Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 12

 

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (VI)

3.2. La simbolica del male (I)

Il concetto di fallibilità è risultato l’esito del nostro indagare sull’uomo che porta con sé, nel vivere la sproporzione che lo rende fragile, la possibilità del male. Avventurarsi, ora, nelle rappresentazioni della esperienza originaria della coscienza di colpa significherà porsi alla ricerca degli elementi paradigmatici di quella realtà del male che l’uomo fallibile ci aveva solo indicato.

L’esperienza dello scoprirsi colpevole, ci avverte Ricœur, è cieca, vissuta com’è all’insegna della paura e dell’angoscia; è equivoca, in quanto stratificata in riferimenti ad altre esperienze più fondamentali che pongono l’uomo a confronto con Dio e con gli altri uomini; è scandalosa, perché sconcerta nel rendere l’uomo incomprensibile a se stesso, nell’alienarlo da sé, nel nascondergli Dio e il senso delle cose. Ma sono proprio la cecità, l’equivocità e lo scandalo ad esigere che l’esperienza sia detta. Il linguaggio della confessione, allora, fa sì che l’emozione si esprima e non resti, «come un’impressione dell’anima»[1], rinchiusa su se stessa; esso diventa ausilio «per elucidare le crisi sotterranee della coscienza di colpa»[2]; è interrogativo e, insieme, vuol «rispondere alla minaccia del non-senso»[3].

La confessione è dunque «una parola, che l’uomo pronuncia su se stesso»[4] e, in quanto parola, riguarda la filosofia. Per poterne cogliere il messaggio dovremo “ripeterla” «nella immaginazione e nella simpatia»[5], dice Ricœur, consapevoli che questa ripetizione non è più esperienza religiosa vissuta e non può ancora sostituire una filosofia della colpa. Eppure è questa la strada che conduce alla riconquista di quella dimensione del simbolo che è propria del pensiero moderno.

 

3.2.1. I simboli primari: impurità, peccato, colpevolezza

Ma cosa dice il linguaggio della confessione? Per poterlo comprendere si potrebbe cominciare, più comodamente, dal «sedicente concetto»[6] di peccato originale. La tentazione del riferimento critico a quest’espressione che appartiene al periodo agostiniano della gnosi – caratterizzato cioè dalla «pretesa di “conoscere” i misteri di Dio e del destino dell’uomo»[7] – va evitata perché il concetto di peccato originale è una razionalizzazione conseguente all’esperienza cristiana del peccato, e non ha perciò una connotazione di principio, di originarietà. La filosofia, dice Ricœur, deve rivolgersi ad «espressioni meno elaborate, più balbettanti della confessione»[8], e quindi, prima ancora di riflettere sul mito, di cui la speculazione razionalizzante è una riassunzione, bisogna regredire a ciò che sta al di sotto del mito stesso, a quelle espressioni “spontanee” della confessione dei peccati, a quei simboli che Ricœur definisce “primari”, a quelle parole che compongono il «vocabolario della colpa»[9].

Lo studio dei simboli primari è già un’ermeneutica propedeutica all’ermeneutica dei miti, e consiste nella «comprensione squisitamente semantica che possiamo acquisire»[10] delle espressioni ebraiche e greche che, nel dire la colpa, rivelano una sapienza antica che illumina il percorso verso l’esperienza originaria del peccato.

Riassumendo, questa riflessione si approfondisce nel linguaggio primitivo, non ancora mitico, dei simboli primari della colpa, procedendo a ritroso attraverso la gnosi e il mito, elaborazioni rispettivamente di terzo e secondo grado, di cui però la comprensione dei simboli di primo grado ha a sua volta bisogno per attuarsi. Questo rimando ciclico, sostiene Ricœur, «è il circolo chiuso della confessione, del mito e della speculazione»[11].

I simboli primari costituiscono, prima della gnosi e del mito, «la pietra angolare della concezione giudeo-cristiana del peccato»[12], ma la funzione che Ricœur assegna alla loro identificazione è proprio quella di contribuire ad una migliore comprensione del rapporto tra il mito e l’esplicitazione che esso offre, tanto del legame tra l’uomo e il sacro, quanto della “crisi” instaurata dal male in tale legame.

Prefiggendosi il compito di integrare filosoficamente la confessione, detta nel suo linguaggio simbolico, alla coscienza di sé, Ricœur individua quelle che chiama «zone di emergenza del simbolo»[13], cioè le dimensioni del cosmico, dell’onirico, del poetico, delle quali recuperare la profondità. È in queste aree che si possono leggere i «simbolismi più fondamentali e più stabili dell’umanità»[14], sempre mediati dalla parola, perché – dirà Ricœur – «nulla è simbolico prima che uomo parli»[15]. La loro espressione rimanda, rispettivamente, alle ierofanie, all’emergenza cioè «del sacro in un frammento del cosmo»[16], per cui «cielo, sole e luna, acque e vegetazione»[17] sono cose che attraverso le parole acquistano le prime significazioni simboliche; al sogno come veicolo psichico delle manifestazioni del sacro, leggendo in chiave freudiana o junghiana quelle produzioni oniriche «che, secondo l’ammissione di Freud stesso, superano le proiezioni della storia individuale e affondano […] nel folklore dell’umanità stessa»[18]; all’immaginazione poetica che, «complemento della duplice “espressività” del cosmico e dell’onirico»[19], differisce da essi perché il simbolo poetico – che è, per essenza, verbo – si coglie, già sul nascere, come espressività che insorge nel linguaggio.

Lo studio che consente, nel «distinguere il simbolo da ciò che non lo è»[20], di cogliere il principio unificatore, il nucleo di questa triade simbolica, è un’eidetica, un’analisi intenzionale che procede secondo sei criteri che permettono un progressivo avvicinamento all’idea essenziale di simbolo.

Il criterio di fondo è che «i simboli sono dei segni»[21]. I simboli – cosmici, onirici o poetici che siano – appartengono all’«universo del discorso»[22]: il loro senso viene comunicato con parole, espressioni, segni che ne veicolano l’intenzione di significare.

Ma, per poter delimitare l’ambito propriamente simbolico, è necessario dire che, pur nell’intendere tutti i segni qualcosa che è altro da se stessi, «non ogni segno è simbolo»[23]. Dai segni tecnici traspare, unico, il loro significato; al contrario, i segni simbolici si offrono in una «opacità [che] costituisce la profondità stessa del simbolo, che è inesauribile»[24].

Il senso letterale della parola-simbolo è immediata analogia con un senso ulteriore che è ancora e solo in lei. Di conseguenza, possiamo affermare con Ricœur che «il simbolo “dà”, perché è un’intenzionalità primaria che dà analogicamente il senso secondo»[25], il che vuol dire che l’analogo cui il simbolo allude è costitutivo del senso letterale del segno simbolico, e da esso non può essere separato.

Il quarto criterio è un ulteriore sviluppo del precedente: «simbolo e allegoria non sono […] sullo stesso piano»[26]. Una traduzione può sostituire al senso letterale di un’allegoria il suo senso secondo, simbolico, rendendo subito dopo superfluo il significato letterale. In quanto l’allegoria è modalità interpretativa più che spontanea invenzione di segni, il simbolo la precede, poiché precede l’ermeneutica. Il simbolo, i cui significati letterale e simbolico non sono intercambiabili, dà il suo senso «nella trasparenza opaca dell’enigma, e non per traduzione»[27].

Ricœur afferma che la «struttura della significazione […] è ad un tempo funzione dell’assenza e funzione della presenza»[28]. La prima funzione esplicita il fatto che la significazione dice le cose in loro assenza, “a vuoto”, mediante segni che le sostituiscono; la presenza è invece insita nel considerare che si significa “qualche cosa” e, dunque, il mondo. È per questo che nell’universo del linguaggio sono compresenti i simboli di cui noi ci occupiamo e quelli della logica simbolica, elementi di un formalismo assoluto rispetto ai quali «il simbolo è tutto l’opposto»[29].

Infine, l’ultimo aspetto di questa “criteriologia” ricœuriana definisce il mito come simbolo particolare, elaborato nella forma di un racconto collocato in tempi e luoghi non rintracciabili nella storia e nella geografia che noi conosciamo. La maggiore radicalità che distingue il simbolo dal mito è alla base della definizione con la quale Ricœur intende per simbolo «le significazioni analogiche spontaneamente formate e immediatamente datrici di senso»[30].

Nonostante il mythos sia già logos, integrarlo alla riflessione piena, inserirlo nel discorso filosofico, resta un problema che per ora, ammette Ricœur, non siamo in grado di risolvere. Di certo, la ripetizione nell’immaginazione e in simpatia si presenta nella forma «di una fenomenologia puramente descrittiva che lascia parlare l’anima credente»[31] al cui ascolto il filosofo si pone per “risentirne” motivazioni ed intenzioni nel modo neutralizzato dei simboli, non potendole “sentire” direttamente. Ma questa fenomenologia è solo un esercizio preparatorio che rimane esterno alla riflessione che era sfociata nel concetto di fallibilità.

Tuttavia, pur non avendo pronta una soluzione, Ricœur ci propone un’affermazione che della soluzione sarà il principio: «il simbolo dà a pensare»[32]. Emblematica e suggestiva, questa espressione riassume lo stato d’animo del pensatore che si scopre interpellato da un simbolismo già presente nel mondo di cui egli è parte.

Nel discorso filosofico si introduce «la contingenza della civiltà»[33], della cultura a cui, insieme ai simboli che posso conoscere, appartengo: questa realtà orienta e limita il mio ambito speculativo.

Ma non basta: un particolare universo simbolico ci orienta e ci limita, ma la nostra indagine si innesta in una realtà filosofico-culturale che mostra paradossalmente un suo indirizzo già dato.

«La nostra filosofia è greca per nascita»[34]: questa osservazione, che sembra scontata, consente a Ricœur, da un lato, di sviluppare il nesso innegabile tra il “Che cos’è l’essere?” che la memoria greca ci ha tramandato e tutte le successive questioni filosofiche alle quali si aggiungono quelle che riguardano la finitudine e la colpa, dall’altro di rilevare «il privilegio di “prossimità” della cultura greca e di quella giudaica»[35], il cui incontro è all’origine della civiltà occidentale e ne segna il destino. È per questo, ribadisce Ricœur, che il nostro orizzonte speculativo sarà la «storia della coscienza di colpa in Grecia e in Israele»[36].

Con un accenno a quella «filosofia senza presupposti»[37] che egli sottoporrà ancora, in seguito, a dura critica, Ricœur ci ricorda che la contingenza radicale assegnataci dalla nostra memoria culturale genera il disagio e la difficoltà dell’approccio filosofico a ciò che, come la religione, è “altro” che filosofia; è una contingenza implicita nell’alternarsi dei “pensieri” che si concatenano nella storia della filosofia; è, infine, una contingenza ineluttabile ma necessaria, perché chi voglia eluderla «in nome di una “oggettività” priva di collocazione, al limite conoscerà tutto, ma non comprenderà nulla»[38].

Il più remoto dei simboli primari, sostiene Ricœur, è l’impurità. Dalla sua originaria connotazione oggettiva, che la esprime come «qualcosa […] che infetta attraverso il contatto»[39], essa si evolve in un timore che, nel mescolarsi con la paura fisica della contaminazione, ne rende soggettivo il senso e apre all’uomo l’accesso alla dimensione etica. Il rischio che si profila diventa anch’esso etico in quanto riferito a quello che Ricœur definisce il «legame primordiale della vendetta dell’impurità»[40]: un pericolo – il più primitivo – inteso come la reazione vendicativa dell’impurità stessa offesa dal contatto dell’uomo.

Una tale considerazione precede non solo il riferimento a un Dio vendicatore, ma anche la rappresentazione di un ordine naturale cui fa riferimento anche un frammento di Anassimandro – citato da Ricœur[41] – nel quale è possibile cogliere quel «linguaggio della retribuzione»[42] che esprime un ulteriore sviluppo della misura etica dell’uomo. Siamo in un ambito in cui non si è attuata ancora la separazione tra fisico ed etico, tra sofferenza e colpevolezza: la comprensione di questa dualità indivisa di timore fisico-etico non è accessibile alla nostra civiltà se non attraverso un esercizio indiretto di immaginazione, di irrazionalità. Il mondo dell’impurità è un mondo dove «l’etica si mescola alla fisica del soffrire, mentre la sofferenza si sovraccarica di significazioni etiche»[43].

Questa etica ancora abbozzata progredisce fino a perdere la sua inclinazione retributiva solo quando viene posta in questione la prima forma razionalizzante di relazione tra causa-peccato ed effetto-sofferenza. Il prezzo di questo passaggio, osserva Ricœur, è molto alto, poiché ad una prima spiegazione della sofferenza si deve sostituire l’inspiegabilità, la gratuità scandalosa del dolore, e dunque del male, di cui il Giobbe biblico sarà la drammatica rappresentazione.

La costituzione di un «vocabolario del puro e dell’impuro»[44], per noi Occidentali, è un’eredità dei classici greci, stigmatizzata nel termine  che designa l’assenza di impurità e che, da un generico significato di pulizia fisica, si estende ad esprimere, poi, nell’ambito medico l’evacuazione, nella ritualità le pratiche purificatorie, fino ad intendere prima una purezza esclusivamente morale, poi la purificazione essenziale della sapienza filosofica: un iter di significazioni che rende questa parola, ci informa Ricœur, pronta a sostenere il simbolismo che coincide con il nostro dire la “macchia simbolica” dell’impuro.

La ricchezza di significatività di questo simbolo, d’altronde, si rivela nella forza che lo pone stabilmente a fare da sfondo a tutte le successive, più elaborate rappresentazioni simboliche del male: se ne trova traccia, per esempio, nella concezione ebraica del peccato che conserva la matrice duale della macchia.

La transizione che dal significato di impurità conduce a quello di peccato, afferma Ricœur, è di tipo fenomenologico più che storico, e trova soprattutto riscontro nel linguaggio babilonese della confessione.

Questo successivo simbolo primario presenta come suo senso peculiare il trasgredire all’alleanza, al “Patto” con Dio, e presuppone dunque, oltre alla «costituzione preliminare del Patto»[45], un riferimento “teistico” da ricondurre però – nota Ricœur – a un dio che è «antropotropo prima di essere antropomorfo»[46]. In questo caso, conseguentemente, la prospettiva non è etica, ma di tipo religioso, connotandosi il Patto come un essere “davanti a Dio” e il peccato come il venir meno alla “parola” data.

Non a caso, Ricœur cita il termine ruah dall’Antico Testamento, che indica l’aspetto spirituale, irrazionale del Patto, e che si alterna a davar la cui traduzione, parola, equivale al greco ó., in una corrispondenza che esplicita una tensione anche filosofica, oltre che religiosa, della dimensione del Patto. In tal senso Ricœur sottolinea che la traduzione piuttosto approssimata dall’ebraico davar al greco ó rende però ragione di «una situazione iniziale dell’uomo in balìa di Dio [che] può entrare nell’universo del discorso perché si analizza già in un dire di Dio e in un dire dell’uomo, nella reciprocità di una vocazione e di una invocazione»[47].

Anche la simbolica del peccato – che si concentra sulle espressioni dell’oracolo e della profezia – si mostra in una prospettiva sia oggettiva che soggettiva: da un lato si delinea l’alienazione causata dall’iniquità della trasgressione nei confronti di un Dio perfettamente giusto; dall’altro l’angoscia – per evoluzione del timore dell’impurità – emerge come paura della collera divina. È importante notare come il tipo di soggettività riscontrato sia ancora collettivo e non individuale, poiché il “timor di Dio” si esprime in riferimento al destino del popolo ebraico.

L’impurità suscita un timore che determina il premunirsi da un castigo, con un atteggiamento che denota la sensazione di essere appesantiti da una minaccia. Ricœur rileva «in questa coscienza di essere “carichi” […] di un “peso”»[48] l’anticipazione del nucleo essenziale della colpevolezza.

Il momento ontologico del peccato «designa la situazione reale dell’uomo davanti a Dio»[49], che l’uomo ne prenda coscienza o meno. La colpevolezza, in quanto interiorizzazione di tale realtà, indica per Ricœur «il momento soggettivo della colpa»[50] che si attua nell’assumerne piena consapevolezza.

Nel confrontarsi con Dio, il “davanti a te” passa in second’ordine rispetto al “sono io che…”: è a questo punto che avviene la scissione tra esperienza del peccato e colpevolezza. Tale scissione si riflette nella nascita «di una nuova “misura” della colpa»[51] che implica due caratteri essenziali: il primo è il passaggio dalla soggettività “collettiva” del peccato ad «un giudizio d’imputazione personale del male»[52] che trova, secondo Ricœur, una sua radice storica nella deportazione in Babilonia del popolo giudaico e nell’apertura, attraverso la personalizzazione del peccato, della speranza nella salvezza per l’individuo; la seconda acquisizione è l’idea che, a differenza del peccato che «è una situazione qualitativa – o non è – la colpevolezza indica una grandezza intensiva, capace del più e del meno»[53]. La colpevolezza può essere dunque più o meno grave secondo una gradualità che vede ai due estremi «le immagini opposte dell’“empio” e del “giusto”»[54].

Ricœur percorre «il triplice cammino su cui si manifesta questa nuova esperienza»[55] estraendo spunti interpretativi e di riflessione dalle testimonianze letterarie in cui la dimensione etica si presenta in alterne prospettive – giuridica, religiosa, teologica – rispettivamente legate alla responsabilità penale così come viene razionalizzata nelle città greche, alla «coscienza sottile e scrupolosa»[56] del fariseismo, alla visione paolinica della condizione miserabile dell’uomo sottoposto alla Legge.

La comprensione della colpevolezza implica l’affiorare di una esperienza nuova, che è quella dell’“uomo colpevole”, e la riassunzione del simbolismo precedente riferito all’impurità e al peccato, movimenti che esprimono entrambi «il paradosso verso il quale punta l’idea di colpa»[57], il servo arbitrio, concetto che racchiude la simbolicità paradossale «di un uomo responsabile e prigioniero, o meglio, di un uomo responsabile di essere prigioniero»[58].

 

3.2.2. Il concetto di servo arbitrio

L’impurità, il peccato, la colpevolezza sono, ognuno in una propria prospettiva, il tentativo simbolico di raggiungere l’espressione di un concetto che Ricœur definisce come loro orizzonte: il servo arbitrio. Simbolico anch’esso, non è rappresentabile come si è fatto per la fallibilità poiché, nel paradossale sovrapporsi dell’idea di libero arbitrio e dell’idea di servitù, risulta irragionevole e insopportabile al pensiero diretto. Ricœur annuncia comunque un possibile avvicinamento ad esso mediante la lettura dei miti del male.

In definitiva, il servo arbitrio deve considerarsi come «il telos intenzionale di tutta la simbolica del male»[59]; dalla sua implicazione di prigionia scaturisce la tematica della liberazione come “salvezza”, centrale nella tradizione giudaica e storicizzata nell’avvenimento dell’Esodo. Ma Ricœur ci ricorda che tale simbolismo appare, più o meno centralmente, in tutte le culture, letteralmente espresso in modi diversi, ma sempre conservando lo stesso scopo simbolico.

Il concetto di servo arbitrio porta a compimento, secondo Ricœur, il «rapporto circolare tra tutti i simboli»[60], rivelandosi, da una parte, il limite a cui i simboli primari tendono, e dall’altra la riassunzione di tutta la ricchezza di significatività che essi offrono. In tal senso, il percorso di progressive riassunzioni conduce il simbolo più arcaico del male, l’impurità, al rango di «simbolo puro quando non dice più una macchia reale, ma significa soltanto il servo arbitrio»[61]. Questa equivalenza si esplica, afferma Ricœur, in tre schemi del servo arbitrio che nascono da altrettante intenzioni insite nel simbolo dell’impurità: la positività, che indica il male, essendo “posto”, come qualcosa da “togliere”, come potenza delle tenebre e non come semplice mancanza; l’esteriorità, intesa come «identificazione del male umano con un pathos, con una “passione”»[62] e dunque, seppure interiore, proveniente dall’esterno come una “seduzione”; l’infezione, relativa all’idea che «la seduzione dal di fuori è alla fine un’affezione del sé a causa del sé, un’auto-infezione, per la quale l’atto del legarsi si muta nella condizione dell’essere legati»[63]. Nell’osservare, però, che l’infezione non è una distruzione, Ricœur sottolinea che questo male positivo, seducente e contagioso non può cambiare l’uomo togliendogli la sua responsabilità nella scelta.

Per quanto non sia ancora possibile accedere all’intenzione di fondo del simbolo dell’impurità – che risulterà leggibile soprattutto nel mito della caduta – Ricœur, attraverso la metafora del paese che, occupato dal nemico, è costretto a continuare a produrre e ad esistere, ma a beneficio dell’invasore («è responsabile, ma la sua opera è alienata»[64]), può anticipare l’asimmetria tra male e bene a partire dalla quale si può ben dire che «per quanto radicale il male non potrà mai essere originario come la bontà»[65].

[1] ivi, p. 251.

[2] ivi, p. 252.

[3] ivi, p. 252.

[4] ivi, p. 247.

[5] ivi, p. 247.

[6] ivi, p. 248.

[7] ivi, p. 248.

[8] ivi, p. 248.

[9] ivi, p. 253.

[10] ivi, p. 253.

[11] ivi, p. 254.

[12] ivi, p. 250.

[13] ivi, p. 255.

[14] ivi, p. 257.

[15] Ricœur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p. 25.

[16] Ricœur P., Filosofia della volontà ii. Finitudine e Colpa, op.cit., p. 255.

[17] ivi, p. 255.

[18] ivi, p. 257.

[19] ivi, p. 258.

[20] ivi, p. 259.

[21] ivi, p. 259.

[22] ivi, p. 259.

[23] ivi, p. 260.

[24] ivi, p. 260.

[25] ivi, p. 261.

[26] ivi, p. 261.

[27] ivi, p. 262.

[28] ivi, p. 263.

[29] ivi, p. 262.

[30] ivi, p. 263.

[31] ivi, p. 264.

[32] ivi, p. 265.

[33] ivi, p. 265.

[34] ivi, p. 265.

[35] ivi, p. 266.

[36] ivi, p. 266.

[37] ivi, p. 265.

[38] ivi, p. 270.

[39] ivi, p. 276.

[40] ivi, p. 276.

[41] cfr. ivi, p. 277.

[42] ivi, p. 277.

[43] ivi, p. 278.

[44] ivi, p. 284.

[45] ivi, p. 299.

[46] ivi, p. 299.

[47] ivi, p. 300.

[48] ivi, p. 354.

[49] ivi, p. 354.

[50] ivi, p. 354.

[51] ivi, p. 358.

[52] ivi, p. 358.

[53] ivi, p. 360.

[54] ivi, p. 361.

[55] ivi, p. 362.

[56] ivi, p. 354.

[57] ivi, p. 354.

[58] ivi, p. 354.

[59] ivi, p. 409.

[60] ivi, p. 410.

[61] ivi, p. 413.

[62] ivi, p. 414.

[63] ivi, p. 414.

[64] ivi, p. 415.

[65] ivi, p. 415.

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