Vedere l’irrapresentabile. Derrida sulle arti del visibile

Giuseppe D’Acunto

Nel 2016, dopo tre anni dall’edizione originale francese, è uscita l’edizione italiana di una serie di scritti di Derrida (comprese alcune interviste), i quali, apparsi lungo l’arco di venticinque anni (dal 1979 al 2004), hanno come tema comune le arti del visibile (pittura, disegno, architettura, teatro, ma anche cinema, videoarte, fotografia)1. Fin dall’inizio, egli dichiara che l’interesse che lo ha mosso verso singole opere appartenenti al dominio delle arti in questione è dato dal fatto che in esse si manifestava una forma di resistenza nei confronti di quel “logocentrismo” che ha dominato la nostra tradizione filosofica: resistenza che metteva capo a un gesto di “decostruzione” di una tale pretesa egemonica2.

Si parte da una definizione dell’oggetto visivo in pittura: esso si trova investito di una presenza fenomenica piena di cui le parole non dispongono: presenza che, esibendo il «mutismo presunto della “cosa stessa”» ed essendo «estranea a ogni discorso», ci obbliga al silenzio e ci «fa restare senza fiato»3. Al riguardo, si precisa che il «mutismo» è diverso dalla «taciturnità».

La taciturnità è il silenzio di una cosa che può parlare, mentre si dice “mutismo” il silenzio di una cosa che non può parlare (PNV 45).

Ne discende che l’opera può andare incontro a due possibilità. O è un qualcosa di completamente estraneo rispetto alla parola o è il luogo in cui quest’ultima tocca il suo limite. Nel primo caso, l’opera d’arte “muta” ospita in sé una virtualità discorsiva decisamente potente e autoritaria, in senso “logocentrico”, mentre, nel secondo, l’opera d’arte “taciturna”, favorendo in noi il ricorso alla parola, produce l’effetto di liberarci da una tale autorità.

E il rapporto fra discorsività e non-discorsività sta al centro anche del cinema, nel senso che qui il parlato presuppone una «riserva di parola» (PNV 108), ossia la reinscrizione di quest’ultima in un elemento peculiare che non è dominato da essa.

Se esiste qualcosa di specifico nel cinema […] è la forma nell’ambito della quale il discorso viene messo in gioco, inscritto o collocato senza in principio dominare l’opera.

In tal senso, il cinema opera un ripensamento e una rifondazione del modo in cui arti come la pittura, l’architettura e la scultura, avevano articolato, prima del suo avvento, il rapporto fra discorsivo e non-discorsivo, così che ciò che esso apporta di interamente nuovo sta nella «possibilità di giocare in maniera diversa con le gerarchie» (PNV 46). In particolare, dove risiede la specificità cinematografica di un film è nella sfida che viene ingaggiata fra la parola e l’immagine, nel senso che esso dà vita a un idioma intraducibile, per cui la traduzione dall’una nell’altra deve aver luogo senza mai perdere il tratto caratteristico di un tale idioma4.

Interrogato su quali sono le arti in cui la “decostruzione” è più efficace, le arti del visibile o della parola, Derrida risponde optando per le prime. In esse, infatti, in quanto arti dello spazio che fanno leva su «una certa esperienza della spaziatura», la «resistenza al logocentrismo ha una maggiore possibilità di apparire» (PNV 40). Le arti del visibile, inoltre, in quanto si avvalgono di intuizioni discorsive che non assumono la forma del discorso scritto, operano un «allargamento […] strategicamente decisivo» del concetto di testo.

Vi è testo perché vi è sempre un po’ di discorso da qualche parte nelle arti visive e perché, anche se non vi è discorso, l’effetto della spaziatura implica già da sempre una testualizzazione.

Anche le opere in cui il silenzio è dominante dispiegano una rete di riferimenti e di differenze che fa sì che esse presentino un profilo semiotico, in ultima istanza, testuale. Ne discende che la “decostruzione” non è confinata alla sola analisi del discorso scritto, anzi, «volerla limitare ai fenomeni linguistici è la più sospetta delle operazioni» (PNV 48).

Interrogato circa l’effetto di presenza del corpo dell’artista in un quadro, ad esempio nel tratto della pennellata, Derrida risponde che questa presenza è abitata sempre da una non-presenza, ossia dall’impossibilità dell’artista di identificarsi completamente con se stesso. In tal senso, il corpo è, in pittura, un’«esperienza […] di deiscenza, di dislocazione». Ciò che la presenza piena significa è, infatti, la morte, perché qualora essa fosse possibile, nel senso del darsi di un essere che è interamente là dove è, noi non faremmo mai esperienza della «firma» che l’opera porta inscritta dentro di sé:

l’esserci [être-là] esiste soltanto a partire da quest’opera di tracce dislocantesi (PNV 49).

La «firma», precisa Derrida, è più di un nome semplicemente scritto: è «un atto, un performativo mediante il quale ci si impegna in qualcosa, con il quale si conferma in maniera performativa che si è fatto qualcosa – che è stato fatto e che sono io che l’ho fatto». Inoltre è un tratto che, in un’opera, rimane esterno al suo contenuto semantico. Essa non è nient’altro, perciò, che «l’evento dell’opera stessa»: opera la quale «è qui oltre a tutto ciò che significa» (PNV 51-52).

Il filosofo francese riconosce di aver l’abitudine di trattare le parole come nomi propri. Tutto ciò, perturbando l’ordine abituale del discorso, ossia l’autorità della discorsività, lascia che il non-verbale si affacci sulla scena del verbale:

è il corpo di una parola che mi interessa, nella misura in cui non appartiene al discorso (PNV 56).

Ed è proprio qui che il linguaggio si apre alle arti non verbali, che le parole intensificano, da un lato, il loro rapporto con le arti non discorsive, mentre queste ultime mostrano, dall’altro, di appartenere pur sempre a una dimensione linguistica.

Interrogato sulla questione della bellezza, Derrida risponde che essa, nella misura in cui «lavora attraverso la voce», è inseparabile dal desiderio dell’altro. E poiché la voce è attraversata da una «vibrazione differenziale», la quale interrompe, sospende e «mantiene una distanza», ecco come il desiderio in questione tanto più si intensifica, quanto più la voce stessa lo separa dal corpo.

Noi parliamo di bellezza davanti a una cosa che è allo stesso tempo desiderabile e inaccessibile, una cosa che mi parla, che mi chiama, che mi dice anche che è inaccessibile.

E «inaccessibile» significa che l’opera d’arte, possedendo «un effetto di trascendenza», non è mai esauribile, per cui la bellezza può essere definita come «un gioioso lavoro di lutto» (PNV 60)5, un qualcosa che, risvegliando il mio desiderio, mi dice: «Tu non mi consumerai!».

Toccando i rapporti che corrono tra il visibile e l’invisibile, Derrida rinvia al suo testo, appena richiamato, Memorie di cieco, dove configura il secondo come ciò che non sta per il contrario puro e semplice della visione. Qui, a proposito del disegnatore o del pittore, leggiamo, infatti, che egli «è cieco».

In quanto tale e nel momento in cui si compie, l’operazione del disegnare avrebbe qualcosa a che vedere con l’accecamento6.

In tal senso, le arti del visibile non sono altro che prestazioni di ciechi, così che, per questa via, si fa più produttivo ricollegarle alle nozioni di spaziatura e di testo.

Invitato a esplicitare meglio i tratti di quel luogo affermativo verso cui sembra inclinare l’opera distruttrice della “decostruzione”, Derrida precisa che esso «non è un luogo che esista realmente»: è «un “vieni”», in quanto figura di un’affermazione che, riferendosi a un qualcosa che «non esiste, non è presente», «sfugge interamente allo spazio della certezza» (PNV 65-66). Si tratta, allora, di un appello, ma che non si sa né da chi né da dove venga. E ciò proprio per il fatto che esso è eterogeneo rispetto al sapere.

Perché vi sia appello e perché la bellezza […] esista, gli ordini della determinazione e del sapere devono essere ecceduti (PNV 67).

Ogni evento, nella vita di ognuno di noi o quale è rappresentato da un’opera d’arte, ha luogo sempre laddove noi non sapevamo vi fosse un luogo, laddove, anche se tutte le condizioni che lo rendono possibile sono state esaudite, un qualcosa di irriducibile a esse, di supplementare e di indeterminato, accade ancora7.

Il saggio che troviamo a questo punto è quello che dà il titolo al volume. Qui, Derrida inizia riflettendo sul fatto che se, quando parliamo del vedere, pensiamo immediatamente agli occhi, ci dimentichiamo che questi ultimi servono anche a un’altra cosa: a piangere. Le lacrime, infatti, ci «dicono qualcosa dell’occhio che non ha più nulla a che vedere con la vista» o, meglio, se ci rivelano il tratto caratteristico di quest’ultima, ciò è «velandola».

Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, […] un’essenza dell’occhio […]. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo la tiene in riserva sarebbe niente meno che l’aletheia, la verità degli occhi8.

È così che il filosofo francese può chiedersi se il tratto inconfondibile dell’uomo risieda non nel vedere, cosa che egli condivide con gli animali, ma proprio nel piangere:

tutti gli animali dotati di occhi possono vedere, ma soltanto l’occhio umano può piangere (PNV 172)9.

E, a proposito del vedere, in quanto funzione vitale degli occhi, ciò in cui esso consiste è, precisamente, nel «veder venire»: in quell’anticipazione previdente che serve a proteggerci di fronte a ciò che viene. Ma se l’evento è, per definizione, proprio ciò che viene, ecco che esso, affinché non sia alterato nella sua fisionomia peculiare, non lo si può affatto «veder venire».

Un evento che si anticipa, che si vede venire, che si prevede, non è un evento; in ogni caso è un evento la cui evenemenzialità è neutralizzata, appunto, attutita, bloccata dall’anticipazione.  […]. [L]’evento non ha orizzonte; non vi è evento se non là dove non vi è orizzonte (PNV 82).

Ora, il disegnatore risponde proprio a questo profilo. Se, da un lato è uno che lavora al tratto, che calcola, che anticipa, che prevede, dall’altro, egli, in tutto ciò che fa, è cieco.

È un grande veggente [voyant], se non addirittura un visionario che in quanto disegna, se il suo disegno fa evento, è cieco (PNV 83).

Derrida fa appello, a questo punto, a una delle nostre esperienze più comuni: guardare qualcuno negli occhi. Ebbene, noi dobbiamo scegliere fra guardare o gli «occhi visti [yeux vus]» o gli «occhi vedenti [yeux voyants]» (PNV 84) di chi abbiamo davanti, dato che non possiamo fare l’uno e l’altro simultaneamente. Ne discende che, a seconda del “punto di vista” che assumiamo, noi possiamo vedere o non vedere una certa persona, incrociare i suoi occhi vedenti oppure essere ciechi al cospetto della loro veggenza10.

In un passaggio successivo, il filosofo francese si chiede che tipo di esperienza si compia nel vedere. Il punto è se quest’ultimo si limiti a metterci in rapporto con ciò che si presenta, che sta lì, che è semplicemente presente, o se non sia da intendersi, piuttosto, nel senso del viaggio: di un viaggio la cui cartografia «non è disegnabile», di un viaggio «senza disegno [dessein], senza scopo e senza orizzonte», in poche parole, di un viaggio «in vista dell’impossibile, in vista di ciò che non è in vista». Ecco, allora, che tipo di esperienza si compie nel vedere: un’«esperienza senza statuto e senza carta [sans charte et sans carte]», «esposta all’evento», «alla venuta dell’altro, del radicalmente altro, dell’altro non appropriabile».

L’altro è l’inanticipabile. Abbiamo a che fare con un altro concetto di esperienza rispetto a quello che resta dominato dall’ente in quanto ente (ente vuol dire presente) (PNV 90-91).

Da tutto ciò ne discende che ciò che la pittura e il disegno ci dispensano è un «mostrarsi [monstration] dell’invisibile» (PNV 93), ossia lo «spettro» di quest’ultimo che l’una e l’altro danno «a vedere senza mai presentarlo»11: essi ci porgono la visibilità in un modo che ci fa restare senza fiato, offrendosi a noi come un qualcosa che è assolutamente irriducibile al visibile. Un qualcosa che ci guarda, anche nel caso in cui ciò che ci sta di fronte non è un ritratto, ma è, ad esempio, la montagna Sainte-Victoire di Cézanne:

si è guardati dalla montagna Sainte-Victoire – e ciò ci riguarda [regarde] in tutti i sensi del temine (PNV 93).

Derrida ricorda che il gesto con cui, in passato, aveva generalizzato il concetto di traccia, poteva far pensare che egli, privilegiando il tratto differenziale, desse priorità allo spazio a scapito del tempo. In realtà, non si trattava della sostituzione di una gerarchia con un’altra, ma di una messa in questione radicale di tutte le coppie di opposizioni che hanno dominato la filosofia occidentale: sensibile/intelligibile, passività/attività ecc. Ne discende l’invito, rivolto a noi, a «parlare altrimenti, pensare altrimenti, scrivere altrimenti», cui si aggiunge la seguente precisazione:

Quando dico tratto o spaziatura, non designo soltanto qualcosa di visibile o dello spazio, ma un’altra esperienza della differenza (PNV 97).

Nel tratto, in quanto traccia differenziale, si annuncia, infatti, un limite che, frapponendosi tra spazi, tempi, figure e colori, sta per ciò che è condizione di visibilità e, al tempo stesso, invisibile: un movimento che «resta assolutamente segreto, vale a dire separato (se cernere, secretum), irriducibile alla visibilità diurna» (PNV 98).

Perché il segreto significa questo, è la separazione (PNV 112).

A proposito del segreto, Derrida ricorda che, stando al suo etimo latino, appena visto, esso appartiene alla semantica del taglio e dell’interruzione12. E aggiunge che la questione che lo riguarda è, oggi, una delle urgenze più importanti a livello politico, visto il fatto che tutto ciò che si può archiviare è suscettibile di una continua violazione da parte dell’informatica e della tecnica. L’archivio poi non soltanto presuppone la traccia, la quale per definizione è finita e si può cancellare, ma anche che essa sia «appropriata, controllata, organizzata, politicamente sotto controllo».

Non vi sono archivi senza un potere di capitalizzazione o di monopolio […]. In altre parole, non vi sono archivi senza potere politico (PNV 132)13.

Derrida parla di «pulsione d’archivio» a proposito della tendenza irresistibile che ci anima non solo a conservare, ma anche a dominare le tracce, a selezionarle e a interpretarle. O meglio, apparentemente a conservarle, ma in realtà a distruggerle:

la pulsione d’archivio è una pulsione terribile. È una pulsione distruttrice (PNV 135).

Il punto è che ciò vale non solo per le istituzioni sociali e politiche, ma, ancora più radicalmente, già a livello dell’inconscio, dove la condizione di una psiche finita è proprio quella di distruggere per conservare.

Seguono una serie di scritti e di interviste raccolte sotto il titolo: «La retorica del tratto: pittura, disegno». Invitato a precisare meglio che cosa debba intendersi per «cecità», riferita al disegno, Derrida risponde che la prima comporta non solo l’infermità degli occhi, ma anche un senso forte di orientamento dato dalle mani.

Interessandosi all’occhio e alla mano, il disegnatore è già nella situazione della riflessione speculare. Coglie se stesso come un possibile cieco, qualcuno che cammina con la mano – se si può dire così –, che lavora con la mano (PNV 154).

L’interesse del disegnatore per lo sguardo conduce poi alla questione dell’autoritratto, perché, quando qualcuno disegna un cieco, sta sempre rappresentando se stesso, ossia cade vittima di un’allucinazione in cui si prefigura ciò che potrebbe accadergli. Nell’autoritratto, inoltre, il disegnatore assegna allo spettatore il posto dello specchio.

Acceca se stesso, maschera il suo specchio consegnandosi allo sguardo dell’altro e installando l’altro al posto dello specchio (PNV 155).

Parlando del disegno, il filosofo francese ammette che il suo interesse nei confronti di esso è stato sempre guidato dalla sua preoccupazione più antica: il tratto differenziale della scrittura. Ebbene, quest’ultimo è ciò che, all’interno di qualsiasi sistema, grafico o meno, istituendo delle differenze, permette di distinguere. Preso per se stesso, però, non è niente in sé: né intelligibile né sensibile. In tal senso, non è presente, rimanda sempre ad altro da sé, nonché dà a vedere, senza mai darsi a vedere. Il rapporto con esso è, pertanto, un’esperienza di accecamento:

il tratto puro […] in quanto pura differenziazione, linea di ripartizione, intervallo, […] non si vede. Dà a vedere ciò che ripartisce, ciò che separa, ma esso stesso in quanto linea pura, in fondo, si sottrae alla vista (PNV 177).

In un altro testo del volume qui esaminato, Derrida, tornando a riflettere sul disegno, scrive che quest’ultimo «ha sempre significato di più e qualcos’altro» (PNV 216-217), ossia che dall’operazione in cui esso consiste si dipartono altri sentieri, relativi al designare, firmare (signer) e insegnare. Il gesto che mette capo al tratto, avendo in vista la cosa stessa (il designatum del riferimento), si concreta, infatti, in un contrassegno, nonché si proietta verso l’insegnamento che si tramanda nella disciplina in questione.

Passando a riflettere sul tema della pittura, il filosofo francese si interroga sul rapporto che corre fra un’opera d’arte e il suo titolo. Essa, anche se ne porta sempre uno, non escluso il caso in cui è «Senza titolo», ha, tuttavia, «in quanto tale, […] la vocazione di fare a meno del nome».

Essa non si chiama con questo o quel nome, essa chiama un nome (PNV 248).

A tutti i titoli appartiene, così, il gesto di cancellarsi: tendono a sospendersi, a ritirarsi verso la loro contingenza, al fine di emancipare il momento della visione, quasi a indicare, per metonimia, l’effetto di «Senza titolo». Derrida ne conclude che ciò che può fare a meno del titolo è un qualcosa che ci visita, che sopraggiunge senza preavviso, che ci chiede ospitalità: una ospitalità di cui siamo «nello stesso tempo l’ospite e l’ostaggio» (PNV 251).

Nel seguito della riflessione, viene decretata l’inseparabilità, nel corpo di un’opera d’arte, fra due aspetti, i quali restano, fra loro, purtuttavia, distinti: il di-sotto [dessous] del supporto materiale, compreso il «fuordopera della cornice» (PNV 260)14, e il sopra [dessus] o la superficie della forma15. Il primo elemento funge da «maschera [cache]», da un lato, di «ciò che nasconde [cachant]» e di ciò che, nel fondo, «resta nascosto [caché]», mentre, dall’altro, di «ciò che si nasconde, non nella profondità di un fondo, o di un fondamento, ma alla superficie di una superficie [à la superficie dune surface]» (PNV 257). Ebbene, nella gerarchia topologica dell’opera d’arte, questo di-sotto riveste molta importanza: può essere l’inferiore, ma può avere anche «il valore superiore della fondazione o del fondamento» (PNV 258).

Derrida chiama «affetto» l’«attaccamento [attachement]» che «ci lega [attache]» all’opera d’arte e lo intende come «un legame [attache], un legamento [ligament], un obbligo»: un qualcosa che ci prescrive di non distaccarci mai da ciò che, nell’opera stessa, ci si dà come inseparabile dal corpo unico di essa.

Non separarsi da una inseparazione, fare di tutto per rendersi inseparabili da un inseparabile, da un corpo in se stesso inseparabile, indissociabile – ecco l’affetto (PNV 264).

Ora, proprio il supporto materiale dell’opera d’arte è ciò che, mentre, da un lato, assicura l’inseparabilità degli aspetti che la costituiscono, dall’altro, garantisce a essa anche la possibilità dell’autonomia e dell’emancipazione, tanto dal soggetto creatore, quanto dal soggetto contemplante. Esso è quello zoccolo duro che «assicura la possibilità degli spostamenti dell’opera, della sua circolazione, del suo passaggio di mano in mano, quindi anche del suo mercato e del suo valore commerciale» (PNV 265-266). Il che è ciò che Derrida chiama «effetto di traccia»: quella «logica paradossale» che, promuovendo, appunto, il nostro «attaccamento» all’opera, tiene strettamente congiunte, in essa, la separabilità e l’inseparabilità.

Ci si attacca soltanto a ciò da cui si è o si può essere separati (PNV 266).

Viene individuata qui, fra l’altro, anche l’origine del cultuale e del testamentario, perché, dove vi è sacro, segreto, abisso, lì, aprendosi la scena dominata dall’inconscio, si dà, al tempo stesso, rimozione, feticismo e negazione.

Riflettendo sullo statuto della videoarte, il filosofo francese nota, per prima cosa, che manca un’unità essenziale fra tutto quanto viene a raccogliersi sotto di essa. Ma, forse, proprio questo è il tratto caratteristico di ciò che, oggi, si chiama un “video”: il fatto che eccede un’identità specifica, ossia che non presenta una distinzione precisa fra le determinazioni che lo strutturano. L’enigma che lo riguarda è che, pur operando con registri testuali del tutto eterogenei fra loro, conserva un regime, nonostante tutto, discorsivo, per cui attraverso di esso si profila la possibilità di una nuova scrittura in generale. In tal senso, con la videoarte, è il concetto stesso di “belle arti” che si trova «colpito nel nucleo oscuro della sua lunga vita» (PNV 311).

La riflessione poi si sposta prendendo a tema lo statuto del cinema. Esso è definito come un’«arte del fantasma, vale a dire: non è né immagine né percezione». Proprio come la voce al telefono, la quale ha un’«apparenza fantomatica», essendo un qualcosa che non è né reale né irreale, ma di riprodotto.

A partire dal momento in cui la prima percezione di un’immagine è legata alla struttura di riproduzione, si ha a che fare con il fantomatico (PNV 318).

Derrida insiste sul fatto che l’esperienza cinematografica appartiene al dominio della spettralità, del lutto e della traccia. L’immagine filmica ha una struttura interamente spettrale16, nel senso che ogni spettatore, durante una proiezione, mette in movimento quel lavorio dell’inconscio che Freud accosta all’esperienza dell’ossessione. La percezione cinematografica è la sola che ci fa comprendere compiutamente in che cosa consista la pratica psicoanalitica:

ipnosi, fascino, identificazione, tutti questi termini e processi sono comuni al cinema e alla psicoanalisi.

Una seduta psicoanalitica è solo un po’ più breve della proiezione di un film e il motivo per cui si assiste a quest’ultima è analogo a quello per cui ci si fa analizzare, «lasciando apparire e parlare tutti i propri spettri».

Da approfondire è anche il regime di credenza che vige nel cinema. Tutte le arti ne dispongono di uno, ma il cinema ha questo di singolare: promuove un «credere senza credere», il quale, tuttavia, «resta un credere» (PNV 330). Il tema della credenza, nel cinema, conduce poi a un’altra questione che è centrale in esso: quella della testimonianza. Significativamente, nel diritto occidentale, l’immagine filmata, proprio perché è passibile di più interpretazioni, non ricopre un valore di prova, valore che possiede solo lo scritto nella sua presenza reale.

Nell’attenzione rivolta da Derrida alle arti del visibile non poteva mancare, nel volume in questione, un riferimento anche al teatro. Quest’ultimo condivide un’affinità strutturale con la filosofia: l’uno e l’altra fanno leva sull’autorità dello sguardo, della presenza e della visibilità. Caratteristica comune al teatro e alla filosofia è, inoltre, quella che ambedue «tentano di pensare e rappresentare se stessi, di metaforizzarsi».

Filosofia nella e della filosofia, teatro nel teatro, teatro che esibisce il teatro (PNV 347).

Le relazioni fra teatro e filosofia implicano poi un rapporto dell’uno e dell’altra con la questione del sacrificio. Se, da un lato, infatti, l’atto di nascita della filosofia decreta la fine del sacrificio tragico, dall’altro, è nondimeno vero che il sacrificio stesso non si estingue, ma va incontro a una mutazione nel passaggio di consegne in questione. Seguendo questa seconda pista, possiamo dire che ciò che è censurato «subisce soltanto uno spostamento topico», nel senso che la rimozione «metaforizza e metonimizza, ma non distrugge». Ne discende che l’«irrapresentabile» non è più «ciò che è escluso, o […] semplicemente spostato o deportato, ma ciò che è impresentabile perché assolutamente bruciato dal fuoco» (PNV 351)17.


1 Cfr. J. Derrida, Penser à ne pas voir. Écritis sur le arts du visible. 1979-2004, ed. stabilita da G. Michaud, J. Masó e J. Bassas, Éditions de la Différence, Paris 2013; ed. it., Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile. 1979-2004, a cura di A. Cariolato, Jaca Book, Milano 2016 (d’ora in poi, citato direttamente nel testo e nelle note successive con la sigla PNV, seguita dall’indicazione della pagina).

2 Derrida riconosce che, fra le varie arti, è nell’architettura che l’impresa “decostruttiva” si è spinta più in avanti. Probabilmente, perché l’intera nostra tradizione filosofica ha a che fare con metafore architettoniche. «La decostruzione è forse una maniera di interrogare questo stesso modello architettonico [il modello architettonico della filosofia] […]: la metafora delle fondazioni, delle sovrastrutture, ciò che Kant chiama “architettonica”, […] come pure il concetto di arché». Cfr. Discussione con Christopher Norris, in J. Derrida, Adesso larchitettura, a cura di F. Vitale, tr. it. di F. Vitale e H. Scelza, Scheiwiller, Milano 2008, pp. 129-150: p. 133. Sull’architettura come ciò che, per il filosofo francese, è «la realizzazione materiale e la manifestazione simbolica più evidente e resistente dell’ordine della “metafisica della presenza”», cfr., inoltre, l’introduzione al testo appena citato, ossia F. Vitale, Lultima fortezza della metafisica, pp. 9-25: p. 17.

3 J. Derrida, + R (al di sopra del mercato), in Id., La verità in pittura (1978), tr. it. di G. e D. Pozzi, Newton Compton, Roma 1981, pp. 141-175: p. 147. A proposito del fatto che Derrida «essenzialmente si fa indietro davanti all’opera d’arte», cfr. J.-L. Nancy, Éloquentes rayures. Sur le rapport de Derrida à lart, in Aa. Vv., Spettri di Derrida, a cura di C. Barbero, S. Regazzoni e A. Valtolina, il melangolo, Genova 2010, pp. 427-435: p. 429.

4 Al riguardo, in un altro luogo della sua opera, il filosofo francese stabilisce come «legge regolatrice» del cinema quel principio il cui obiettivo è di tutelare la «singolarità dell’idioma in quanto tale, proprio là dove essa resta intraducibile». Cfr. J. Derrida – S. Fathy, Tourner les mots. A bord dun film, Galilée-Arte Éditions, Paris 2000, p. 108. Inoltre, per quanto riguarda il riferimento alla traduzione, va ricordato che, per Derrida, quel che conta, nelle immagini cinematografiche, «non è semplicemente ciò che è immediatamente visibile», ma anche le parole che le abitano: «l’interruzione, l’ellissi», ossia «tutta quella zona d’invisibilità che incalza la visibilità» (PNV 340).

 

5 Sull’immagine artistica come «rovina», proprio in quanto «lavoro di lutto» nei confronti di ciò cui essa rimanda: «rovina che non viene dopo l’opera, bensì è prodotta, dallorigine, dall’avvento e dalla struttura dell’opera stessa», cfr. J. Derrida, Memorie di cieco. Lautoritratto e altre rovine (1990), a cura di F. Ferrari, tr. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003, p. 87.

6 Ivi, p. 12.

7 Derrida, nel suo Luniversità senza condizione, in J. Derrida – P. A. Rovatti, Luniversità senza condizione, tr. it. di G. Berto, Cortina, Milano 2001, pp. 7-64, configura un tale pensiero dell’evento come un «pensiero del “forse” [peut-être], di quella pericolosa modalità del forse che la filosofia ha sempre voluto assoggettare. Non c’è avvenire né rapporto con la venuta dell’evento senza esperienza del “forse”. Quel che ha luogo non deve annunciarsi come possibile o necessario, altrimenti la sua irruzione di evento è neutralizzata in anticipo. L’evento appartiene a un forse che si accorda non al possibile ma all’impossibile» (p. 61).

8 Memorie di cieco, cit., pp. 17 e 152.

9 Circa il fatto che Derrida propone una «fenomenologia delle lacrime, dove l’occhio non è considerato come un principio teoretico (theorèin, vedere), ma come un organo che esprime dei sentimenti», cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 108. Inoltre, su questo destinare gli occhi, come loro funzione primaria, alle lacrime, piuttosto che al vedere, come un modo di “decostruire” lo sguardo, scindendolo in se stesso e scorgendolo «attraversato dall’invisibile», cfr. M. Ghilardi, Derrida e la questione dello sguardo, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2011, p. 45.

10 In J. Derrida, Toccare [Le toucher], Jean-Luc Nancy, tr. it. di A. Calzolari, Marietti, Genova-Milano 2007, ci si chiede se, di due sguardi che si guardano negli occhi e che, in qualche modo, si toccano non possa dirsi che ciò che essi vedono è un qualcosa che ha un profilo lontano da qualsiasi visibilità. «Se due sguardi si guardano negli occhi, si può dire che in quel momento si toccano? Che vengono a contatto – l’uno dell’altro? […] Se due sguardi vengono a contatto, l’uno dell’altro, ci si domanderà sempre se si accarezzano […]. Ora questo presuppone, in primo luogo, che questi occhi si vedano» (p. 12). Ma, nell’atto stesso di «vedere l’altro che vede noi», ecco che noi «non vediamo più la visibilità, ma solamente la veggenza dei suoi occhi» (p. 13).

11 Memorie di cieco, cit., p. 91. Sullo spettro come «figura […] che esita in maniera del tutto indecidibile fra il visibile e l’invisibile», cfr. PNV 80.

12 In J. Derrida, «Ho il gusto del segreto», in J. Derrida – M. Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 5-108, leggiamo, infatti, che ciò su cui il segreto fa leva è la «separazione», l’«isolamento», la «non appartenenza» (pp. 52-53).

13 Sulla questione dell’archivio, cfr. J. Derrida, Le futur antérieur de larchive, in Aa. Vv., Questions darchives, a cura di N. Léger, IMEC, Paris 2002, pp. 41-50 e Mal darchivio. Unimpressione freudiana (1995), tr. it. di G. Scibilia, Filema, Napoli 2005.

14 Sulla cornice come ciò che, dislocandosi «nel momento stesso che collabora alla produzione del prodotto, lo scavalca», nel senso che essa «[n]on si lascia mai semplicemente esporre», cfr. J. Derrida, Il Parergon, in La verità in pittura, cit., pp. 40-81: p. 75.

15 A. Cariolato, Limpossibile pensiero del visibile, introduzione a PNV, pp. 7-26, scrive che è proprio questo «rispetto per l’inseparabilità del supporto dall’opera», in quanto «attenzione per ciò che non si risolve in pura forma o significato», a costituire, per Derrida, «l’inizio di quell’esperienza che è la cura o l’amore nei confronti dell’opera d’arte» (p. 22).

16 Scrive Derrida: «Il cinema è il simulacro assoluto della sopravvivenza assoluta» (PNV 335). Sulla dimensione spettrale dell’immagine cinematografica, cfr. J. Derrida – B. Stiegler, Ecografie della televisione (1996), tr. it. di L. Chiesa, Cortina, Milano 1997.

17 Sul motivo della cenere, intesa come «mémoire de feu»: tanto «memoria di fuoco», quanto «memoria di un fu», cfr. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco (1987), tr. it. di S. Agosti, SE, Milano 2000, pp. 16-17.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 12. Contrassegna il permalink.