a partire da una ateologia
Pasquale Amato
- Finitudine e Colpa (V)
3.1. L’uomo fallibile (IV)
3.1.4. Il concetto di fallibilità
Sono così poste le basi di una “ontologia della realtà umana” il cui spessore è dato dall’idea di sproporzione che si offre come concetto immediato di «quella limitazione specifica che consiste per la realtà umana nel non coincidere con se stessa»[1]. È un’ontologia diretta, i cui sviluppi si stagliano sullo sfondo di un’ontologia formale che può soltanto delineare un’idea generica di limitazione. Le adeguate categorie sono risultate reperibili nel disimplicarle «dal rapporto sproporzionato tra finitezza e infinità […]. È questo rapporto che fa della limitazione umana il sinonimo della fallibilità»[2].
L’idea di sproporzione ci rimanda alle nozioni patetiche di mescolanza e intermediario, tratte dalla “grande retorica” dell’uomo miserabile: perché la trasposizione del patetico della miseria nel filosofico sia portata a conclusione, non resta che chiarire la natura della possibilità del male, della possibilità cioè di fallire, che è la limitazione inscritta nella fragilità della costituzione umana.
L’uomo è fallibile perché la sua sproporzione gli conferisce una originaria fragilità che è, insieme, occasione, origine e capacità del male.
Nel primo senso, che lascia ancora possibilità e realtà del male esterne l’una all’altra, la fallibilità è la semplice possibilità del male, l’occasione come «punto di minor resistenza per il quale il male può penetrare nell’uomo»[3].
Sarà la simbolica del male, nel leggere la confessione, a consentire l’accesso ai sensi ulteriori del concetto di fallibilità. Essa sarà il tentativo di introdursi a colmare il vuoto metodologico compreso tra la riflessione antropologica – che si ferma necessariamente al di qua dell’insorgenza del male, prima che avvenga il salto dalla fallibilità alla caduta – e l’etica – che arriva già sempre in ritardo perché presuppone un uomo che ha già fallito, un uomo già colpevole. Il momento di insorgenza del male, di caduta dall’innocenza alla colpa, il salto, sarà dunque il suo centro; passare dalla fenomenologia della fallibilità alla simbolica del male significherà riprodurre «lo iato nell’uomo stesso tra fallibilità e colpa»[4].
Questo nuovo tipo di riflessione si addice alla lettura del mito, della storia fantastica che offre in trasparenza, essenzialmente e simbolicamente, l’originario, una proiezione della «mia innocenza [che] è la mia costituzione originaria»[5]. Poiché «un mito di caduta non è possibile se non nel contesto di un mito di creazione e di innocenza»[6], la confessione mi fornisce l’origine, il paradigma di partenza dal quale tutti i mali derivano per una pseudo-genesi intesa «nel senso in cui la patologia parla dei disturbi premettendo “iper”, “ipo” o “para”»[7]. In altri termini, il mito mi prospetta il male come “malattia” attraverso la quale la costituzione umana traspare originariamente “sana” nell’innocenza.
Questa origine solo percepita, sottolinea Ricœur, è mutuata dai simboli, dal mito, dall’immaginazione dell’innocenza rappresentata come fragilità senza caduta, come fallibilità senza colpa, come «uno stato realizzato “altrove” e “un tempo”, in luoghi e tempi che non trovano posto nella geografia e nella storia dell’uomo razionale»[8]. Ammettere l’immaginazione in filosofia? Non c’è da scandalizzarsi, incalza Ricœur, perché «l’immaginazione è un modo indispensabile d’indagine del possibile»[9]. Attraverso l’immaginario la costituzione originaria dell’uomo mi si mostra come essenza, la sua fallibilità mi appare, non come l’innocenza decaduta che l’ordinario sempre mi porge, ma come pura possibilità.
La figura biblica di Eva serve a Ricœur per esemplificare il terzo senso secondo il quale, in modo ancora più positivo, la sproporzione dell’uomo si rivela come potere, come capacità di fallire. La debolezza cede alla tentazione e cade: non solo, dunque, viene proposta l’insorgenza istantanea del male, ma anche «il sottile slittamento, l’oscura flessione dalla innocenza al male»[10], la vertigine. Nel momento stesso in cui l’uomo confessa di porre il male, il male sembra nascere e procedere, attraverso la vertigine, dalla sproporzione dell’uomo: questo progredire continuo, «questa transizione dall’innocenza alla colpa, scoperta nel porsi stesso del male, […] dà al concetto di fallibilità tutta la sua ambigua profondità»[11]: è in questa ambiguità che la simbolica del male si inoltra.
[1] ivi, p. 227.
[2] ivi, p. 228.
[3] ivi, p. 237.
[4] ivi, p. 239.
[5] ivi, p. 241.
[6] ivi, p. 241.
[7] ivi, p. 239.
[8] ivi, p. 241.
[9] ivi, p. 241.
[10] ivi, p. 242.
[11] ivi, p. 242.