del linguaggio e l’impulso ad espellere.

Liberandosi dai falsi antenati e dai sosia surrettizi, il connettivo sintattico ‘non’ guadagna una libertà d’azione pressoché illimitata. […]. L’uso di quel connettivo diventa mobile e pervasivo, riguardando ormai qualsiasi contenuto emotivo.[86]

La negazione logica, prima colta a sospendere e inibire le spinte psichiche espulsive che sembravano preannunciarla, si rivela capace di incidere anche sugli affetti che, dovuti all’Eros secondo Freud, mirano invece ad accogliere e includere. L’affermazione, dicevamo, è il sostituto (Ersatz) di tali affetti “gioiosi”: anche su questi, la negazione influisce come fa su quelli “tristi” ai quali, in quanto Nachfolge, consegue-reagisce.

Così come frena, negandola a parole, l’aggressività nei confronti dello spregevole Sempronio, Luca può sospendere, contraddicendolo, l’amore per Sara. Ma l’intenzione di aggredire, condizionata dal ‘non’, si sventaglia in molte altre forme di sentimento possibili, e il non-amore, analogamente, muta in uno spettro di affetti diversi, in un amore “congelato” che, come Aristotele e Kant ci hanno mostrato, non coincide con il suo contrario, né rovescia il possesso in privazione, né dell’amore è opposizione reale.

La negazione «disinnesca» l’affetto, triste o gioioso che sia; restando fedele al contenuto semantico del sentimento affermato, non lo sostituisce, e di quello stesso continua a trattare, senza indicarne o definirne un altro. La pulsione includente, dunque l’attrazione, negata a parole, «non mette radici in uno stato d’animo diverso»[87], ma diventa “non-attrazione”, un’attrazione “congelata”, insomma, ma pur sempre un’attrazione.

La negazione agisce allora, libera e pervasiva, su qualsiasi affetto, sulla benevolenza quanto sul malanimo, con la sua proprietà inibitoria che implica contraddizione ma non contrarietà. Nella vita, d’altronde, è raro imbattersi in scontri tra sentimenti opposti, conflitti che dirompono solo in quelle particolari situazioni che Kant esemplificava con la contemporaneità di un piacere e di un dolore, o di opposti sentimenti verso la stessa persona.

L’uomo che padroneggia i suoi strumenti linguistici, ormai consapevole delle potenzialità del ‘non’, può brandirlo in qualsiasi momento e a prescindere da particolari condizioni, anche contro solidarietà e cooperazione, che pur sono la sua natura, come arma che le sospende a favore di una violenza maggiore e peggiore di quella insita negli impulsi psichici distruttivi.

Il supposto fondamento cooperativo del linguaggio[88] è reso instabile e delicato dal connettivo sintattico ‘non’, e perciò proprio dal linguaggio che, mentre affina il senso di collaborazione sociale, allo stesso tempo può comprometterne la compattezza.

 

Atene, 403 a.C.: un giuramento enigmatico

 

Ne La città divisa[89], Loraux riflette su quella che si considera la prima amnistia (άμνηστία, oblio, remissione) della storia, proclamata in Atene nel 403 a.C., deposti i Trenta Tiranni, alla fine della guerra civile (στάσις, stasis). In realtà, Loraux avverte, il termine amnēstia va qui letto nell’anfibia accezione di un divieto e di un giuramento, divieto di ricordare e nel contempo giuramento (imposto) di non rievocare le sventure.

403 a.C.: i democratici, fino al giorno prima esiliati, ora rientrati vincitori ad Atene, proclamano la riconciliazione generale ricorrendo a un decreto e a un giuramento. Il decreto proclama il divieto: mē mnēsikakein, «è vietato rievocare le sventure». Il giuramento impegna tutti gli ateniesi, democratici, oligarchici coerenti e gente «tranquilla» rimasta nella città durante la dittatura, ma li impegna uno per uno: ou mnēsikakēsō, «non rievocherò le sventure». […] A giudicare dagli usi di mnēsikakein, non si tratterebbe tanto di «riporre nella memoria», […] quanto piuttosto di «rievocare contro». […] mnēsikakein implica che si brandisca la memoria in modo offensivo, che ci si scagli o si adottino provvedimenti contro qualcuno, insomma che si consumi una vendetta.[90]

Nel prescrivere/giurare di non rievocare, si leggono i termini di un sostanziale rifiuto della memoria, una rimozione paradossalmente volontaria o, come direbbe Lacan, una forclusione. Loraux attribuisce ad Atene la ricerca di un oblio, dissimulato in una negazione – ou mnēsikakēsō, “non rievocherò le sventure” –, in un’asserzione negativa che nondimeno mette in evidenza ciò che intende disattivare e neutralizzare.

“Giuro di non rievocare le pene patite”: giurare, dice Austin, è fare qualcosa parlando, ma l’enunciato performativo in questione si presenta enigmatico. In quanto “giuramento + negazione”, è un’azione che ha come oggetto un’auto-interdizione, un’azione che è promessa di non compiere un’azione. Questo voto stringente vuole evitare recriminazioni e vendette, vuole disinnescare l’impulso alla ritorsione, obiettivo che è effetto della negazione, complice la forza illocutoria del giuramento. La negazione, allora, annidata nel giuramento, in un’azione che è assolutamente linguaggio, diventa lo stimolo a inibire un istintivo impulso alla vendetta, lo stimolo pre-verbale, tutt’altro che linguistico, a uccidere chi ha ucciso.

Ma la formula del giuramento è, in virtù della negazione, ostensiva dell’oggetto interdetto, di quelle sventure da non rievocare. Nel voler eludere quelle pene, perciò, la negazione “non rievocherò” non nasconde, anzi esibisce, il rievocherò che, così visibile, è sospeso ma non abolito. L’impulso aggressivo, allora, allontanato e non cancellato, comporta una reversibilità che, potenziale, può essere rimessa in atto proprio dallo stesso ‘non’ che aveva congelato l’aggressività impulsiva.

La negazione, dispositivo linguistico con il quale possiamo inibire le nostre pulsioni pre-verbali, se applicata a se stessa nella negazione duplice, provoca un’inibizione ulteriore e più complessa, disinibendo lo stimolo a inibire pulsioni violente. La rievocazione delle sventure può facilmente essere liberata ricorsivamente applicando, nel pronunciare una negazione della negazione, il ‘non’ che l’aveva posta in sospeso.

 

La doppia negazione

 

Ormai esperti, sappiamo che “Pietro non è felice” lascia a mezz’aria, per così dire, l’affermazione “Pietro è felice”, la sospende senza sostituirla, e nel negarla la evoca: la non-felicità di Piero dischiude cioè la dimensione del possibile, comunque alludendo alla potenziale felicità di Pietro. Il meccanismo si riafferma anche se l’enunciato negato è “Pietro non è felice”, ossia nel caso si dica “Non è che Pietro non è felice”: questa doppia negazione disloca l’enunciato negativo – rimuovendolo verbalmente, sospendendolo – nell’ambito del possibile, ostenta, stavolta, la negabilità di “Pietro non è felice”. E non è alternativa, si badi, la negazione della negazione, alla semplice asserzione positiva: dire “Non è che Pietro non è felice” non equivale a dire “Pietro è felice”, perché usare l’affermazione per contraddire la negazione implica un’intenzione affatto incomparabile con quella veicolata dal doppio ‘non’.

Virno annette alla doppia negazione due verità filosofiche. La prima è che negare ciò che era negato non coincide con l’affermarlo: con “Non è che non ti amo”, Luca prende le distanze dal “Non ti amo”, ma certo non sta porgendo a Sara un “Ti amo”, affermazione dalla quale la doppia negazione è altrettanto lontana. E Sara, non solo non ne è contenta, ma si sta chiedendo, di sicuro, che cosa Luca stia facendo, sta cioè confrontandosi, oltre che con il proprio turbamento, anche con la seconda verità filosofica individuata da Virno: la negazione di una negazione è uno speech act, un «enunciato performativo»[91], non descrive qualcosa, ma è un’azione.

Il sentimento doppiamente negato, constatiamo, è proiettato verso una mutazione, assume tonalità nuove e sfumate: il soggetto che enuncia i due ‘non’ tentenna tra il farlo proprio e il rifiutarlo, dunque provvisoriamente adottando un esitante “né sì, né no”.

Le due enigmatiche verità filosofiche immettono la negazione della negazione in un circolo, implicandole in un reciproco compiersi: posso avvalorare lo scarto semantico tra affermazione e doppia negazione – tra p e non(non-p) – solo se ammetto la performatività linguistica della doppia negazione e, d’altro canto, quello stesso scarto mi aiuta a comprendere l’azione che compio nel negare una negazione, nel dire “non non-p”.

Il riferimento a Austin consente, anche, di valutare se l’azione del duplice negare vada o meno a buon fine, se risulti felice o infelice[92]: pur fatta di sole parole, la doppia negazione è comunque un atto che può avere o non avere esito. Se lo speech act doppio-negante si rivela inefficace, se dunque, infelice, resta nei limiti di quello che Virno classifica come «espediente diplomatico», è perché la seconda negazione, con la prima, si limita a coabitare, anziché sancirne l’anacronismo. L’assunzione preliminare di Virno è che il duplice ‘non’ delinei un microcosmo storico, caratterizzato dal rapporto diacronico, di divario temporale, tra le due negazioni: trasferendo il non-p nei campi del possibile, il non(non-p) ne perpetua il ricordo, che in quanto ricordo rimanda al trascorso, a qualcosa di passato, a un «reperto arcaico» non efficace, ora, né più operativo.

È una doppia negazione riuscita, e quindi felice, quella che «si coalizza con innumerevoli frammenti eterogenei»[93] (ma non li descrive), quella che, supportata da emozioni, eventi e azioni “taciturne”, riesce a sovvertire la neutralità del “né sì, né no”.


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[1] Il presente scritto è una versione sintetica della mia tesi per la Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche (25 marzo 2015, Università degli Studi Roma Tre).

[2] Swift, Jonathan, Travels into Several Remote Nations of the World, in Four Parts. By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of several Ships, 1726, tr.it. di Valori, Aldo, I Viaggi di Gulliver, e-Book con licenza “GNU Free Documentation License”, pp. 152-3, http://www.liberliber.it/mediateca/libri/%20s/swift/i_viaggi_di_gulliver/pdf/i_viag_p.pdf.

[3] Melis, Maurizio, (a c.), “Negazione e lingue impossibili: che cos’è il linguaggio?”, in Moebius, http://www.moebiusonline.eu/fuorionda/LingueImpossibili.shtml

[4] Ibidem

[5] Horn, Lauren R., (a c.), The expression of negation, Walter de Gruyter & Co., Berlin 2011: «è un sine qua non di ogni linguaggio umano, ma è assente da qualsiasi altro sistema complesso di comunicazione animale. In molti modi, è la negazione che ci fa umani» (traduzione mia).

[6] Cfr. Moro, Andrea, I confini di Babele, Longanesi, Milano 2006.

[7] Moro, Andrea, Breve storia del verbo essere, Adelphi, Milano 2012, p. 266.

[8] Cfr. Rizzolatti, Giacomo, e Sinigaglia, Corrado, So quel che fai – Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006.

[9] Cfr. Tettamanti, Marco, et al., Syntax without Language: Neurobiological Evidence for cross-domain syntactic computations, in “Cortex”, XLV, 7, pp. 825-38.

[10] Moro, Op.Cit., pp. 270-2.

[11] Ibidem.

[12] Cfr. Horn, Op.Cit.

[13] Corneille, Pierre, Le Cid, Augustin Courbé, Paris 1637, tr.it. di Monti, Giovanni Battista, Il Cid, Feltrinelli, Torino 2012, Atto III, Scena IV.

[14] Nessuno: latino ne ipsu(m) ūnum, «non proprio uno». È uno dei vari elementi linguistici (nessuno, niente, nulla, mai, …) che svolgono funzione di negazione.

[15] Carroll, Lewis, (Alice) Through the Looking-Glass, 1871, tr.it. (Alice) Attraverso lo specchio, e-Book Newton Compton, Roma 2011, pp. 196-7 (corsivi miei).

[16] Il 16 maggio 1954, la Mondadori (dopo altri, che lo avevano presentato in Italia nel 1939) cominciò a pubblicare, sugli Albi del falco, i fumetti di Superman, cambiandone il nome in Nembo Kid (1954-1966), probabilmente per eludere i diritti sul personaggio (ideato da Jerry Siegel e Joe Shuster nel 1933, ma pubblicato dalla DC Comics soltanto nel 1938). Questo creò non pochi problemi ai grafici italiani, costretti a minuziose correzioni per eliminare la S dal petto e dal mantello, lasciando solo uno scudo vuoto (rosso nei primi albi, giallo dal n. 19 in poi). Personalmente, per quel che vale, trovo che il nome Nembo Kid abbia un suo fascino particolare. (Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Superman)

[17] Heidegger, Martin, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Frankfurt 1929, tr.it. Che cos’è metafisica?, a c. di Volpi, Franco, Adelphi, Milano 2012, passim.

[18] A dire il vero, mi risuonava in testa un’espressione napoletana di buon auspicio, che in italiano (con prevedibile riduzione della forza e della venatura ironica) muta in «Che la Madonna ti accompagni».

[19] Cfr. Lo Piparo, Franco, Aristotele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003.

[20] Appare la prima volta in Apuleio, Peri Hermeneias 180.19ss (testo in Londey D. e Johanson C., The logic of Apuleius: including a complete Latin text and English translation of the Peri hermeneias of Apuleius of Madaura, Leiden, Brill 1987). Si ritrova poi nei commentatori tardi di Aristotele: cfr. Ammonio, In Aristotelis De interpretatione commentarius, edidit A. Busse (Berolini, Reimer, 1897) 93.10-18; Boezio, Commentarii in librum Aristotelis peri hermeneias. Pars posterior secundam editionem et indicem continens, edidit K. Meiser (Lipsiae, Teubner, 1880) 152.10ss.

[21] Cfr. Minari, Pietro, Logica tradizionale, http://campus.unibo.it/155930/1/sillogismo.pdf.

[22] Kant, Immanuel, Versuch den Begriff der negativen Grössen in die Weltweisheit einzuführen, 1797, tr.it. “Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative”, in Scritti precritici, Laterza, Bari 2000.

[23] Wittgenstein, Ludwig, Logisch-Philosophische Abhandlung, in “Annalen der Naturphilosophie”, n. 14, 1921, tr.it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1983 (1964), p. 123.

[24] Cfr. Platone, Sofista, Rizzoli, Milano 2007, [240a].

[25] Heidegger, Martin, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Frankfurt 1929, tr.it. Che cos’è metafisica?, a c. di Volpi, Franco, Adelphi, Milano 2012, pp. 40-41.

[26] Cfr. Virno, Paolo, Saggio sulla negazione, Bollati Boringhieri, Milano 2013, pp. 92-93.

[27] Sartre, Jean Paul, L’Être et le Néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943, tr.it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2013.

[28] Sartre, Op.Cit., pp. 44-45.

[29] de Saussure, Ferdinand, Cours de linguistique générale, a c. di Bally, Charles, Riedlinger, Albert, e Sechehaye, Albert, Losanna-Parigi, Payot, 1916, tr.it. De Mauro, Tullio, (a c.), Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari [1967], 2009.

[30] Ivi, p. 137.

[31] Ivi, pp. 85-86.

[32] Ivi, p. 145. È utile annotare che, nel suo Saggio sulla negazione, Virno usa più volte la definizione di Saussure, «plexus de différences éternellement negative», tratta da pagina 219 degli Écrits de linguistique générale, établi et édité par Simon Bouquet et Rudolf Engler, Gallimard, Paris 2002, e letteralmente tradotta, da Virno stesso, in «plesso di differenze eternamente negative».

[33] Virno, Op.Cit., p. 15.

[34] Ivi, p. 27.

[35] Ivi, p. 28.

[36] Ivi, p. 96.

[37] Cfr. Spinoza, Baruch, “Compendium grammatices linguae hebraeae”, in Bruder, Carl Hermann, (a c.), Opera quae supersunt omnia, Lipsia 1844.

[38] Cfr. Heller-Roazen, Daniel, Echolalias. On the Forgetting of Language, Zone Books, New York 2005; tr.it. Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, Quodlibet, Macerata 2007.

[39] Virno, Op.Cit., pp. 45-46.

[40] È significativo, a mio parere, che la formula “I would prefer not to”, tradotta più alla lettera in italiano, invece che “Preferirei di no”, diventerebbe “Preferirei non”.

[41] Ivi, p. 43.

[42] Virno evidenzia che «il significato delle parole di cui si occupa la logica è inseparabile anche, e forse in primo luogo, dalla negazione. Non si riuscirebbe a definire il contenuto semantico di ‘vero’, ‘falso’, ‘possibile’ ecc. senza chiamare in causa il segno ‘non’. […] Tutto lascia pensare che i due aspetti […] rimandino l’uno all’altro: dove ne va del significato della parola ‘significato’, lì è sempre in questione la negazione; e viceversa, dove ne va della negazione, lì è sempre in questione il significato della parola ‘significato’» (Ivi, pp. 62-63, nota 3).

[43] Ivi, pp. 101-102.

[44] Ferreri, Dino, Sulla negazione, Astrolabio, Roma 1994, p. 85.

[45] Mentalismo – Concezione che identifica il contenuto della conoscenza con stati mentali. È stata considerata una forma di mentalismo la gnoseologia di Locke, Berkeley e Hume, e così anche la filosofia di Mill e l’atomismo logico di Moore e di Russell. Termine usato in senso critico per riferirsi a teorie psicologiche che fanno ricorso a entità, processi e stati mentali inosservabili (intenzioni, desideri, credenze, ecc.). Al mentalismo sono stati contrapposti il Comportamentismo e l’Organicismo pragmatistico. Dewey ha intrapreso una critica sistematica del mentalismo, fortemente criticato anche da Wittgenstein e da Quine. Una ripresa del mentalismo si è avuta con il Cognitivismo, che considera i processi mentali un legittimo oggetto di studio della psicologia. (Cfr. Treccani.it – L’Enciclopedia Italiana – Dizionario di Filosofia, 2009: http://www.treccani.it). Henry Sidgwick lo definì in antitesi al Materialismo: «Such view I think is often called Idealism. I propose to label it ‘Mentalism’ in broad antithesis to ‘Materialism’» (in Mind, Gennaio 1901).

[46] Cfr. Frege, Friedrich Gottlob, “Die Verneinung. Eine Logische Untersuchung”, 1918 (in Beiträge zur Philosophie des deutschen Idealismus I, 1919), tr.it. “La negazione. Una ricerca logica”, in Di Francesco, Michele, (a c.), Ricerche logiche, Guerini e Associati, Milano 1988.

[47] Ferreri, Op.Cit., p. 22.

[48] Virno, Op.Cit., p. 119.

[49] Cfr. Ivi, pp. 102ss.

[50] Ivi, p. 120.

[51] Freud, Sigmund, “Die Verneinung”, in Imago, XI/3, Vienna 1925, tr.it. La negazione e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 64.

[52] «[…] per Jung, l’equivalenza tra “inconscio” e “rimosso” postulata da Freud non era assolutamente conclusiva. […] Ogni qualvolta Jung fa riferimento alla “difesa” o alla “rimozione” non inserisce questi termini in un campo di mere tensioni pulsionali, bensì nel quadro dello sviluppo della coscienza. […] Jung era persino dell’idea che una differenziazione della coscienza non potesse aver luogo senza la “rimozione” o per meglio dire, senza la “repressione dei contenuti primitivi” che impedisce l’adattamento al reale. Questo ci permette di comprendere come Jung potesse considerare la rimozione un fenomeno tipico anche della psiche “normale”, a differenza di Freud che era partito essenzialmente dalla patologia delle nevrosi». (Frey, Liliane, La teoria della rimozione in Freud e Jung, Rivista di Psicologia Analitica, AIPA, Roma 1975, pp. 347-350)

[53] È interessante notare che nell’espressione “libere associazioni”, ormai usuale, il termine associazione non rende esattamente quel che Freud intendeva con il tedesco Freie Einfälle, che più propriamente indica quelle idee che vengono in mente all’improvviso e spontaneamente, senza sforzo né concentrazione. Le associazioni dell’analizzando, inoltre, sono libere solo fino a un certo punto, visto che il soggetto viene in una certa misura instradato da inviti, interventi e commenti che l’analista propone, a fronte delle associazioni stesse, allo scopo di accedere al materiale più significativo.

[54] Virno, Op.Cit., p. 113.

[55] Teoria del pensiero, vicina al senso comune, semplicemente esprimibile citando Wittgenstein (Causa ed effetto e Lezioni sulla libertà del volere, Einaudi, Torino 2006, p. 23), ma anche Husserl (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 181), e Goethe che, nel Faust, si riferiva criticamente al Vangelo secondo Giovanni.

[56] Freud, Op.Cit., p. 69.

[57] Cfr. Freud, Sigmund, “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), in Opere, cit., vol. VIII, 1976, p. 144.

[58] Freud, Op.Cit., p. 64.

[59] Virno, Op.Cit., pp. 110-111.

[60] Hyppolite, Jean, “Commentaire parlé sur la Verneinung de Freud” (1925), in Jacques Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, tr.it. “Commento parlato sulla Verneinung di Freud”, in Jacques Lacan, Scritti, a c. di Contri, Giacomo, Einaudi, Torino 1974, p. 886.

[61] Ferreri, Op.Cit., p. 49.

[62] Brenner, Charles, The mind in conflict, International University Press, New York 1982, tr.it. La mente in conflitto, Martinelli, Firenze 1985, p. 84.

[63] Tarizzo, Davide Introduzione a Lacan, Laterza, Bari 2003, p. 104.

[64] Lacan, Jacques, “Il seminario di Caracas (1980)”, in La psicoanalisi n. 28, Astrolabio, Roma 2000, p. 203.

[65] Lacan, Jacques, “Conversazione”, in P. Caruso, (a c.), Conversazioni con Lévi-Strauss Foucault Lacan, Mursia, Milano 1969, p. 163.

[66] Lacan, Jacques, Ecrits, Seuil, Paris 1966, tr.it. Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, II, p. 833.

[67] Rifflet-Lamaire, Anika, Jacques Lacan, 1970, tr.it. Introduzione a Jacques Lacan, Astrolabio, Roma 1972, p. 59.

[68] Ibidem.

[69] Il capitonné è un’imbottitura per materassi, divani o poltrone, nata intorno al 1800. È la lavorazione, fatta completamente a mano, di una trapunta che forma cuscinetti disposti in rete di quadrati o losanghe. In origine, l’imbottitura del capitonné era costituita da capiton, cioè dallo scarto di lavorazione della seta. (Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Capitonn%C3%A9).
«Ogni battuta che risponde alla mia, come ogni parola con cui chiudo una frase rispondendo all’apertura che la avviava, è il “punto di imbottitura” (point de capiton), direbbe Lacan, che ne orienta a ritroso il significato. Il senso è il punto di capitone, il profilo senza spessore nel quale si raduna tutto lo spessore del significato. È l’incisione del significante che raduna e insieme lascia un resto, che orienta e produce desiderio e visione, direbbe Wittgenstein». (Cfr. Leoni, Federico, Il doppio luogo dell’ «oggetto a», in http://www.psychomedia.it/isap/wittgenstein/w-leoni.htm).

[70] Ivi, p. 73.

[71] Cfr. Pagliardini, Alex, Jascques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad, Giulianova (TE) 2011.

[72] Lacan, Scritti, Op.Cit., I, p. 365 (nota a piè di pagina).

[73] Ivi, p. 7.

[74] Lolli, Franco, È più forte di me. Il concetto di ripetizione in psicoanalisi, Poiesis, Alberobello 2012, p. 67.

[75] «Nessuna antitesi tra ragione e inconscio, dal momento che quest’ultimo si sviluppa e si manifesta come una ragione, anche se il senso della sua azione può sfuggire al soggetto interessato». (Cfr. Recalcati, Massimo, Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, Mondadori, Milano 2007).

[76] Hyppolite, Op.Cit., p. 888.

[77] Ivi, p. 886.

[78] Ivi, p. 893.

[79] Ibidem.

[80] Cfr., per esempio, la traduzione di Jacopo Valli e Sophia Lucrezia Valli, in www.kasparhauser.net/jacova/hyppolite.html.

[81] Kluger, Paul, The Alchemie of Discourse, AUP, Cranbury New Jersey 1982, tr.it. L’alchimia delle parole. Un approccio archetipico al linguaggio, Moretti & Vitali, Bergamo 2002.

[82] Ivi, p. 28.

[83] Freud, Sigmund, Die Traumdeutung, Franz Deuticke, Leipzig Wien 1899, tr.it. L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 1966, p. 344.

[84] Ivi, p. 8.

[85] Cfr. Ricœur, Paul, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité, Aubier, Paris, 1960 (2 voll. – I. L’homme faillible, II. Finitude et culpabilité), tr.it. Finitudine e colpa, vol. unico, Il Mulino, Bologna 1970.

[86] Virno, Op.Cit., p. 120.

[87] Ivi, p. 122.

[88] Cfr. Tomasello, Michael, Le origini della comunicazione umana, Cortina, Milano 2009, citato da Virno in Op.Cit., p. 123.

[89] Loraux, Nicole, La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Payot & Rivages, Paris 1997, tr.it. Pedullà, Gabriele, (a c.), La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Neri Pozza, Verona 2006.

[90] Loraux, Op.Cit., p. 236.

[91] Virno cita qui la teoria di Austin sugli enunciati performativi: Cfr. Austin, John Langshaw, How do things with words, Oxford University Press, London 1962, tr.it. Come fare cose con le parole, a c. di Penco, Carlo, e Sbisà, Marina, Marietti, Torino 1974.

[92] Austin, Op.Cit., passim.

[93] Virno, Op.Cit., p. 136.

 

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