Dal linguaggio al corpo (e ritorno), con Freud

Pasquale Amato

 

 

 

Premessa

Un mio precedente scritto, La negazione tra logica e psicologia[1], implicava un consistente rimando al Saggio sulla negazione di Paolo Virno, del quale riproponeva le tesi di fondo sul linguaggio, confrontandole con i richiami alla logica aristotelica e alla teoria kantiana della Realrepugnanz, nonché con la concezione del non-essere in Heidegger e Sartre, per studiare poi, su quella base e con il contributo di autorevoli commentatori, la riflessione freudiana sulla negazione. È alla lettura di Freud, inevitabilmente, che i sentieri da me intrapresi conducevano, in un progressivo compiersi dei possibili intrecci tra logico e psicologico, per giungere a mostrare come Virno, proprio con Freud, argomenti l’influenza del linguaggio, e in particolare del ‘non’, sugli affetti.

A dispetto di quel che suggeriscono le leggende metropolitane alimentate dalla tradizione psicoanalitica, a Freud sta a cuore la deformazione della vita psichica da parte del linguaggio, non la fondazione psicologica dell’attività linguistica.[2]

Ulteriori letture, che problematizzano i riferimenti speculativi di quella prima esperienza, mi sollecitano ora a integrare ed estendere il quadro, affiancando all’impostazione virniana la visione di Roberto Finelli, nell’intento, forse arduo, di comporre dal confronto una sintesi. Assecondando poi alcune associazioni, parlerò di altri autori e di temi che, connessi alla prima parte, aggiungono prospettive interessanti.

 

Soggetto e moltitudine

Mi sembra importante, prima di tutto, arricchire l’indagine con alcuni richiami a Quando il verbo si fa carne, testo del 2003 in cui Virno riflette sul rapporto tra la facoltà di linguaggio e la natura umana.

Tenendo vivo il confronto coi filosofi, l’autore affronta la questione della sensazione, mettendo innanzitutto in discussione l’opinione comune che vede il linguaggio verbale rielaborare la schematizzazione del contesto ambientale operata dai sensi, per chiedersi se non siano piuttosto i sensi la possibile rielaborazione di una originaria schematizzazione linguistica.[3]

Virno mette a fuoco le occasioni in cui i presupposti generali dell’esperienza (linguaggio, autocoscienza, ecc.) si propongono inaspettatamente al mondo come fenomeni, in quella che definisce «una completa rivelazione» della natura umana (l’“individuo sociale”, di cui Marx parla nei Grundrisse, smentisce Kant, oltre che il senso comune: insieme singolare e sociale, nell’era capitalistica esibisce l’individuazione come fenomeno «visibile a occhio nudo»)[4].

Nel denso capitolo sul concetto di “moltitudine”, Virno coinvolge Simondon – insieme a de Martino e Vygotskij – per mostrare come il processo di individuazione possa giungere a compimento soltanto attraverso un’esperienza collettiva (identificabile con la moltitudine e non con il popolo) che affinerà il soggetto già costituito, solo parzialmente, da un’instabile miscela di elementi preindividuali e peculiari singolarità[5].

Come primo passo, punta l’attenzione sull’identificazione di ciò che è «preindividuale»[6]. Dopo aver preso nota di che cosa Simondon intenda per realtà preindividuale – una potenza individuata, che è solo una delle individuazioni della potenza tra quelle possibili, con radici nell’apeiron anassimandreo cui la realtà del possibile si conforma –, attingendo a Merleau Ponty, a Vygotskij e, infine, a Feuerbach e Marx, Virno distingue, rispettivamente, un preindividuale percettivo (la sensazione percettiva «rifugge da una descrizione in prima persona: quando percepisco, non è un individuo individuato a percepire, ma la specie come tale»[7]), un preindividuale linguistico (la comunicazione linguistica è di tutti e di nessuno, e perciò intersoggettiva, anonima come la percezione sensoriale, come il ‘si’ di «si vede» o «si prova piacere», e di «si parla»: diversamente da Piaget, per Vygotskij «l’uso della parola, da principio, è interpsichico, cioè pubblico, condiviso, impersonale […], non si tratta di evadere da una originaria condizione autistica (cioè iperindividuale), imboccando la via di una progressiva socializzazione; al contrario, il fulcro dell’ontogenesi consiste […] nel passaggio da una socialità a tutto tondo all’individuazione del parlante»[8]), e un preindividuale storico (nel «rapporto di produzione dominante» primeggia, tra le forze produttive, il pensiero «non soggettivo», che a Frege risulta essere «senza portatore», e per il quale Marx conia «invece l’espressione, famosa e controversa, di general intellect, intelletto generale»[9]).

Concorde con Simondon, Virno considera il soggetto come composto ibrido, in cui la singolarità dell’individuo individuato instabilmente si combina con «una certa quota ineliminabile di realtà preindividuale»[10], che è insieme passato (residuo della realtà del possibile) e ambiente (però “interiore”, attinente ai sensi, alla lingua, alla storia).

La nozione di soggettività è anfibia. L’«io parlo» convive con il «si parla»; l’irripetibile è intrecciato al ricorsivo e al seriale. Più precisamente, nell’ordito del soggetto figurano, come parti integranti, la tonalità anonima del percepito (la sensazione come sensazione della specie), il carattere immediatamente interpsichico o «pubblico» della lingua materna, la partecipazione all’impersonale general intellect.[11]

Cita poi lo studio sulle «apocalissi culturali», con il quale Ernesto de Martino (cfr. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977) rafforza la tesi di Simondon secondo cui l’ontogenesi non si afferma una volta per sempre, ma oscilla incessantemente – in misura contenuta se in condizioni serene, con effetti destabilizzanti nelle crisi – tra i poli estremi di individuo e soggetto, di singolare e preindividuale: «per de Martino come per Simondon, […] l’ontogenesi […] non è mai garantita una volta per tutte […]. Secondo de Martino, talvolta il preindividuale sembra sommergere l’io singolarizzato: quest’ultimo è come risucchiato nell’anonimia del “si”. Talaltra, in modo opposto e simmetrico, ci si sforza vanamente di ridurre tutti gli aspetti preindividuali della propria esperienza alla singolarità puntuale»[12].

E dunque, sulla scorta del Frammento marxiano e delle riflessioni di Simondon e Vygotskij sul principium individuationis, analizzata la definizione di «individuo sociale» – ossimoro che si rispecchia nella «individuazione collettiva» (o «di secondo grado») simondoniana –, Virno mette in luce come nella sfera pubblica, nel collettivo della moltitudine, uno sfondo costituito dal mescolarsi delle realtà preindividuali (residue in ogni soggetto implicato) diviene piattaforma per un processo ulteriore che «prosegue, potenziandola a dismisura»[13], l’individuazione del singolo, interessando la quota di realtà individuale non risolta dalla sua prima individuazione.

 

Freud e l’individuazione verticale

In molti suoi scritti, Finelli imputa alla cultura postmoderna di aver estremizzato la concezione ontologica del linguaggio, e di aver sovrastimato, a scapito del processo infrasoggettivo di individuazione, la costituzione intersoggettiva dell’individuo in «una teoria solo culturalistica e sociologica dell’antropogenesi e della formazione dell’individualità»[14]. Il riferimento argomentativo più volte ribadito – e qui colto in due degli articoli pubblicati sulla rivista Consecutio temporum – è soprattutto la transizione freudiana dalla prima alla seconda topica e, in particolare, il progredire dalla concezione di un inconscio a posteriori – un inconscio che «distrugge il linguaggio», un contenitore in cui la censura, che inibisce l’accesso alla coscienza, deposita il rimosso fatto di rappresentazioni e affetti, privandolo della parola – a un Es che, nella seconda topica, si configura invece originario, manifestazione del corporeo nello psichico in termini di piacere/dispiacere, mediatore tra la dimensione quantitativa somatica e quella quantitativo-qualitativa della percezione mentale.

L’Es è cioè il rappresentante del corpo nella mente. Il suo modo precipuo di essere, di esistere nello psichico, è il sentire: quella percezione proveniente dall’interno che Freud chiama propriamente sensazione, sentimento o pulsione, e che si distingue radicalmente dalla percezione sensoriale proveniente dall’esterno, la cui composizione dà luogo alla rappresentazione del conoscere. Il sentire attiene all’interno, radicandosi nel corpo della mente, mentre il percepire-rappresentare attiene al rapporto con il mondo esterno.[15]

Nell’Es (che Finelli definisce l’«altro del corpo») e nell’Io (l’«altro del mondo esterno») si distinguono dunque, rispettivamente, le funzioni del “sentire” relativo alle pulsioni e del “rappresentare” connesso alle percezioni. Freud identificava d’altronde l’Io con quella porzione di Es sulla quale, attraverso il sistema Percezione-Coscienza, il mondo esterno opera modificazioni, e che a sua volta sollecita l’Es a liberarsi dal dominio del principio di piacere per accogliere, invece, l’influsso del principio di realtà: un Io ragionevole e ponderato che si oppone al passionale Es, che è allora «il corpo che prende corpo nella mente. E come tale è il vero luogo del simbolico, perché è il quantitativo del corporeo che si traduce nel qualitativo dello psichico»[16]. Dunque all’Es, più Räpresentanz (rappresentanza, o anche delega) che Vorstellung (rappresentazione, nel senso di immagine o raffigurazione) del corpo tradotto, nella mente, in simbolico sentire, Finelli ascrive la capacità dell’uomo di farsi simbolo a se stesso, «di riconoscere e di rappresentarsi un corpo che di per sé non può mai essere completamente ridotto a rappresentazione»[17]. È questa capacità, osserva Finelli, e non la facoltà di linguaggio, il presupposto di una visione materialistica dell’uomo e della sua simbolicità.

Con il passaggio alla seconda topica […] larga parte dell’inconscio non deriva più dalla distruzione del linguaggio, […] ma è una funzione di senso primaria e non linguisticamente mediata. Con tale incorporazione e incarnazione dell’inconscio, con tale sua biologizzazione, Freud anticipava, io credo, la critica alla dismisura e alla retorica dell’intersoggettività da cui è stato caratterizzato il postmodernismo. […] Freud costruiva così una topica dell’asse verticale di costituzione della soggettività […] che impedisce di risolvere l’umano nel rapporto con l’altro-da-sé perché rivendica ed esplicita una costituzione verticale istituita sull’altro-di-sé.[18]

Per evidenziare la distanza tra le teorie freudiane e la rilettura lacaniana – pensiero «fortemente esposto alla seduzione, quanto non alla mistica, del Nulla»[19], principale “alimento” delle discusse posizioni postmoderne che accentuano la prospettiva linguistico-ontologica –, Finelli conduce un’approfondita analisi dei progressi di Freud nel definire il proprio sistema, rilevando gli affinamenti presenti in varie opere che vanno dall’Interpretazione delle afasie del 1895 fino al Compendio di psicoanalisi, ultimo scritto sistematico del 1938. Affinamenti che del resto, fa notare, alla fine lasciano sostanzialmente inalterata la base biologica delle dinamiche di variazione energetica con la conseguente teoria delle rappresentazioni mentali.

Finelli promuove una rivalutazione dei tentativi «di nobilitare il blasone teorico»[20] del progetto psicoanalitico, riconoscendo alla metapsicologia freudiana la rilevanza filosofica implicita nel mantenere una visione d’insieme che mai ha tralasciato di considerare l’interattività delle dimensioni biologica e mentale. Al riguardo, contrappone quello che definisce «il materialismo incarnato di Freud»[21] alla «dematerializzazione spiritualistica, di allontanamento dalla corporeità, se non di prossimità teologiche»[22] a suo parere operata da Lacan nel privilegiare una dimensione essenzialmente intersoggettiva dell’uomo, a sfavore del corpo e dell’intrasoggettività. Contesta, quindi, l’idea lacaniana di un essere umano solo simbolico, estraneo a se stesso, la cui identità è sempre precaria perché sempre «parlata da Altro (ça parle[23], e rimarca le «possibili allusioni, va aggiunto, ad una vox dei neppure troppo dissimulata»[24].

Nel tracciare l’evolversi del focus freudiano sul tema della rappresentazione mentale, Finelli evidenzia come la configurazione del sistema psichico si articoli in tre “ordini”: l’ordine dell’affetto, alinguistico e arappresentativo, in cui la corporeità quantitativa muta in qualità affettiva, confermandosi rappresentanza (Triebrepräsentanz) che presiede al sentire; l’ordine della rappresentazione di cosa (Objektvorstellung o Sachvorstellung), dominio di “figure” soprattutto eidetico-visive, privo di linguaggio, “aperto” all’inclusione di impressioni successive che consolidino la rappresentazione permanente dell’oggetto; l’ordine della rappresentazione di parola (Wortvorstellung), che «si struttura come un insieme ben chiuso dalla serie finita delle sue quattro immagini costitutive (immagine acustica, visiva, di lettura e di scrittura)»[25], funzione simbolico-discorsiva orientata alla verbalizzazione mediante innesco di nessi linguistici, che può promuovere alla coscienza gli altri due ordini. Nella compresenza delle tre funzioni, la Vorstellung rimanda a quel «legame tra affetto, rappresentazione della scena di soddisfacimento o di dispiacere […] e loro messa in parola attraverso il linguaggio»[26] che costituisce il “processo secondario”, modalità del pensare da Freud preposta a legare quell’energia che, nell’inconscia forma di pensiero del “processo primario”, è invece libera di scorrere verso la dissipazione.

Così il nesso corpo-mente può valere come sintesi non problematica di natura e cultura solo quando una funzionalità profonda ed estesa del linguaggio garantisca la connessione degli ordini rappresentativi qui considerati. Altrimenti quando tra essi si dà destrutturazione e il conseguente prevalere dell’uno sugli altri, tra natura e cultura si apre un’asimmetria, per cui la natura può divenire invasiva e distruttiva mentre la cultura farsi moralistica e anaffettiva. Alla distruzione del linguaggio nell’ambito della coscienza individuale corrisponde d’altro canto l’intensificazione ipostatizzante del linguaggio, fino al suo deporsi estenuato nella deformazione ideologica del senso comune.[27]

In estrema (e non certo esaustiva) sintesi, Finelli attribuisce alla coscienza una forza che scaturisce dalla mediazione tra piano intersoggettivo e intrasoggettivo, tra inconscio individuale e collettivo, indirizzata al «buon uso di quello che gli antichi definivano ή μεγάλη δυναστεία του λόγου, ossia misurarsi con “la grande potenza della parola”»[28]. Egli osserva che, in virtù delle «tre logiche», la mente umana sintetizza una «relazione verticale» con il proprio corpo e una «relazione orizzontale» con le menti altrui, ma che, nondimeno, l’apparato psichico freudiano, imperniato sulla rappresentanza, si conferma anzitutto espressione del legame verticale tra corpo e mente. I tre ordini, dunque, articolano essenzialmente il verticale, in quello che Finelli, filosoficamente, chiama «l’effetto Kant» – l’organizzazione della mente, sintetica per il soggetto sano, scissa nel caso di patologie –, a fronte del quale «l’effetto Hegel» – le orizzontali relazioni con l’altro da sé – risulta, nella considerazione di Freud, evidentemente poco rilevante[29].

Finelli, pertanto, vuole ridimensionare l’importanza e la centralità, tutte postmoderne, del linguaggio nella riflessione sull’uomo, per spostare il baricentro su una fondazione bio-psicologica dell’essere. I suoi approfonditi studi sui testi mostrano che Freud sviluppa il proprio sistema, attraverso «una progressiva materializzazione ed incarnazione»[30], mantenendo costante la concezione di un apparato psichico le cui dinamiche sono determinate dalla interazione tra corpo e mente. La «chiave di volta» di tale impostazione è individuata nella teoria della rappresentazione mentale.

Il concetto di rappresentazione (Vorstellung) mentale in Freud implica […] tanto la presenza di fronte a sé dell’oggetto ideato del desiderio (vor-stellen) quanto la rappresentanza, attraverso delega assunta dall’affetto, della biologia del corpo nella vita della mente. Ed appunto tale connessione tra sentire e conoscere, tra quota di affetto e rappresentazione pensata, esclude per principio che per Freud l’essere umano sia un essere volto in primo luogo a vedere-conoscere e a relazionarsi in modo neutrale al mondo, ossia che costituisca la sua identità sulla contrapposizione soggetto-oggetto.[31]

A partire dal riferimento freudiano, Finelli rivolge una ferma critica al postmodernismo che ha radicalizzato l’ottica “orizzontale”, dunque intersoggettiva, della formazione dell’individuo, in un’antropogenesi risultante cioè solo dall’interazione con l’altro da sé. Da Freud, invece, ricava il puntello forte per la tesi di un’individuazione infrasoggettiva, tracciata dai passaggi “verticali” degli stimoli bio-fisici da un certo livello del sistema psichico al livello superiore, in una progressiva trasformazione all’insegna della rappresentanza.

Questa visione sembra d’altro canto avvalorata da un autore come Francesco Napolitano[32], il quale, a proposito della «ricorsività della rappresentazione», risale al debito informativo di Freud nei confronti del neurologo inglese John Hughlings Jackson, che la ipotizza basata sull’opzione epistemologica per cui «non conosciamo oggetti, ma solo rappresentazioni d’oggetto»[33]. Vale la pena accennare all’interessante parallelo suggerito da Napolitano tra la teoria bio-psicologica freudiana e la gerarchia dei centri nervosi teorizzata da Jackson, che distingue: nei centri più bassi, «quasi direttamente rappresentativi» di regioni limitate del corpo, maggiore semplicità e organizzazione; in quelli mediani, più complessità e meno organizzazione, perché «ri-rappresentativi», cioè rappresentanti in maniera due volte indiretta di parti più ampie del corpo; nei centri motori più alti, infine, la massima complessità a fronte della minima organizzazione, dove le più vaste regioni corporee sono «ri-ri-rappresentate», lì in triplice maniera indiretta. A Jackson, rileva poi Napolitano, è anche dovuta l’introduzione di un possibile rapporto tra rappresentanza e rappresentazione, in anticipo sulla distinzione freudiana tra Räpresentanz e Vorstellung[34].

Eppure, in un suo recente saggio – con il quale propone un’efficace ricostruzione del modello filogenetico secondo cui sono state le modificazioni fisiologiche conseguenti all’assunzione della postura eretta a far sì che l’uomo acquisisse il linguaggio («Ex pede Herculem, è letteralmente sui piedi che poggia il colosso del logos»[35]) –, Napolitano, con riferimento al freudiano Progetto di una psicologia, afferma: «non vi può essere coscienza propriamente umana senza linguaggio, perché i neuroni motori verbali sono i soli in grado di porre il processo di pensiero sullo stesso piano di quello percettivo, di far percepire il pensiero»[36].

 

Un confronto e un ampliamento d’orizzonte

Laddove Virno, con principale rimando a Simondon e Vygotskij, sostiene che la singolarità del soggetto si accompagna e si combina con una preindividualità storico-ambientale, per comporre una soggettività ibrida e instabile, ripetutamente smarrita e poi recuperata, ribadita e rafforzata nel confrontarsi e riscontrarsi con la molteplicità degli individui sociali, Finelli, affidandosi a Freud, risolve l’umana individuazione, non nell’orizzontale rapportarsi con l’altro-da-sé all’insegna del linguaggio, ma nel costituirsi verticale e infrasoggettivo sull’altro-di-sé, processo che prende avvio dalla stratificazione di affetti (Triebrepräsentanz, rappresentanze del corporeo, “sensazioni”) e rappresentazioni mentali (Vorstellung, intreccio di immagini e parole, di Sachvorstellung e Wortvorstellung, “percezioni”).

La presupposta simbolicità dell’uomo, avverte Finelli, non al linguaggio è più consistentemente ricondotta, ma alla traslazione – operata dall’Es – del biologico in psicologico, del quantitativo in qualitativo, del fisico in rappresentativo: l’individuo si costituisce, dunque, nell’emblematico nesso tra corpo e mente, lungo l’asse verticale del rapporto, mediato dalla sensazione, con la propria corporeità. Dal canto suo, Virno attribuisce ai sensi, invece, la possibilità di rielaborare una strutturazione del mondo che in origine è linguistica[37].

Le due visioni descrivono due diverse tensioni della stessa riflessione, dove l’attenzione è, in proporzione, inversamente incline al linguaggio piuttosto che al corpo, all’intersoggettività piuttosto che all’infrasoggettività, all’individuazione verticale piuttosto che orizzontale. Nel merito, la lettura di Finelli sembra molto concentrata su quella che, alla luce della trattazione di Virno, definirei come la prima delle individuazioni che il soggetto è destinato ad esperire: un costituirsi dell’Io all’origine, in cui l’ordine affettivo è ancora principale componente vitale, dove la trasformazione del biologico (quantitativo) in psicologico (qualitativo) è ancora relativamente investita dal linguaggio. Alla fin fine, credo sia ragionevole ritenere che, nell’uomo, il verticale e l’orizzontale o, se si vuole, il singolare e il sociale, siano orientamenti dinamici e dialettici del processo di individuazione che prevalgono alternativamente nel corso dell’esistenza del soggetto, a seconda dei momenti e delle contingenze, a seguito di esperienze che attivano la revisione e il ripristino di un Io messo alla prova dalla vita.

Con un’attenta analisi del pensiero freudiano, Finelli attesta l’articolazione dei tre ordini rappresentativi nel lavoro psichico, offrendo altresì un’illuminante descrizione delle dinamiche costitutive del sistema corpo-mente generate dai meccanismi di rappresentanza. La successione in strati dei livelli rappresentativi, però, lascia supporre una linearità degli scambi tra inconscio e coscienza – e quindi tra pulsioni (“sentire” provocato dall’esterno) e sensazioni (“percepire”, elaborazione interiore) –, quando forse la reciproca influenza delle tre funzioni comporta una più verosimile circolarità delle permutazioni[38]. A tale scenario sembra tutto sommato confacente il katà synthékēn con cui Aristotele – quanto a Lo Piparo, che traduce l’espressione in «per composizione», e non «per convenzione», come tradizione vuole[39] – denota analogamente circolare il nesso tra cose, affezioni mentali, verbalizzazione e scrittura, con un rimando al potere di significazione, al carattere sintattico-compositivo del discorso umano, alla disposizione pragmatica del linguaggio. Il lavoro di Lo Piparo, ispirato da opere il cui rinnovato approfondimento avvalora l’assegnazione del ruolo centrale, nella costituzione dell’umano, alla capacità linguistica, rappresenta bene, del resto, la consistenza della riflessione sul linguaggio. Alla luce di quasi tutta la produzione aristotelica, le righe 16a 3-8 del De Interpretatione vengono commentate e ritradotte per mostrare come, in modo diretto o indiretto, il linguaggio, «attività vitale specie-specifica dell’animale uomo»[40], sia sempre implicato nell’agire umano:

Se il parlare è il respirare dell’anima umana, il linguaggio è attività pervasiva […]. Il parlare non è tanto attività bio-cognitiva unica e specie-specifica che si aggiunge ad altre attività che l’uomo ha in comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli animali non umani: percezione, immaginazione [ϕαντασία], memoria, desiderio, socialità.[41]

Anche secondo il paradosso di von Humboldt, ricorda l’autore, l’uomo partecipa di una relazione circolare tra umanità e linguaggio.

È mia convinzione che il linguaggio debba essere considerato come immediatamente insito nell’essere umano […]. Non si potrebbe inventare il linguaggio se il suo tipo non preesistesse nell’intelletto umano. Perché l’uomo comprenda davvero anche una sola parola, non come mero impulso sensibile, ma come suono articolato designante un concetto, il linguaggio dev’essere già in lui intero e nel suo nesso. Nel linguaggio non vi è nulla di isolato, ciascuno dei suoi elementi si annuncia solo come parte di un intero. […] L’essere umano è tale solo attraverso il linguaggio, ma per inventare il linguaggio egli doveva già essere umano.[42]

Aristotele ci fa peraltro notare, osserva Lo Piparo, che la felicità è associabile solo all’uomo, perché nessun altro animale potrebbe condividerla, e dunque la sua tesi «è che l’uomo è l’unico animale a poter aspirare a un vivere felice perché è l’unico animale dotato di linguaggio»[43].

È anche utile riportare qui la testimonianza di Benveniste, con un brano tratto dalla sua importante e nota opera di semiotica e linguistica:

Noi non possiamo mai cogliere l’uomo separato dal linguaggio e non lo vediamo mai nell’atto di inventarlo. Non possiamo mai coglierlo solo con se stesso e che si sforza di concepire l’esistenza dell’altro. Nel mondo troviamo un uomo che parla, un uomo che parla a un altro uomo, e il linguaggio detta la definizione stessa di uomo. […] È nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce in quanto soggetto, perché solo il linguaggio fonda nella realtà, nella sua realtà che è quella dell’essere, il concetto di “ego”. […] Noi supponiamo che questa “soggettività”, non importa se intesa da un punto di vista fenomenologico o psicologico, sia l’affiorare, nell’essere, di una proprietà fondamentale del linguaggio. È “ego” che dice “ego”.[44]

Sicuro che ne valesse la pena, ho esaminato di nuovo il saggio Sulla negazione di Dino Ferreri, già fonte di preziosi spunti per la mia passata ricerca, e non mi ha sorpreso la scoperta di interessanti argomentazioni. La negazione[45] è per Ferreri un tema esemplificativo di riferimento per approfondire le radici filosofiche del sistema freudiano, in particolare individuate in Hegel e nella sua dialettica. Attento a distinguere Hegel dalla lettura (a cui molti esistenzialisti, soprattutto i francesi, si affidavano) che Kojève fa di Hegel – in più occasioni, per una maggiore fedeltà al pensiero hegeliano, lo stesso Finelli raccomanda tale distinzione[46] –, l’autore approfondisce i termini del procedimento dialettico di definizione dell’autocoscienza e dell’Io, procedimento che implica, in rapporto alle coscienze altrui, negazione e contraddizione.

[…] il legame dialettico […] [è] quel legame in cui ciascun membro è in funzione dell’altro, ciascun membro è l’altro o il negativo dell’altro […]. Nel momento in cui si costituisce, l’autocoscienza è l’esperienza di essere ogni verità, è un sapere (di sé) autosufficiente, che non dipende da altro. È la nascita del soggetto, la scoperta di sé e del proprio fondamento autonomo. Ma nello stesso tempo l’autocoscienza si costituisce […] in quanto individualità particolare, e in ciò essa è differenza, negazione dell’esser-altro, ritorno dall’esser-altro. Lo stesso principio si può formulare così: l’autocoscienza è un essere immediato e nello stesso tempo è riflessione ovvero relazione (mediazione). E non una relazione qualsiasi, non un qualsiasi ritorno dall’esser-altro, ma una negazione. Per affermare semplicemente il suo essere, l’autocoscienza deve negare il suo esser-altro. All’autocoscienza l’essere appare come il risultato di una separazione. La relazione negativa precede pertanto ogni possibile relazione affermativa.[47]

È bene ricordare che, preliminarmente, Ferreri approfondisce le nozioni hegeliane di autocoscienza e di riconoscimento. L’autocoscienza si afferma nella negazione del «suo esser-altro», conquistando una indipendenza solo apparente, smentita proprio dal dover dipendere da quella relazione negativa con l’essere-altro che sempre precede la propria affermazione: «Il movimento del riconoscimento è dunque il movimento della contraddizione»[48].

Riassumendo, l’acuta e complessa lettura di Ferreri giunge a identificare – in linea con il supposto indirizzo dato da Freud alla psicoanalisi verso una teoria della genesi dell’Io – la proposta di un Io originario che, nell’aderire o rifiutare, persegue la propria definizione, contestualmente discernendo, in forza di una sorta di «logicizzare originario implicito», ciò che è bene e incorporabile da ciò che è da espellere, che è male e deve andare fuori da sé. Da un punto di vista formale, questo «logicizzare originario» si presenta strutturalmente conforme alla «logica dialettica» hegeliana, modello idoneo, nell’ipotesi di Ferreri, all’analisi di una coscienza individuale che si forma e conserva «in un sistema di relazioni intersoggettive, articolato nello spazio e nel tempo»[49]. La dialettica, cioè, consente di pensare e descrivere il processo di formazione individuale a partire da un’identità collettiva. I primordiali meccanismi di assimilazione e dissimilazione, ossia «la capacità di discriminare fra interno ed esterno e fra ‘proprio’ e ‘altrui’»[50], operano dunque nell’ambito di relazioni emotive e di un contesto socio-culturale; essi richiamano le categorie del compatibile e dell’incompatibile – «si può dire che ogni identità con sé presuppone un’assimilazione a qualcosa e una dissimilazione da qualcosa»[51] –, e vengono psicoanaliticamente concettualizzati come “meccanismi di difesa” dell’Io, ma vanno recepiti, sostiene Ferreri, alla stregua di procedimenti costitutivi di una identità nella relazione.

Ogni identità relativamente stabile è tale quando un’autorappresentazione o identità riflessiva è ‘collaudata’ all’interno di relazioni relativamente stabili. […] In questo senso, un’identità può dirsi collaudata nella risposta complementare o polare attesa da un certo comportamento (genitore-figlio, fratello-fratello, terapeuta-paziente, eccetera). […] A rigor di termini, l’inconscio della psicoanalisi non ha altro contenuto che l’insieme, espresso da un sistema di segni e di significati, delle ‘relazioni psicologiche’ su cui poggia il soggetto. La relazione a Sé e la relazione ad Altro sono le due relazioni fondamentali.[52]

Stimolato a elaborazioni ulteriori dalla lettura dei lavori di due studiosi italiani da cui imparo sempre molto, Felice Cimatti e Rocco Ronchi, ne commenterò ora brevemente alcune riflessioni, certo che risulti proficuo estendere questa indagine ai temi proposti.

 

La filosofia a venire: andare “oltre” il linguaggio

«La filosofia che viene»[53], segnala Agamben, dovrà confrontarsi con il lascito testamentario di Foucault e Deleuze[54]: entrambi, prima di morire, avevano posto il concetto di vita al centro dell’ultimo scritto pubblicato. L’indagine di Agamben – che si snoda, con la consueta profondità, passando attraverso Aristotele e Spinoza, ma anche menzionando Heidegger e Sartre – ha l’obiettivo di sollecitare i futuri «filosofi dell’immanenza» ad una premurosa analisi preliminare del termine ‘vita’. Felice Cimatti cita il saggio di Agamben nel suo Filosofia dell’animalità: con agilità e sicurezza, egli propone un’analoga proiezione verso una prospettiva esistenziale in cui l’uomo, ridimensionato il proprio afflato trascendentale, recuperi una vita all’insegna dell’animalità. Anche per Cimatti il riferimento è Deleuze, che lo porta a riflettere sul «divenire-animale», sul diventare cioè un soggetto che, contrastando il distacco dalle cose determinato dal linguaggio – «il linguaggio, dopo la “morte di Dio”, sembra essere diventata l’ultima figura della trascendenza»[55] –, viva la pienezza di «una esistenza che rimane incollata alle cose, non impacciata dalla trascendenza che allontana e distrae»[56]. Come il lupo è animale collettivo, in quanto inscindibile dal branco, così l’uomo-animale sarebbe individuo di gruppo, «soggettività anonima» non pensabile come “io”, come soggettività linguistica.

Il divenire-animale è un modo per pensare individualità non soggettivate, corpi singoli che non sono un “io” ma «individui di gruppo» (è nella possibilità di questo ossimoro la sfida dell’animalità), ma allo stesso tempo corpi straordinariamente più potenti di quelli imprigionati nella scatola dell’identità, e che derivano questa potenza proprio dal fatto di non essere trattenuti dal timore di perdere “io”.[57]

Della tesi di Cimatti, mi interessa evidenziare il nesso forte tra immanenza e corporeità: come fa notare Lacan, mentre l’animale non umano è il corpo che è, «senza diaframmi o “scollamenti”»[58], solo l’umano ha un corpo, il corpo dell’Homo sapiens che, in quanto prodotto dalla macchina antropogenica[59], si pensa come “io”. Allora, dopo il linguistic turn[60], il corpo dovrà essere il tema della filosofia a venire. Un corpo ancora mai visto, però, quel corpo «che per esistere come corpo, e basta (e non come l’altro del pensiero, della mente, come altro di qualcosa), deve attraversare il linguaggio»[61].

Lacan dice che, al di là del linguaggio, c’è del reale. O, ancora, che c’è dell’Uno. Ebbene, Rocco Ronchi sottolinea come, proprio Lacan, che identifica l’essere con il linguaggio, che afferma non esserci altro che il linguaggio, che considera il pre-linguistico retroazione del linguistico («perfino il cosiddetto pre-linguistico è ancora un effetto di rimbalzo del linguaggio»[62]), proprio quel Lacan si aggrega di diritto, vista la sua «dissennata» ricerca dell’as-soluto (il «tentativo di rapportarsi all’Uno disgiunto dall’Altro, all’Uno as-solto dalla relazione»[63]), ai filosofi della fine della filosofia. Perché, se Lacan prospetta, al di là del linguaggio (fuori dal simbolico), un reale che è un Io slegato dall’Altro, un «Uno as-soluto», allora rimette in gioco l’assoluto che i moderni avevano ricusato con una filosofia trascendentale poi consolidata dalla svolta linguistica.

Il bambino piange e la mamma non ha dubbi: “Ha fame”. La madre, secondo Lacan, traduce il desiderio del bambino in un “significante”, e il bambino impara che il suo desiderio è quel significante, ma non saprà mai quale fosse il vero desiderio che lo spingeva a piangere: che cosa l’uomo desideri prima che la madre parli, e dunque prima di ogni linguaggio, resta un mistero. Lacan chiama quel mistero la mancanza, e il reale si costituisce su quella mancanza, su quel vuoto misterioso che è la Cosa (riferimento a das Ding di Heidegger). Il reale, quindi, è l’irrappresentabile, è il registro «fuori dal simbolico», è «il fondamento assolutamente singolare oppure, che è lo stesso, il […] limite trascendentale e inoggettivabile»[64] del simbolico.

A ben vedere, l’introduzione di questo registro “fuori dal simbolico” è, dal punto di vista logico, un vero e proprio paradosso. Lacan non ha forse affermato, fino alla noia, che non c’è che il linguaggio e che perfino il cosiddetto prelinguistico è ancora un effetto di rimbalzo del linguaggio? Eppure c’è del reale al di là del linguaggio. […] Non c’è che il linguaggio, e cioè il legame dell’Uno con l’Altro, il prelinguistico è un mito, e tuttavia c’è del reale fuori dal simbolico, e cioè un Uno slegato dal suo rapporto con l’Altro, as-soluto. Godimento è il nome che Lacan darà a questo rapporto con il senza rapporto.[65]

Questo mio stringatissimo (e imperdonabile) “bignami” lacaniano vuole solamente introdurre, attraverso il concetto di godimento – da Ronchi definito «gesto eversivo» che «desitua e disloca, fa buco nell’Altro del linguaggio […] [e] ci radica nel fondamento non simbolico del simbolico, finalmente fuori dal mondo-fenomeno, al di là del linguaggio»[66] –, l’anelito lacaniano al superamento del linguaggio in «un eccesso di vita o una vita immortale, una vita che io non vivo ma che si vive in me, indipendentemente da me e, forse, anche contro di me»[67]. Rievocando il “cogito preriflessivo” sartriano, Ronchi spiega che il «godimento è il rapporto non rapporto che l’Uno intrattiene con se stesso senza diventare Altro per se stesso, […] senza distanza: una “relazione” di immanenza assoluta certamente difficile da pensarsi»[68], riconducibile all’ipotesi aristotelica di una “autistica” vita divina (Metafisica, Libro XII), fatta di godimento senza fine. È la dimensione disinteressata di una vita la cui finitezza, proprio in virtù della piena immanenza, si connette con l’infinito, con il «Grande Fuori»[69].

Gli accenni alle tematiche di questi autori mi consentono di ricollocare il discorso di Finelli in un ambito più ampio. Esse sono accomunate dall’aggettare su una corporeità, in un certo senso “ingenua”, colta in una ipotetica privazione dai vincoli del linguaggio, e dunque dalla soggettività, e dunque dagli effetti propri della trascendenza. Ora, come lucidamente nota Cimatti, una tale corporeità rimanda al «piano di immanenza», allo stadio appena precedente il costituirsi della coscienza – che consente di pensarsi come “io”, come soggetto –, prima che il linguaggio, dalla coscienza inseparabile, possa «letteralmente fare a pezzi la “massa amorfa”»[70] , come dice Saussure, cioè frammentare il mondo non ancora organizzato linguisticamente. Questo è freudianamente lo stadio dell’Es, il «continuo dell’Es».

All’inizio, scrive Freud, c’è solo l’Es, che non è affatto il campo dell’istinto e del primordiale (quando non c’è un secondario non ha senso parlare di un primario). […] All’inizio c’è l’Es, allora, significa che all’inizio non c’è alcun inizio, perché il tempo del continuo non è quello cronologico dell’orologio, del prima e del dopo, dell’alto e del basso. Non c’è mai stato inizio, […] (in realtà dell’Es – come ci ricorda lo psicoanalista Matte Blanco – non sappiamo nulla, proprio perché si colloca nello spazio che precede il linguaggio […]; quindi, a rigore, dirne che è così e così è privo di senso. Ma è appunto questo il problema del rapporto fra vita e linguaggio). […] Quando c’era l’Es, non c’era interno né esterno, né corpo né mente, né spirito né materia. C’era il continuo dell’Es, e nient’altro […]. In questo senso il linguaggio non si limita ad applicare una etichetta sonora ad un contenuto fino ad allora inconscio, perché quel contenuto, prima del linguaggio, semplicemente non esisteva. Il linguaggio lo inventa del tutto.[71]

E qui, il punto: senza il linguaggio, niente Es (e niente Freud, e niente psicoanalisi, e niente filosofia, …). Seppure, allora, la costituzione dell’individuo fosse esclusivamente riconducibile, come Finelli prospetta, alla stratificazione “verticale” dei tre ordini di rappresentanza-rappresentazioni, il primario riferimento alla componente bio-corporea (alla Triebrepräsentanz) risulterebbe difficilmente sostenibile, perché privo della consistenza che gli proviene proprio dal linguaggio. O, in altri termini, ammettendo l’idea del nesso circolare fra i tre ordini: è vero che l’ordine dell’affetto, in quanto inerente all’inconscio, è puramente pulsionale, ma è ragionevole immaginare che l’inconscio accumuli materiale acquisito sia dal mondo che da elaborazioni “interiori”, in un modo o nell’altro, quindi, materiale presumibilmente segnato, alla fonte, dal linguaggio. Se quindi anche la funzione pulsionale (e altrettanto le rappresentazioni di cosa, per le stesse ragioni) ha a che fare (necessariamente, direbbe Saussure-Cimatti) con la dimensione linguistica, altresì tesa all’intersoggettività, la distinzione tra verticale e orizzontale appare sempre meno significativa.

 

Trascendenza e desiderio d’immanenza

Azzardo infine qualche pensiero, a margine dell’ipotesi filosofica delineata dall’argomentare di Cimatti. La trattazione è appassionante, e il presupposto è riducibile, credo, a un’efficace, energica recriminazione: in quanto uomo, l’«humanitas non mi lascia mai in pace, mai»[72]. Sicché, su questa base, il movimento del divenire-animale, la «deflagrazione» che darebbe accesso, liberati dalla «stretta del linguaggio»[73] e da “io”, al mondo dell’immanenza assoluta, ci condurrebbe alla scoperta di «una ricchezza che nemmeno sospettiamo»[74].

La sfida dell’animalità non è quella, allora, di recuperare l’animale che è in noi, operazione a un tempo impossibile – perché non è possibile dismettere a piacimento la condizione umana – e inutile, perché non abbiamo mai smesso di essere animali: è piuttosto quella di rendere possibile questa operazione di radicale decentramento rispetto alla soggettività linguistica.[75]

Sembra consono che Cimatti assuma, a sostegno del suo riflettere, richiami poetici: il «campo dell’“immanenza assoluta” è l’“aperto”[76], come lo chiama un poeta, Rainer Maria Rilke»[77]. D’altronde, i «poeti e gli scrittori, scrive Freud parafrasando Shakespeare, “sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta […]. Essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte dalla scienza” (Freud 1906; tr. it. 1989, p. 264)»[78]. Il ragionamento di Cimatti, infatti, ci emoziona sinceramente e ci prende, al pari che se leggessimo versi coinvolgenti.

La questione dell’immanenza può cominciare a porsi solo laddove non è più il linguaggio a definire la natura di un corpo; essere l’animale che parla significa infatti lanciare l’esperienza oltre il momento che il corpo sta vivendo, significa usare un gesto espressivo – una parola, ad esempio – per indicare qualcosa che non è presente nel momento dell’enunciazione; la trascendenza entra nella vita dell’Homo sapiens con il linguaggio.[79]

Al sentimento, però, si affianca qualche riserva. La ricerca dell’immanenza rimanda a quel «radicale decentramento rispetto alla soggettività linguistica» che in fondo significa rinunciare alla trascendenza, in qualche modo liberandosene.

Messa da parte la classificazione su assi ortogonali delle relazioni tra corpo, mente, rappresentazioni e conformazione della soggettività, vedo verosimile che la capacità di linguaggio, al pari della facoltà di volare per gli uccelli, venga riconosciuta componente biologica fondante l’uomo, se non altro tenuto conto del modello filogenetico su cui Napolitano ci ha istruito (cfr. supra). Inseguire l’immanenza, dunque, sembra esercizio auto mutilante, o per lo meno limitante. Oppure – per non sminuire i pregi della animalitas –, dà l’impressione di sovrastimare una meta che, svalutando ciò che si ha/è, appare «più ricca», pur nel suo sfocato e incerto profilarsi, solo perché dotazione (ipotetica) di ciò che non si è/ha. Siamo Homo sapiens muniti, si voglia o meno, di un apparato biologico peculiarmente contrassegnato dall’attitudine linguistica, con tutto ciò che comporta.

Perché dovrebbe, un uccello, rinunciare ai derivati esistenziali della facoltà di volare? Sono sicuro che, anziché ridimensionare le implicazioni del proprio essere all’inseguimento dell’insospettabile pienezza del camminare bipede, l’animale volante (che la mia rozza metafora associa all’animale parlante) preferirebbe impegnarsi, con istintiva saggezza, a trarre il massimo e il meglio dalla propria specifica competenza biologica e dai suoi esiti.

Il linguaggio porta la trascendenza nella nostra vita: «essere l’animale che parla significa […] lanciare l’esperienza oltre il momento che il corpo sta vivendo»[80]. Come Virno suggerisce al riguardo, è proprio la trascendenza a rendere possibili – ovunque si collochino, “al di là” o “al di qua” del momento esistentivo – le filosofie dell’immanenza. E della trascendenza, in ogni caso, esse sono un sottoprodotto.

 


 

[1] Pasquale Amato, La negazione tra logica e psicologia. L’azione del ‘non’ sugli affetti, Consecutio temporum n. 9/2016, www.consecutiotemporum.it.

[2] Paolo Virno, Saggio sulla negazione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 106.

[3] Diego Busiol, “Recensione a Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne”, http://traccefreudiane.com/wp/archives/79.

[4] Cfr. Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 10 e pp. 193-194.

[5] Cfr. Ivi, pp. 186-187.

[6] Cfr. ivi, pp. 188-191.

[7] Ivi, p. 189.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 190.

[10] Ivi, p. 191.

[11] Ivi, p. 192.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 196.

[14] Roberto Finelli, “Materialismo ‘contra’ spiritualismo. Sigmund Freud e Jacques Lacan”, Consecutio temporum n. 6, maggio 2014, www.consecutiotemporum.it, p.109.

[15] Ivi, p. 108.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, p. 109.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 114.

[20] Roberto Finelli, “Rappresentazione e linguaggio in Freud: a partire dal ‘Compendio di psicoanalisi’”, Consecutio temporum n. 1, giugno 2011, www.consecutiotemporum.it, p. 113.

[21] Finelli, “Materialismo ‘contra’ spiritualismo”, Op.Cit., p. 112.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 114.

[24] Ibidem.

[25] Finelli, “Rappresentazione e linguaggio in Freud”, Op.Cit., p. 116.

[26] Ivi, p. 123.

[27] Ivi, p. 124.

[28] Ibidem.

[29] Cfr. Finelli, “Materialismo ‘contra’ spiritualismo”, Op.Cit., p. 111.

[30] Ivi, p. 107.

[31] Finelli, “Rappresentazione e linguaggio in Freud”, Op.Cit., p. 114.

[32] Cfr. Francesco Napolitano, “Materiali per una filosofia freudiana dell’afasia”, in Sigmund Freud, L’interpretazione delle afasie. Uno studio critico, a c. di Francesco Napolitano, Quodlibet, Macerata 2010.

[33] Ivi, p. 202.

[34] Cfr. Ibidem.

[35] Francesco Napolitano, “Freud 1895: la parola come premessa della coscienza”, in Felice Cimatti e Alberto Luchetti, a c. di, Corpo, linguaggio e psicoanalisi (atti convegno, Arcavacate 21-22 maggio 2011, Centro Studi Filosofia e Psicoanalisi, Università di Calabria), Quodlibet, Macerata 2013, p. 112.

[36] Ivi, p. 118. Nella nota 8 a p. 116, l’autore precisa: la «coscienza qui in oggetto è quella derivata, o secondaria, o riflessiva, o autocoscienza».

[37] Cfr. Virno, Quando il verbo si fa carne, Op.Cit., pp. 101ss.

[38] Anziché l’intreccio in cui Finelli vede connesse pulsioni, immagini e parole, sarebbe forse più rappresentativa l’idea di un composto chimico, le cui caratteristiche differiscono da quelle dei suoi singoli componenti.

[39] Cfr. Franco Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 111, dove l’autore, tra altri, cita: «Colli (Einaudi, Torino 1955; Laterza, Roma-Bari 1973): Ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì, secondo quanto si è detto, per convenzione».

[40] Ivi, p. 4.

[41] Ivi, p. 5.

[42] Wilhelm Von Humboldt, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachstudium in Beziehung auf die verschiedenen Epochen der Sprachentwicklung, 1820, tr.it. Donatella Di Cesare, La diversità delle lingue , Laterza, Roma-Bari 1991, § 13.

[43] Lo Piparo, Op.Cit., p. 6.

[44] Émile Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966, tr.it. a c. di Paolo Fabbri, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, Mondadori, Milano 2009, p. 112.

[45] Copio qui, con pochi aggiustamenti, alcune righe introduttive della mia prima lettura del testo di Ferreri (Cfr. Pasquale Amato, “Ferreri: indagine filosofica Sulla negazione”, in Id., Op.Cit., pp. 15ss.).

[46] Cfr., per esempio, Finelli, “Materialismo ‘contra’ spiritualismo”, Op.Cit., pp. 112ss.

[47] Dino Ferreri, Sulla negazione, Astrolabio, Roma 1994, pp. 74-81.

[48] Ivi, p. 81.

[49] Ivi, p. 100.

[50] Ivi, p. 104.

[51] Ivi, p. 105.

[52] Ivi, p. 110.

[53] Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2010.

[54] Cfr. Gilles Deleuze, L’immanence: une vie…, in “Philosophie”, n. 47, 1995, pp. 3-7; tr.it. L’immanenza: una vita…, in “aut aut”, n. 271-272, 1996, pp. 4-7.

[55] Felice Cimatti, “Dal linguaggio al corpo”, in Lo Sguardo, N. 15, 2014 (II), http://www.losguardo.net, p. 150.

[56] Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Bari 2013, p. 142.

[57] Ivi, p. 150.

[58] Cimatti, “Dal linguaggio al corpo”, Op.Cit., p. 162.

[59] Cfr. Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 42.

[60] Cfr. Richard Rorty, The Linguistic Turn. Essays in Philosophical Method, University of Chicago Press 1967, tr.it. La svolta linguistica, Garzanti, Milano 1994.

[61] Cimatti, “Dal linguaggio al corpo”, Op.Cit., p. 162.

[62] Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 67.

[63] Ibidem.

[64] Ivi, p. 72.

[65] Ivi, pp. 67-68.

[66] Ivi, p. 73.

[67] Ivi, p. 77.

[68] Ivi, pp. 73-74.

[69] Cfr. Quentin Meillassoux, Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, Éditions du Seuil, Paris 2006. [«I moderni hanno la tacita impressione di avere irrimediabilmente perduto il Grande Fuori, il fuori assoluto dei pensatori precritici, questo fuori che non è relativo a noi»].

[70] Cimatti, “Dal linguaggio al corpo”, Op.Cit., p. 154.

[71] Ivi, pp. 158-160.

[72] Cimatti, Filosofia dell’animalità, Op.Cit., p. 56.

[73] Ivi, p. 157.

[74] Ivi, p. 159.

[75] Ivi, pp. 157-158.

[76] Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, Frankfurt a.M. (1922) 1955; tr.it. Elegie duinesi, Il Melangolo, Genova 1985, p. 91.

[77] Cimatti, Filosofia dell’animalità, Op.Cit., p. 159.

[78] Teresa de Lauretis, “Leggere (con) Freud”, in Cimatti e Luchetti, Corpo, linguaggio e…, Op.Cit., p. 27.

[79] Cimatti, Filosofia dell’animalità, Op.Cit., p. 155.

[80] Ibidem.

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